Capitolo IV - LA BASILICA DI SANTA MARIA MAGGIORE

1. L’origine del luogo

Santa Maria Maggiore è la prima basilica voluta non da un imperatore, o dal suo entourage politico o familiare, ma da un papa, Sisto III (432-440).
Se all’origine delle basiliche costantiniane c’è l’accoglienza del cristianesimo all’interno dell’Impero romano, in Santa Maria Maggiore, prima fondazione papale, c’è la funzione apostolica e missionaria della Chiesa che, attraverso la lezione dell’arte, si rivolge e vuol essere capita da quella parte che a Roma, nel V secolo, resta ancora tenacemente pagana: l’aristocrazia colta.
Sisto III la fece edificare con moduli di derivazione classica e Santa Maria Maggiore è oggi, fra le quattro basiliche maggiori, quella che maggiormente conserva la prospettiva semplice e lineare della primitiva costruzione paleocristiana, nonostante le alterazioni e le trasfigurazioni subite nei secoli.
È edificata nel luogo che, secondo la tradizione, la stessa Vergine avrebbe indicato a papa Liberio (352-366). I mosaici medioevali della facciata, come poi vedremo, narrano questa leggenda di fondazione e proprio dal nome di questo papa prende anche il nome di basilica Liberiana.

Il concilio di Efeso

La fondazione della basilica di santa Maria Maggiore inizia nel 432, un anno dopo il concilio di Efeso, celebrato nel 431. L’intenzione di papa Sisto III, nel progettare la basilica, nel dedicarla a Maria e nell’ispirarne la decorazione è chiaramente programmatica: vuole che celebri in Roma la verità riconosciuta dal concilio, cioè che Maria deve essere giustamente detta Madre di Dio, perché madre dell’unica persona divina di Gesù. Il dogma che la basilica celebra ha un aspetto mariologico ed uno cristologico, entrambi importantissimi.
Il concilio di Nicea del 325 aveva affermato con chiarezza che Gesù era vero uomo e vero Dio. Se infatti in Cristo non ci fosse stata umanità vera, non ci sarebbe stata alcuna umanità salvata, e nessun uomo sarebbe tornato al Padre. Se invece in Gesù si dava l’esistenza della sola umanità, senza alcuna divinità, non si avrebbe avuto lo stesso alcuna salvezza, perché nessun uomo avrebbe mai potuto salvare l’intera umanità.
Si poneva però il problema del rapporto tra queste due nature: come pensare ad una unione che salvi le due parti, senza che l’umanità soccomba di fronte alla divinità?
La difficoltà sorse quando Nestorio, patriarca di Costantinopoli, cominciò a contestare e negare alcune affermazioni che esistevano nella fede della Chiesa, dicendo:

Dio non può avere una madre e nessuna creatura potrebbe generare la Divinità. Maria partorì un uomo, il veicolo della Divinità, ma non Dio. La divinità non può essere stata portata in seno per nove mesi da una donna, o essere stata avvolta nei panni di un neonato, o aver sofferto, essere morta o essere stata sepolta.

Per questo Nestorio prese a predicare che Maria non poteva essere detta Madre di Dio ma poteva, per lui, essere detta solo Madre di Cristo, dunque madre solo della natura umana di Cristo.
Questo provocò tra i fedeli grande stupore e scandalo. Infatti non si riconoscevano in quelle affermazioni, non sentendole appartenenti alla fede della Chiesa, anzi percependole come blasfeme.
Il rifiuto di chiamare Maria Teothokos, ossia Madre di Dio aveva una radice cristologica. Nestorio infatti, affermava l’esistenza di una persona divina in Cristo, ma negava che le due nature, umana e divina, comunicassero in una sola persona. Questo apriva il fianco ad una possibile dottrina dei due figli e delle due persone, dando adito a pensare che in Cristo ci fossero non solo due distinte nature, ma anche due persone distinte.
La Chiesa reagì affermando la sua propria fede, grazie all’impegno di Cirillo vescovo di Alessandria, il quale, scrivendo ripetutamente al fratello nell’episcopato, propose di riflettere su quella che viene definita la communicatio idiomatum, la comunicazione degli idiomi o delle proprietà, per la quale si può predicare dell’unica persona divina di Gesù sia il divino, sia l’umano, pur restando distinte le due nature.
Per la Rivelazione cristiana si può sì affermare che il Figlio di Dio è morto, perché, in Gesù, l’umanità è morta sulla croce, ma non la divinità.
Lo stesso, dichiarando che Maria è Madre di Dio, la Chiesa asserisce che è Madre di Dio, nel momento in cui è Madre di Cristo: ovviamente lei ha solo partorito l’unica persona del Figlio, ma non ha mai generato la divinità del Figlio, generazione che spetta solo al Padre, fonte e origine di tutta la divinità sia del Figlio che dello Spirito.
Il concilio che si tenne a Efeso nel 431 vide la Chiesa professare la sua fede nel modo proposto da Cirillo e rifiutare quello proposto da Nestorio. Questa l’affermazione dogmatica del concilio di Efeso:

Non è stato generato prima dalla santa Vergine un uomo qualsiasi sul quale poi sarebbe disceso il Verbo: ma il Verbo si è unito con la carne, accettando la nascita della propria carne... Perciò i santi Padri non dubitarono di chiamare Madre di Dio la santa Vergine.

Il problema del rapporto delle due nature di Cristo non si sciolse a Efeso. La Chiesa dovette riflettere sulla propria fede fino al concilio di Calcedonia, tenutosi nel 451.

2. Motivi di un pellegrinaggio giubilare

Il Giubileo dell’Anno 2000 celebra la gioia dell’incarnazione e della nascita del Signore Gesù. Significativamente non inizia nel passaggio della notte fra l’ultimo giorno dell’anno e il capodanno, ma nella santissima notte di veglia del Natale. È questa la notte che orienta in maniera nuova il fluire del tempo e il trascorrere degli anni dell’uomo e del mondo, la notte che rende la gloria a Dio e la pace agli uomini da Lui benvoluti. L’annuncio che i pastori ascoltano dagli angeli e recano a Maria, "Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia che sarà di tutto il popolo; oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore che è il Cristo Signore"
viene serbato da Maria che lo medita nel suo cuore.
La basilica di santa Maria Maggiore, annunciandoci che Maria è la Madre di Dio, la Theotokos, ci annuncia che realmente il Figlio di Dio si è incarnato per la nostra salvezza, per ricapitolare in sé tutte le cose.
Il mistero del Figlio e quello della sua madre terrena si illuminano a vicenda. Come ha scritto Giovanni Paolo II nell’enciclica Redemptoris Mater:

Se infatti è vero che "solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo" – come proclama il Concilio Vaticano II – bisogna applicare tale principio in modo particolare a quella eccezionale "figlia della stirpe umana", a quella "donna" straordinaria che divenne Madre di Cristo. Solo nel mistero di Cristo si chiarisce pienamente il suo mistero. Così, del resto, sin dall’inizio ha cercato di leggerlo la Chiesa: il mistero dell’incarnazione le ha permesso di penetrare e di chiarire sempre meglio il mistero della Madre del Verbo Incarnato. In questo approfondimento ebbe un’importanza decisiva il concilio di Efeso, durante il quale con grande gioia dei cristiani, la verità sulla divina maternità di Maria fu confermata solennemente come verità di fede della Chiesa. Maria è la Madre di Dio (Theotokos), poiché per opera dello Spirito Santo ha concepito nel suo grembo verginale e ha dato al mondo Gesù Cristo, il Figlio di Dio consostanziale al Padre. "Il Figlio di Dio, nascendo da Maria Vergine, si è fatto veramente uno di noi", si è fatto uomo. Così dunque, mediante il mistero di Cristo, sull’orizzonte della fede della Chiesa risplende pienamente il mistero della sua Madre. A sua volta, il dogma della maternità divina di Maria fu per il Concilio Efesino ed è per la Chiesa come un suggello del dogma dell’incarnazione, nella quale il Verbo assume realmente nell’unità della sua persona la natura umana senza annullarla.

Paolo VI nell’esortazione apostolica Marialis Cultus, scritta per rinnovare alla luce del Vaticano II il culto mariano, ha indicato come i tempi liturgici dell’Avvento e di Natale siano i più appropriati per comprendere e celebrare il ministero unico di Maria, diverso da ogni altro ministero cristiano proprio per il legame indissolubile con il Figlio suo Gesù. La liturgia della chiesa rivolge la sua attenzione a Maria nell’Avvento, più che in ogni altro periodo dell’anno.

I fedeli che vivono con la liturgia lo spirito dell’Avvento, considerando l’ineffabile amore con cui la Vergine Madre attese il Figlio, sono invitati ad assumerla come modello e a prepararsi per andare incontro al Salvatore che viene, "vigilanti nella preghiera, esultanti nella lode". Vogliamo inoltre osservare come la liturgia dell’Avvento, congiungendo l’attesa messianica e quella del glorioso ritorno di Cristo con l’ammirata memoria della Madre, presenti un felice equilibrio cultuale, che può essere assunto quale norma per impedire ogni tendenza a distaccare – come è accaduto talora in alcune forme della pietà popolare – il culto della Vergine dal suo necessario punto di riferimento, che è Cristo; e faccia sì che questo periodo – come hanno osservato i cultori della liturgia – debba essere un tempo particolarmente adatto per il culto della Madre del Signore.

Ognuna delle solennità del Natale ci manifesta i diversi aspetti del mistero dell’incarnazione e la correlazione di Maria ad essi.

Il tempo di Natale costituisce una prolungata memoria della maternità divina, verginale, salvifica, di colei la cui "illibata verginità diede al mondo il Salvatore": infatti, nella solennità del Natale del Signore, la Chiesa, mentre adora il Salvatore, ne venera la Madre gloriosa; nell’Epifania del Signore, mentre celebra la vocazione universale alla salvezza, contempla la Vergine come vera Sede della Sapienza e vera Madre del Re, la quale presenta all’adorazione dei Magi il Redentore di tutte le genti; e nella festa della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, riguarda con profonda riverenza la santa vita che conducono nella casa di Nazareth Gesù, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, Maria sua madre e Giuseppe, uomo giusto. Nel ricomposto ordinamento del periodo natalizio ci sembra che la comune attenzione debba essere rivolta alla ripristinata solennità di Maria santissima Madre di Dio; essa, collocata secondo l’antico suggerimento della liturgia dell’Urbe al primo giorno di gennaio, è destinata a celebrare la parte avuta da Maria in questo mistero di salvezza e ad esaltare la singolare dignità che ne deriva per "la Madre santa per mezzo della quale abbiamo ricevuto l’Autore della vita" ed è, altresì, una occasione propizia per rinnovare l’adorazione al neonato Principe della pace.

Proprio il giorno della festa di Maria, Madre di Dio, primo di gennaio e dell’anno nuovo, è il giorno dell’apertura della Porta Santa della basilica di Santa Maria Maggiore nel Giubileo dell’Anno 2000.
Mentre, come vedremo, il Santuario del Divino Amore sottolinea il rapporto fra Maria e lo Spirito Santo, la basilica Liberiana sottolinea allora il grande dono di Dio a Maria e di Maria all’umanità: il Figlio. Come si è espressa piccola sorella Magdeleine di Gesù:

Da diversi anni sogno, come se la vedessi, una nuova immagine della Madonna… Non una Madonna che stringe teneramente fra le braccia il suo piccolo Gesù, ma che invece lo porge al modo: e il suo piccolo Gesù ha solo qualche mese, è avvolto in fasce e così, sdraiato fra le sue mani, la Madonna lo porge con un gesto che dovrebbe essere così eloquente che tutti abbiano voglia di prenderlo.

3. Visitando la basilica

I mosaici medioevali della facciata, oggi nascosti dalla loggia settecentesca, narrano la leggenda della fondazione della basilica. Sono opera di grande maestria di Filippo Rusuti, discepolo di Jacopo Torriti e di Pietro Cavallini, che li compose, secondo moderni studi, probabilmente in due distinti periodi. La parte superiore sarebbe anteriore al 1297, anno in cui i Colonna, committenti dell’opera, furono messi al bando da Bonifacio VIII. La parte inferiore sarebbe degli anni 1306-1308 quando la stessa famiglia fu riabilitata da Clemente VII, e ciò spiegherebbe bene gli influssi artistici del Giotto assisiate su questa parte.
La leggenda racconta che la mattina del 5 agosto 352 gli abitanti del colle Esquilino ebbero una strana sorpresa: durante la notte era caduta la neve ed un soffice manto ne ricopriva un tratto. Con tale prodigio la Vergine Maria aveva indicato, ad un patrizio di nome Giovanni ed a sua moglie, che in quel luogo desiderava fosse eretto un tempio in suo onore. Da gran tempo i due anziani coniugi, che non avevano avuto figli, desideravano impiegare le loro ricchezze in un’opera che onorasse la Madre di Dio e, a tal fine, la pregavano con fervore affinché mostrasse loro in qual modo potessero esaudire il desiderio. La Vergine, commossa dalla pietà dei due, sarebbe apparsa loro in sogno dicendo che nel luogo ove la mattina seguente avessero trovato la neve caduta miracolosamente durante la notte, dovevano edificare, a loro spese, una chiesa dedicata al nome di Maria. Emozionato dal prodigio, il mattino seguente Giovanni si recò da papa Liberio, a narrargli l’accaduto: il pontefice aveva, durante la notte, sognato la medesima cosa! Liberio, seguito dal patrizio Giovanni e da un grande corteo di popolo e prelati, si recò sull’Esquilino e, sulla neve ancora intatta, segnò il tracciato della nuova chiesa, che fu edificata a spese del patrizio e di sua moglie.
La decorazione a mosaico è divisa in due zone distinte, che raffigurano, in alto, Cristo in trono tra angeli e santi e, in basso, quattro scene imperniate sul racconto del Miracolo della neve. Nella prima scena, a sinistra, il pontefice Liberio, addormentato, ha la miracolosa visione; nella scena seguente la Vergine appare ad annunciare il miracolo anche al patrizio Giovanni; nella terza è il patrizio che, inginocchiato ai piedi del papa, narra il prodigio: la Vergine ha compiuto il miracolo e sulla vetta dell’Esquilino è scesa la neve; nell’ultimo riquadro, in un tondo, il Salvatore e la Vergine fanno cadere la neve, mentre il papa, seguito dal Clero di Roma e dal patrizio, traccia sulla bianca distesa di neve la pianta dell’antica basilica.
Il mosaico fu risparmiato dagli imponenti lavori di restauro – durarono dal 1743 al 1750 – promossi da papa Benedetto XIV e affidati all’architetto Ferdinando Fuga, protagonista dello scenario architettonico romano della metà del settecento a cui si deve la costruzione dell’attuale facciata, e che trionfa anche grazie alla grande luminosa loggia dell’ordine superiore, con il suo gioco di pieni e di vuoti.
Della basilica di papa Liberio non abbiamo più traccia. L’attuale è dovuta a papa Sisto III. L’arco trionfale porta ancora l’iscrizione dedicatoria: Xistus episcopus plebi Dei, Sisto vescovo del popolo di Dio. L’interno che, come abbiamo visto, conserva ancora la struttura paleocristiana, è a tre navate, divise da 40 colonne uniformi per materiale e dimensioni, dotate di capitelli ionici, che sorreggono, al posto delle tradizionali arcate longitudinali, una trabeazione ellenizzante: un ricco e modulato architrave che guida l’occhio verso l’arco trionfale e l’abside. Le pareti della navata centrale sono divise da alte paraste, fra le quali posti sotto le finestre, sono inquadrati entro edicole di stucco i pannelli a mosaico con storie dell’Antico Testamento.
Questi elementi di derivazione classica (capitelli ionici, trabeazione, paraste, edicole) fanno sì che, nonostante le alterazioni e le trasfigurazioni dello spazio interno, ancora oggi entrando in Santa Maria Maggiore si abbia una forte percezione di spazio antico.
L’importanza di tale chiesa è eccezionale soprattutto perché è il primo esempio, a noi noto, di basilica il cui rivestimento prezioso, oltre ad una funzione decorativa, insegna. Raccontando per immagini la storia sacra, annuncia la "buona novella" della salvezza. Rimane in essa intatta l’idea dell’edificio che guida, accompagnandolo, il muoversi fisico e spirituale del fedele verso il luogo del sacrificio liturgico, ma è presente, ora, anche quella di edificio sacro che fa suo l’evangelico ite et docete. La basilica diventa l’annuncio della salvezza fatto spazio, così come ci arriva attraverso la struttura e, soprattutto, attraverso il racconto figurato ad essa sovrapposto. In tal senso essa anticipa una delle funzioni che, nel corso del medioevo, verranno assegnate alla "decorazione" delle pareti interne delle chiese, momento essenziale, non più accessorio, della modulazione spaziale.
I mosaici della navata centrale e quelli dell’arco trionfale risalgono alla fine del IV inizi del V secolo, e costituiscono il più importante ciclo musivo paleocristiano conservatosi a Roma. Lo stile dei riquadri è osservabile solo con un buon binocolo, che permetterà di ammirare il carattere non "disegnato" delle figure, delle architetture e dei tipi dei personaggi: poche tessere con pochi tocchi di colore, quasi lasciati cadere a caso, producono un effetto complessivo di grande suggestione impressionistica.
Lungo le pareti della navata centrale, 27 pannelli superstiti illustrano storie dell’Antico Testamento pertinenti alle figure dei precursori del Cristo. Sul lato sinistro diciotto pannelli riproducono scene tratte dalla Genesi, imperniate sulle figure dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe, ma solo dodici conservano i mosaici originari
Partendo dal presbiterio, alla sinistra dell’altare, possiamo vedere, procedendo lungo la navata verso l’ingresso:

Segue l’arco, aperto nel XVII secolo in occasione della costruzione della cappella Paolina. I tre mosaici ubicati in questo spazio furono distrutti. Il ciclo continua ora con: Sul lato destro dei 18 pannelli ne restano 15 a mosaico. Riproducono scene tratte dai libri dell’Esodo, dei Numeri e di Giosuè. Insieme testimoniano l’aiuto miracoloso di Dio, nel cammino che condurrà alla terra promessa. È la preparazione del miracolo per eccellenza, l’Incarnazione del Figlio. Partendo dal presbiterio abbiamo: Segue l’arco che sostituì tre mosaici, aperto davanti alla cappella di Sisto V.

I singoli mosaici, appesi come quadri, ritmano il racconto fino all’arco trionfale. Qui la decorazione diventa una rappresentazione frontale e la stesura dei mosaici corre continua, su un piano composto da quattro pannelli orizzontali privi di incorniciatura, che celebrano la divina maternità di Maria, con episodi dell’infanzia di Gesù, liberamente desunti, tra l’altro, anche dai Vangeli apocrifi, e sottolineano il ruolo svolto in essa dalla Vergine, che, madre e regina, appare nuovissima rispetto alla tradizionale iconografia. Essi conservano la vivacità dei primi mosaici cristiani, ma recano già l’impronta dell’arte bizantina soprattutto nello stile rapido, compendiario, delle scene che si susseguono come si trattasse di un testo miniato.
Il primo registro narra il dogma di Maria, Madre di Dio, come viene rivelato, nei vangeli dell’infanzia, al popolo ebraico. Al centro domina il trono, affiancato dai Santi Pietro e Paolo e dai quattro animali dell’Apocalisse, simboli degli evangelisti. A sinistra, la doppia, originalissima, Annunciazione della nascita del Figlio di Dio, a Maria e a Giuseppe. Maria è vestita come una principessa romana, siede su un piccolo trono e dipana, col fuso sotto il braccio, la matassa di porpora destinata al Tempio. La colomba dello Spirito Santo e l’arcangelo Gabriele che le porta l’annuncio, volteggiano su di lei. Tre angeli la circondano, l’assistono e sembrano parlarle. Un quarto angelo fa, invece, da raccordo ad un quinto che porta l’annuncio a Giuseppe. Compaiono due abitazioni alle spalle di Maria e Giuseppe, e questo sottolinea, visivamente, il fatto che siano fidanzati e non abitino nella stessa dimora. Giuseppe ha inoltre un aspetto ancora molto giovanile rispetto alle raffigurazioni degli altri pannelli del mosaico. A destra del trono compare la Presentazione al Tempio. Si riconoscono i quattro animali per il sacrificio indicati dai vangeli apocrifi e il vecchio Simeone che riconosce il Figlio di Dio, mentre altri dodici sacerdoti, dietro di lui, rappresentano l’incredulità. Anna benedice il bambino. La Sacra Famiglia è isolata visivamente da tre angeli, che la staccano dal resto dei personaggi della scena. All’estrema destra, abbiamo l’angelo che appare in sogno a Giuseppe, per suggerirgli la fuga in Egitto.
Il secondo registro narra la rivelazione della divinità di Gesù, ai pagani. A sinistra l’Adorazione dei Magi, che rappresentano i primi non ebrei che si inchinano dinanzi al Figlio di Dio, precursori dei popoli che accoglieranno il Vangelo. A destra un’altra scena, pensata in stretta relazione con la prima è quella dell’episodio apocrifo dell’incontro con Afrodisio, governatore della città egiziana di Sotine, che si fa incontro al Cristo, durante la fuga in Egitto, riconoscendone la divinità. Di nuovo la Famiglia del Signore è raffigurata staccata dal contesto grazie alla presenza di quattro angeli.
Il terzo registro, in opposizione tematica ai due precedenti, rappresenta il rifiuto della divinità di Gesù. A destra e a sinistra troneggia il re Erode, vestito come un imperatore romano, su trono gemmato, con diadema e nimbo, circondato dai suoi soldati. Seguono da un lato i soldati che sottraggono i fanciulli alle madri di Betlemme per ucciderli, e dall’altro, gli scribi consultati per sapere dove le Scritture narrino della nascita del Messia, ma in parallelo ai soldati, increduli. Infine, nel mosaico di sinistra, i martiri innocenti, primi testimoni del Signore; in quello di destra, i Magi, che arriveranno fino a Betlemme.
Il quarto registro ritrae le due città di Gerusalemme e di Betlemme, che accolgono il gregge degli eletti, simboleggiato da sei pecore per parte.
Il catino absidale originario, che un tempo era contiguo all’arco trionfale, presentava la raffigurazione della Vergine tra santi, completando in tal modo il "programma" iconografico e teologico del ciclo musivo.
Il primo ciclo musivo, fra i più importanti cicli mariani esistenti, fu completato sotto papa Leone Magno (440-461). Sarà in parte rinnovato 850 anni più tardi con papa Niccolò IV (1288-1292), il primo pontefice proveniente dall’ordine francescano, che fin dagli inizi del suo pontificato aveva dato il via ad un grandioso progetto di rinnovamento delle principali chiese di Roma dedicate alla Vergine (Santa Maria in Aracoeli e Santa Maria in Trastevere) e che in Santa Maria Maggiore continuerà l’opera di Papa Leone Magno con il nuovo mosaico absidale.
Tale mosaico, uno dei maggiori mai realizzati a Roma, fu terminato verso il 1296, stando ad antiche letture di un’iscrizione oggi scomparsa, posta sotto la firma dell’autore – Jacobus Torriti pictor hoc mosaicum fecit – che si legge vicino alla figura di san Francesco.
Il programma iconografico è centrato sulla figura della Vergine e si articola in due zone distinte: la conca absidale, in alto, e la fascia sottostante. Nella conca dell’abside è la scena dell’Incoronazione di Maria tra santi (Giovanni Battista, Giovanni evangelista, e Antonio a destra, Pietro, Paolo e Francesco a sinistra). La scena mostra il Redentore che presenta Maria Incoronata: siamo di fronte all’atto dell’Incoronazione della Vergine, inseriti in una azzurra sfera stellata incorniciata da classicheggianti girali d’acanto. Le due figure sono disposte simmetricamente e si congiungono solo nel gesto della mano del Cristo, che incorona. Ai piedi dei troni i simboli della luna e del sole; ai lati vediamo anche i committenti, in dimensioni ridotte, Niccolò IV, a sinistra, e il cardinale Colonna, a destra. Le dimensioni diminuiscono dai santi del tempo di Gesù, ai "moderni" (Francesco e Antonio) e ai committenti contemporanei a segnarne la differenza. Siamo, comunque, nella scia della novità del mosaico di san Giovanni in Laterano, come abbiamo già visto, dove comparivano gli stessi santi francescani, in un contesto di netta impronta francescana, quale fu quella impressa da papa Niccolò IV.
Nell’ordine inferiore del catino absidale, tra le ogivali e strombate finestre gotiche, rare a Roma, cinque scene tratte dalla vita di Maria: l’Annunciazione e la Natività, a sinistra; l’Adorazione dei Magi e la Presentazione al Tempio, a destra; la Dormitio Virginis, nel mezzo; i mosaici dell’arcone raffigurano i ventiquattro seniori dell’Apocalisse ed, in alto, i simboli dei quattro evangelisti.
Si tratta di un tipo di iconografia piuttosto tradizionale, la cui origine è da ricercarsi nell'ambito della cultura figurativa del gotico francese, in particolare nella scultura delle cattedrali e nella miniatura, ma il referente diretto per il mosaico del Torriti è, in ambito romano, il ciclo eseguito da Pietro Cavallini per la chiesa di Santa Maria in Trastevere, nonostante un’incertezza di datazione (1291 o 1296-98) per quest’ultima, non permetta di chiarire univocamente la precedenza cronologica delle due opere.
Un confronto tematico tra i due cicli permette però di rilevare un’interruzione nello svolgimento "storico" della sequenza narrativa, e di affermare che, nel mosaico di Santa Maria Maggiore, lo spostamento della scena della Dormitio Virginis, di forte drammaticità narrativa, al centro della sequenza e in asse con la sovrastante scena dell’Incoronazione, sottolinea in maniera preminente la vicenda ultraterrena della Vergine. Questa sottolineatura è, ancora una volta, di ispirazione francescana. La Porziuncola è dedicata a Santa Maria degli Angeli, cioè, secondo il linguaggio medioevale, a Maria Assunta, portata dagli angeli in cielo. Le opere dei francescani San Bonaventura e Matteo d’Acquasparta evidenziano poi la regalità di Maria, la sua Assunzione in corpo e anima e, soprattutto, il legame strettissimo fra Dormitio, Assunzione, Incoronazione. Sono da notare anche il particolare della presenza di due personaggi, vestiti con saio francescano, ai piedi del letto della Vergine e la raffigurazione splendida del Cristo che prende tra le sue braccia la animula di Maria. Egli che era stato tenuto, piccolo, in braccio da lei, ora la prende, piccola, tra le sue braccia forti e buone.
Nella testata sinistra dell’arcone dell’abside si trova un mosaico con san Girolamo che spiega le Scritture alle sue discepole Paola e Eustochio; nella testata destra, san Matteo che predica agli ebrei. Questi due mosaici ricordano che proprio nella basilica di Santa Maria Maggiore la tradizione venera alcune reliquie di san Matteo e il corpo di san Girolamo, quest’ultimo sarebbe stato qui traslato da Betlemme, al tempo dell’invasione araba. In questa basilica dedicata alla Madre di Dio e all’Incarnazione del Verbo, ben riposa il corpo di San Girolamo che ha talmente amato l’Incarnazione di Cristo, da scegliere di vivere nei pressi della grotta della Natività per studiare, pregare e tradurre le Scritture. Sua è la splendida espressione lapidaria, citata dalla Dei Verbum: "Ignoratio Scripturarum, ignoratio Christi est, l’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo".
L’intera opera musiva ci dà la misura di quale fosse il livello dell’arte romana alla fine del Duecento, quando, grazie a committenze papali e cardinalizie, venne a radunarsi il meglio dell’arte internazionale e si creò un clima che può essere considerato uno dei presupposti della rivoluzione figurativa giottesca che si realizzerà, di lì a pochissimi anni, in Assisi.
In occasione dell’Anno Santo del 1600 il cardinale Domenico Pinelli "risarcì la navata di mezzo", ossia il ciclo musivo eseguito sotto Sisto III.
Il programma di "ridecorazione" prevedeva il restauro di alcuni mosaici, la sostituzione di quegli ormai irrecuperabili con affreschi, e la chiusura di venti delle quaranta finestre che si aprivano sulle pareti della navata centrale, furono decorate con affreschi raffiguranti storie del Nuovo Testamento. Vennero raffigurati ventiquattro "misteri divini" che evidenziano il ruolo di Maria nella redenzione dell’umanità.
Seguendo l’ordine logico, dall’altare maggiore verso l’ingresso a destra: Gloria angelica, I Santi Gioacchino e Anna e l’Immacolata Concezione, La nascita della Vergine (il solo affresco settecentesco di tutta la serie realizzato nel 1742 durante i restauri del Fuga), La presentazione al Tempio di Maria, lo Sposalizio della Vergine, l’Annunciazione, il Sogno di Giuseppe, la Visitazione, l’Adorazione dei Pastori, l’Adorazione dei Magi, la Circoncisione. Sulla parete d’ingresso: la Fuga in Egitto. Sull’altra parete: Gesù cresce a Nazareth, la Santa Famiglia ritorna al Tempio, le Nozze di Cana, la Caduta di Cristo sul Calvario, la Crocifissione e il Compianto, Cristo agli Inferi, la Resurrezione, l’Ascensione, la Pentecoste, la Morte di Maria (eseguito nel 1614, dopo l’apertura della cappella Paolina), l’Assunzione, l’Incoronazione di Maria.
L’iconografia dei nuovi affreschi conclude, a distanza di quindici secoli, il ciclo della Storia della Salvezza, collegandosi ai mosaici sottostanti e a quelli dell’arco trionfale.
Nella confessione sotto l’altare, il luogo più venerato della basilica, troviamo una cripta-sacello, internamente rivestita di metalli e pietre preziose, per custodire quelle che la tradizione ritiene essere le reliquie della grotta di Betlemme. Dal VII secolo si aggiunse ad esse una reliquia ritenuta della culla di Gesù, nella quale la Vergine avrebbe deposto il Signore appena nato.
La basilica di Santa Maria Maggiore custodisce tutt’oggi una antica immagine della Vergine, detta Salus Populi romani, conservata oggi nella cappella Paolina, a sinistra dell’altare centrale, costruita e decorata sotto Paolo V intorno al 1605-1615. L’icona della venerata Vergine è collocata sull’altare in una cornice d’angeli che la recano in gloria, splendendo sul fondo turchino di un cielo di lapislazzuli.
Antichissimo è il culto di questa immagine, che la tradizione vuole dipinta da san Luca evangelista. Le lettere greche che campeggiano ai lati della Vergine sono, di nuovo, l’abbreviazione del suo titolo di Madre di Dio, affermazione rovesciata e identica della divinità di Gesù.
Nella navata laterale destra, a poca distanza dall’attuale Cappella Sistina (detta anche del Sacramento), si trovava l’Oratorio del Presepe, ristrutturato e ornato di sculture di Arnolfo di Cambio (1291 ca.), dove veniva custodita un tempo la reliquia della grotta della Natività. All’interno dell’attuale Cappella Sistina poco rimane dell’antica opera arnolfiana, ma girando nell’ambulacro dietro l’altare – solo nel tempo di Natale è consentita la visita – in una nicchia si vedono i frammenti dell’antico presepio: san Giuseppe, i Re Magi, il bue e l’asinello. La figura della Vergine vi troneggia nel mezzo, ma è opera cinquecentesca. Il san Giuseppe in piedi, modesto e pensieroso ma ancora sbalordito, guarda in avanti con le mani poggiate al grosso bastone, avvolto in un’ampia tunica di sapore classicheggiante. Mirabile tra le figure dei Magi, quella del vecchio inginocchiato: implorante, come curvato dagli anni e dalla stanchezza, con grande fervore solleva il capo per implorare. Forse accompagnavano queste figure i pastori adoranti e gli angeli, di cui purtroppo non abbiamo più traccia.
Sempre nella Cappella Sistina sono conservate le spoglie del pontefice Sisto V, che la fece costruire dall’architetto Domenico Fontana perché divenisse luogo della sua sepoltura. Anche le spoglie di san Pio V, il pontefice della battaglia di Lepanto e del Rosario, riposano in questa cappella.
Fu proprio con papa Sisto V (1585-1590) e il suo piano di trasformazione e assetto urbanistico di Roma, che la basilica di Santa Maria Maggiore acquisì nuovamente grande importanza e ridiventò centro simbolico. Eletto 15 anni prima della scadenza giubilare del 1600, papa Sisto V elaborò un piano di ristrutturazione e collegamento delle basiliche, che ebbe modo di sperimentare nei due giubilei straordinari del 1585 e del 1590. In particolare dobbiamo a lui l’apertura della via che collega Santa Maria Maggiore a Santa Croce in Gerusalemme, via che si chiamò inizialmente via Felice, per il nome di battesimo del papa.
L’importanza della basilica di Santa Maria Maggiore quale nodo cruciale nel piano sistino è data innanzitutto dalla sua posizione rispetto al sistema delle basiliche, una posizione non periferica – come nel caso della basilica di San Giovanni in Laterano o di Santa Croce in Gerusalemme, che si trovano a ridosso delle mura – né eccentrica come le altre tre basiliche patriarcali disposte ai vertici di un triangolo quasi equilatero, all’esterno delle mura di Aureliano.
A ciò si aggiunge una centralità simbolica, evidenziata da una carta di Roma di quegli anni – precisamente del 1588 opera di G. F. Bordino – che sembra rappresentare, secondo moderni studi il piano urbanistico sistino, mai completamente realizzato. Tale carta ha al centro proprio la basilica di Santa Maria Maggiore. Da essa si dipartono cinque rettifili che conducono a Santa Maria del Popolo, a San Lorenzo, a Santa Croce in Gerusalemme, a San Giovanni in Laterano e alla Colonna Traiana. Il progetto simbolico della carta viene denominato dal suo autore in syderis formam, a forma di stella, a cinque punte, i cinque rettifili, stella che è anche il simbolo di Maria.


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