IL TESTO CRITICO

Il testo critico è il testo ricostruito nella forma più vicina possibile all'originale.
Per quel che riguarda i testi antichi ciò è avvenuto attraverso un insieme di procedimenti tecnici, organicamente collegati tra loro, miranti a liberare uno scritto dagli errori e dalle alterazioni che esso ha subito nel corso di successive trascrizioni o riproduzioni a stampa.
La necessità d'un simile lavoro di restauro appare più evidente quando si ha a che fare con testi il cui originale è perduto e che sono giunti in una o più copie, derivate a loro volta da copie precedenti, attraverso una vicenda di secoli o di millenni, durante i quali, per di più, vi furono periodi di diffusa incultura.  
Il testo critico fornisce altresì, nelle note a piè di pagina, tutte le varianti significative di modo che lo studioso possa seguire tutte le esitazioni dei differenti scribi e delle differenti traduzioni antiche. Queste ultime a volte possono rivelarsi molto utili per comprendere il significato di un testo di difficile interpretazione.

BIBLIA HEBRAICA STUTTGARTENSIA

Il testo ebraico dell'AT più utilizzato in questo secolo è stato quello della Biblia Hebraica, edita da R.Kittel. Dopo 2 edizioni nel 1906 e nel 1912 che seguivano un testo ebraico del 1524-1525, nel 1937 uscì una terza edizione che prese come testo base quello del Codice di Leningrado (B19A ).
Nel 1977 venne però approntata una nuova edizione, la Biblia Hebraica Stuttgartensia, basata anch'essa sul Codice di Leningrado.
In questa edizione si compie lo sforzo di attenersi maggiormente al TM, ispirandosi al Codice di Leningrado ed evitando di ricorrere, come era invece accaduto nelle edizioni di Kittel a testi diversi.

SEPTUAGINTA di RAHLFS

Le moderne edizioni della LXX hanno seguito due diversi metodi. L'edizione di Gottinga della LXX, edita da Rahlfs, invece di attenersi alla riproduzione di un solo manoscritto come fa l'edizione di Cambridge che si rifà al Codice Vaticano B, preferisce risalire ad un testo greco più originale raggiunto attraverso il confronto dei vari manoscritti che possediamo. I manoscritti maggiormente utilizzati sono il Codice Vaticano, Sinaitico e Alessandrino e sono accolte anche le varianti recensite da Origene, Luciano e nelle Catenae.

LA VULGATA

Con questo termine si designa fin dal Medioevo la versione latina della Bibbia curata da S. Girolamo. In realtà, S. Girolamo tradusse dall'ebraico solo i libri dell'Antico Testamento che erano inclusi nel canone degli ebrei e del Nuovo Testamento effettuò soltanto la revisione dei Vangeli. I rimanenti libri dell'Antico Testamento ( Baruch , Ecclesiastico , Sapienza , Maccabei ) e del Nuovo Testamento ( Lettere di S. Paolo, Atti , Lettere Cattoliche , Apocalisse ) inclusi nella Vulgata riportano semplicemente l'antica versione latina, mentre il Salterio ne costituisce una revisione.
S. Girolamo iniziò i lavori a Roma nel 383 per invito di papa Damaso e li terminò a Betlemme verso il 405-406.
Questa versione, condotta direttamente sul testo ebraico, incontrò difficoltà ad affermarsi nella Chiesa latina e non si impose fino al VIII sec., ma da quel momento esercitò un enorme influsso linguistico e teologico su tutto il Medioevo.
La Vulgata fu il primo libro stampato da Gutenberg a Magonza nel 1452-1455.
Lutero attaccò la Vulgata e propose la sua versione della Bibbia in tedesco (1522-1534), ma il Concilio di Trento, con un decreto del 1546, la dichiarò come versione ufficiale della Chiesa Cattolica e chiese alla Santa Sede di approntarne un'edizione “emendatissima”, opera che si concluse, dopo molte peripezie, sotto Clemente VIII, con la cosiddetta Vulgata Sisto-clementina . Il testo della Vulgata così riveduto è alla base delle più antiche versioni cattoliche in volgare: inglese (1609), italiana (Martini, 1776), francese (Crampon, 1885).
Il progresso degli studi biblici su base critica e filologica, accentuatosi nei secc. XIX e XX, fece sentire la necessità di un aggiornamento e di un superamento della Vulgata . Nel 1943 Pio XII, con l'enciclica Divino Affilante Spiritu , dichiarò la preferenza della Chiesa cattolica per i testi originali e l'uso delle lingue volgari nella liturgia, autorizzato da Paolo VI a seguito del Concilio Vaticano II, tolse praticamente alla Vulgata il prestigio di testo ufficiale della Chiesa cattolica. Il suo valore risiede, comunque, tuttora nell'essere la traduzione affermatasi nella Tradizione cattolica e, per questo, di garantire quella comprensione del “sensus plenior”, del “senso più pieno” delle Scritture, rivelatosi in Cristo e manifestato appieno dallo Spirito Santo nella fede della Chiesa. E' esemplare la traduzione di Gen 3, 15 che, nel Testo Masoretico suona “Io porrò inimicizia tra te (il serpente) e la stirpe degli uomini”, nella LXX greca è “Io porrò inimicizia tra te e lui (il Messia)”, mentre la Vulgata latina, che traduce al femminile “ipsa conteret”, legge “Io porrò inimicizia tra te e lei (Maria)”.  

IL NESTLE-ALAND E IL GREEK NEW TESTAMENT

Con la pubblicazione del Novum Testamentum graece di Eberhard Nestle nel 1898 a Stoccarda, viene definitivamente superato il cosiddetto “textus receptus”, basato esclusivamente sui testimoni della "tradizione bizantina". Il "textus receptus" era quello testimoniato dai codici copiati in ambiente bizantino e, primo fra tutti, dal Codice Alessandrino o Codice A.
Nestle, infatti, nella sua pubblicazione, confrontò i codici bizantini con il testo edito da von Tischendorf, che si era ispirato in modo unilaterale al Codice image 5 , e quello edito da Westcott e Hort che, in modo altrettanto unilaterale, si erano ispirati al Codice Vaticano o Codice B. Questo confronto permise di scegliere tra le varianti quelle che sembravano più antiche ed originali.
Il testo del Nestle divenne quello assolutamente predominante, soprattutto dal momento in cui Erwin Nestle proseguì il lavoro di suo padre. Infatti, con la 13a edizione del Nestle (1927), inizia una nuova epoca della critica testuale neotestamentaria, poiché Erwin Nestle corredò il testo di un vero apparato critico, indicando i codici greci, le versioni antiche e le citazioni patristiche che erano alla base delle varianti importanti.
Kurt Aland, verso il 1950, cominciò a collaborare al "Nestle" a partire dalla 21a edizione. Il testo venne così chiamato, da allora, "Nestle-Aland".
Nel 1955, per iniziativa di Eugene A.Nida, “segretario delle traduzioni” dell'American Bible Society, fu fondato un comitato internazionale con il compito di preparare una nuova edizione del Nuovo Testamento greco che servisse come punto di riferimento per gli studiosi. Nel comitato editoriale di questo Greek New Testament (GNT) fu chiamato a far parte anche Kurt Aland che si ritrovò così a partecipare a due edizioni diverse del NT.
Con il passare del tempo il Novum Testamentum graece e il Greek New Testament, nati con criteri diversi, finirono con l'uniformarsi, prima solo per quanto riguardava le parole del testo, poi progressivamente anche nell'ortografia e nell'interpunzione.
Il Greek New Testament 3a edizione e il Novum Testamentum graece 26a edizione appaiono uguali nel testo e sotto la responsabilità dello stesso gruppo di filologi (a partire dal 1968 anche C.M.Martini ha collaborato al GNT).
Si giunge così alla definizione di un testo che rappresenta l'optimum di ciò che è raggiungibile allo stato attuale delle nostre conoscenze.

REGOLE DI CRITICA TESTUALE NEOTESTAMENTARIA

Le regole filologiche utilizzate per determinare quale variante testuale vada espulsa o ricevuta nel testo sono state codificate dal Metzger:

  1. In generale la lezione più difficile deve essere preferita. I copisti tendevano a semplificare il testo.
  2. In generale la lezione più breve deve essere preferita. I copisti tendevano ad ampliare il testo, ad esempio con aggiunte edificanti.
  3. Poiché gli scribi frequentemente portavano passaggi divergenti in armonia l'uno con l'altro, in passaggi paralleli. La lezione che implica dissidenza verbale deve in generale essere preferita ad una che presenta concordanza verbal e.
  4. I copisti talvolta: a) rimpiazzavano una parola non familiare con un sinonimo più familiare; b) alteravano una forma poco raffinata con una espressione più elegante in accordo con la tendenza atticizzante del loro tempo; c) aggiungevano pronomi, congiun zioni, e attributi onde rendere il testo più accessibile alla lettura.

Il testo Bizantino o "textus receptus", a detta di Metzger, presenta tutti insieme tali difetti.
Il Greek New Testament (GNT) arriva a formulare un giudizio sul valore di ciascuna varia nte, esprimendo il grado di certezza loro attribuito con una scala da maggiore a minore (A, B, C, D). E' stato pubblicato un commentario al GNT, edito da B.M.Metzger, dal titolo A Textual Commentary on the Greek New Testament (Londra, 1971), in cui vengon o illustrati i motivi dei giudizi di valore dati sulle diverse varianti.  

SINOSSI

Dei quattro Vangeli tre sono detti “sinottici”: Matteo, Marco e Luca. Essi infatti hanno numerosissimi versetti in comune (pur con le varianti proprie di ognuno) al punto che possono essere letti in colonne parallele “con un solo sguardo” (dal greco “syn-opsis”, sinossi). Pur impiegando in larga parte materiale comune, ogni evangelista ha caratteristiche e contenuti propri, tradizioni diverse a cui ha attinto, destinatari mirati cui indirizza il suo scritto, quindi prospettive teologiche ed ecclesiali specifiche. Molti studiosi hanno tentato di definire i rapporti e la successione cronologica dei Sinottici. Già nel II secolo Taziano compose il “Diatessaron” e Ammonio di Alessandria mise a punto una “armonia” dei Vangeli, prendendo per base il Vangelo di Matteo e integrando le sezioni mancanti con brani presi dagli altri Vangeli. Dal lavoro di quest'ultimo risultava un testo che veniva diviso in 355 sezioni e numerato. Intorno al III secolo Eusebio di Cesarea, l'autore della Storia Ecclesiastica, modificò le Sezioni di Ammonio allo scopo di facilitare la ricerca di referenze. Eusebio elaborò un sistema, i cosiddetti Canoni , per segnalare i passi dei Vangeli che presentano dei paralleli. Il sistema da lui inventato, delle referenze a margine, è quello tuttora in uso. Agostino (354-430) scrisse un trattato De consensu evangeliorum , in cui fece il punto sull'annosa questione delle discordanze tra i Vangeli e sul loro rapporto. Il vero inventore della sinossi è però stato J.J. Griesbach (1789), in età illuministica. Prima di allora non si può parlare di una valutazione critica del materiale che accomuna Matteo, Marco e Luca. Nel XIX secolo (Lachman, Wilke e Weisse) e soprattutto nel XX si giunge alla conclusione che il testo più antico è quello di Marco. Il 90 % del Vangelo di Marco è presente in quello di Matteo e il suo 50% in quello di Luca (Mc è il vangelo più breve, composto da 661 vv; Mt ne ha 1.068 e ne contiene 600 di Mc; Lc ne ha 1.149 di cui 350 sono di Mc). In conseguenza di questa stretta relazione tra i 3 Vangeli è agevole disporli in colonne e vederne diverse sottolineature. Eccone un esempio:

Mt 19,9
Mc 10,11-12
Lc 16,18
Chiunque ripudia la
propria moglie,
Chiunque ripudia la
propria moglie
Chiunque ripudia la
propria moglie
se non in caso di
concubinato,
 
 
e ne sposa un'altra
commette adulterio.
e ne sposa un'altra
commette adulterio.
e ne sposa un'altra
commette adulterio.
 
contro di lei;
se la donna ripudia il
marito e ne sposa un
altro commette
adulterio.
 
 
 
chi sposa una donna
ripudiata dal marito,
commette adulterio.

QUESTIONE SINOTTICA

Un'analisi dettagliata del materiale comune ai tre Vangeli sinottici fa emergere il problema delle fonti diverse presenti in Matteo e Luca, ma del tutto assenti in Marco. Nasce così, nella seconda metà del XIX secolo l'ipotesi delle “due fonti”: Marco e la “fonte dei detti” o Redenquelle, da cui la sigla “Q” (“Quelle” in tedesco significa “fonte”). Tale ipotesi di lavoro permette di dare motivazione dei molti discorsi di Gesù presenti in Matteo e Luca e assenti in Marco. Quindi, in modo autonomo, Matteo e Luca avrebbero fatto riferimento a Marco e a “Q”. “Q” avrebbe compreso solamente detti di Gesù, e non sezioni narrative.

schema

Si può formulare questa suddivisione: versetti comuni ai tre Vangeli (circa 330), comuni a Mt e Lc (circa 230), comuni a Mt e Mc (circa 178), comuni a Lc e Mc (circa 100). Tutti gli elementi comuni a Matteo e Luca che non si trovano in Marco sono da attribuire alla fonte Q, ormai andata perduta.
La fonte Q risalirebbe, secondo la maggior parte degli esegeti, al 50-70 d.C. Il Vangelo di Marco risale al 65-70 d.C., il Vangelo di Matteo è stato scritto intorno all'anno 80 d.C. (si parla già della distruzione di Gerusalemme avvenuta nel 70, ma non dell'espulsione dei giudeo – cristiani, di cui sarebbe eco Giovanni 9, 22, avvenuta intorno al 90 d.C.), il Vangelo di Luca sarebbe anch'esso successivo alla distruzione di Gerusalemme.
Oltre alla fonte Q è evidente che Matteo e Luca attingono ad altre fonti note solo a loro (parti definite “Sondegut”, “materiale proprio”).
La “teoria delle 2 fonti” è stata variamente integrata dagli studi successivi, ma mai radicalmente smentita.

LE CONCORDANZE

Le concordanze forniscono l'elenco dei riferimenti in cui compare una stessa parola, inserendola nel suo contesto immediato; le parole sono disposte in ordine alfabetico ed i versetti in cui compaiono secondo l'ordine dei libri della Bibbia.
Si tratta quindi di un repertorio che contemporaneamente ha le caratteristiche del sommario dei temi, dell'indice dettagliato delle materie e dell'elenco delle citazioni.
Fino all'invenzione del computer le Concordanze erano un faticosissimo lavoro realizzato manualmente, parola per parola. Con i moderni strumenti dell'informatica le nuove edizioni di un tale strumento sono diventate infinitamente meno problematiche.
Il confronto fra le varie ricorrenze di una parola permette di precisarne il senso o l'evoluzione di significato, permette di valutare immediatamente se una parola è frequente o assente in uno scritto biblico, consente di arricchire con altri versetti l'interpretazione di un singolo passo.
Ad esempio l'analisi della ricorrenza della parola “pistis”, “fede”, nella Computer concordance to the Novum Testamentum Graece stabilita sulla ventiseiesima edizione del Nestle-Aland permette di riconoscere che il termine ricorre 243 volte nel Nuovo Testamento con ben 142 ricorrenze nell'epistolario paolino. Invece il verbo “pisteuo”, “credo”, è presente 241, ma solo 54 volte nelle lettere dell'Apostolo. Questo può far intuire che nel corpus paolinum c'è un interesse spiccato non solo al fatto di credere, ma alla fede in quanto tale, al suo contenuto ed alla riflessione su questo.


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