Risuonano ancora nei nostri cuori le parole del cardinal vicario Camillo Ruini nell'omelia della messa per i caduti di Nassiriya:
Quando saremo in contatto diretto con Dio, lo vedremo cosÏ come Egli è, lo ameremo con animo non diviso e parteciperemo per sempre alla pienezza della sua vita. Cari fratelli e sorelle, questa non è soltanto la nostra speranza, questa è la realtà del destino che attende ogni persona che si sforza di vivere con retta coscienza e generosità di cuore. Oggi, questo è il destino dei nostri caduti, che hanno accettato di rischiare la vita per servire la nostra nazione e per portare nel mondo la pace. E' questo il grande tesoro che non dobbiamo lasciar strappare dalle nostre coscienze e dai nostri cuori, nemmeno da parte di terroristi assassini. Non fuggiremo davanti a loro, anzi li fronteggeremo con tutto il coraggio, l'energia e la determinazione di cui siamo capaci. Ma non li odieremo, anzi, non ci stancheremo di sforzarci di far loro capire che tutto l'impegno dell'Italia, compreso il suo coinvolgimento militare, è orientato a salvaguardare e a promuovere una convivenza umana in cui ci siano spazio e dignità per ogni popolo, cultura e religione.
Esse fanno eco al telegramma del Papa Giovanni Paolo II al Presidente Carlo Azeglio Ciampi:
Ho appreso con profondo dolore la notizia del vile attentato a Nassiriya, in Iraq, dove carabinieri e soldati italiani hanno perso la vita nell'adempimento generoso della loro missione di pace. Esprimo la più ferma condanna per questo nuovo atto di violenza, che, aggiungendosi ad altri efferati gesti compiuti in quel tormentato Paese, non ne aiuta la pacificazione e la ripresa.
Nell'intervento all'Assemblea della Conferenza Episcopale Italiana ad
Assisi, il giorno precedente la messa, il card. Ruini con più ampiezza così si
era espresso:
Fin dalle prime avvisaglie, il conflitto in Iraq è stato, anche all'interno
del nostro Paese, motivo di forti perplessità e contrapposizioni. La decisione del
Parlamento di inviare un nostro contingente per partecipare all'opera di pacificazione e
ricostruzione Ë stata a sua volta assai contestata, anche se l'approvazione unanime di una
risoluzione su questa materia da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha poi
attenuato e ridimensionato i dissensi. L'Italia si trova dunque a vivere questa durissima prova
e ad individuare la strada dei propri comportamenti futuri dovendo fare i conti, al proprio
interno, con non poche e non lievi differenze di opinioni. Eppure, proprio in questa
circostanza abbiamo massimo bisogno di quella forza interiore che proviene dall'unità di
un popolo, dalla consapevolezza delle ragioni profonde del suo essere insieme. E di una tale
unità abbiamo potuto sentire, in questi giorni, chiare e confortanti espressioni, sia da
parte di rappresentanti politici e istituzionali sia nel contatto diretto con la popolazione.
Questa unità non richiede una impossibile e non auspicabile uniformità delle
opinioni, ma un sincero sforzo comune per mettere al primo posto il bene dell'Italia e della
stessa comunità internazionale. In concreto, sembra aprirsi davanti a noi uno stretto
cammino: da una parte, infatti, non possiamo rinunciare all'impegno fermo e vigoroso nella
lotta al terrorismo, facendo fronte fino in fondo agli obblighi che derivano dalla
solidarietà internazionale e ancor prima dalla nostra storia e dalla nostra cultura;
dall'altra parte dobbiamo, con non minore coerenza e determinazione, operare per costruire o
ristabilire nel mondo, e oggi in particolare nei rapporti con i popoli islamici, condizioni di
pace, di rispetto reciproco e anche di sincera collaborazione. Pure questo ci è
richiesto dagli interessi veri e durevoli del nostro Paese e dell'intero Occidente, e
più profondamente dall'anima stessa della nostra civiltà. Individuare più
da vicino i passi da compiere per perseguire efficacemente questi obiettivi - che sembrano
degni di essere largamente condivisi - è responsabilità propria anzitutto dei
legittimi rappresentanti della nazione: a loro e a tutti gli italiani assicuriamo volentieri il
sostegno della nostra preghiera e della nostra vicinanza spirituale. Due giorni fa, durante il
sabato, il terrorismo islamico ha compiuto, ad Istanbul, un'altra abominevole strage, uccidendo
e ferendo in due sinagoghe un grande numero di ebrei: simili atti di odio e di antisemitismo si
condannano da soli e sono una gravissima profanazione del nome stesso di Dio. Contro il
terrorismo internazionale è davvero necessaria la mobilitazione concorde di tutte le
energie, per impedire e reprimere le manifestazioni e per bonificare le radici di questo
tristissimo fenomeno.
Al termine dell'omelia delle esequie, così il cardinale ha voluto pregare il Signore
che solo ha il potere di “scaldare ciò che è gelido”:
Vorrei aggiungere un'ultima, sommessa preghiera: la tragedia di Nassirya ha sollevato in tutta Italia una grande onda di commozione e ci ha fatti sentire tutti più vicini, ma ha anche istillato in noi una sensazione di freddo e paura, di fronte all'incertezza della vita e alla ferocia che può annidarsi nell'animo umano. Voglia il Signore riscaldare i nostri cuori, donare speranza e serenità soprattutto a coloro che in questa tragedia hanno perduto i loro cari e devono ora disporsi ad affrontare un futuro non previsto, più triste e più duro.
Un recente articolo di p.Farahian, esperto conoscitore e commentatore del mondo arabo e islamico, apparso sull'autorevole rivista dei Gesuiti italiani, La Civiltà Cattolica - p.Edmond Farahian S.I., Due osservazioni storiche a proposito dell'Iraq, in Civiltà cattolica 154, 2003, IV, pp. 467-473 – aiuta a comprendere l'esplosiva situazione che sta travagliando l'Iraq. L'autore muove dall'affermazione che la confusione dell'attuale momento
Dipende in buona parte dalle soluzioni semplicistiche immaginate. Infatti, non si è tenuto conto dello stato reale dell'Iraq, il quale, presentandosi sotto una cappa di piombo, dava l'impressione di formare un insieme bene unificato benché fosse lontano dall'esserlo; e di questo occorre prendere coscienza.
Ecco allora che non appare oggi corretta alcuna lettura semplicistica, che si illuda, a partire da un unico fattore, di riportare pace in quel Paese:
Anzitutto non si può immaginare l'Iraq ricorrendo a uno schema semplice, come: un popolo, una lingua, una religione. Contrariamente a ciò che troviamo in alcuni Paesi del Vicino Oriente, qui la lingua araba e la religione musulmana non unificano veramente gli abitanti del Paese, perché in esso convivono comunità diverse, provenienti da gruppi religiosi, etnici e culturali diversi. Il fattore religioso che si combina con gli altri due rimane molto significativo. In breve, ci sono i sunniti e soprattutto gli sciiti [1] . Per renderci conto di questa complessa realtà, ricordiamo due momenti del passato di questa parte del mondo e di questo Paese. Il primo riguarda le divisioni dell'islam, il secondo la situazione della regione alla fine dell'Impero ottomano. Ciò aiuterà a individuare alcune costanti, ancora oggi presenti.
Una conflittualità si determina fin dalla prima islamizzazione del
paese:
La presenza dei due grandi gruppi religiosi musulmani, sunniti e sciiti, conferisce
all'Iraq una colorazione del tutto particolare [2] , tanto più che le principali divisioni sono nate sul territorio
dell'attuale Iraq [3] . E' la morte del profeta
dell'islam, Maometto, nel 632, che crea i problemi, i quali sorgono da una domanda, molto
semplice a prima vista, relativa a chi debba, dopo di lui, assumere la guida della 'umma, la
comunità appena fondata; infatti la risposta data dai fedeli fu tutt'altro che univoca.
Senza entrare nei particolari, quelli che oggi chiamiamo sciiti risposero: “Dev'essere
Alì”, il genero di Maometto, e ciò sin dal 632. Essi si schierarono dalla
sua parte e formarono, come indica bene l'espressione araba, chi' at-Alì, cioè
“i partigiani di Alì”. All'inizio sembrò prevalere piuttosto la
risposta dei sunniti, che optarono per «un “califfo” o un
“successore”, che doveva essere semplicemente un membro della tribù di
Quraish, da cui proveniva Muhamm âd». Queste due concezioni si contrapposero
attraverso complicate peripezie. Cos ì anche Alì divenne califfo, ma non
immediatamente, bensì come quarto successore, nel 656 [4] . Quando divenne a sua volta califfo, Alì era già a Kufa
(dunque in Iraq) e non più alla Mecca o a Medina, come i suoi predecessori
[5] . Ma la sua autorità fu messa in
discussione, per cui dovette lottare su due fronti quasi contemporaneamente. Da un lato
dovette affrontare i kharigiti [6] ;
dall'altro, gli oppose resistenza Mu'awiyya, il governatore di Damasco, il quale voleva
difendere la reputazione del califfo precedente, 'Uthman [7] . Alì e Mu'awiyya si scontrarono sul campo nella battaglia di
Siffin, nel 657. La questione si concluse con un arbitrato, che risultò a sfavore di
Alì, a motivo di alcuni tradimenti. Alla fine, egli conservò il titolo di
califfo, ma ottenne sotto la sua autorità soltanto la provincia dell'Iraq
[8] , mentre Mu'wiyya assunse praticamente il
potere altrove. Le cose si complicarono nel 661, quando Alì fu assassinato per mano
di un kharigista. Subito, Mu'awiyya poté diventare califfo a pieno titolo a Damasco.
Il figlio di Alì, Hasan, rinunciò a battersi, riconobbe Mu'awiyya e si
ritirò a Medina. Il capitolo della successione si sarebbe potuto chiudere, ma ci fu
una ripercussione, benché Mu'wiyya avesse insediato il proprio figlio Yazid come
successore e lo avesse fatto acclamare califfo, mentre egli era ancora vivo. Infatti alla
morte di Mu'awiyya, nel 680, un altro figlio di Alì, Husayn, rivendicò i
propri diritti al califfato. Con un piccolo esercito cercò di raggiungere Kufa, ma
prima di giungervi fu sconfitto a Karbala e ucciso [9] in uno scontro con l'esercito di Yazid. Subito fu venerato come
martire dagli sciiti [10] . In conseguenza
di tutti questi avvenimenti dolorosi, la risposta degli sciiti alla domanda iniziale
relativa a chi dovesse dirigere la comunità si articolò maggiormente,
chiarendo, che dovevano essere Alì o uno dei suoi successori diretti [11] . Solamente costoro potevano assumere tale carica e
ognuno di loro doveva essere designato in modo chiaro dal suo predecessore. Questi
personaggi ricevettero il titolo di imam, o guida (della comunità) [12] . Così, Husayn fu riconosciuto dagli sciiti
come loro imam [13] . Gli imam sciiti,
benché praticamente non abbiano mai detenuto il potere politico, hanno aiutato i
propri discepoli a continuare a esistere, ma il loro influsso ha pure conservato in essi la
sensazione di essere vittime che attendono un momento di rivincita [14] . Infatti gli sciiti dovettero ripetutamente
sottomettersi. Questo avvenne all'epoca degli abbasidi che seguirono gli ummayyadi, e
ciò durò sino alla fine dell'Impero ottomano, senza alcun cambiamento
significativo. I sunniti in un modo o nell'altro hanno conservato sempre il potere, anche se
sono minoranza o provengono da fuori.
La fine dell'epoca ottomana e l'inizio del mandato britannico non risolvono il problema:
Qualcosa sembra cambiare alla fine dell'epoca ottomana e con l'arrivo
degli inglesi [15] , i quali conquistano
Baghdad nel 1917 e Mossul nel 1918. Essi trovano in loco un'amministrazione ottomana da cui
l'Iraq dipende dal 1534, ma che non governa il Paese come un'unica entità. Di fatto il
Paese è diviso in tre grandi regioni amministrative [16] : Baghdad, Bassora e Mossul [17] . Successivamente, dal 1920 al 1930, dopo la Conferenza di San Remo,
la Mesopotamia (o Iraq) passa sotto mandato britannico [18] , ma il compito amministrativo per i nuovi padroni è tutt'altro
che agevole o facile. Nel tentativo di far partecipare la popolazione, gli inglesi indicono un
referendum [19] . Le risposte degli sciiti sono
le più significative: essi desiderano uno Stato arabo islamico diretto da un discendente
di Husayn. Ben contenti di farla finita con gli ottomani, essi non vogliono né la
colonizzazione inglese, né un Governo garantito dai soggetti locali sunniti. Di fatto,
sarà una dinastia sunnita venuta dall'Arabia a insediarsi e a governare, prima sotto la
guida inglese [20] e dopo, con l'indipendenza
[21] , sino alla rivoluzione del 14 luglio
1958. Questo accordo consentirà, tutto sommato, agli sciiti di trarre alcuni vantaggi.
Ma prima che il Paese conosca una certa prosperità grazie al petrolio, ci vorrà
non poco tempo per gli inglesi, che devono fronteggiare diverse sommosse [22] . Perché tali violenze? A causa di quello che potremmo
chiamare “il pluralismo comunitario gerarchicizzato” [23] , che improvvisamente va a pezzi. L'epoca ottomana aveva
consacrato e fissato tutte le comunità mantenendole in una struttura simile a un
mosaico male unito. Quando tutto ciò riceve il colpo di grazia [24] , le singole tessere [25] acquistano la loro autonomia in un disordine che rimanda facilmente
alla situazione attuale, con la stessa frammentazione delle comunità. Questo dato
comunitario ha indotto alcuni osservatori a paragonare l'Iraq al Libano [26] , e potrebbe pesare ancora gravemente sul futuro
dell'Iraq [27] .
[Nota 1] Sono gli sciiti cosiddetti duodecimani: riconoscono 12 imam e sono maggioritari in Iraq.
[Nota 2] Per tale aspetto ci rifacciamo in genere a H.LAOUST, Les Schismes dans l'Islam: introduction à une étude de la religion musulmane, Paris, Payot, 1977; S.MERVIN, Histoire de l'islam. Fondements et Doctrines, Paris, Flammarion, 2000.
[Nota 3] Infatti non solo l'Iran è sciita.
[Nota 4] Nel frattempo, dopo la morte di Maometto, c'erano stati altri tre califfi sunniti, cioè, nell'ordine: Abu Bakr, 'Umar, 'Uthman.
[Nota 5] I suoi principali sostenitori si trovavano a Kufa.
[Nota 6] Furono detti kharigiti (quelli che uscirono), perché di fatto si distaccarono dalla comunità. Secondo loro, la risposta alla domanda sul “successore” doveva essere: “Qualsiasi musulmano eletto può diventare califfo”.
[Nota 7] Anch'egli aveva le sue ambizioni.
[Nota 8] Alì dovette combattere anche i kharigisti, che gli si erano ribellati, perché gli rimproveravano di non difendere il suo diritto al califfato. Li sottomise nel 658.
[Nota 9] I sunniti sostengono, in proposito, che non volessero uccidere Yazid, ma solamente impedirgli di prendere il potere in Iraq.
[Nota 10] Da allora, ogni anno, il 10 del mese di muharram (10 ottobre), in occasione della 'Achurah gli sciiti commemorano quegli avvenimenti celebrando, a Karbala, un grande pellegrinaggio. I fedeli pregano molto in tale occasione; alcuni si flagellano anche sino al sangue, in segno di penitenza, per chiedere perdono a Dio, per non essere riusciti ad appoggiare Husayn, al momento della sua resistenza. Tutti questi riti, diversi dal pellegrinaggio alla Mecca, sono malvisti dai sunniti.
[Nota 11] Invocavano al riguardo un hadith o un detto in cui Muhammâd ricorda che ha dato alla sua comunit à, perché non erri dopo lui, da un lato il Corano e, dall'altro, gli ahl al bayt , i membri della sua famiglia. I sunniti non riconoscono tale hadith.
[Nota 12] Qui occorre precisare che, per gli sciiti, non è la figura del califfo che conta, come per i sunniti, ma quella dell'imam, letteralmente “colui che sta di fronte” o “la guida”. L'imam assicura per la sua comunità un ruolo non soltanto politico, ma anche spirituale. Alcuni imam sciiti sono stati anche grandi mistici.
[Nota 13] Infatti, Husayn è il loro terzo imam, essendo Alì il primo, e Hasan il secondo. I 12 imam si sono succeduti sino al 940. Il dodicesimo imam è nascosto, ma il suo ritorno è atteso dalla comunità. Quando ritornerà, sarà riconosciuto come il mahdi, la guida per eccellenza, e assicurerà il trionfo definitivo della sua comunità.
[Nota 14] Ritornando all'attualità, in questo momento, in Iraq, ci sono 4-5 figure di imam rappresentativi degli sciiti iracheni. L' âyatollâh Muhammad Baqir al-Hakim, che è stato assassinato, era uno di loro. Al tempo di Saddam Hussein, per sfuggire ai controlli del regime, nonostante la guerra con l'Iran, egli si era rifugiato in quel Paese.
[Nota 15] Per queste informazioni cfr la voce “Irak”, in Enciclopaedia Universalis, vol. 10, Paris, 1985, 125-135; P.-J. LUIZARD, La formation de l'Irak contemporain , Paris, CRNS, 1991; ID., La questione irachena , Milano, Feltrinelli, 2003.
[Nota 16] Erano chiamate wilaye t sotto la responsabilità di un wali.
[Nota 17] I curdi e i turcomanni sono situati al Nord (Mossul); i sunniti di lingua araba sono soprattutto al centro (Baghdad) e nelle città, e gli sciiti di lingua araba al Sud (Bassora). Ricordiamo che, alla stessa epoca, il Kuwait dipende dalla regione amministrativa di Bassora, di cui è una casa, un'unità più piccola della wilayet.
[Nota 18] Gli inglesi ottengono anche un mandato per la Palestina; i francesi, invece, un mandato per la Siria e il Libano. Sono le conseguenze degli accordi segreti di Sikes-Picot.
[Nota 19] In quel referendum, nel 1918, gli inglesi pongono tre domande: “Siete favorevoli alla costituzione di uno Stato arabo sotto controllo britannico e che comprenda i wilayet di Mossul, Baghdad e Bassora? Se sì, desiderate che un emiro arabo diriga tale Stato? Chi è l'emiro che voi desiderate?” (Cfr P.-J. LUIZARD, La formation de l'Irak ..., cit., cap. 1)
[Nota 20] Gli inglesi insediarono un emiro dello Hedjaz, sceriffo della Mecca, a capo della nazione. Il primo re fu Faysal. Tale dinastia è cugina dell'attuale famiglia regnante in Giordania.
[Nota 21] Indipendenza piuttosto formale, secondo molti.
[Nota 22] Dovettero affrontare, ad esempio, un'insurrezione popolare che scoppiò all'inizio del maggio 1920 e durò sino all'aprile 1921. Si stimano a circa 10.000 i morti di tale insurrezione. Occorrerà attendere il 1925 perché la pacificazione si realizzi veramente nelle campagne.
[Nota 23] Come direbbe M.Rodinson (cfr il suo L'Islam: Politique et croyance , Paris, Fayard, 1995).
[Nota 24] Soprattutto se era una personalità forte che si imponeva, purtroppo con la forza.
[Nota 25] Per completare l'immagine generale della composizione della popolazione irachena, bisogna segnalare l'esistenza di molte altre minoranze etniche e religiose. Naturalmente, possiamo soltanto accennare ad altri gruppi musulmani meno importanti numericamente, come diverse minoranze cristiane assire, nestoriane, caldee, siriache, armene, greche ecc. Occorre anche ricordare i partiti politici come il Baath, ai quali faceva riferimento Saddam Hussein, i comunisti ecc.
[Nota 26] Quando vi regnava l'equilibrio tra le comunità che lo componevano, il Libano era chiamato la Svizzera dell'oriente. Ma non è facile ritrovare tale equilibrio, una volta perduto. Quando scoppiano i conflitti violenti, l'immagine di una certa armonia svanisce. Ciò spiega tuttavia perché alcuni osservatori parlino di “libanizzazione” per descrivere ciò che accade in Iraq. Non bisogna però andare troppo in fretta, perché ogni Paese ha una propria fisionomia e le sue particolarità.
[Nota 27] Si capisce perché l'Iraq non gradisca l'invio di contingenti dei Paesi confinanti turchi, siriani, iraniani, giordani o sauditi. Rischierebbero di intervenire in favore dei loro, senza mantenere una vera neutralità.