In ogni secolo i pellegrini che giungevano a Roma includevano nei loro itinerari la basilica di Santa Croce in
Gerusalemme: una delle chiese più antiche della città, e una delle cinque basiliche (con San
Pietro, San Paolo, San Giovanni, San Lorenzo) fondate, secondo la tradizione, da Costantino il grande dopo la sua
miracolosa conversione. La sua antichità e la sua nobile origine ne facevano un luogo di culto da non
mancare nel pellegrinaggio romano.
La basilica di Santa Croce non è una basilica sepolcrale, che racchiude (come San Pietro, San Paolo e San
Lorenzo) le tombe dei grandi apostoli e testimoni, ma piuttosto un luogo dedicato alla celebrazione di un mistero
della fede: come San Giovanni celebra la Risurrezione e la Redenzione, così Santa Croce è dedicata
alla Passione del Signore, che quella Redenzione rese possibile. Sin dalla sua fondazione conserva infatti alcune
delle più importanti reliquie della Croce venerate dalla Chiesa, ed è anzi intorno ad esse che
prese corpo la chiesa. Per comprendere il suo significato spirituale dobbiamo quindi ricostruire le vicende della
sua origine.
La tradizione vuole che Costantino, come abbiamo già visto nella parte dedicata a San Giovanni in
Laterano, si sia convertito dopo l’aiuto divino nella battaglia contro il rivale Massenzio: la notte
precedente lo scontro gli era apparsa una croce con la scritta in hoc signo vinces, "in questo segno
vincerai", e da quel momento egli era diventato uno zelante sostenitore e protettore dei cristiani. Quali che
siano le vere circostanze della conversione dell’imperatore, egli fu sicuramente il primo sovrano ad agire
pubblicamente in favore della religione cristiana, e a promuovere numerose iniziative di sostegno alla Chiesa.
Testimonianze imponenti di questo suo impegno sono ancor oggi le grandi basiliche che egli fondò sia a
Roma che in Terra Santa. In Palestina, in particolare, decretò la costruzione di due chiese nei luoghi
più santi della nuova fede: il Golgota, terra della Passione e morte del Signore, e il Sepolcro che aveva
visto la Resurrezione del suo corpo. Per la storia che stiamo ricostruendo, sono interessanti soprattutto gli
eventi che riguardano il Calvario: l’imperatore Adriano (117-138) pur senza dar luogo a vere persecuzioni,
osteggiò fortemente il culto cristiano, e per impedire la venerazione dei luoghi della Passione fece
riempire di terra la depressione fra il Golgota e il Sepolcro, in modo da ostruire l’ingresso alla grotta e
far sparire il monte della crocifissione. Come estremo segno di dispregio fece quindi erigere in quegli stessi
luoghi due templi dedicati a Giove e Venere: il risultato fu però di segnalare in modo definitivo la
localizzazione del sepolcro di Gesù. E infatti, quando Costantino decise la costruzione delle sue chiese,
decretò di abbattere i templi di Adriano e costruire al loro posto la basilica del Martyrion sul
Calvario e dell’Anastasis sul Sepolcro; così testimoniano Eusebio di Cesarea nella Vita di
Costantino e una lettera di San Girolamo. Secondo la tradizione, fu proprio durante questi lavori di sterro e
costruzione, che Elena Augusta madre dell’imperatore ritrovò sul Golgota i resti del legno della
Croce del Signore. Reliquie così preziose meritavano un’attenzione speciale, e l’imperatrice
decise perciò di costruire a Roma una basilica per custodirle: a tale scopo adattò il
Sessorianum, sua residenza privata. Le reliquie furono poste in una cappella, sul cui pavimento
l’imperatrice fece stendere uno strato di terra del Calvario, "macchiata dal sangue del Signore". Nasceva
così, per iniziativa della madre di Costantino, e in seguito alla miracolosa scoperta della vera Croce, la
basilica di Santa Croce.
Come vedremo più avanti, la storia del ritrovamento della Croce è leggendaria, ma tuttavia
contiene, come pure la tradizione della fondazione della basilica, elementi storici sicuramente validi. Sappiamo
oggi che il culto della vera Croce non si diffuse prima del 340, cioè dopo la morte dell’imperatrice
(avvenuta nel 329), ed è quindi verosimile che la costruzione di Santa Croce sia da attribuire non a
Costantino e a sua madre, ma ai loro immediati discendenti. È vero tuttavia che la chiesa sorge nei locali
del palazzo detto Sessorianum, di proprietà della famiglia di Costantino. Inoltre, anche se non
è sicuro il legame tra la sua fondazione e la costruzione della basilica del Sepolcro a Gerusalemme,
sappiamo per certo che la basilica romana, nella sua struttura originaria, presentava evidenti e volute
affinità con la chiesa gerosolimitana: era costituita da un’aula unica, divisa da due pareti
trasversali (caso più unico che raro in tutto l’occidente), che separavano lo spazio dei fedeli da
quello più santo e più vicino alle reliquie; queste erano poste in un locale dietro l’abside,
cui si accedeva da un passaggio a lato del presbiterio. Anche la basilica costantiniana
dell’Anastasis aveva un’identica disposizione, con la memoria, l’ambiente
più santo e venerato, posto dietro la chiesa vera e propria, con due ingressi, per i fedeli in entrata e
quelli in uscita. Non siamo sicuri dunque che Santa Croce sia stata fondata dalla madre di Costantino dopo che
sul Golgota erano stati rinvenuti i frammenti del legno santo: siamo però certi che questa basilica
riproduceva, nella città di Pietro, la forma di quella più importante della Terra Santa, come a
voler collegare le due città nella continuità del disegno provvidenziale. Il pellegrino che visita
Santa Croce, anche oggi, può dunque ricordare in modo speciale il viaggio che la fede cristiana ha
compiuto a partire dai luoghi della Passione, e il rapporto che lega Gerusalemme con Roma.
Il Giubileo dell’Anno 2000 celebra l’Incarnazione, il Natale. Solo il mistero della Pasqua,
però, rivela la profondità dell’opera di Dio, che pure è già tutta contenuta
nel suo inizio.
L’uomo moderno sembra accogliere con più simpatia il messaggio natalizio, rischiando però,
talvolta, di darne una falsa lettura, come se significasse una presunta bontà naturale
dell’infanzia. Il Natale è l’immenso mistero per cui l’Eterno assume il tempo,
nell’unica persona di Gesù. Da quel giorno ogni momento della vita umana, l’infanzia come
l’età adulta, la vecchiaia come la giovinezza, la salute come il dolore, per la grazia che fuoriesce
da quella storia di salvezza, può divenire vivere con Cristo.
La basilica di Santa Croce in Gerusalemme aiuta a scoprire come la forza dell’Incarnazione si prolunghi
oltre l’infanzia del Natale. Tutta la vita umana è assunta e salvata fin nelle profondità del
dolore del Cristo adulto, che porta il peccato del mondo. Il corpo risorto del Signore è il corpo che
porta impressi i segni di una vita consumata nell’amore. L’assunzione del tempo, l’imparare
"l’obbedienza attraverso le cose che patì" (Eb 5, 8), il deporre la vita per amore del Padre e
nostro, per poi riprenderla di nuovo, sono la via del Cristo, sono l’annuncio della Pasqua, sono
l’unica chiave del senso del crescere, del morire e del risorgere con Cristo di ogni uomo.
Nella sua prima enciclica, che fin dal primo capitolo già guardava all’attesa del Giubileo e alla
preparazione del passaggio dal secondo al terzo millennio, Giovanni Paolo II ha invitato ad aprire le porte a
Cristo e a meditare sul mistero della sua vita che è la Parola di misericordia rivolta dal Padre agli
uomini. Il Padre si compiace del suo Figlio che Lo manifesta in terra, fino al Calvario. È quella che la
Redemptor Hominis chiama la "dimensione divina della redenzione":
Non dimentichiamo neanche per un momento che Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente, è diventato la nostra riconciliazione presso il Padre. Proprio lui, solo lui ha soddisfatto all’eterno amore del Padre… a quella paternità di Dio e a quell’amore, in un certo modo respinto dall’uomo con la rottura della prima alleanza e di quelle posteriori che Dio "molte volte ha offerto agli uomini". La redenzione del mondo – questo tremendo mistero dell’amore in cui la creazione viene rinnovata – è, nella sua più profonda radice, la pienezza della giustizia in un cuore umano: nel cuore del Figlio primogenito perché essa possa diventare giustizia dei cuori di molti uomini, i quali proprio nel Figlio primogenito sono stati, fin dall’eternità, predestinati a diventare figli di Dio e chiamati alla grazia, chiamati all’amore. La croce del Calvario, per mezzo della quale Gesù Cristo "lascia" questo mondo, è al tempo stesso una nuova manifestazione dell’eterna paternità di Dio, il quale in lui si avvicina di nuovo all’umanità, ad ogni uomo donandogli il tre volte santo "Spirito di verità". Con questa rivelazione del Padre ed effusione dello Spirito, che stampano un sigillo indelebile sul mistero della redenzione, si spiega il senso della croce e della morte di Cristo. Il Dio della creazione si rivela come Dio della redenzione, come "Dio fedele a se stesso", fedele al suo amore verso l’uomo e verso il mondo, già rivelato nel giorno della creazione… Se "trattò da peccato" colui che era assolutamente senza peccato, lo fece per rivelare l’amore che è sempre più grande di tutto il creato, l’amore che è lui stesso, perché "Dio è amore". E soprattutto l’amore è più grande del peccato, della debolezza, della "caducità del creato", più forte della morte. È amore sempre pronto a sollevare e a perdonare, sempre alla ricerca della "rivelazione dei figli di Dio", che sono chiamati alla gloria futura. Questa rivelazione dell’amore viene anche definita misericordia, e tale rivelazione dell’amore e della misericordia ha nella storia dell’uomo una forma e un nome: si chiama Gesù Cristo.
L’enciclica continua affermando la "dimensione umana della redenzione", come cioè l’uomo resti un mistero a se stesso, nella sua sete inappagabile di amore. La chiave per decifrare l’enigma umano appare solo nella comprensione dell’ineffabile misericordia con cui Dio guarda alla creatura umana, manifestatasi fin Croce di Cristo, abbraccio rivolto ad ogni uomo.
L’uomo non può vivere senza amore. Egli rimane per se stesso un essere incomprensibile, la sua vita è priva di senso se non gli viene rivelato l’amore, se non s’incontra con l’amore, se non lo sperimenta e non lo fa proprio, se non vi partecipa vivamente. E perciò appunto Cristo redentore rivela pienamente l’uomo all’uomo stesso. Questa è – se così è lecito esprimersi – la dimensione umana del mistero della redenzione. In questa dimensione l’uomo ritrova la grandezza, la dignità e il valore proprio della sua umanità. Nel mistero della redenzione l’uomo diviene nuovamente "espresso" e, in qualche modo, è nuovamente creato. Egli è nuovamente creato!… L’uomo che vuol comprendere se stesso fino in fondo… deve, con la sua inquietudine e incertezza e anche con la sua debolezza e peccaminosità, con la sua vita e morte, avvicinarsi a Cristo. Egli deve, per così dire, entrare in lui con tutto se stesso, deve "appropriarsi" ed assimilare tutta la realtà dell’incarnazione e della redenzione per ritrovare se stesso. Se in lui si attua questo profondo processo, allora egli produce frutti non soltanto di adorazione di Dio, ma anche di profonda meraviglia di se stesso Quale valore deve avere l’uomo davanti agli occhi del creatore se "ha meritato di avere un tanto nobile e grande redentore", se "Dio ha dato il suo Figlio", affinché egli, l’uomo, "non muoia ma abbia la vita eterna". In realtà, quel profondo stupore riguardo al valore ed alla dignità dell’uomo si chiama vangelo, cioè la buona novella. Si chiama anche cristianesimo.
Il pellegrino che visita la basilica di Santa Croce è invitato a riconsiderare la Passione di Cristo non come determinata in primo luogo dalle scelte di Giuda, dei sommi sacerdoti o di Pilato o dalla fatalità degli avvenimenti. Sono l’intenzione, il desiderio, la libertà, la misericordia del Figlio e del Padre, manifestati nell’ultima cena, nella lavanda dei piedi nell’istituzione dell’eucarestia, a muovere il cuore di questa storia. Paolo VI ha così commentato il valore unico della Passione del Signore Gesù:
Le domande incalzano. E che cosa ha di speciale, di unico, di universale la morte di Cristo? Era ed è una morte qualificata dal più alto grado che una morte possa meritare, era un sacrificio; anzi il vero sacrificio, capace di salvare il mondo. Sì, capitolo inesauribile della teologia e dell’antropologia. Dunque anche per noi, anche per me? Sì, ciascuno può dire: anche per me. Dunque un sacrificio umano-divino intenzionale, voluto, previsto, liberamente consumato, un sacrificio d’amore? Sì, un sacrificio d’amore; d’amore senza confronti e senza confini. Davvero per me, davvero per noi? Sì. E allora da qui nasce un sentimento di riconoscenza, di simpatia, di speranza, che sarà l’anima ormai della mia religione cristiana, un sentimento d’amore per Cristo. Sì, fratelli, ricordatelo! Ricordiamolo in una delle vicende, purtroppo, comuni e inevitabili della nostra vita temporale: quando la sofferenza ci prova e ci consuma; essa può essere associata alla sofferenza della croce, e acquistarne il valore; non malediciamo il dolore, non lo priviamo del valore, morale e spirituale, ch’esso, unito a quello di Cristo, può rivestire.
L’11 febbraio del 1984, festa della beata Vergine di Lourdes, a conclusione dell’anno del Giubileo
straordinario della Redenzione del 1983, il papa Giovanni Paolo II pubblicò la lettera apostolica
Salvifici Doloris, sul significato cristiano del dolore, illuminato dalla Croce di Cristo e dalla sua
resurrezione
Nell’introduzione alla lettera il papa scriveva che:
la sofferenza sembra appartenere alla trascendenza dell’uomo: essa è uno di quei punti nei quali l’uomo viene in un certo senso "destinato" a superare se stesso, e viene a ciò chiamato in modo misterioso.
L’uomo non può accettare la sofferenza come una cosa naturale. Anch’essa è,
nell’uomo, richiamo ad una giustizia, ad una misericordia che la sconfiggano. È domanda su Dio ed
è domanda sul senso della vita umana: "perché?". È domanda che non può trovare pace
nella semplice accettazione della cosiddetta "naturalità" della debolezza umana.
Continua il Papa:
Se il tema della sofferenza esige di essere affrontato in modo particolare nel contesto dell’anno della redenzione, ciò avviene prima di tutto perché la redenzione si è compiuta mediante la croce di Cristo, ossia mediante la sua sofferenza... La sofferenza sembra essere, ed è, quasi inseparabile dall’esistenza terrena dell’uomo..
Non si può considerare l’uomo solo a partire dalla sua forza, dalla sua razionalità, dalla
sua efficienza. La debolezza e la sofferenza portano iscritte in sé ancor più che altre dimensioni
umane la domanda sull’amore, il bisogno e il desiderio di essere amati ed il bisogno e il desiderio di
amare.
La lettera ascolta la domanda di Giobbe che pone il suo "perché?" e riconosce che:
è una domanda difficile, così come lo è un’altra, molto affine, cioè quella intorno al male. Perché il male? Perché il male nel mondo?... L’uno e l’altro interrogativo sono difficili, quando l’uomo li pone all’uomo, gli uomini agli uomini, come anche quando l’uomo li pone a Dio.
Il documento riflette a lungo anche sulla profezia di Isaia nei canti del servo sofferente, sul servo che
è segno di Dio proprio nel suo essere schiacciato dai peccati altrui.
Giunge ad annunciare l’amore di Cristo.
Colui al quale pone la sua domanda, soffre lui stesso e vuole rispondergli dalla croce, dal centro della sua propria sofferenza...Cristo, infatti, non risponde direttamente e non risponde in modo astratto a questo interrogativo umano circa il senso della sofferenza...ma prima di tutto dice: "Seguimi!". Vieni! Prendi parte con la tua sofferenza a quest’opera di salvezza del mondo, che si compie per mezzo della mia sofferenza! Per mezzo della mia croce. Man mano che l’uomo prende la sua croce, unendosi spiritualmente alla croce di Cristo, si rivela davanti a lui il senso salvifico della sofferenza.
Interpretando poi la parabola del buon samaritano, la lettera invita ad alleviare il dolore che l’uomo deve
portare. Invita ad essere con il debole, con colui che ha come compagna la sofferenza.
"Cristo dice: "L’avete fatto a me". Egli stesso è colui che in ognuno sperimenta l’amore;
egli stesso è colui che riceve aiuto, quando questo viene reso ad ogni sofferente senza eccezione".
Anche nel Grande Giubileo dell’Anno 2000, varcare la soglia della basilica di Santa Croce
significherà sostare a contemplare la croce di Cristo e il significato cristiano del dolore umano.
Il pellegrino che si accosta a Santa Croce in Gerusalemme è accolto dall’originale e dinamica
facciata settecentesca, uno dei capolavori del tardo barocco romano. L’aspetto non è quello
imponente delle altre grandi basiliche, ma piuttosto quello di un reliquiario aperto, dilatato a proporzioni
gigantesche. Quattro grandi pilastri dividono la facciata in una sezione centrale, su cui si apre il portale e il
finestrone ovale, e due sezioni laterali convesse, anch’esse alleggerite dalle ampie aperture delle due
finestre. Sulla sommità, un’aerea balaustra sormontata da statue: all’estremo sinistro
Sant’Elena con la Croce, all’estremo opposto Costantino imperatore, fra questi I
quattro evangelisti (da sinistra, San Luca, San Matteo, San Giovanni e San Marco) e al centro Due angeli
che adorano la croce. Superata la facciata, ci troviamo in un piccolo atrio ellittico (l’ellissi
è una delle forme predilette dall’architettura barocca: si pensi a piazza San Pietro) sormontato da
una cupoletta, un ambiente in penombra che fa da transizione fra la piazza antistante e l’interno della
chiesa. Questo ingresso monumentale non è degno di nota soltanto per il suo cospicuo valore artistico, ma
anche per il suo significato spirituale e pastorale, che si coglie pienamente guardando alle circostanze in cui
la facciata fu costruita. papa Benedetto XIV, Prospero Lambertini, che era stato cardinale titolare della
basilica, una volta pontefice si preoccupò di riammodernarla, ordinando vari lavori all’interno
(affreschi, tele, il baldacchino dell’altare) e commissionando la nuova facciata ai due architetti Domenico
Gregorini e Pietro Passalacqua. L’occasione fu data dall’avvicinarsi della scadenza giubilare del
1750: il papa voleva offrire ai pellegrini una basilica rinnovata, ma anche pienamente integrata nel tessuto
urbanistico della città. Su quest’ultimo punto Benedetto XIV continuava l’opera di Sisto V, il
quale, a fine Cinquecento, aveva ben compreso che l’intera Roma poteva essere considerata un unico, immenso
reliquiario, e che si doveva favorire e disciplinare il movimento dei fedeli dall’uno all’altro dei
luoghi più santi della città. Se dunque Sisto V aveva collegato la basilica della Croce a Santa
Maria Maggiore, aprendo la via Felice (l’attuale via di S. Croce in Gerusalemme, che attraverso piazza
Vittorio giunge alla basilica dell’Esquilino), Papa Lambertini completò l’opera collegando S.
Croce al Laterano, mediante l’attuale viale Carlo Felice. In questo modo, erano finalmente collegate anche
sul piano urbanistico le tre basiliche già unite sul piano devozionale: sin dal medioevo, infatti, si
veneravano nelle tre chiese vicine i tre momenti fondamentali del passaggio terreno di Cristo, la Natività
a S. Maria Maggiore (con la reliquia del Presepio), la passione a Santa Croce, e infine la Risurrezione a San
Giovanni, basilica del Salvatore.
La facciata porticata di Santa Croce in Gerusalemme racchiude in sé questa lunga storia di devozione
popolare e ufficiale, il tesoro unico di una religiosità come quella romana tenacemente radicata sul
territorio, in cui i significati teologici e spirituali sono per così dire incarnati dagli spazi urbani:
infatti dal portico spalancato sulla piazza con i suoi tre portali il fedele può vedere dritto davanti a
sé Santa Maria Maggiore e sulla sinistra la basilica del Laterano, abbracciando in un solo sguardo i tre
massimi misteri della fede cristiana prima di entrare nella basilica.
Appena entrati, dirigiamoci subito verso il fondo, e fermiamoci ad ammirare il grande affresco che riempie
l’intero catino absidale: è uno dei più importanti tesori d’arte della basilica,
e ci riporta alle circostanze leggendarie della sua fondazione. Fu Pedro González de Mendoza, arcivescovo
di Toledo e primate di Spagna, cardinale titolare dal 1478 al 1495, a commissionare l’affresco, in
preparazione della scadenza del Giubileo del 1500. Ancora oggi non si è del tutto sicuri
dell’attribuzione: si pensa ad Antoniazzo Romano o a qualcuno della sua cerchia, ma altri non escludono
Melozzo da Forlì. L’area centrale del dipinto è occupata dal Redentore in gloria,
racchiuso da una mandorla di cherubini di sapore tardo medievale, su uno sfondo di cielo stellato. La fascia in
basso è occupata invece dalla rappresentazione della leggenda della vera croce, il racconto
leggendario del ritrovamento del sacro legno contenuto nella Legenda Aurea di Jacopo da Varazze, la
più importante raccolta di narrazioni agiografiche del medioevo, che diede materia anche a Piero della
Francesca per gli affreschi del ciclo della croce in San Francesco ad Arezzo. Leggiamo dunque le immagini
seguendo il racconto di Jacopo. Costantino, convertito al cristianesimo dopo la vittoria su Massenzio, aveva
incaricato la madre Elena, cristiana da prima di lui, di recarsi a Gerusalemme per ritrovare i resti dello
strumento della Passione di Cristo. Ecco dunque, all’estremità sinistra dell’affresco,
l’imperatrice con la corona e l’aureola che interroga l’ebreo Giuda, a cui il padre Zaccheo
fratello di Santo Stefano, aveva trasmesso il segreto del luogo della crocifissione: dopo minacce e torture,
Giuda (che poi si sarebbe convertito e sarebbe divenuto, sempre secondo la Legenda Aurea, Ciriaco vescovo
di Gerusalemme) rivela l’ubicazione del Golgota, sotto il tempio di Venere fatto costruire
dall’imperatore Adriano. Nella seconda scena vediamo gli scavi e il ritrovamento delle tre croci, di Cristo
e dei ladroni, sotto gli occhi di tre ebrei che parlano fra loro. A questo punto si trattava di riconoscere fra
le tre la vera croce del Signore: nella terza scena, sotto gli occhi della santa imperatrice in preghiera, Giuda
fa stendere il cadavere di un giovane su ciascuna delle tre croci, e miracolosamente, al contatto con quella
autentica, il morto ritorna in vita e rende gloria a Dio. Al centro dell’affresco si erge la Croce
ritrovata, retta a destra da Sant’Elena, ed adorata a sinistra dal cardinale committente in ginocchio. La
parte destra dell’affresco è occupata dal resto della leggenda: la Croce, depositata a Gerusalemme,
era stata trafugata da Cosroe imperatore dei Persiani. Eraclio, imperatore cristiano di Costantinopoli, nel 610
mosse guerra per recuperare la preziosissima reliquia. Dopo varie battaglie, si decise di affidare le sorti del
conflitto ad una singolar tenzone fra Eraclio ed il figlio del re persiano: vediamo infatti i due sovrani che si
fronteggiano su un ponte fra due schiere di uomini armati. La vittoria toccò naturalmente
all’imperatore cristiano, che si recò a Gerusalemme per deporre di nuovo la reliquia al suo posto.
Lo vediamo a cavallo, incoronato e circondato dai suoi consiglieri sontuosamente addobbati, che si avvicina alla
città santa con la croce in spalla. Ma l’avanzata fu fermata dall’apparizione di un angelo (lo
vediamo fiammeggiante su una nuvoletta all’estrema destra), che intimò all’imperatore di
entrare a Gerusalemme non col fasto e la pompa di un sovrano, ma con l’umiltà con cui ci era entrato
Cristo, re dei re. E infatti l’affresco (e la leggenda) si conclude con la processione guidata da Eraclio
che, stavolta a piedi e spogliato dei suoi ornamenti, porta in spalla la croce per riporla nella città
della Passione. Il recupero della reliquia ad opera di Eraclio era festeggiato nel calendario cattolico il 3
maggio, con la festa dell’Invenzione della Croce.
Santa Croce fu per molti secoli venerata dai romani proprio come "ambasciata" di Gerusalemme nella loro
città: anzi, essa era nota anche col semplice nome di Hierusalem, perché si sapeva che sotto
il pavimento della cappella di Sant’Elena giaceva la terra del Calvario. L’uso di portare con
sé dai luoghi santi della terra come prova dell'avvenuto pellegrinaggio era molto comune, e quindi la
notizia della tradizione è piuttosto verosimile; la cappella di Sant’Elena inoltre, nella struttura
dell’antico palazzo imperiale, serviva forse già come oratorio privato dell’imperatrice madre
di Costantino. Oggi la cappella non ospita più le reliquie, ma è comunque un tesoro artistico da
visitare. I discendenti di Costantino, l’imperatore Valentiniano III insieme alla madre Galla Placidia e la
sorella Onoria, a testimonianza della costante attenzione che la famiglia dei Costantinidi riservò alla
basilica, vollero ornare la cappella con un mosaico, fra il 425 e il 455. Al principio del Cinquecento un secondo
cardinale titolare spagnolo, succeduto al Mendoza che abbiamo già menzionato, Bernardino Lopez de
Carvajal, avviò grandi lavori di ristrutturazione, sull’onda dell’entusiasmo suscitato dal
ritrovamento del titulus (di cui parliamo più avanti): fra l’altro, nel 1507-1508
affidò a Baldassarre Peruzzi, il grande architetto e pittore senese, il rifacimento del mosaico
paleocristiano. Il soffitto che oggi vediamo è uno dei pochi e più splendidi esempi di mosaico
rinascimentale a Roma. La volta è divisa da cornici e festoni ispirati ai mosaici antichi (secondo le
norme dell’imitazione dei classici, ovvie all’inizio del XVI secolo) in un cerchio centrale, quattro
ovali agli angoli, e altrettante lunette fra di essi. Nel cerchio c’è un bellissimo Cristo
benedicente e sorridente, che tiene in mano il libro con scritto ego sum lux mundi; negli ovali i quattro
evangelisti raffigurati nelle pose tradizionali della loro ispirazione; nelle lunette alcune scene della leggenda
della croce che già conosciamo: a partire da quella posta a sinistra del Cristo, il miracolo del giovane
risuscitato dalla vera Croce, Sant’Elena che l’adora, Sant’Elena che ordina di dividerla in tre
parti, e infine Eraclio che entra a Gerusalemme in processione. Sopra e sotto la volta, sono due fasce
anch’esse in mosaico, che comprendono ciascuna due nicchie e dei tondi centrali. La fascia soprastante il
Cristo raffigura a sinistra, Sant’Elena con la croce e il cardinale Carvajal che la venera in ginocchio; a
destra San Silvestro papa, che secondo la tradizione era responsabile della conversione di Costantino e del suo
battesimo; nel tondo al centro, i simboli della Passione. Nell’altra fascia, san Pietro e san Paolo nelle
nicchie, e al centro l’Agnus Dei in trono.
Ci rimane ora da visitare la cappella delle reliquie. Sappiamo che originariamente esse erano conservate
nella cappella di Sant’Elena. Durante il medioevo però, e in particolare durante i lavori di
ristrutturazione ordinati nel 1144 da papa Lucio II, già cardinale titolare, furono collocate in una
cassetta di piombo murata al sommo dell’arco trionfale (al termine della navata centrale, prima del
transetto), per sottrarle ad eventuali ruberie: Santa Croce si trovava infatti proprio a ridosso della cinta
muraria, ed era quindi particolarmente esposta al pericolo. Quattro secoli dopo, durante i lavori del rifacimento
del soffitto ordinati dal cardinale Mendoza, gli operai trovarono sulla sommità dell’arcone, la
cassetta contentente il titulus, ormai dimenticato. Il ritrovamento avvenne l’ultima domenica di
gennaio del 1492, lo stesso giorno in cui arrivava a Roma la notizia che in Spagna i re cattolici, Ferdinando
d'Aragona e Isabella di Castiglia, avevano costretto alla resa Granada, ultima roccaforte araba in Europa, e che
perciò la Spagna era ormai tutta cristiana. La coincidenza parve a tutti miracolosa: il papa Innocenzo
VIII accorse a venerare la reliquia; Alessandro VI nel 1496 emise la bolla Admirabile sacramentum con cui
autenticava la scoperta e concedeva l’indulgenza a chi avesse visitato la chiesa l’ultima domenica di
gennaio. Le reliquie ripresero perciò ad essere venerate nella cappella di Sant’Elena, sino a questo
secolo, quando l’umidità e l’afflusso dei pellegrini spinsero a trovare una nuova
sistemazione. La nuova cappella fu inaugurata nel 1930.
Le reliquie di Santa Croce, benché poco note, sono in effetti tra le più cospicue che sia dato di
venerare. Come su molti altri tesori della fede, esistono dubbi circa la loro autenticità: si è
spesso obiettato che difficilmente Elena avrebbe potuto ritrovare il legno intatto dopo due secoli. Chi entra
oggi nella cappella trova subito davanti a sé un grosso frammento ligneo, che la tradizione attribuisce
alla croce del buon ladrone, venerato dalla Chiesa col nome di San Disma. È un grande pezzo di legno, che
certamente apparteneva ad un patibulum romano, cioè al genere di strumento con cui furono
crocifissi Gesù ed i due malfattori. I tre pezzi della vera Croce sono conservati invece nel bel
reliquiario disegnato da Giuseppe Valadier nel 1803. Ma la reliquia più impressionante è
senz’altro la parte del titulus, l’iscrizione che era stata posta sulla croce di Gesù.
Leggiamo nel vangelo di Giovanni (19, 19-22) che:
Pilato compose anche l’iscrizione e la fece porre sulla croce; vi era scritto: Gesù Nazareno re dei Giudei. Molti Giudei lessero questa iscrizione, perché il luogo dove fu crocifisso Gesù era vicino alla città; era scritta in ebraico, in latino ed in greco. I sommi sacerdoti dei Giudei dissero allora a Pilato: "Non scrivere: il re dei Giudei, ma che egli ha detto: io sono il re dei Giudei". Rispose Pilato: "Ciò che ho scritto, ho scritto".
Il titolo posto sopra la croce doveva dunque essere composto
dalla scritta in ebraico, da quella latina JESUS NAZARENUS REX IUDEORUM
e da quella greca Ι Ε Σ Υ Σ Ν Α
Ζ Α Ρ Ε Ν Υ Σ Β Α Σ
Ι Λ Ε Υ Σ Ι Υ Δ Ε
Υ Ν . Quello che vediamo oggi a Santa Croce è un grosso
pezzo di quel titolo, in cui ancora si può leggere US NAZARENUS RE
nel rigo più basso, con i caratteri dritti che i romani usavano per le
leggi affisse all’albo pretorio; sopra la scritta latina si legge anche
Ν Α Ζ Α Ρ Ε Ν Υ Σ Β,
e infine, sopra queste due scritte, si vede la stessa dicitura in caratteri
ebraici o siro-caldaici, molto deteriorati. Le scritte latina e greca corrono
da destra a sinistra come quella ebraica.
La cappella conserva anche un chiodo ritenuto uno di quelli con i quali sarebbe avvenuta la crocifissione. Il
reliquiario che lo contiene ha la forma di un ostensorio, sottolineando così il legame fra la Passione del
Salvatore e il mistero dell’Eucaristia. Lo stesso si deve dire del reliquiario a forma di calice che
conserva due spine della corona. A partire dal 1806, questa preziosa reliquia è conservata a Notre Dame, a
Parigi. Nel 1825 entrarono a far parte del tesoro di Santa Croce alcuni piccoli frammenti di pietra della grotta
di Betlemme, della grotta del Santo Sepolcro e della colonna della flagellazione. Non si conosce l’origine
dei frammenti, ma possiamo ricordare che la basilica della Croce aveva legami antichi con Santa Maria Maggiore,
dove si conservava la reliquia del Presepe, e con la basilica del Sepolcro a Gerusalemme. L’intero
complesso delle reliquie, comprese queste ultime, che ci permettono di riflettere sulla spiritualità delle
basiliche romane, deve essere concepito come un’occasione di catechesi. Così era intesa in passato
la visita al santuario di Santa Croce: uno strumento per accostarci direttamente al mistero
dell’Incarnazione e della morte di Cristo, e, con l’aiuto dei venerabili oggetti contenuti nei
reliquiari, riflettere sulla realtà storica di Gesù.