La questione essenziale è la seguente: È stata veramente ritrovata la tomba di san Pietro? A tale domanda la conclusione finale dei lavori e degli studi risponde con un chiarissimo "Sì". La tomba del Principe degli Apostoli è stata ritrovata.
Una seconda questione, subordinata alla prima, riguarda le reliquie del Santo. Sono state esse rinvenute? Al margine del sepolcro furono trovati resti di ossa umane, dei quali però non è possibile di provare con certezza che appartenessero alla spoglia mortale dell’Apostolo. Ciò lascia tuttavia intatta la realtà storica della tomba. La gigantesca cupola s’inarca esattamente sul sepolcro del primo Vescovo di Roma, del primo Papa; sepolcro in origine umilissimo, ma sul quale la venerazione dei secoli posteriori, con meravigliosa successione di opere, eresse il massimo tempio della Cristianità.
Con questo passaggio nel discorso di chiusura dell’Anno Santo del 1950, Pio XII annunciava al mondo la
conclusione felice di una campagna di indagine che si era protratta per tutto il decennio precedente. La storia
del ritrovamento della tomba di Pietro prende l’avvio nel 1939, quando, in seguito all’elezione di
Pio XII, vengono intrapresi nelle Grotte Vaticane i lavori per la sistemazione del sepolcro del suo predecessore
Pio XI.
Dai primi scavi era venuto alla luce qualche elemento archeologicamente interessante, che spronò Pio XII
a dare inizio all’indagine: successivamente fu portata alla luce una vera e propria necropoli, certamente
in uso fino al IV secolo d.C., quando l’imperatore Costantino livellò il sepolcreto per edificare la
basilica di San Pietro. L’area più importante di questa necropoli è un piccolo spiazzo
denominato "campo P". Esattamente in verticale, sotto l’altare maggiore dell’attuale basilica, su di
un lato di questo spiazzo, troviamo una umile tomba a terra, la tomba di Pietro.
Tutti gli interventi successivi lasciarono illesa, anzi protessero quell’umile tomba. Dagli scavi risulta
infatti che, quando intorno al 160 nella zona del Vaticano cominciarono a moltiplicarsi i mausolei sepolcrali,
l’area della tomba di Pietro venne delimitata con un muro, che fu intonacato di color rosso (ragione per
cui gli archeologi che lo hanno rimesso in luce lo hanno chiamato "il muro rosso"). Tale muro però fu
costruito, in modo da rispettare la sepoltura, attraverso una piccola nicchia. Per la precisione, nel punto
esatto della tomba, venne eretta una piccola edicola, con due colonnine, per renderla più
riconoscibile.
La più antica testimonianza letteraria della sepoltura di san Pietro al Vaticano ci è riportata
nella Storia Ecclesiastica di Eusebio di Cesarea, teologo e storico, elogiatore dell’imperatore
Costantino, che scrivendo a Cesarea Marittima, nella provincia romana detta allora di Palestina, poteva servirsi,
proprio a Cesarea, della biblioteca iniziata da Origene. Eusebio cita uno scritto di "un uomo della Chiesa di
nome Gaio, vissuto a Roma al tempo del vescovo Zefirino" (cioè tra il 199 e il 217), che si trova in
polemica con Proclo, capo della comunità montanista di Roma, il quale dovendo provare
l’autenticità delle tradizioni apostoliche dei cristiani di Roma, scrive:
Io ti posso mostrare i trofei degli apostoli. Se andrai al Vaticano o sulla via Ostiense, vi troverai i trofei dei fondatori della Chiesa.
L’edicola ritrovata dagli archeologi, prende il nome di "trofeo di Gaio" da questa testimonianza: un trofeo
(tropaion) che ricorda sì una vittoria, ma quella ultima sulla morte ottenuta attraverso il
martirio, ad indicare che i sepolcri degli apostoli sono anche e soprattutto monumento di vittoria. Per noi che
ricostruiamo la storia delle spoglie di Pietro, la testimonianza di Gaio dimostra che, intorno al 200, i
cristiani di Roma conoscevano bene l’ubicazione del suo sepolcro: era trascorso troppo poco tempo dal
martirio, perché se ne potesse perdere la memoria.
Nel 250 circa intervenne un nuovo cambiamento: l’innalzamento di un muro, detto il "muro g",
immediatamente a destra dell’edicola. Pur non essendo chiaro il motivo della costruzione, è certo
che essa entra subito in relazione con il culto di Pietro: infatti il muro fu presto ricoperto da una selva di
graffiti. Nei graffiti, nei quali ricorre continuamente il nome di Pietro, segno della venerazione e della
preghiera di intercessione a lui rivolta.
Margherita Guarducci, che ha studiato questi graffiti a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, ha saputo
individuare le chiavi per decifrare quella che definisce una "crittografia mistica", e ha così
sintetizzato i risultati delle ricerche su queste antiche iscrizioni:
Pietro è graficamente associato a Cristo, e così strettamente, che il suo nome viene a formare talvolta una sola sigla col nome del Redentore: associazione che rappresenta i legami stabiliti dai cristiani tra le due figure. L’Apostolo viene anche, più di una volta, associato a Cristo e a Maria... In alcuni casi poi il nome abbreviato di Pietro assume la figura della chiave, con evidente allusione alle simboliche chiavi affidate da Cristo al suo Vicario.
Giunsero finalmente tempi più sereni per la Chiesa: Costantino – dopo la battaglia vinta contro
Massenzio a Saxa Rubra, prima di Ponte Milvio – promulgò l’editto di Milano, con cui venne
data libertà di culto ai cristiani, ed intraprese una serie di opere destinate a celebrare la fede
cristiana. Spinto forse, anche dalla madre Elena e dal pontefice Silvestro, Costantino decise di
"monumentalizzare" ancor più l’edicola e di erigere, su di essa, una basilica.
Il monumento costantiniano della "Memoria" venne ottenuto racchiudendo l’edicola del II secolo ed il "muro
g" tra lastre di marmi preziosi, e lasciandone aperto un solo lato, perché la nicchia con le due colonnine
rimanesse visibile. Davanti vennero erette due file di colonne tortili, collegate da una cancellata per chiudere
lo spazio antistante al monumento.
Sopra questa "Memoria" Costantino intraprese la costruzione della basilica: si tratta di un fatto estremamente
importante perché offre un’ulteriore conferma della tradizione, ormai consolidata, che proprio
lì fosse situato il sepolcro di Pietrosignificativo è che la costruzione della basilica si
impattò da subito in grandissimi ostacoli di varia natura, e la precisa volontà di superarli non
può essere spiegata altro che con il motivo di voler fare della tomba il fulcro della basilica.
Anzitutto la collocazione: il colle Vaticano presentava una pendenza tale che, per creare la spianata su cui
erigere la basilica, fu necessario effettuare un ingente sbancamento da un lato, ed un altrettanto ingente
interramento dall’altro. A questo si aggiunga che la parte da interrare includeva la necropoli,
all’epoca di Costantino ancor in uso: rendere inaccessibile un’area, frequentata dai congiunti di
coloro lì sepolti, era un atto al limite del sacrilegio. È da pensare che Costantino abbia dovuto
attingere, per questo scopo, a tutti i poteri che gli derivavano dall’essere la massima
autorità.
Oltre a ciò, il progetto della basilica è anomalo perché l’orientamento della stessa
è ad occidente, anziché verso oriente, al fine di conservare l'indicazione dettata dalla "Memoria
di san Pietro", e mantenere l’edicola, che segna la tomba dell’apostolo, come il punto verso cui si
fissa subito lo sguardo di chi entra.
L’edificio basilicale esisteva già, presso i Romani, con funzioni di luogo d’incontro:
solitamente a pianta rettangolare, con l’ingresso su uno dei lati lunghi, e con più absidi. Gli
architetti di Costantino con poche modifiche integrarono questa tipologia con le particolarità richieste
dal culto: ecco l’ingresso spostarsi su un lato corto, e l’abside, divenuta unica, trovarsi sul lato
opposto. In questo modo l’attenzione di chi entra viene subito portata verso l’abside e quanto essa
racchiude.
La basilica vaticana rappresenta un’altra tappa innovativa, in quanto luogo di culto ma anche di memoria
del martirio di Pietro. Perciò l’abside, sotto il cui arco si trova il monumento celebrativo, non
può essere immediatamente a contatto con il corpo della chiesa, ma va staccato, isolato per creare
un’area di transito che facciamo ulteriormente trovare il raccoglimento necessario per rivolgere lo sguardo
alle reliquie. Nasce il transetto, che diventa da allora elemento caratteristico dell’architettura delle
chiese.
Un ulteriore cambiamento si ebbe con Papa Gregorio Magno (590-604), che fece innalzare un altare sulla
"Memoria", perché proprio sulla tomba di Pietro potesse essere celebrata l’eucaristia. Nel Medioevo,
Callisto II (1119-1124) sovrappose all’altare di Gregorio Magno un nuovo altare che lo includeva. Infine
nel 1594, durante i lunghi lavori che portarono alla scomparsa della basilica costantiniana ed alla costruzione
di quella attuale, Clemente VIII innalzò l’altare attuale, esattamente dove erano situati gli altari
precedenti. Questa successione di costruzioni trova il suo culmine nel baldacchino bronzeo, ideato dal Bernini
nel 1626, che riprende fra l’altro, nel motivo delle colonne tortili, la decorazione del monumento di
Costantino.
Possiamo concludere con le parole della Guarducci:
La basilica si trasforma nel corso dei secoli. Una sola cosa non cambia: la venerazione per l’Apostolo, che si trasmette di secolo in secolo con una impressionante continuità. Dall’altare di Clemente VIII, che funge anche ai nostri giorni da altare Papale, si giunge infatti, risalendo nel tempo, all’umile fossa del I secolo.
L’altare attuale è esattamente sulla verticale su cui si trova, più in basso, la tomba di
Pietro.
Sarà sotto papa Paolo VI, che si concluderà l’analisi delle reliquie trovate vicino alla
"Memoria" di Pietro. Paolo VI così sintetizzerà il lavoro degli studiosi:
Nuove indagini [successive a quelle di Pio XII], pazientissime ed accuratissime, furono in seguito eseguite con risultato che Noi, confortati dal giudizio di valenti e prudenti persone competenti, crediamo positivo: anche le reliquie di san Pietro sono state identificate in modo che possiamo ritenere convincente, e ne diamo lode a chi vi ha impiegato attentissimo studio e lunga e grande fatica.
Non saranno esaurite con ciò le ricerche, le verifiche, le discussioni e le polemiche.
Ma da parte Nostra Ci sembra doveroso, allo stato presente delle conclusioni archeologiche e scientifiche, di dare a voi ed alla Chiesa questo annuncio felice, obbligati come siamo ad onorare le sacre reliquie, suffragate da una seria prova della loro autenticità, le quali furono un tempo vive membra di Cristo, tempio dello Spirito Santo, destinate alla gloriosa risurrezione; e, nel caso presente, tanto più solleciti ed esultanti noi dobbiamo essere, quando abbiamo ragione di ritenere che sono stati rintracciati i pochi, ma sacrosanti resti mortali del Principe degli Apostoli, di Simone, figlio di Giona, del Pescatore chiamato Pietro da Cristo, di colui che fu eletto dal Signore a fondamento della sua Chiesa, e a cui il Signore affidò le somme chiavi del suo regno, con la missione di pascere e di riunire il suo gregge, l'umanità redenta, fino al suo finale ritorno glorioso.
Non abbiamo una testimonianza precisa che descriva il martirio
di Pietro. Tuttavia, una testimonianza letteraria dello storico Tacito, di origine
non cristiana, ci descrive il rapporto fra pagani e cristiani, negli anni dell’imperatore
Nerone, e la prima grande persecuzione contro i cristiani da lui scatenata.
Il luogo esatto indicato da Tacito in cui avvenne il martirio di tanti cristiani,
il circo neroniano che era a fianco del colle Vaticano su cui sorgerà
la basilica, lascia ritenere che sa proprio in questa persecuzione che Pietro
trovò la morte.
Nell’anno 64, nella notte tra il 18 ed il 19 luglio, si sviluppa il fuoco in alcune botteghe della zona
del Circo Massimo. L’incendio si estende dapprima al Circo e poi, aiutato dal vento fortissimo, divampa per
tutta la città e ne fa scempio per nove interi giorni. Quando si placa, Roma ha cambiato volto e grande
è la disperazione fra i superstiti. Nerone, che si trovava ad Anzio, rientra in città e si adopera
per organizzare i soccorsi ed adottare provvedimenti che impediscano il ripetersi di una simile catastrofe. Nella
sua mente prende corpo l’idea di una Roma nuova, degno centro dell’Impero, che sorgerà sulle
rovine della vecchia. Questa sensazione non sfugge al popolo, presso cui comincia a serpeggiare la voce che
l’incendio sia stato voluto da Nerone stesso per intraprendere il suo megalomane piano di ricostruzione. La
Domus Aurea, residenza imperiale neroniana sul Colle Oppio, sarà costruita proprio requisendo
terreni sui quali era divampato l’incendio. Solo i Flavi restituiranno alla popolazione romana l’uso
pubblico di Colle Oppio e, dove Nerone aveva creato un lago artificiale per i propri giardini, costruiranno il
Colosseo, sembra anche con i beni predati al Tempio di Gerusalemme. Nerone, per stornare da sé i sospetti
e per placare il malumore, trova il capro espiatorio cui addossare le colpe: il gruppo dei cristiani.
È Tacito a narrare, negli Annali, la loro morte crudele:
Tuttavia, né per umani sforzi, né per elargizioni del principe, né per cerimonie propiziatrici dei numi, perdeva credito l’infamante accusa per cui si credeva che l’incendio fosse stato comandato. Perciò, per tagliar corto alle pubbliche voci, Nerone inventò i colpevoli, e sottopose a raffinatissime pene quelli che il popolo chiamava cristiani e che venivano invisi per le loro nefandezze. Il loro nome veniva da Cristo, che sotto il regno di Tiberio era stato condotto al supplizio per ordine del procuratore Ponzio Pilato. Momentaneamente sopita, questa perniciosa superstizione proruppe di nuovo non solo in Giudea, luogo di origine di quel flagello, ma anche in Roma, dove tutto ciò che è vergognoso ed abominevole viene a confluire e trova la sua consacrazione. Per primi furono arrestati coloro che facevano aperta confessione di tale credenza, poi, su denuncia di questi, ne fu arrestata una gran moltitudine non tanto perché accusati di aver provocato l’incendio, ma perché si ritenevano accesi d’odio contro il genere umano. Quelli che andavano a morire erano anche esposti alle beffe: coperti di pelli ferine, morivano dilaniati dai cani, oppure erano crocifissi, o arsi vivi a mo’ di torce che servivano ad illuminare le tenebre quando il sole era tramontato. Nerone aveva offerto i suoi giardini per godere di tale spettacolo, mentre egli bandiva i giochi nel circo ed in veste di auriga si mescolava al popolo, o stava ritto sul cocchio. Perciò, per quanto quei supplizi fossero contro gente colpevole e che meritava tali originali tormenti, pure si generava verso di loro un senso di pietà, perché erano sacrificati non al comune vantaggio, ma alla crudeltà di un principe.
Teatro del cruento spettacolo è il Circo dell’imperatore, il Circus Gai et Neronis: è un
circo piccolo, situato all’interno degli horti che Nerone possedeva nella zona del Vaticano, campi
situati in una zona malsana, il cui ornamento principale era, per l’appunto, circo, destinato al
divertimento dell’imperatore, e forse l’unico in Roma risparmiato dalla furia delle fiamme.
Il Circo era situato dove oggi sorgono l’Arco delle Campane, la Piazza di Santa Marta e le navate di
sinistra della basilica. A metà della "spina", cioè del muretto che divideva le due parti della
pista, sorgeva l’obelisco portato da Caligola dall’Egitto, l’unico resto dell’antico
circo che possiamo ancora vedere, come lo videro i primi martiri Romani. Nel 1586 infatti, l’obelisco
sarà, spostato e trasferito dalla "spina" fino al centro dell’attuale piazza, con il colonnato del
Bernini. Gli altri resti della costruzione neroniana sono seppelliti sotto gli attuali edifici.
Sul fianco nord del Circo correva il tracciato della via Cornelia, che partiva all’altezza di Castel
Sant’Angelo e, proseguendo sull’allineamento di via della Conciliazione, saliva poi sul colle
Vaticano. Lungo la via sull’altro lato rispetto al Circo, si trovavano qua e là dei sepolcri,
alternandosi monumenti funebri ad umili fosse scavate nella terra: non era insolito nella Roma antica essere
sepolti ai margini delle vie che sono fuori delle mura.
È qui probabilmente che nell’anno 64 Pietro muore insieme agli altri cristiani, e dove anche si
compie la parola del Signore rivoltage dopo le tre domande sull’amore, ed il comando di pascere le
pecorelle del Cristo:
"In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi". Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E detto questo aggiunse: "Seguimi" (Gv 21, 18-19).
Fra le Tombe allineate lungo la via Cornelia qualcuno seppellì il corpo di Pietro in una umile tomba a
terra.
Un antica tradizione vuole che Pietro sia stato crocifisso a testa in giù per sua stessa richiesta, al
fine di dimostrare, anche nel morire, la propria indegnità rispetto al suo Signore.
Nel calendario liturgico romano la memoria dei Protomartiri Romani, celebrata il 30 giugno, segue di un giorno
la solennità dei santi Pietro e Paolo, che cade il 29 giugno. La Chiesa unisce così al martirio di
Pietro e Paolo i martiri romani, uccisi in quell’anno da Nerone, nel suo Circo per la loro testimonianza di
fede. Chiesa di Roma, unita, insieme ai suoi maestri, testimoniò fino al dono della vita la speranza
riposta nel Signore.
Per penetrare nel significato della testimonianza petrina a Roma, il Nuovo Testamento ci offre il vangelo di
Marco e le due lettere di Pietro.
L’evangelo di Marco riporta – secondo la tradizione – l’insegnamento di Pietro.
Così Giovanni Paolo II si è espresso nella lettera che accompagnava il dono del vangelo di Marco a
tutti i romani, nel corso della missione cittadina:
Questo libro che ti è stato consegnato è l’Evangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio. Lo ha scritto San Marco, riportando l’insegnamento orale dell’apostolo Pietro, di cui era "interprete nella città di Roma e discepolo fedele".
Il racconto marciano è tutto incentrato sulla risposta a quella domanda che, intensificandosi nella prima
parte del vangelo, è la decisiva sull’identità di Gesù: Chi è Costui? Al centro
del vangelo è lo stesso Gesù a porla ai suoi discepoli: Ma voi chi dite che io sia?
La risposta viene data da Pietro che confessa e testimonia: "Tu sei il Cristo" (Mc 8,29).
È la risposta della fede che, come subito dice il Signore, non viene né dalla carne né dal
sangue, ma che il Padre stesso ha rivelato a Pietro (cfr. Mt 16, 17).
La rivelazione dell’identità di Gesù non si arresta qui. Nei versetti 8, 27-9, che sono il
cuore del vangelo di Marco, Gesù rivela di essere "il Figlio dell’Uomo che doveva molto soffrire, ed
essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni,
risuscitare" (Mc 8, 31).
Nella Trasfigurazione, che segue sei giorni dopo la professione di Pietro, è Dio stesso che proclama
Gesù: "Figlio mio prediletto" (Mc 9, 7).
È in queste tre verità cristologiche – Gesù è il Cristo, Gesù è
il Figlio dell’Uomo, Gesù è il Figlio di Dio – il cuore del vangelo di Marco. Pietro le
accoglie, ne è testimone, le proclamerà.
Tale annunzio sarà ripetuto da Gesù nel Getsemani e nel processo: "Sei tu il Cristo, il Figlio di
Dio benedetto? Gesù rispose: Io lo sono!" (Mc 14, 61 insieme a Mc 14, 36.41; 15, 2.32)
Lo stesso diverrà la confessione di fede del centurione, che possiamo definire il primo "romano" giunto
alla fede, il quale appunto: "vistolo spirare in quel modo, disse: Veramente quest’uomo era Figlio di Dio"
(Mc 15, 39).
Il titolo del vangelo di Marco – "Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio" (Mc 1,1)
–ne è oltremodo la sintesi. È per la verità di questa fede e l’amore che
l’accompagna che Pietro si lascerà condurre fino a Roma e fino all’estremo dell’amore,
il donare la stessa vita. Da Gesù il Cristo, il Figlio dell’Uomo, il Figlio di Dio, Pietro riceve il
dono e il ministero di essere la "pietra" su cui tutta la chiesa sarà edificata:
Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne, né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli. E io ti dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli (Mt 16, 17-19).
L’iconografia ha scelto per raffigurare il primo degli Apostoli, a partire dalle parole del Signore appena citate, il simbolo delle chiavi. Un esegeta ha così condensato il senso delle chiavi che visualizza l’autorità di "legare" e "sciogliere":
Le espressioni "legare e sciogliere" derivano dal linguaggio rabbinico, e significano che uno ha l’autorità di dichiarare giusta o falsa una dottrina. Un secondo significato riguarda l’autorità di escludere qualcuno dalla comunità… o di accoglierlo in essa.
A Pietro viene affidato il compito di unire e confermare tutti i credenti nell’unità della fede, nel
simbolo di fede, nella verità della dottrina sulla persona di Gesù Cristo. A Pietro viene affidato
anche di essere il segno dell’accoglienza e del perdono nella Chiesa dei fratelli. Ogni Giubileo sottolinea
con il pellegrinaggio alla tomba di Pietro e alla viva cattedra del vescovo di Roma, da un lato
l’unità della fede, e dall’altro la certezza del perdono che accoglie nuovamente nella
comunità dei salvati. Le chiavi petrine spalancano sia la porta della verità che la porta del
perdono.
La prima lettera di Pietro testimonia la proclamazione della verità di Gesù in Roma. La
lettera infatti è scritta da quella città – Roma appunto – che, nel finale della
lettera (1 Pt 5,13) è indicata con lo pseudonimo di Babilonia. Con tale nome, a partire almeno
dall’anno 70, si simbolizza nella letteratura apocalittica la capitale dell’Impero romano che: ha
distrutto il Tempio di Gerusalemme nel 70 d.C., ha profanato il Luogo santo e già perseguita i
cristiani.
Entrambe le lettere attribuite a Pietro rispecchiano la sua predicazione a Roma, anche se esse dovessero essere
state scritte, dopo il suo martirio, da un discepolo (qualcuno ha fatto il nome di Silvano citato in 1 Pt 5, 12).
Vale per questi scritti ciò che il documento sulla Divina Rivelazione Dei Verbum del Concilio
Vaticano II afferma dell’origine dei vangeli:
La chiesa sempre e in ogni luogo ha ritenuto e ritiene che i quattro vangeli sono di origine apostolica. Infatti, ciò che gli apostoli per mandato di Cristo predicarono, dopo, per ispirazione dello Spirito Divino essi stessi e gli uomini della loro cerchia tramandarono a noi in scritti, come fondamento della fede, cioè il vangelo quadriforme, secondo Matteo, Marco, Luca e Giovanni.
In questo modo la Dei Verbum lascia agli studiosi il compito di determinare con che certezza l’uno o
l’altro degli scritti neotestamentari siano direttamente opera dei Dodici. La Chiesa, attraverso la Dei
Verbum, si preoccupa piuttosto di sottolineare che gli scritti del Nuovo Testamento sono espressione della
fede della Chiesa primitiva, saldamente presieduta dagli apostoli. Gli scritti in essa prodotti rispecchiano
perciò, fedelmente, ciò che gli Apostoli testimoniarono, dato che, sotto l’autorità
della loro tradizione e sotto l’assistenza dello Spirito Santo, i singoli libri e le singole lettere furono
scritti.
Le due lettere rispecchiano l’ambiente tipicamente romano anche nella loro attenzione alle conseguenze
pratiche della fede cristiana, nell’espressione di una mentalità che esprime "una concretezza
sorprendente, senza sogni, né illusioni", come ha scritto il gesuita padre Vanni.
La prima lettera di Pietro, nel suo indirizzo "Pietro, apostolo di Gesù Cristo, ai fedeli dispersi nel
Ponto, nella Galazia, nella Cappadocia, nell’Asia e nella Bitinia"
si dichiara rivolta alle Chiese dell’Asia minore, e indica retrospettivamente il cammino fatto
dall’apostolo Pietro come evangelizzatore, prima di giungere a Roma.
L’autore ha costantemente presenti due poli. Da un lato il fatto che il cristiano che ha accolto la fede
di Pietro e della Chiesa è già stato rigenerato ad una vita nuova, è già partecipe
della resurrezione di Cristo, ha già un’eredità conservata nei cieli. È per questo
che, come si esprime la lettera: "Siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere afflitti da un po’ di
prove...perciò esultate di gioia indicibile, mentre conseguite la meta della vostra fede, ossia la
salvezza delle anime" (1 Pt 1, 6-9).
Dall’altro lato il fatto che è sempre presente il rischio di tornare al paganesimo, da poco
abbandonato, nella consapevolezza dell’ostilità dei non cristiani. L’autore prevede un
aggravarsi della persecuzione: "Carissimi, non siate sorpresi per l’incendio di persecuzione che si
è acceso in mezzo a voi per provarvi, come se vi accadesse qualcosa di strano" (1 Pt 4, 12).
Pietro è ben cosciente che l’ostilità verso il cristianesimo non è un fatto
accidentale ma, secondo la parola del Signore Gesù, accompagnerà il cammino della fede dei
discepoli che vivono la sequela di Cristo, Figlio dell’Uomo rigettato e crocifisso. Questo essere presi e
consegnati a re e governatori, a causa del nome del Figlio dell’Uomo, darà occasione di rendere
testimonianza (cfr. Lc 21,13).
Tutto è posto dalla lettera in quest’ottica di testimonianza, la stessa sofferenza derivante dalla
persecuzione, come ogni situazione di vita (la famiglia, gli schiavi, il rapporto con le pubbliche
autorità, l’obbedienza nella comunità). I cristiani, nel loro insieme, formano un "sacerdozio
santo" che offre sacrifici spirituali, cioè la propria vita a Dio diventando così "il popolo che
Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di Lui che vi ha chiamato dalle tenebre
alla sua ammirabile luce" (1 Pt 2, 9-10).
I cristiani debbono essere
"sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi" (1Pt 3,15),
invitati, da un lato, a distinguersi dagli altri nella novità della condotta di vita, dall’altro, a
mostrare come la vita cristiana non sia il rifiuto dell’umana convivenza, al contrario di quanto insinuino
gli oppositori del cristianesimo. Per questo la stessa lettera proclama: "Onorate tutti, amate i vostri fratelli,
temete Dio, onorate il re" (1 Pt 2, 17).
Nel saluto finale, oltre alla presenza di Silvano è da notare la menzione di Marco, probabilmente
l’evangelista Marco, chiamato "mio figlio" nell’affetto che lo unisce come discepolo al suo maestro
Pietro.
La seconda lettera di Pietro è indirizzata, a differenza della prima, a tutti i cristiani, "a
coloro che hanno ricevuto in sorte con noi la stessa preziosa fede" (2 Pt 1, 1), segno che l’esperienza di
fede petrina ha valore paradigmatico per le altre chiese.
Paolo è chiamato "nostro carissimo fratello" e, di lui, si dice abbia scritto che la magnanimità
del Signore nostro va giudicata come salvezza (2 Pt 3, 15): incontriamo di nuovo l’annuncio che giustifica
l’invito giubilare ad accostarsi alla porta aperta dalle chiavi della misericordia di Dio.
La Chiesa di Roma si confronta, nella lettera, con tre ordini di problemi: con il rischio di interpretare la
figura di Cristo in chiave mitica; con l’esigenza legittima di una conoscenza colta e intellettuale del
cristianesimo, seppur potendo decadere in interpretazioni soggettive; infine con la delusione di alcuni per il
rinvio della seconda venuta di Cristo, attesa come imminente ma sempre rimandata.
Nel primo capitolo la lettera afferma la grazia ricevuta dai cristiani, divenuti "partecipi della natura divina"
(2 Pt 1, 4). Sapendo che presto dovrà lasciare la tenda della sua vita terrena (cfr. 2 Pt 1, 14) Pietro
continua a ricordare che
non per essere andati dietro a favole artificiosamente inventate, vi abbiamo fatto conoscere la potenza e la venuta del Signore nostro Gesù Cristo, ma perché siamo stati testimoni oculari della Sua grandezza. Egli ricevette infatti onore e gloria da Dio Padre quando dalla Maestosa Gloria Gli fu rivolta questa voce: Questi è il Figlio mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto. Questa voce noi l’abbiamo udita scendere dal cielo mentre eravamo con Lui sul santo monte (2 Pt 1, 16-18).
Forte è il richiamo a leggere le Scritture nello Spirito Santo e nella tradizione della Chiesa:
nessuna scrittura profetica va soggetta a privata interpretazione, poiché non da volontà umana fu recata mai una profezia, ma mossi dallo Spirito Santo parlarono quegli uomini da parte di Dio (2 Pt 1, 20).
Nel secondo capitolo la lettera affronta i falsi dottori che soggettivizzano il cristianesimo, che "stimano
felicità il piacere d’un giorno" (2Pt 2,13) e tornano alla schiavitù da cui Cristo li ha
liberati come una scrofa lavata che è tornata ad avvoltolarsi nel brago (cfr. 2 Pt 2, 22).
Nel terzo capitolo, infine, la lettera aiuta a leggere l’attesa del ritorno di Cristo come manifestazione
della pazienza usata da Dio "verso di voi, non volendo che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi"
(2 Pt 3,9).
Da qui deriva l’opposizione contro coloro che a discredito del cristianesimo dicono:
"Dov’è la promessa della Sua venuta? Dal giorno in cui i nostri padri chiusero gli occhi tutto
rimane come al principio della creazione" (2 Pt 3 ,4).
La verità della fede di Pietro diviene, per la Chiesa di Roma e per tutti i cristiani, il motivo della
fiducia nella pazienza di Dio e nella sua misericordia.
La tradizione successiva, illuminata dallo Spirito Santo, porterà ad approfondire sempre più e
meglio il mistero della comunione con la Chiesa di Roma ed il suo vescovo. Citiamo solo il passo di Ireneo,
vescovo di Lione in Gallia nella seconda metà del II secolo, che scrisse nel suo Contro le eresie:
Dunque la Tradizione degli apostoli, manifestata in tutto quanto il mondo, possono vederla in ogni Chiesa tutti coloro che vogliono vedere la Verità e noi possiamo enumerare i vescovi stabiliti dagli apostoli nelle Chiese e i loro successori fino a noi...Ma poiché sarebbe troppo lungo in quest’opera enumerare le successioni di tutte le Chiese, prenderemo la Chiesa grandissima e antichissima e a tutti nota, la Chiesa fondata e stabilita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo. Mostrando la Tradizione ricevuta dagli Apostoli e la fede annunciata agli uomini che giunge fino a noi attraverso le successioni dei vescovi confondiamo tutti coloro che, in qualunque modo, o per infatuazione, o per vanagloria o per cecità o per errore di pensiero, si riuniscono oltre ciò che è giusto. Infatti con questa Chiesa, in ragione della sua origine più eccellente, deve necessariamente essere d’accordo ogni Chiesa, cioè i fedeli che vengono da ogni parte – essa nella quale per tutti gli uomini sempre è stata conservata la Tradizione che viene dagli Apostoli.
Ogni pellegrino che giunge alla basilica di San Pietro professa, sulla tomba dell’apostolo, la fede col Simbolo detto dagli Apostoli che recita:
Io credo in Dio Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra e in Gesù Cristo, suo unico Figlio, nostro Signore, il quale fu concepito di Spirito Santo, nacque da Maria Vergine, patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto, discese agli Inferi. Il terzo giorno risuscitò da morte, salì al cielo, siede alla destra di Dio Padre onnipotente, di là verrà a giudicare i vivi e i morti. Credo nello Spirito Santo, la santa Chiesa Cattolica, la comunione dei santi, la remissione dei peccati, la resurrezione della carne, la vita eterna. Amen.
Questa professione di fede è detta dagli Apostoli in memoria della tradizione, che vuole che ognuno di
loro, prima di separarsi dagli altri per andare ad evangelizzare il mondo, abbia scritto uno dei dodici articoli
che compongono il simbolo. Tale consuetudine fa visualizzare in una immagine che la fede di ogni cristiano
è sì propria, personale, ma è anche la fede della Chiesa intera. Molti simboli di fede
antichi cominciano non con l’espressione a cui siamo abituati – "io credo" – bensì con
"noi crediamo": è la fede della Chiesa intera che viene proclamata in ogni professione di fede.
Le disposizioni per il Giubileo chiedono di "dire la professione di fede in qualsiasi legittima forma", o di
esprimere
"la testimonianza di comunione con la Chiesa, manifestata con la preghiera secondo le intenzioni del Romano
Pontefice".
Nel ricevere il Simbolo di fede da Pietro e dagli Apostoli, dal Papa e dalla Chiesa, e nel proclamarlo dinanzi
al mondo, ogni cristiano esprime la comunione, che è amore radicato nella verità: in tale amore e
in tale verità egli prega per le intenzioni del Papa, dopo aver pronunciato la professione di fede.
Così Paolo VI ha espresso la coscienza che la Chiesa di Roma sia madre; e la fede sia generata dalla
testimonianza petrina:
La voce di Pietro è generatrice della fede; come essa apporta il primo annuncio del vangelo, così ne difende il senso genuino, l’interpretazione, ne guida l’accoglienza dei fedeli, ne denuncia le deformazioni.
In un discorso pronunciato nel 1978, poco prima della sua morte, si espresse così:
Il nostro ufficio è quello stesso di Pietro. È l’ufficio di servire la verità della fede. Ecco l’intento vigile assillante che ci ha mossi in questi 15 anni di pontificato. "Fidem servavi" (Ho conservato la fede), possiamo dire oggi con l’umile e ferma coscienza di non aver mai tradito il "santo vero" (A.Manzoni).
A sostenere la fede di Pietro, a illuminarla nella verità è lo stesso Signore Gesù. Sempre
con le parole di Papa Paolo VI: "La devozione a San Pietro ci fa incontrare il pensiero di Gesù".
Il servizio della verità risplende in tutto il magistero di Giovanni Paolo II. Nell’introdurre e
presentare il nuovo Catechismo della Chiesa Cattolica il Papa così scrisse nel 1992:
Custodire il deposito della fede è la missione che il Signore ha affidato alla Sua Chiesa e che essa compie in ogni tempo. Il Concilio Ecumenico Vaticano II aveva come intenzione e come finalità di mettere in luce la missione apostolica e pastorale della Chiesa, facendo risplendere la verità del vangelo, a cercare e ad accogliere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza (cfr. Ef 3,19)… Al Concilio il Papa Giovanni XXIII aveva assegnato come compito principale di meglio custodire e presentare il prezioso deposito della dottrina cristiana, per renderlo più accessibile ai fedeli di Cristo e a tutti gli uomini di buona volontà. Pertanto il Concilio non doveva per prima cosa condannare gli errori dell’epoca, ma innanzitutto impegnarsi a mostrare serenamente la forza e la bellezza della dottrina della fede…Come non ringraziare di tutto cuore il Signore in questo giorno in cui possiamo offrire a tutta la Chiesa questo "testo di riferimento" per una catechesi rinnovata alle sorgenti della fede!… L’approvazione e la promulgazione del "Catechismo della Chiesa Cattolica" costituiscono un servizio che il successore di Pietro vuole rendere alla Santa Chiesa Cattolica: il servizio cioè di sostenere e confermare la fede di tutti i discepoli del Signore Gesù (cfr. Lc 22,32).
Il Giubileo sottolinea che la verità di Dio è la Sua misericordia rivelata in Cristo, che è la nostra indulgenza. Le prime due encicliche di Giovanni Paolo II, Redemptor hominis e Dives in misericordia, orientate fin dall’inizio al Giubileo dell’Anno 2000, appaiono quasi come un dittico, la prima in riferimento alla verità della fede, la seconda alla misericordia della fede. Così si esprime la Dives in misericordia:
Seguendo la dottrina del concilio Vaticano II e aderendo alle particolari necessità dei tempi in cui viviamo, ho dedicato l’enciclica Redemptor hominis alla verità intorno all’uomo, che nella sua pienezza e profondità ci viene rivelata in Cristo. Un’esigenza di non minore importanza mi spinge a scoprire nello stesso Cristo ancora una volta il volto del Padre che è "misericordioso e Dio di ogni consolazione" (2 Cor 1, 3).
Nell’enciclica il Papa evidenzia come la misericordia di Dio che dà gioia, è espressione del Suo sguardo sulla verità dell’uomo:
Appunto perché esiste il peccato nel mondo, che "Dio ha tanto amato… da dare il suo Figlio unigenito" (Gv 3, 16), Dio che "è amore" (1 Gv 4, 8) non può rivelarsi altrimenti che come misericordia. Questa corrisponde non soltanto alla più profonda verità di quell’amore che è Dio, ma anche a tutta l’interiore verità dell’uomo e del mondo che è la Sua patria temporanea. La misericordia in se stessa, come perfezione di Dio infinito, è anche infinita. Infinita, quindi, e inesauribile è la prontezza del Padre nell’accogliere i figli prodighi che tornano alla Sua casa. Sono infinite la prontezza e la forza di perdono che scaturiscono continuamente dal mirabile valore del sacrificio del Figlio. Nessun peccato umano prevale su questa forza e nemmeno la limita… Pertanto la Chiesa professa e proclama la conversione.
È dinanzi a questa misericordia vera che la Chiesa può chiedere perdono dei suoi peccati e, con
Pietro, piangere i suoi tradimenti.
Come ha detto Giovanni Paolo II: "Non dobbiamo temere la verità su noi stessi. Pietro ne prese coscienza
un giorno e disse a Gesù: "Signore allontanati da me che sono un peccatore",
e nella Tertio Millennio Adveniente:
la gioia di ogni Giubileo è in particolar modo una gioia per la remissione delle colpe, la gioia della conversione…È giusto pertanto che, mentre il secondo Millennio del cristianesimo volge al termine, la Chiesa si faccia carico con più viva consapevolezza del peccato dei suoi figli nel ricordo di tutte quelle circostanze in cui, nell’arco della storia, essi si sono allontanati dallo Spirito di Cristo e del suo Vangelo, offrendo al mondo, anziché la testimonianza di una vita ispirata ai valori della fede, lo spettacolo di modi di pensare e di agire che erano vere forme di antitestimonianza e di scandalo. La Chiesa, pur essendo santa per la sua incorporazione a Cristo, non si stanca di fare penitenza: essa riconosce sempre come propri, davanti a Dio e agli uomini, i figli peccatori.
Pietro e la Chiesa perdonati ricevono il comando di "sciogliere" il peccato, di rimettere la colpa, di perdonare,
di riammettere alla comunione con Dio. Dice ancora la Dives in misericordia:
Cristo sottolinea con tanta insistenza la necessità di perdonare gli altri che a Pietro, il quale gli
aveva chiesto quante volte avrebbe dovuto perdonare il prossimo, indicò la cifra simbolica di "settanta
volte sette" (Mt 18, 22), volendo dire, con questo, che avrebbe dovuto saper perdonare a ciascuno e ogni
volta.
Il pellegrinaggio a San Pietro si caratterizza allora, oltre che per la confessione di fede, anche per la
confessione del peccato e della misericordia di Dio: celebrare la confessione sacramentale dunque è andare
al cuore della spiritualità giubilare, è espressione della fede nel Dio ricco di misericordia.
L’ingresso alla Basilica è preceduto dal colonnato del Bernini, la penultima opera che fu commissionata al Bernini per la "fabbrica" di San Pietro, ed anche la più impegnativa in quanto si dovettero risolvere difficilissimi problemi di calcolo, per tenere conto degli edifici che le preesistevano, dalla facciata del Maderno ai Palazzi Vaticani. Alla sinistra del colonnato, si impone soprattutto, come ha scritto P.Portoghesi, per
il diretto, felice riferimento allegorico, al gesto accogliente delle braccia, che dà a quest’immagine un’apertura comunicativa, costituendo la testimonianza maggiore delle qualità di Bernini come architetto, rivelando una profonda adesione di fede agli ideali rappresentati, che dà un valore di interiorità alla sua grande abilità.
La forma ellittica esprime, così, l’abbraccio della Chiesa a tutti coloro che si riuniscono in
piazza San Pietro e, idealmente, l’abbraccio benedicente al mondo, per cui essa sa di esistere.
La scalinata ci conduce fino all’atrio. Esso fa parte dell’allungamento della basilica,
commissionato al Maderno nel 1605, che sconvolse l’originario progetto di Michelangelo, ossia una Chiesa a
croce greca, con una cupola ben visibile. Ora la facciata del Maderno nasconde ora parzialmente la cupola,
spezzando così l’unità dell’edificio.
Sotto l’atrio vediamo le cinque porte, che danno l’ingresso alla basilica. Quella di destra è
la Porta Santa.
La notte di Natale, il Giubileo dell’Anno 2000 avrà inizio ufficialmente, con la cerimonia di
apertura della Porta Santa di San Pietro, nei secoli la prima ad essere aperta.
Così ha scritto Giovanni Paolo II nella Tertio Millennio Adveniente, collegando il tema della
porta, al tema della "purificazione della memoria":
La porta santa del Giubileo del 2000 dovrà essere simbolicamente più grande delle precedenti, perché l’umanità, giunta a quel traguardo, si lascerà alle spalle non soltanto un secolo, ma un millennio. È bene che la Chiesa imbocchi questo passaggio con la chiara coscienza di ciò che ha vissuto nel corso degli ultimi dieci secoli. Essa non può varcare la soglia del nuovo millennio senza spingere i suoi figli a purificarsi, nel pentimento, da errori, infedeltà, incoerenze, ritardi. Riconoscere i cedimenti di ieri è atto di lealtà e di coraggio che ci aiuta a rafforzare la nostra fede, rendendoci avvertiti e pronti ad affrontare le tentazioni e le difficoltà dell’oggi.
La porta è opera moderna così come tutte le altre, ad esclusione di quella centrale. Infissa alla
sua sinistra possiamo vedere una riproduzione della Bolla con la quale Bonifacio VIII indisse il primo Giubileo,
quello del 1300.
La porta centrale apparteneva all’antica basilica e che fu demolita per dare vita al progetto
michelangiolesco: imposte in bronzo, eseguite dal Filarete tra il 1439 e il 1445. L’iconografia della porta
si divide in tre registri. In alto a sinistra abbiamo il Cristo Salvatore, benedicente e, a destra, la Vergine.
Al centro le due figure imponenti di Paolo – a sinistra – con la spada ed un vaso pieno di fiori ai
suoi piedi, perché egli fu "vaso di elezione", e di Pietro – alla destra – che consegna a Papa
Eugenio IV, committente della porta, le chiavi "che aprono e chiudono". Nell’ultimo registro vediamo la
rappresentazione del martirio dei due apostoli, decretata dall’imperatore Nerone raffigurato in trono. A
sinistra il martirio di Paolo, che attende il colpo con cui sarà decapitato, e che appare poi da una
nuvola per restituire a Plautilla – come dice la tradizione – il velo che gli aveva pietosamente
donato per bendarsi gli occhi, prima della decapitazione. A destra quello di Pietro, che viene accompagnato al
Vaticano, per la crocifissione a testa in giù.
All’estrema sinistra abbiamo la Porta del Giudizio (perchè di qui escono i cortei funebri dei
Pontefici), detta anche Porta della Morte, opera del 1964 di Giacomo Manzù, forse la più
bella delle cinque.
Tale porta fu voluta da Giovanni XXIII e commissionata allo scultore suo conterraneo, che la dedicò a don
Giuseppe De Luca. La parte anteriore ha quattro registri. Nel primo, il più grande, in alto vediamo la
morte di Cristo, deposto dalla croce e Maria che, appena spirata, viene trasportata col corpo in cielo, per non
conoscere la corruzione del sepolcro. Al secondo livello vediamo, in alto rilievo, un tralcio di vite e delle
spighe recise, dalla cui morte otteniamo il pane e il vino, le realtà terrene che consacrate divengono
l’eucarestia, il cibo che da la vita eterna. Nel terzo registro ammiriamo varie facce del morire: la morte
violenta di Abele innocente, e quella serena di Giuseppe, il giusto; la morte di Pietro, primo Papa, nel suo
martirio, e la morte santa in preghiera di Giovanni XXIII (in un angolo, leggiamo il titolo della sua enciclica
Pacem in terris); la morte crudele del primo martire, e quella amare dell’esule Gregorio VII; la
morte che dona angoscia a chi la subisce e che arreca dolore a chi vuol bene, raffigurata da una madre. In basso
– meritano di essere notati – sono raffigurati anche sei animali, anch’essi ghermiti dalla
morte, insieme alla "creazione che geme e attende la rivelazione dei figli di Dio". Nella parte interna, meno
istoriata, troviamo l’impronta della mano dell’artista e due scene che si riferiscono al Concilio
Vaticano II – tenuto proprio all’interno della Basilica – con il primo cardinale africano,
Rugambwa, che rende omaggio al papa.
Contemplare questa porta è un modo per prepararsi a professare la fede nella resurrezione dei morti e
della loro carne all’interno della basilica.
Nel portico, di fronte all’ingresso centrale, si trova il monumentale mosaico della Navicella. Esso
è il rifacimento seicentesco dell’originale di Giotto, andato perduto, che era posto sulla facciata
interna del grande quadriportico antistante la Basilica costantiniana: essendo orientato verso la facciata della
chiesa, i fedeli, dopo essere entrati nell’atrio, si dovevano voltare per ammirarlo.
Il rifacimento ci trasmette l’iconografia ed il carattere grandioso della composizione. Il Cristo è
presentato di fronte, in modo arcaico, ma la sua posa non ha più – come negli equivalenti bizantini
– un valore astratto, senza definizione spaziale; al contrario è solido, per costituire punto
d’appiglio per Pietro.
Dell’originale giottesco è conservato, nelle Grotte Vaticane, un medaglione che rappresenta un
angelo. Contro il fondo blu, l’angelo appare con una forza spontanea, delicata ma anche vivamente
espressiva, che ritrova il tono soave e la tenerezza di certi dipinti paleocristiani e dei primi mosaici di
Ravenna. Alla diffusa severità di questi tuttavia segno di una visione radicalmente trascendente,
l'artista sostituisce un accento individuale ed umano.
È certo che Giotto fu presente a Roma, in occasione del giubileo del 1300, ma, secondo molti, il mosaico
gli fu commissionato dopo la partenza dei papi dalla città. La scelta dell’iconografia dunque,
voleva evocare, in questa scena, il cammino tempestoso della Chiesa e la sua salvezza nel continuo rivolgersi a
Cristo.
Possiamo ricordare dinanzi a questo mosaico la figura di Santa Caterina da Siena, proclamata il 3 ottobre 1999
da Giovanni Paolo II compatrona d’Europa. In obbedienza al Papa Urbano VI era venuta ad abitare a Roma nel
1378, per aiutarlo a resistere alle spinte che volevano il Papato ad Avignone. Prima di recarsi ogni mattino a
pregare sulla "fenestrella" che guardava sulla tomba di Pietro, sostava in preghiera, secondo la tradizione,
proprio davanti al mosaico giottesco, per pregare per la Chiesa e il Papa in difficoltà. Caterina
morì in Roma, il 29 aprile 1380. Ora il corpo della santa riposa nella basilica di santa Maria sopra
Minerva, in Roma.
Per chi, oggi, visita la basilica di San Pietro, è significativo venire accolti, così come i
pellegrini dei primi giubilei, da questo mosaico che ci introduce subito al gioco dei continui rimandi fra Pietro
e Cristo: è Pietro la figura apostolica che campeggia, ma perché in relazione a Cristo; è
Pietro il primo degli apostoli, ma attinge la sua forza solo in Cristo, unico saldo appiglio, nelle
difficoltà.
Una volta all’interno, la prima suggestione che cogliamo è di poter contemplare, attraverso
l’arte, il grande mistero giubilare dell’Incarnazione: la basilica ci offre l’esempio della
Pietà di Michelangelo, la prima delle tre da lui realizzate. La scolpì giovanissimo, ancora
ventitreenne, nel 1498. Il corpo del Cristo nudo visualizza la concretezza dell’Incarnazione e della morte
del Cristo. Così si è espresso, recentemente, J. Vanier: "Guardando la Pietà, si sente il
peso del corpo".
Veramente il Figlio ha preso la carne della nostra carne, l’ha assunta fino alla debolezza del morire, per
condurla a resurrezione.
L’altra figura della Pietà è quella di Maria, in una iconografia inusuale, più
giovane del Suo stesso Figlio. Il Condivi – biografo del Buonarroti – ci tramanda queste parole dello
scultore, in risposta alla domanda sulla giovane età della Vergine della Pietà:
Non sai tu che le donne caste molto più fresche si mantengono che le non caste? Anzi ti vo dir di più, che tal freschezza e fior di gioventù, oltre che per natural via in lei si mantenesse, è anco credibile che per divin’opera fosse aiutato a comprobare al mondo la verginità e purità perpetua della Madre.
Maria è, come la disse Dante, la "Vergine Madre, figlia del tuo Figlio", la sempre giovane, e sempre
Vergine, e sempre Immacolata, perché generata dall’amore stesso del Cristo. L’opera è
firmata da Michelangelo; possiamo leggerne la firma sulla fascia che attraversa, in diagonale, il petto della
Vergine: Michael Angelus Bonarotus Florent(inus) faciebat".
La navata centrale, nella quale sono collocate statue dei fondatori e delle fondatrici di ordini
religiosi, ci rimanda al Concilio Vaticano II (1962-65), che proprio qui vide svolgersi i suoi lavori.
In occasione del Giubileo dell’Anno 2000 è certamente necessario tornare a rileggere la
costituzione dogmatica Dei Verbum, nella quale la Chiesa torna ad annunciare il dono più grande
fatto da Dio all’umanità, la comunicazione personale di se stesso:
Piacque a Dio, nella sua bontà e sapienza, rivelare se stesso e far conoscere il mistero della sua volontà (Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura (Ef 2, 18; 2 Pt 1.4).
È questa la grande gioia data agli uomini. È da questa verità che la Chiesa trae vita e
"nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto, perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò
che essa è, tutto ciò che essa crede".
È proprio a partire da questo annuncio, ricevuto e da trasmettere, che, come Paolo VI disse
nell’omelia dell’ultima sessione del Concilio:
la Chiesa del Concilio, sì, si è assai occupata, oltre che di se stessa e del rapporto che a Dio
la unisce, dell’uomo quale oggi in realtà si presenta – l’uomo vivo, l’uomo tutto
occupato di sé, l’uomo che si fa non soltanto centro d’ogni interesse – ma osa dirsi
principio e ragione di ogni realtà. Tutto l’uomo fenomenico, cioè rivestito degli abiti delle
sue innumerevoli apparenze, si è quasi drizzato davanti al consesso dei Padri conciliari, essi pure
uomini, tutti Pastori e fratelli, attenti perciò e amorosi: l’uomo tragico dei suoi propri drammi,
l’uomo superuomo di ieri e di oggi e perciò sempre fragile e falso, egoista e feroce; poi
l’uomo infelice di sé, che ride e che piange; l’uomo versatile pronto a recitare qualsiasi
parte, e l’uomo rigido cultore della sola realtà scientifica. E l’uomo com’è, che
pensa, che ama, che lavora, che sempre attende qualcosa, il filius accrescens (Gen 49, 22); e l’uomo
sacro per l’innocenza della sua infanzia, per il mistero della sua povertà, per la pietà del
suo dolore; l’uomo individuale e l’uomo sociale; l’uomo laudator temporis acti e
l’uomo sognatore dell’avvenire; l’uomo peccatore e l’uomo santo; e così via.
L’umanesimo laico profano alla fine è apparso nella terribile statura, ed ha, in un certo senso,
sfidato il Concilio. La religione del Dio che si è fatto uomo s’è incontrata con la religione
(perché tale è) dell’uomo che si fa Dio. Che cosa è avvenuto? Uno scontro, una lotta,
un anatema? Poteva essere; ma non è avvenuto. L’antica storia del Samaritano è stata il
paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei
bisogni umani (e tanto maggiori sono, quanto più grande si fa il figlio della terra) ha assorbito
l’attenzione del nostro Sinodo. Dategli merito almeno in questo, voi umanisti moderni, rinunciatari alla
trascendenza delle cose supreme, e riconoscerete il nostro nuovo umanesimo: anche noi, noi più di tutti,
siamo i cultori dell’uomo.
Nella navata si trova la statua bronzea di San Pietro, certamente una delle immagini iconografiche
più note dell’apostolo, la cui vetustà è visibile a tutti, nel particolare
conosciutissimo del piede consumato dalla devozione dei fedeli.
L’immagine esercita da sempre un enorme fascino: l’Apostolo è severo ed amichevole, pastore e
re insieme, seduto e fermamente appoggiato su una gamba, ma al tempo stesso pronto a sollevarsi sull’altra,
in segno di dolce protezione. La fissità non è più quella distante dell’icona
medievale, ma è profondamente legata alla tensione interna dell’immagine. C’è
un’energia che affiora sotto la durezza del bronzo: il braccio destro si solleva solennemente, mentre
l’altro braccio stringe le chiavi con estrema fermezza. Forse meno noto è che la storia critica
dell’opera è assai tormentata, e, a tutt’oggi, non ha ancora chiarito in modo soddisfacente,
la questione determinante della datazione dell’opera.
Due ipotesi restano a dividere gli studiosi: la prima è quella di un’origine tardo-antica (IV-VI
sec.); la seconda di un’esecuzione di età gotica, databile intorno al XIII secolo.
La prima ipotesi ha, dalla sua, le fonti, in particolare quelle attestanti l’esistenza di una statua
bronzea venerata dall’antichità, nell’oratorio di S.Martino, una costruzione adiacente la
basilica costantiniana, che fu demolita nel 1457.
L’ipotesi invece favorevole al basso Medioevo, è basata (e da taluni avversata) su osservazioni di
carattere stilistico e tecnico: fra gli altri sono importanti gli studi sull’analisi del bronzo, che
individuano una tecnica di modellazione su cera. L’ipotesi tardoduecentesca giunge così ad
attribuire l’opera ad Arnolfo di Cambio, o almeno alla sua bottega. In questo senso la presenza di elementi
iconografici e stilistici di gusto tardo antico, anziché contraddire, rafforza la tesi, in quanto
l’uso di modelli arcaici il richiamo talvolta alla scultura etrusca, sono caratteristiche consuete
nell’opera di Arnolfo. Certi particolari, come i riccioli della capigliatura e della barba detti "a
lumaca", si ritrovano pressoché identici in opere arnolfiane autografe, tanto che il carattere meno
personale dell’opera potrebbe essere attribuito al desiderio di tenere a riferimento, come modello, un
archetipo classico quale la statua in marmo di San Pietro, posta nel 1974 all’ingresso delle Grotte
Vaticane.
Se ora ci portiamo al di sotto della cupola, ci troviamo nel fulcro della basilica, l’altare centrale
detto della Confessione, che sorge esattamente sulla verticale della tomba di Pietro. Confessione
significa testimonianza, professione di fede. È l’altare che sorge sulla professione di fede di
Pietro, resa a Cesarea di Filippo, resa a Roma, con la stessa vita.
È Urbano VIII che, nel 1624, incarica il Bernini di erigere un grande tabernacolo sopra questo altare il
progetto costituisce, per il giovane artista, il primo incarico nella Basilica. Il Bernini impiega nove anni per
portarlo a compimento: l’inaugurazione avviene il 29 giugno del 1633.
I precedenti a cui poteva ispirarsi erano principalmente tre: il ciborio, elemento architettonico sorretto da
colonne; il baldacchino sospeso dall’alto; il baldacchino processionale, mobile, sostenuto da aste.
Bernini sceglie una forma completamente nuova, nella quale tuttavia si inseriscono i richiami a queste
tipologie. La struttura è segnata da una forte continuità ideologica con la Memoria Sancti
Petri, non solo per la collocazione che ribadisce la sovrapposizione degli strati sottostanti e marca il
luogo dove Pietro fu sepolto, ma anche per il particolare uso delle colonne tortili che richiamano quelle
cosiddette "vitinee" della basilica costantiniana, ricevute in dono da Costantino. Di queste ultime, otto sono
visibili nelle logge ricavate all’interno di ciascuno dei quattro grandi pilastri centrali, e furono
sistemate dallo stesso Bernini.
Il risultato finale costituisce uno degli elementi qualificanti della Basilica: una tale illusione di leggerezza
fa sembrare incredibile la quantità di bronzo impiegata nell’opera. M.Calvesi ha così
commentato l’originalità della scultura:
Il Bernini che, fino ad allora, aveva lavorato come scultore, dovette affrontare un problema architettonico di estrema delicatezza e lo risolse con un colpo di genio rivoluzionario. Egli doveva introdurre una massa smisurata nel cuore della basilica; doveva competere con Michelangelo e trovare un’armonia nell’immensità titanica del tempio; infine doveva evitare che l’ingombro della nuova costruzione distruggesse l’unità e compromettesse la visibilità di tutta la zona absidale. Se Bernini avesse tentato di inserire la sua opera in un rapporto conforme ai canoni dello spazio di Michelangelo, avrebbe fallito. Il suo genio fu di escludere questo rapporto. Al ciborio e al tabernacolo tradizionali, strutture architettoniche fisse, egli sostituisce l’idea di un baldacchino concepito come se fosse fatto di legno o di stoffa, cioè come un elemento trasportabile e mobile. Questo grande dispositivo non è eretto, ma posato sulla tomba dell’Apostolo; ha l’aria di essere stato trasportato a braccia e lasciato lì al termine di un’immaginaria processione. Si ha quasi l’impressione che sia stato fatto scendere dall’alto.
Il baldacchino cela i simboli dei sacramenti del battesimo e dell’eucarestia.
I quattro basamenti di marmo sono l’unico elemento dell’intero complesso a non essere fuso in
bronzo, e sulle loro facciate esterne possiamo vedere le fasi di un parto: sette volti di donna che esprimono la
progressione delle doglie, con il grembo che si gonfia e, infine si sgonfia, fino all’ultima figura che
rappresenta il bambino appena nato, sorridente.
Il senso di questa audace sequenza "cinematografica" degli ultimi momenti di un parto è il nostro "venire
alla luce" attraverso il sacramento del battesimo. È il simbolo della figura femminile della Mater
Ecclesia, che genera, attraverso i sacramenti, nuovi figli di Dio.
La vigorosa torsione delle quattro colonne, che conduce il nostro sguardo fin sulla vetta di questa "macchina",
è segnata da tre nette ripartizioni orizzontali, la prima semplicemente segnata da solcature diagonali, le
altre due con rami di lauro e puttini incrociati. La presenza di quest’ultimo motivo richiama subito alla
memoria gli antichi sarcofagi e mosaici medioevali, dove i tralci di vite raccolti da putti assurgevano a simbolo
eucaristico, qui sostituito dal lauro per ricordare l’emblema di Urbano VIII.
Il baldacchino berniniano collega dunque, con un vorticoso movimento ascendente, le spoglie del primo pontefice
con la cupola, attraverso un percorso simbolico che – iniziando con il doloroso parto della Mater
Ecclesia che rigenera il peccatore – vede il nutrimento della fede attraverso l’assunzione
dell’eucarestia simboleggiata dai tralci delle colonne, e ci conduce fino al globo sormontato dalla croce,
che ci ricorda infine il trionfo del Crocifisso nel mondo.
Nell’abside possiamo contemplare la cattedra di San Pietro. È la grandiosa "macchina
devozionale opera del Bernini, realizzata tra il 1656 ed il 1666, circa trent’anni dopo il baldacchino,
dunque nel periodo della sua maturità artistica.
L’opera è un gigantesco reliquiario, perché contiene al suo interno un antico trono, sul
quale la tradizione vuole che si sia assiso il Principe degli Apostoli.
Solo in anni recenti (1968-74), la reliquia è stata oggetto di una indagine sistematica, alla luce della
quale appare ragionevole una datazione di epoca carolingia. Si tratta di un seggio in legno di quercia, senza
braccioli, il cui schienale è sormontato da un timpano triangolare; su di esso campeggia una figura
imperiale, nella quale si è voluto individuare Carlo il Calvo o forse Carlo Magno, a cui due angeli
porgono ciascuno una corona. La raffigurazione include inoltre raffigurazioni della Luna, del Sole, della Terra e
dell’Oceano, oltre a motivi vegetali e a figure di uomini e di mostri: una completa cosmografia che ruota
intorno alla figura centrale dell’imperatore.
Il reliquiario è sorretto da quattro monumentali statue raffiguranti due dottori della Chiesa latina
– Sant’Agostino e Sant’Ambrogio – e due della Chiesa greca, San Giovanni Crisostomo e
Sant’Atanasio – tutti e quattro vescovi simboleggianti l’unità con cui lo stesso vangelo
viene annunziato dal vescovo di Roma, il Papa, e dai vescovi e teologi della tradizione cristiana occidentale e
orientale.
La cattedra e il ministero papale sono illuminati dalla manifestazione dello Spirito Santo rappresentato, in
forma di colomba, al centro della vetrata di alabastro.
Il grandioso reliquiario va apprezzato anche nella prospettiva del baldacchino, che grazie alla sua architettura
aerea, attraverso le alte colonne tortili, lascia libera l’abside allo sguardo dell’osservatore. Non
è un caso che uno studio autografo del Bernini mostri la cattedra vista attraverso le colonne del
baldacchino, rivelando così come l’artista guardasse ai due monumenti come a un tutto unico, in una
profonda coesione di atmosfere. Comprendiamo qui la percezione berniniana dello spazio, che anziché essere
canalizzato verso un punto di fuga, viene esplorato come un fluido senza confini.
Se il baldacchino sembra essere stato depositato al termine di un immaginario corteo, la cattedra è
veramente portata in processione e mostrata ai fedeli dalle figure gigantesche dei padri della Chiesa. Essa
è la testimonianza, nell’epoca della Controriforma, della fede della Chiesa Cattolica.
In un percorso di visita che sia anche memoria della storia della Chiesa, è opportuno non dimenticare che
nel transetto destro della basilica fu celebrato il Concilio Vaticano I, il quale approvò due
Costituzioni Dogmatiche. Nella prima, la Dei Filius, affrontò il tema del rapporto fede e ragione.
Come si esprime l’enciclica Fides et ratio:
"Il Concilio Vaticano I insegna che la verità raggiunta per via della riflessione filosofica e la
verità della Rivelazione non si confondono, né l’una rende superflua".
E continua, citando proprio la Dei Filius:
Esistono due ordini di conoscenza, distinti non solo per il loro principio, ma anche per il loro oggetto: per il loro principio, perché nell’uno conosciamo con la ragione naturale, nell’altro con la fede divina; per l’oggetto, perché oltre le verità che la ragione naturale può capire, ci è proposto di vedere i misteri nascosti in Dio, che non possono essere conosciuti se non sono rivelati dall’alto.
Esiste "una conoscenza propria della fede" e
"la fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione
della verità".
Nella seconda Costituzione, la Pastor aeternus, il Vaticano I affermò e spiegò
l’infallibilità papale. Il passo decisivo dice:
Il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando esercita il suo ufficio di pastore e maestro di tutti i cristiani e in virtù della sua suprema autorità apostolica, definisce che una dottrina in materia di fede o di costumi abbia da essere ritenuta dall’intera Chiesa. A motivo dell’assistenza divina che a lui in San Pietro è promessa, egli gode di quella infallibilità della quale il Divin Redentore volle fosse dotata la sua Chiesa nel definire una dottrina in materia di fede o di costumi; perciò tali definizioni sono per se stesse, e non per consenso della Chiesa, irreformabili".
Il Concilio parla così di una infallibilità della Chiesa intera e di una infallibilità
specifica del papa.
Si scende alle Sacre Grotte Vaticane per un passaggio praticato nel Pilone di San Longino. La parte
più antica di esse risale a San Gregorio Magno che, sopraelevando il presbiterio, costruì una
cripta semianulare, perché i pellegrini potessero passare il più vicino possibile alla tomba di
Pietro. Anche oggi, se non si visita la Necropoli Vaticana, è questo il luogo più prossimo alla
tomba dell’Apostolo. È possibile sostare davanti alla Cappella di San Pietro o "Clementina", in
fondo alla quale si vede una grata che protegge il prospetto posteriore della "Memoria", costruita da Costantino,
sulla tomba petrina. Anteriormente è possibile, invece, fermarsi dinanzi alla "Nicchia dei Palli",
corrispondente moderno del "trofeo di Gaio", il luogo più vicino alla tomba.
Nelle Grotte Vaticane troviamo, anche i sepolcri di Bonifacio VIII, di Pio XI, di Pio XII, di Giovanni XXIII, di
Paolo VI e di Giovanni Paolo I.
Vogliamo riportare alcune delle espressioni che furono ritrovate, alla morte di Paolo VI, nel suo famoso
"Pensiero alla morte", scritto verso la fine della sua vita. Il breve scritto parla della contemplazione della
creazione di Dio:
Tutto era dono, tutto era grazia; e com’era bello il panorama attraverso il quale si è passati; troppo bello, tanto che ci si è lasciati attrarre e incantare, mentre doveva apparire segno e invito. Ma, in ogni modo, sembra che il congedo debba esprimersi in un grande e semplice atto di riconoscenza, anzi di gratitudine: questa vita mortale è, nonostante i suoi travagli, i suoi oscuri misteri, le sue sofferenze, le sue fatali caducità, un fatto bellissimo, un prodigio sempre originale e commovente, un avvenimento degno d’essere cantato in gaudio e in gloria: la vita, la vita dell’uomo! Né meno degno d’esaltazione e di felice stupore è il quadro che circonda la vita dell’uomo: questo mondo immenso, misterioso, magnifico, questo universo dalle mille leggi, dalle mille bellezze, dalle mille profondità...Pare prodigalità senza misura. Assale, a questo sguardo retrospettivo, il rammarico di non averlo ammirato abbastanza questo quadro, di non aver osservato quanto meritavano le meraviglie della natura...Perché non ho studiato abbastanza, esplorato, ammirato la stanza nella quale la vita si svolge? Quale imperdonabile distrazione, quale riprovevole superficialità!
Esprime poi la gioia della fede cristiana:
Poi io penso, qui davanti alla morte... che l’avvenimento fra tutti più grande fu per me, come lo è per quanti hanno pari fortuna, l’incontro con Cristo, la Vita. Tutto qui sarebbe da rimeditare con la chiarezza rivelatrice, che la lampada della morte dà a tale incontro... "A nulla infatti ci sarebbe valso il nascere se non ci avesse servito essere redenti". Questa è la scoperta del preconio pasquale, e questo è il criterio di valutazione d’ogni cosa riguardante l’umana esistenza ed il suo vero ed unico destino, che non si determina se non in ordine a Cristo... "o meravigliosa pietà del tuo amore per noi!" Meraviglia delle meraviglia, il mistero della nostra vita in Cristo. Qui la fede, qui la speranza, qui l’amore cantano la nascita e celebrano le esequie dell’uomo: Io credo, io spero, io amo, nel nome Tuo, o Signore.
È infine possibile – e merita veramente – visitare la necropoli Vaticana, di cui
abbiamo parlato, sotto la basilica Vaticana, per giungere fino alla tomba di Pietro. Bisogna però
prenotare previamente la visita, presso l’ufficio Scavi, a cui si accede dalla Porta delle Campane.
Occorre attraversare prima le fondamenta della basilica costantiniana, che sono ancora visibili; si percorre
quindi – avendo sopra di sé il pavimento della navata centrale della basilica – l’antico
viottolo precostantiniano, fiancheggiato a destra e a sinistra di mausolei sepolcrali pagani, con splendidi
sarcofagi, e resti di mosaici e affreschi. Alcuni mausolei rivelano già una presenza cristiana, come il
mausoleo di C. Valerius Herma, in cui compare una lapide con il monogramma di Cristo (Chi e Ro,
incrociate), ed il mausoleo detto del "Cristo Sole", nella cui volta figura Cristo trainato da cavalli bianchi,
come sole che sorge ad illuminare l’umanità.
Alla fine del viottolo si ascende il piccolo clivo che conduceva al "campo P", dove si può ancora vedere
una delle due colonnine del "trofeo di Gaio" che indicano il luogo della sepoltura di Pietro. Al suo fianco il
"muro dei graffiti".
Alcuni modellini e piante, predisposte appositamente all’ingresso, aiutano a visualizzare
l’evoluzione degli edifici sulla tomba di Pietro.