La testimonianza che vi presentiamo è quella di una suora che vive in Israele, in mezzo ai
palestinesi. Con lucidità e fede ci presenta l'attuale situazione di conflitto fra israeliani e palestinesi.
Come lei stessa dirà, siamo anche noi coscienti che la sua è una testimonianza “di parte”.
“Le sorelle di origine ebrea parlerebbe in modo diverso da me. Non nel senso che parlerebbe contro di me, ma
avrebbe un altra visione. Io non sono neutra nella faccenda, io parlo a partire dal campo palestinese dove vivo e voi
dovete prendere le cose tra parentesi. Non sono obiettiva. Ci sono dei fatti che almeno una parte di israeliani, le
mie sorelle comprese, vedono, capiscono e esprimerebbero come me. Non proprio come me, però vicino a me. Ma ci
sono altri aspetti - per esempio questo ritorno di Israele sulla terra, tutta la storia di Israele in fondo - che
risentono nel profondo delle loro viscere e che io non posso sentire. Io posso capire quando mi parlano, anche per
l'amicizia che c'è tra di noi, ma che non posso esprimere come lo esprimerebbero loro. Che significa per un
ebreo vivere in Israele? Questo non lo posso dire, ma loro sì, anche perché loro stesse, alcune, sono
ebree. L'ingiustizia che c'è, deve essere vista dai due, perché se no non ci può essere
dialogo”.
Ci sembra che la coscienza di questo renda ancor più importante ascoltare la sua voce. Il testo, trascritto
dalla viva voce, non è stato rivisto dall'autrice.
La redazione dell'Areopago
Sono contenta di essere qui con voi e ho rimproverato d.Andrea perché non sono riuscita a
dirgli di no. Ho pensato per questa sera, per rispetto di quelli che mi hanno già ascoltato una volta - e che
diranno: sarà la stessa cosa - invece di parlare con parole mie, di leggere alcuni estratti di questa lettera
del Patriarca latino di Gerusalemme, questa lettera datata di marzo, dell'inizio della Quaresima del 2001 e che
spiega abbastanza bene la nostra situazione di oggi. A partire da qui, se qualcuno vuole, si potrà fare
qualche domanda sulla situazione, su tutto quello che sta succedendo, soprattutto a partire da fine settembre del
2000. Leggo solo degli estratti che possono dare un'idea:
Ho visitato in questi giorni alcune parrocchie in Palestina ed ho ascoltato i fedeli, ho ascoltato anche le
autorità civili: il loro linguaggio è quello di tutte le parrocchie e le loro preoccupazioni sono le
preoccupazioni di tutti noi. La prima preoccupazione, che comprende tutto il resto, concerne la situazione politica
difficile in questi giorni: le strade bloccate, l'assedio imposto alle città ed ai villaggi, la mancanza di
lavoro, il bombardamento israeliano continuo, la distruzione delle case e in più le difficoltà
all'interno della società palestinese e infine l'idea dell'emigrazione (questo concerne i cristiani della
Palestina).
Per ciò che riguarda le case che non cessano di subire i bombardamenti israeliani, noi diciamo agli
israeliani: “Distruggete le nostre chiese, ma risparmiate le case dei nostri fedeli”. Se avete bisogno ad
ogni costo di una punizione collettiva e se vi serve un riscatto per dare tranquillità ai nostri figli
innocenti ed alle nostre famiglie noi vi offriamo le nostre chiese: distruggetele. Troveremo altri luoghi per pregare
e continueremo a pregare per noi e per voi. E ai militanti palestinesi che vedono che è necessario sparare
contro gli israeliani a partire dalle case abitate, anche se gli ordini sono chiari, di non trasformare le case
tranquille in trincee anche ad essi diciamo: “Obbedite agli ordini, conservate la coesione della società
palestinese e risparmiate le case degli innocenti”. Noi consentiamo ad offrire le nostre chiese come riscatto
per ogni casa che volete demolire ma non possiamo consentire al fatto che delle case di persone innocenti siano
demolite e che siano obbligati ad emigrare dalla loro terra.
Preghiamo in questi giorni e camminiamo nella via della penitenza per andare all'incontro con Dio. Vogliamo dire
ad ogni palestinese e ad ogni israeliano che ama la pace e domanda la sicurezza: “Cercate di vedere il Dio con
noi”. Agli israeliani diciamo: nella visione di Dio cercate di vedere che il palestinese, cristiano o
musulmano, non è l'immagine che voi avete deciso di vedere. Non è il terrorista, né l'uomo che
vuole odiare ed uccidere. Cercate di vedere che la vostra occupazione della terra del palestinese dal '67, la
privazione della sua libertà e oggi l'assedio delle sue città e villaggi, con tutte le sofferenze che
ne derivano, cercate di vedere che tutto questo porta a ciò che voi chiamate “terrorismo”, mentre
si tratta semplicemente del grido del povero e dell'oppresso che reclama la sua libertà e la sua
dignità.
C'è stato un tempo dove voi stessi avete reclamato la vostra libertà e avete gridato il grido
dell'oppresso: ricordatevi di questo e siate giusti oggi. Ciò che voi chiamate “misure di
sicurezza” è semplicemente un invito ad una violenza più grande. Ridate la terra ai loro
proprietari, ridate loro la libertà, ascoltate la voce dell'oppresso e del povero perché si eleva verso
Dio e Dio l'ascolterà un giorno e l'esaudirà.
Noi domandiamo la giustizia e la pace perché Dio è giustizia e pace. Per questo preghiamo e
digiuniamo in questi giorni, per purificarci dai nostri peccati e per cooperare con Dio alla costruzione di una nuova
storia, qui, sulla terra dove Dio si è rivelato ed ha manifestato il suo amore a tutti gli uomini. Domandiamo
a Dio di introdurci nelle profondità del suo mistero per vederlo ed amarlo. Saremo così capaci, tutti
insieme, di vederlo in ogni creatura e di amarlo in tutti i suoi figli, nella giustizia, l'equità e la
misericordia. Chiedo a Dio di darmi la forza dello Spirito e dell'amore perché siamo tutti insieme pronti ad
accogliere la gloria della risurrezione.
Questa lettera è stata scritta per preparare i cristiani di Palestina a vivere questa Quaresima e ho pensato
di condividerla perché dice qualcosa di quel che la gente vive là. C'è un'altra frase che non ho
letto. I problemi economici sono diventati molto grandi nel paese e allora dice, alla gente di là (non
è un lettera rivolta a noi che siamo qui):
Sappiate che l'aiuto viene da noi stessi e dal nostro amore gli uni per gli altri. Se qualcuno è nel
bisogno, che cerchi intorno a lui chi ha un bisogno più grande di lui e gli porti l'aiuto necessario con il
poco o il molto che possiede... Noi viviamo una guerra che ci è imposta: bisogna che adattiamo la nostra
maniera di vivere e ci abituiamo nello stesso momento, sia alle privazioni, sia alla generosità verso il
fratello che è nel bisogno.
Per chi ha seguito, magari già da alcuni anni, conosce questa storia e sa che il conflitto è molto
lungo, non è di oggi, ma in questo momento l'esplosione è diventata enorme; non sappiamo più da
che parte guardare. I due popoli, penso, e tutti noi che viviamo là, siamo come in una notte, di cui non
vediamo la fine. Le parole di questa persona sono una luce per tutti i cristiani e per noi stessi chiaramente, che
indica il cammino in una situazione dura e difficile. Richiama anche, dice: “Vi ricordo il comandamento
difficile: l'amore dei nemici”. Quando si vive in situazioni così acute è vero che tocca
molto le persone e noi stessi.
D: Quando lei parla di Palestina, intende la Palestina che grosso modo è stata indicata nei
territori degli accordi di Oslo oppure altro?
R: La Palestina di cui si parla oggi e che forse esisterà domani, rappresenta il 23% dell'intero territorio
d'Israele, dell'antica Palestina. In questo territorio dove non c'è continuità territoriale, ci sono
molte colonie israeliane ed è lì il primo dei vari problemi che esistono. Queste colonie israeliane
presenti nel territorio palestinese, sono circondate dall'esercito per la protezione dei coloni e si interpongono fra
un villaggio e l'altro e fra una città e l'altra. Quella che chiamiamo “l'autorità
palestinese”, è costituita da zone che non hanno contatto fra loro, sono le città dalle quali
l'esercito israeliano è uscito dopo la prima intifada, finita nel '93-'94. Ma queste città o villaggi
dove non c'è più l'esercito israeliano, sono comunque isolate. La gente non può spostarsi da un
posto all'altro. Non potrà mai esistere uno Stato fatto solo di queste città. Gaza anche - questa
è la zona più grande che è sotto l'autorità palestinese. Anche a Gaza ci sono delle
colonie e tutti gli incidenti di cui abbiamo sentito parlare, la grandissima maggioranza di essi è intorno a
queste colonie, perché i palestinesi chiedono che gli israeliani si ritirino nello Stato di Israele. E' questa
la Palestina, il resto è lo Stato di Israele.
D: Mi sembra che questi insediamenti siano stati proprio successivi a questi accordi.
R: Purtroppo sì. Il problema è: perché siamo arrivati a questa situazione tragica? E'
perché gli accordi non sono stati applicati e nello stesso tempo, mentre c'erano questi negoziati, trattati, i
successivi governi israeliani hanno continuato questa politica del fatto compiuto, degli insediamenti. E' questo che
ha portato i palestinesi alla disperazione, si può dire.
D: Da quanto tempo sono insediati questi coloni?
R: Dall'inizio, dal '48, da quando è stato fondato lo Stato di Israele, è cominciata questa politica
di insediamento nelle varie zone. Allora ce ne sono che sono insediati da molto tempo, ma ce ne sono alcuni che sono
da un anno, sei mesi, fino ad ottobre di quest'anno, nel novembre-dicembre. Con il governo Barak, c'è stato un
ampliamento di queste colonie e anche nuove colonie addirittura. E' per questo che da parte palestinese la gente
dice: “Ma uno parla e poi fa il contrario!”. Per questo Barak è caduto. Perché il governo
Barak è, normalmente, di sinistra. Dunque le parole erano state molto positive – diciamo come a Camp
David, dove sembrava che volessero veramente cedere i territori. A parole è andato molto lontano, nei fatti
è stato peggio degli altri. Barak ha perso la fiducia di tutti, dei palestinesi prima, ma degli israeliani
anche. Perché gli israeliani desiderano la pace, il popolo israeliano desidera la pace... senza cedere
nulla!
Sicuramente molti israeliani sarebbero pronti a delle concessioni più grandi, ma molti no. Di questi coloni -
i coloni sono, mi pare, 250 mila persone in tutto questo territorio qui - le statistiche dicono che il 50% di questa
gente è pronta a lasciare, anche per la paura, perché vivono in uno stato di tensione e di paura
continuo, e non sono motivati religiosamente o ideologicamente; sono là per vivere meglio. L'altro 50%
dovranno evacuarli di forza, perché sono molto motivati, dove l'ideologia e la religione hanno fatto un'unica
grande convinzione. E loro dicono: “Non capiamo”. Per esempio: c'è un villaggio arabo qui,
costruiscono una colonia vicino. Dopo un po' il villaggio arabo dà fastidio e dicono: “Dobbiamo
distruggere questo villaggio per ampliare la colonia”. E' così che succede. E allora la gente che va ad
abitare in questa colonia - se sono della parte di questi ultraortodossi – dicono: “La terra Dio l'ha
data a noi, gli stranieri devono andarsene”. Allora i palestinesi sono considerati stranieri in questa terra.
Sono lì da secoli pure loro, se ne vadano. E' questo il ragionamento, un po' semplificato.
Per esempio in una città palestinese, qualche settimana fa - noi abbiamo una comunità che abita qui,
in questa città - le sorelle mi hanno telefonato - io ero qui a Roma - e hanno detto: “C'è un
piccolissimo villaggio di 22 case, forse le famiglie saranno il doppio, perché vivono un po' ammucchiati
insieme. Questo villaggio si trova sfortunatamente vicino ad una colonia. I soldati hanno chiesto alla gente di
partire perché le case dovevano essere distrutte per la sicurezza di Israele. La gente ha rifiutato. La gente
non sa più dove andare. La storia della Palestina è una storia di continui spostamenti. Allora hanno
circondato - quando il Patriarca dice le città, i villaggi assediati, vuol dire che la gente non circola
più, non può più spostarsi da un posto all'altro - hanno circondato questo villaggio e la gente
è lì. Allora il governo palestinese ha fatto appello ai consolati, alle organizzazioni internazionali,
per liberare questa gente. Se non escono dalle case, saranno ridotti male, perché non entra più cibo,
non possono più uscire”. Sono situazioni di questo genere.
D: Ma quindi la motivazione che loro portano è quella che la terra è stata data loro da Dio.
R: Sharon e altri prima di lui, non è che siano religiosi. Ci sono motivazioni politiche. L'idea, la grande
idea, è che Israele possa comprendere tutta la Palestina - per i religiosi addirittura dal Nilo all'Eufrate,
dal Nilo all'Irak. Non so come potrà risolversi un'idea simile. I palestinesi vengono chiamati
“arabi”: che gli arabi vadano a vivere nei paesi arabi, Israele appartiene a noi. Certamente questo
linguaggio che sto tenendo è veramente molto semplicistico, ci sono israeliani che non la pensano così.
Però bisogna riconoscere che il sionismo, la conquista di questa terra, si è unito poi lungo la storia
con questo ideale religioso ed è questo che ha dato una forza estrema agli ebrei in Palestina o agli ebrei
immigrati.
C'è poi in questa situazione l'immigrazione russa. E' una delle componenti in questo periodo. Ce ne sono
più di un milione - penso che saranno un milione e mezzo quando finirà questa immigrazione. Questa
gente, che all'inizio veniva con tutte queste motivazioni ideologiche, oggi viene per star meglio. Fuggono dalla
Russia che è caduta per terra, cercano un benessere, una libertà. Arrivano e si trovano con case
pronte, ammobiliate, la macchina ecc. Molti di loro non conoscono la storia del paese, vengono attirati da un
miraggio e votano Sharon, questo sì!
D: C'è una sorta di situazione di violenza costante fra le due fazioni. Allora la
comunità cristiana come si pone, come riesce soprattutto a sopravvivere? E il suo rapporto con le due parti,
sia sotto l'aspetto politico e religioso, come avviene?
R: Bisognerebbe distinguere prima questo: i cristiani, non dal punto di vista religioso, ma dal punto di vista
politico, non sono una comunità tra i due. I cristiani sono arabi palestinesi, per questo sono - come dire? -
pienamente palestinesi e pienamente arabi. Sono situati nel modo più chiaro, diciamo. Certamente, come dice il
patriarca - e come veramente sono stimolati a fare dai loro stessi responsabili - non usano gli stessi mezzi dei
musulmani per reagire a questa occupazione, a questa ingiustizia. Comunque il patriarca offre le chiese, ma di sicuro
non sentiremo mai - non so, Arafat o altri - che offrono le moschee per risparmiare le case. Questa qui è una
posizione che si distingue dai musulmani, ma - come dire? - la posizione attuale è, comunque, nel senso del
rifiuto di questa occupazione israeliana nei loro territori.
Dal punto di vista religioso si può vedere che ci sono, diciamo, le due grandi comunità ebraico e
musulmana e i cristiani che sono una piccola minoranza, numericamente senza importanza. Diciamo che solo dal punto di
vista del fatto che è la Terra Santa - per cui il cristianesimo è uscito di là e dunque
c'è un riscontro internazionale molto grande - allora questo certamente dà valore, anche dà
importanza a loro.
Trovo che - come dire? - c'è un disorientamento nei cristiani di Palestina. Queste idee chiare che dice il
Patriarca sono quelle di una élite, non sono quelle del popolo. C'è molta paura, c'è un senso di
impotenza. Molti lasciano la Palestina e, nella prima parte della lettera, lui parla di questo desiderio di lasciare
la Palestina. Questa lettera è anche un grido accorato: “Rimanete!” Ma, per rimanere, i cristiani
in Palestina bisogna essere eroi a volte. Non dico i religiosi, perché i religiosi l'hanno scelto, o i preti,
ma le famiglie. Se voi pensate: una famiglia che ha dei figli e che non vede futuro, è posta di fronte a delle
scelte radicali. Un cristiano cosciente della situazione in cui si trova, che decide di rimanere! E' veramente un
atto eroico. Io stessa, se fossi madre di famiglia, con dei figli piccoli o adolescenti per i quali vedo solo questo
rischio, pericolo e morte, diciamo, che cosa sceglierei, quando so che magari in un altro paese possono stare meglio?
La chiesa tenta in tutti i modi - i religiosi, la gerarchia anche - di incoraggiare la gente a rimanere, ma non
abbiamo molte parole per farlo. Noi non abbiamo figli! Non è così facile! Cioè io posso dare la
mia vita, ma una madre, un papà? Non è semplice.
Ci sono - come dire? Non vorrei essere troppo pessimista - c'è gente che è impegnata. Però la
gente che conosciamo noi, la gente normale di tutti i giorni, si pone molti interrogativi ed ha molta paura. Ed ha
paura anche dell'islam, per essere onesti fino in fondo. Il futuro stato palestinese che sembrava almeno dieci anni
fa con queste premesse di democrazia, di apertura, così non sappiamo quello che sarà. Anche dopo una
prova così grossa di violenza? Chi avrà in mano il potere in Palestina? Non lo sappiamo. Quale
sarà la condizione dei cristiani? Non lo sappiamo.
I cristiani che fanno il confronto fra la situazione cristiana in Israele e la situazione dei cristiani nel resto
del mondo arabo non sono molto ottimisti. C'è un gesuita - mi ricordo di una frase che aveva detto, che mi
aveva colpito - che ha detto: “I cristiani di Palestina oggi sono in una situazione di verità più
degli ebrei, più dei musulmani”. Perché? Gli ebrei hanno la forza. Gli israeliani oggi hanno il
potere, la forza, i mezzi, i soldi ecc. I musulmani sanno che bene o male un giorno avranno questa terra. Lo stesso
fatto demografico a poco a poco, bene o male, porterà a qualcosa. I cristiani sentono il fatto di essere
minoranza, di non avere forza e questo, come in una vita personale, ci mette in uno stato di verità profonda,
molto più di quando si ha l'illusione di avere il potere.
D: Mi vorrei spostare su una parte diciamo economica. Ho sentito da amici palestinesi di ceppo
arabo che, in effetti tra i vari problemi di carattere economico che lì è molto sentito e che in
effetti invece poi non mi sembra che sia conosciuto nel resto d'Europa è il problema dell'acqua. E cioè
che in sostanza ogni volta - è stato definito in una maniera che mi ha lasciato veramente esterefatto - ogni
bambino, ragazzo palestinese, che beve dell'acqua, un bicchiere d'acqua dovrebbe ringraziare un israeliano
perché gliel'ha lasciata bere, in sostanza mi ha detto pure che gli acquedotti, la gestione degli acquedotti
sono in massima parte in mano israeliana e questo è un enorme problema.
R: L'acqua è il problema del Medio Oriente e di altre parti del mondo. Un grosso, grosso problema.
Addirittura l'occupazione del Libano! Certamente ci sono motivazioni politiche dietro, però la prima volta che
Israele è entrato in Libano è arrivato al fiume Litani. Non è per caso. E' perché il
fiume è un corso d'acqua. Il Giordano: Israele prende i 3/4 di quest'acqua che apparterrebbe pure alla
Giordania. Allora in Giordania non si beve. In Palestina i corsi d'acqua, le riserve d'acqua sono in mano agli
israeliani che concedono l'essenziale per vivere, ma non di più. Quando voi visitate la terra si può
vedere ad occhio nudo: le colonie israeliane hanno l'acqua, il villaggio vicino è senz'acqua. Sono a tre metri
di distanza.
D: E la comunità internazionale come si rapporta? Cioè: si sente che c'è un intervento della
comunità internazionale o non c'è proprio?
R: E' molto complesso: nella storia della Palestina la comunità internazionale ha delle responsabilità
grosse, da Balfour fino ad oggi, in questa distribuzione della terra, in questo non riconoscimento della gente che
già abitava questa terra. E poi sicuramente noi stessi come europei abbiamo questa storia dietro le spalle
verso gli ebrei e non è una piccola cosa. Ci sentiamo responsabili, per cui dire no, criticare lo stato
d'Israele ci costa. Non lo facciamo spontaneamente. E' più facile dirlo agli arabi, ai musulmani o anche
trasformare il problema in problema religioso quando si sa che in effetti è politico. Penso che per i
palestinesi la comunità internazionale non ha più un gran significato. Non hanno mai visto un
risultato, in un secolo di storia. C'è un documentario fatto dalla televisione francese che mostra questa
storia e come questa comunità - l'ONU per esempio - abbia detto e non fatto e non ci siano mai state soluzioni
appropriate per questo problema. Il dossier della Palestina e d'Israele è sul tavolo dell'ONU dalla nascita
dell'ONU fino ad oggi e non c'è stato mai nessun effetto Non c'è la volontà. All'inizio di
questa intifada Arafat ha chiesto e richiesto, nelle prime settimane fino a non so quando, che un osservatorio
internazionale venisse e vedesse. Il fatto che Israele ha rifiutato ha permesso il fatto che questa équipe non
si formasse. L'America vista in Oriente, nel Medio Oriente, ha delle grosse responsabilità. Penso che Israele,
la Turchia, l'Arabia Saudita - come dire? - sono dei luoghi strategici per l'America. E allora il resto, allora
l'Iraq si bombarda come si vuole. E' così. C'è stata una presa di posizione di parte, troppo grande e
molto evidente anche.
D: Se dovesse morire Arafat improvvisamente, secondo lei, cosa potrebbe succedere e poi una
seconda domanda: la visita del Papa in questi luoghi da questo punto di vista che cosa ha lasciato?
R: Se dovesse morire Arafat purtroppo penso che la situazione potrebbe indurirsi molto di più, perché
la gente non è con Arafat. Arafat ha cercato comunque, con tutti i limiti che ha, ha cercato di dialogare sia
con Israele che con l'America, ha comunque ceduto molto. Non so se il successore di Arafat farà tanto e la
gente - non so come si potrebbe misurare l'esasperazione dei palestinesi oggi - non ha ottenuto niente, niente. Anzi
le cose hanno peggiorato continuamente. E ne andrà anche della democrazia dello Stato palestinese. Non so se
si farà uno stato democratico. Perché oggi la gente segue i duri. Come anche in Israele: la stessa
cosa. Ci saranno forse due, due destre estremissime, se si può parlare così. Non so, forse poi ci
sarà un miracolo.
La visita del Papa nel marzo scorso era stato un momento di grande speranza. Certamente i problemi c'erano e si
è visto dopo. I problemi non risolti sono usciti. Però il Papa è venuto nelle vesti di un uomo
esteriormente, apparentemente debole e questo ha toccato tutti e molti di lui hanno detto, sia ebrei che musulmani:
“Se fosse venuto come uomo forte, che ha qualcosa da dire, che impone, e comunque anche fisicamente, come un
uomo forte, avrebbe avuto molto meno impatto. Il fatto di essersi presentato come un uomo di Dio, un uomo di fede, di
aver pregato sui luoghi e di non aver fatto nessuna gaffe nei discorsi, quando ha parlato dal punto di vista politico
ha toccato moltissimi in Israele. Addirittura in Israele ci sono stati degli articoli molto molto positivi su di lui,
quando si sa che i rapporti non sono sempre così facili. Non so più chi è che aveva scritto:
“Ma prendete i nostri rabbini e insegnategli come si fa a diventare qualcuno come lei”. Ha lasciato un
segno in questo senso. Poi la situazione è precipitata purtroppo, dopo di lui.
D: Sorella una domanda che mi sta a cuore, quella della chiesa di Nazareth, o meglio della moschea
che vorrebbero costruire vicino. E' stata una cosa che ha provocato delle reazioni, con addirittura richieste allo
Stato di Israele di impedire la costruzione di questa moschea. A me personalmente mi aveva colpito perché
pensavo che due popoli che si incontrano vicini, che vanno in due posti vicini ad adorare il proprio Dio non possono
odiarsi troppo. Mi chiedevo che cosa ne pensassero le persone di lì, anche perché la situazione attuale
è in gran parte conseguenza del fatto che tutte le soluzioni che hanno cercato di prospettare dal '48 ad
adesso sono sempre state basate su un'idea di spartizione del territorio, di separazione dei popoli politicamente,
religiosamente, però evidentemente questa non è una soluzione perché lo stesso Israele, che sta
in mezzo a tutti gli stati arabi, non vive in pace. Quindi volevo sapere appunto questo: se a livello dei fedeli,
alla gente, gli importa il fatto che la moschea sia vicino alla chiesa oppure no. E se c'è un'idea che il
futuro non sia in uno stato palestinese e in uno stato ebraico, ma piuttosto in uno stato ebraico che veda gli arabi
come cittadini del proprio stato e che gli arabi si sentano cittadini di uno stato d'Israele, perché
evidentemente tutti e due sono nati in quella terra, però gli uni sono ebrei in Israele e gli altri sono arabi
israeliani.
R: Parto dalla seconda. Questa idea del fatto che la spartizione della terra, che la divisione fra i due sia un
ostacolo invece che un aiuto, molti cominciano ad averla. Ed effettivamente la terra è piccola e creare due
stati separati su un territorio così non sappiamo - come dire? - se sarà veramente possibile una
convivenza. Ci sono degli intellettuali palestinesi che hanno qualche mese fa, qualche tempo fa, hanno progettato
insieme a degli israeliani queste cose, dicendo: “Ma uno stato unico che dia gli stessi diritti ai due non
sarebbe meglio?”. Sarebbe molto meglio! Purtroppo nella situazione attuale non si vede una possibilità
reale in questo senso, nel senso che l'odio che c'è fra le persone, creato anche da queste ingiustizie
certamente, le differenze troppo grandi, non permettono oggi di innestare una soluzione così, che forse in un
futuro sarebbe da auspicare veramente. Che sia un solo stato e che sia uno stato per tutti i cittadini allo stesso
livello. Lo stato di Israele però allo stesso tempo è nato per gli ebrei. Non sono disposti oggi a
considerare allo stesso livello gli altri, gli arabi palestinesi, che sono lì.
Per quanto riguarda la moschea capisco quello che vuoi dire. Nel senso che, quando siamo tutti credenti in un unico
Dio, anche pregare vicini non ci sarebbe niente di male, anzi. In un territorio arabo, normalmente, i musulmani sono
la grande maggioranza e i cristiani la piccola minoranza. Ogni volta che i cristiani costruiscono un monastero, una
chiesa, un luogo di culto, immediatamente i musulmani costruiscono una moschea vicinissima. In tutti i paesi arabi
è così. Questo non è perché non c'è altro territorio; è comunque fatto in
una maniera molto provocante. A Nazareth ci sono molte moschee. Non era il caso, secondo me, di mettere proprio a
fianco della basilica di Nazareth, che rappresenta il centro cristiano di tutta la Galilea. Tra parentesi, la moschea
non è costruita e forse non si costruirà. Bisogna capire dal di dentro cosa significa per la gente. La
gente l'ha ricevuta veramente come un affronto e una provocazione molto molto grande. L'inizio della storia per chi
non lo sapesse è Netaniahu che ha promesso ai fondamentalisti islamici la costruzione di questa moschea per
avere dei voti durante le elezioni. Anche lì è un fatto politico. Poi, certo, la faccenda ha preso
subito una colorazione religiosa. Penso che però, nel rispetto gli uni degli altri, si conoscono abbastanza da
sapere dov'è il luogo migliore dove si può costruire un luogo di culto per gli uni o per gli altri che
non diventi una provocazione giustamente per gli altri, per quelli che sono di un'altra religione. E lì,
quando si vede sul posto, bisogna immaginare che veramente a qualche metro una moschea che è prevista di
cinque piani - non so, perché il luogo non è molto grande - dove la preghiera musulmana sarà
cantata regolarmente a voce alta, eccetera… E se tu preghi o non preghi come cristiano quello non interessa a
nessuno, perché tu sei comunque una piccola minoranza che non può dar fastidio! Lì c'è
qualcosa che potrebbe essere rivisto. Gli stati arabi, molti stati arabi, hanno denunciato la costruzione di questa
moschea, perché sentono - dal di dentro si sente - la provocazione e non sono d'accordo. La Siria, ad esempio,
l'Egitto anche. Quando è scoppiata questa faccenda, avevano chiesto ai musulmani di non costruire la moschea
vicino alla Basilica dell'Annunciazione, poi sono andati avanti perché erano sostenuti politicamente da
Israele stesso. Ma dall'inizio degli ultimi avvenimenti questa storia è caduta, perché ci sono dei
problemi più gravi e allora... Ma certamente - quello che tu dici - è bene pensare come pensi tu. Nel
senso che bisogna pensare ad un futuro che sia diverso, che potrà esser diverso, ma ci sono anche dei passi
progressivi che si debbono fare prima di arrivare là.
D: A prescindere dai passi pratici che poi purtroppo sembrano molto ostacolati, la situazione
è, come diceva prima, di verità assoluta nella quale si trova la comunità cristiana, se vuole
anche di debolezza, parallela a quella del papa. Che messaggio invece di positività, di speranza, può
portare questa situazione e che messaggio anche noi come comunità cristiane lontane possiamo testimoniare?
R: E' difficile rispondere a questa domanda oggi, perché io sono qui da un mese e quindi non ho vissuto
l'ultimo tempo là. Però quello che si sentiva di più è veramente questa disperazione che
tocca tutti. E penso che l'unico messaggio della comunità cristiana oggi è questo messaggio di fede e
di una speranza - come dire? - che crede in ciò che non vede. Non ci sono degli appigli umani ai quali tenersi
oggi per sperare. Allora è qualche cosa che deve essere vissuta dall'interno e portato avanti in questa
oscurità. Il fatto di resistere e di continuare a vivere e credere in certi valori come cristiani - per
esempio non odiare, astenersi dalla violenza, pur continuando a lottare - questo è già un messaggio. Ma
parlare di speranza nel senso di un compimento materiale - diciamo - mi sembra impossibile adesso. Cioè
è qualcosa che è totalmente o interiorizzato oppure non c'è. Non sappiamo in che cosa sperare,
anche perché sia da una parte sia dall'altra, sia da noi stessi sentiamo questa debolezza. A volte penso che
è veramente come, è come una lotta che supera, quasi inumana. Nel senso come dice S. Paolo: “La
nostra lotta non è contro creature di carne e di sangue, ma contro il male”. E lì c'è una
concentrazione di male che chiede a noi di far uscire il bene che Dio ci ha messo dentro. E' questa la lotta.
D: Relativamente alla speranza, io leggevo recentemente che una parte delle soldatesse israeliane cominciano a
cercare di evitare di andare al fronte. Ecco, in prospettiva, nelle nuove generazioni, non ci può essere
qualcosa che faccia ripensare, faccia portare a questo desiderio? Voglio dire: uno come Sharon ha fatto tutte le
guerre, quindi può essere anche impregnato di questo modo di pensare, invece questi giovani potrebbero essere
portati a pensare diversamente? Anche gli ebrei russi che vengono, come diceva lei, tanto per stare meglio, per
migliorare la propria vita, e probabilmente per loro stare in una colonia, anziché in un'altra non cambia,
cioè non sono attaccati alla terra, come potrebbero essere gli altri?
R: I giovani rimangono comunque la speranza, giustamente. Però è ambivalente il discorso. Alcune volte
quelli che hanno sofferto di più e hanno conosciuto - diciamo - tutte queste guerre, possono preoccuparsi di
più di un futuro. A volte i giovani hanno avuto tutto, per cui non riflettono - non dico tutti. E' vero che
quando loro stessi, quando queste soldatesse non vogliono andare perché loro stesse adesso rischiano, allora
da lì forse comincerà una riflessione nuova, un altro modo di vedere. Ma è una tragedia che
nasce da una tragedia e per spezzare la catena è lì che io dico il cristianesimo avrebbe questo
messaggio: “Come spezzare la catena dell'odio?”. Nel senso, si potrebbe dire, psicologico del termine:
quello che ho subito non farlo ad altri. Come si può arrivare lì? La storia d'Israele è questa
in fondo. E' la storia moderna, la storia di oggi. Alcuni si chiedono: “Ma perché un popolo che ha tanto
sofferto è arrivato lì?” La psicologia lo spiega. Che cos'è che spezza questo?. E' questo
il problema. E' come la storia in una famiglia: il figlio picchiato, picchierà i suoi figli, se non
diventerà cosciente e se non perdonerà. E' questo!
D: Forse qualche volta mi fa pensare che la storia del Medio Oriente, della Palestina, di Israele,
eccetera, è talmente radicata - c'è qualcosa persino di misterioso, lì nasce Abramo, poi nasce
il Signore - che mi fa pensare che forse non siamo degni di conquistare la pace, forse non ce la facciamo ad essere
costruttori di pace vera. Le chiese riescono a diventare un messaggio unico nella terra di Palestina e nel Medio
Oriente? Perché sarebbe una chance maggiore, perché io non credo che in Medio Oriente da soli ce la
facciano, vincerà la prevaricazione, vincerà il più forte, che non vincerà, ma si
affermerà. Bisogna che la comunità internazionale riesca: perché è vero, come dice lei,
che ha delle responsabilità enormi. Le più grandi responsabilità ce l'ha la comunità
internazionale e ce l'ha il governo della comunità internazionale, che non c'è. Ecco io credo che
bisognerebbe che ci fosse un governo, una volontà, una realtà che riesce, tra virgolette, ad imporre
una soluzione di convivenza, per consentire poi il tempo lungo della costruzione.
R: Anche noi, dal di dentro, siamo arrivati a pensare questo. Le cose si sono talmente degradate che non possiamo
più credere che da soli, là dentro, riusciremo a trovare un accordo. Nello stesso tempo se le forze
internazionali sosterranno una sola parte, continuando ad ignorare il resto, ci chiediamo come potrà comunque
trovarsi una soluzione che sia giusta. Siamo convinti che c'è bisogno di un aiuto urgentissimo, ma questo
è il problema veramente. E dalle chiese, come dice lei. Certamente l'ideale è che i cristiani - come
dire? - si distinguano anche in questo. Però i cristiani… Noi siamo come tutti gli altri e questa lotta
tra il bene e il male ce la portiamo dentro e la debolezza e la paura e tutto il resto ce lo portiamo dentro. Dunque
non siamo super-uomini che vivono là dentro. E anche per quello che riguarda la pace, cioè essere
costruttori di pace, lavorare per la pace. La pace! Forse noi là non parliamo più di pace adesso,
perché è una parola troppo alta e penso che la pace è un dono di Dio prima di ogni altra cosa.
E' difficile credere che potrà uscire dalle nostre mani, come ripeto. Forse la visione si è talmente
abbassata che quello che cerchiamo oggi è la necessità della vita: è necessario per i due
vivere. E allora cerchiamo un modo di convivere. E che non sia una distruzione reciproca. La pace verrà dopo,
la pace nel senso di relazioni feconde, costruttive, positive, vive, diciamo così. Ma non so se si può
parlare di pace adesso, ma solo, forse, con l'aiuto, con un aiuto internazionale di un modus vivendi che rispetti gli
uni e gli altri sempre di più, per ora. E poi forse un'altra generazione potrà fare di più,
anche perché le ferite adesso sono profondissime tra gli uni e gli altri. Le strade di Nazareth - è una
cittadina molto calma, normalmente - lei passa adesso nei muri delle strade c'è scritto da una parte in
ebraico: “Morte agli arabi”, dall'altra in arabo: “Morte agli ebrei”. Viviamo in questo clima
di forte tensione. Io direi: adesso è più un appello per la vita, ancora prima che per la pace - certo
vanno insieme chiaramente. E' il bisogno di vivere.
D: Forse quel che vale sono i gesti, continuano ad essere i gesti. Per questo si annuncia che il
Papa andrà in una moschea, in Siria? E Gerusalemme, secondo lei, è il problema fra i problemi, è
il problema numero uno?
R: Vivendo sul posto, il problema più pratico, il primo, è come poter smantellare queste colonie. Che
se ne vadano, che lascino un po' di spazio per respirare ai palestinesi. Dopo di che, certamente, Gerusalemme
è un problema ed ogni volta che si arriverà là ci saranno guai, perché per dividere
questa città o per riunirla e per non so far che - lì veramente preferisco addirittura non parlarne -
è talmente complicato, talmente tante soluzioni sono state pensate e mai niente si è potuto fare.
Questa idea dell'internazionalizzazione di Gerusalemme è del 1947, oggi siamo nel 2001 (un'idea inglese, se
non vado errato). Probabilmente, visto come si mettono le cose, sarebbe l'unica soluzione che permetterebbe a tutti.
Ma chissà se si potrà arrivare a questo o no. Per Israele Gerusalemme è intoccabile, per i
musulmani, i palestinesi anche. Non è lo stesso livello, comunque, per essere onesti.
D: Con questo stato di tensione che c'è in Israele, l'economia israeliana come procede?
R: E' in ribasso, come quella palestinese...
D: Con aiuti degli ebrei americani oppure perché hanno industrie che gli permettono di
sopravvivere?
R.: No, l'economia israeliana vive dei dollari americani. E se l'America smette... Anche perché i costi
militari sono altissimi in Israele, dunque non vedo come potrebbero vivere. Una delle risorse è il turismo e
da ottobre non c'è più nessuno che viene.
D: Ma quanto tempo può andare avanti questo stato di cose?
R: Eh, se lo sapessi!?
D: Sono 50 anni che va avanti questa storia. Pertanto non credo che l'economia americana si possa permettere di
continuare a lungo.
R.: Non so cosa dirle. C'è una sorella americana, una piccola sorella, una della mia comunità, che mi
ha scritto recentemente e mi ha detto: ma tu sai che i musulmani in America sono alla pari con gli ebrei e tra poco
saranno certamente di più e questo avrà un'influenza sulla politica americana e quando questo
accadrà le cose cambieranno in Medio Oriente - e non so se cambieranno in meglio. Sono degli equilibri. Quello
che continua a pensare - e che vale sia per tutto l'Occidente, l'America e l'Europa insieme – è che se
non teniamo conto dell'esasperazione del mondo arabo, la pagheremo cara, anzi carissima e non sarà molto
lontano da qui. C'è un'ingiustizia, c'è un disprezzo anche, di tutti questi paesi e delle cose che sono
state fatte, che un giorno o l'altro usciranno. Quando penso solo all'Iraq! Certamente c'è questo matto di
Saddam, però la distruzione voluta di un popolo fino a questo punto! Non so! Se si svegliano un giorno?
L'embargo e i bombardamenti! Non si dice tutti i giorni, ma l'Iraq è bombardato regolarmente.
D: Lei ha usato un termine: fate un appello voi da fuori. Ma non le pare che la comunità internazionale,
soprattutto l'Occidente, sono moralmente inidonei a trovare una soluzione? Direi l'Occidente ha moralità quasi
zero. E' una provocazione!
R: Effettivamente qualche cosa ci potrebbe essere, come un aiuto; l'Europa potrebbe avere una posizione molto
diversa dall'America, ma non ha i quattrini sufficienti. E questo è il problema: è l'economia che fa
girare la politica. E' questo il guaio di fondo. E già noi stessi, nel nostro paese, paghiamo con una certa
violenza che sale, perché vivere per il denaro - tutto è denaro - non è più una vita.
D: Però per l'Europa, prima ancora che i soldi, servirebbe una posizione unica: perché dentro l'Europa
la Francia non la pensa come l'Inghilterra sul Medio Oriente, l'Olanda non la pensa come l'Inghilterra o la Turchia
sul Medio Oriente. L'Europa dovrà, prima ancora dell'economia, avere un'idea unica sul Medio Oriente e allora
la potrebbe, tra virgolette, imporre.
R: Come? L'America ha bombardato Bagdad adesso. La versione araba di queste faccende è: “Questo
è un avvertimento. L'ha bombardato così, perché l'Egitto, qualche giorno prima aveva detto che,
se Israele continua così, gli stati arabi avrebbero cercato di riunirsi di nuovo, vedere come si può
fare sempre la guerra contro Israele. Questo bombardamento accade proprio quei giorni lì come a dire: se
qualcuno comincia a pensare qualche iniziativa, ecco che noi siamo pronti!”. E la posizione europea rispetto al
Medio Oriente può essere idealmente veramente diversa. Ma, concretamente, quali sono i rapporti? Io non mi
intendo di politica. Veramente, però, noi sentiamo le cose così.
D: Anche la Giordania è in una situazione difficile?
R: La Giordania è in una situazione delicatissima perché la Giordania è con Israele. E
l'America possiede la Giordania allora. E nello stesso tempo la Giordania contiene quasi il 70% di palestinesi. Il
governo giordano, il re giordano sono in una posizione molto difficile. Quello che si temeva all'inizio, in ottobre,
novembre, era che ci fossero per la Giordania e l'Egitto - i due che avevano relazioni con Israele - delle sommosse
interne per far saltare i governi.
D: Molti paesi arabi sono stati un po' condizionati dall'America: l'Arabia Saudita, il Kuwait, l'Oman, il Qatar.
Tutti i paesi in cui c'è il petrolio sono condizionati dall'America.
R: L'Egitto vive di aiuti americani perciò non si muove. L'Egitto ha 60-70 milioni di abitanti. Se un paese
così si muove, Israele può ripensarci. Ma l'Egitto non si muove, perché? Perché anche
lì sono i dollari. Nell'insieme i paesi arabi non sono così solidali con i palestinesi. E' per quello
che la situazione continua.
D: Nella vostra vita quotidiana, al di là dei problemi politici, come vi rapportate tra le
due popolazioni, tra le due etnie. Come siete viste, come siete accolte?
R: Non siamo in mezzo, anche lì. Perché in una situazione così chi sta sul mezzo penso che non
risolva nulla. Abbiamo delle comunità di lingua araba, inserite nel mondo palestinese, delle quali anch'io
faccio parte, e delle comunità di lingua ebraica inserite nel mondo ebraico. Ed è, ognuna a partire
dalla situazione concreta in cui si trova, che cerca comunque di non rimanere chiuso ma di aprirsi anche
all'alterità dell'altro, perché lì rimanere chiusi significa morire, morire anche interiormente,
cioè si può arrivare a delle situazioni talmente estreme, ad una chiusura totale effettivamente, per la
paura o per prese di posizioni. Allora il fatto di essere inserite nei due ci obbliga proprio nel quotidiano a questa
relazione già tra di noi che non è sempre facile, perché risentiamo gli avvenimenti
diversamente, ma che è necessaria - direi - alla salute anche mentale.
Io stessa - io adesso vivo a Nazareth dove c'è possibilità di contatto con gli ebrei o almeno c'era
fino all'inizio di questa intifada - e attraverso un piccolo corso di lingua ebraica che ho fatto ho conosciuto degli
ebrei, dei professori, anche degli studenti. Per me è stato un mettermi in contatto diretto. Poi ci sono
alcuni amici, per non rimanere solo fissati da una parte, perché è rischioso per noi questo. Si diventa
più violenti degli altri, se ci si lascia andare.
D: So che hai un amico che è un ebreo, israeliano, cristiano, gesuita. Lui cosa ne pensa? Una piccola sorella
di una comunità israeliana ci verrebbe a parlare in modo differente? E' evidente dalle tue parole che,
comunque sia, si fa una scelta di campo.
R.: Una piccola sorella ebrea israeliana - la metà della loro comunità è fatta di sorelle di
origine ebrea anche - parlerebbe in modo diverso da me. Non nel senso che parlerebbe contro di me, ma avrebbe un
altra visione. Io non sono neutra nella faccenda, io parlo a partire dal campo palestinese dove vivo e voi dovete
prendere le cose tra parentesi. Non sono obiettiva.
Ci sono dei fatti, come dici tu, che almeno una parte di israeliani, le mie sorelle comprese, vedono, capiscono e
esprimerebbero come me, non proprio come me, però vicino a me. Ma ci sono altri aspetti - per esempio questo
ritorno di Israele sulla terra, tutta la storia di Israele in fondo - che risentono nel profondo delle loro viscere e
che io non posso sentire. Io posso capire quando mi parlano, anche per l'amicizia che c'è tra di noi, ma che
non posso esprimere come lo esprimerebbero loro. Che significa per un ebreo vivere in Israele? Questo non lo posso
dire, ma loro sì, anche perché loro stesse, alcune, sono ebree. L'ingiustizia, che c'è, deve
essere vista dai due, perché se no non ci può essere dialogo, ma non sempre è facile,
perché anche per chi è vissuto con un ideale molto grande dello Stato di Israele e si trova poi di
fronte alla realtà così, non è facile accettarla.
Allora questo amico di cui dicevate? Dunque la famiglia è tedesca ed ha dovuto emigrare subito, prima della
guerra, della seconda guerra mondiale, nel Sudafrica. Lui è nato in Sudafrica da famiglia ebrea osservante,
è cresciuto in un ghetto ebraico e all'età di 15 anni il nonno gli ha detto: “Come buon ebreo
devi andare in pellegrinaggio a Gerusalemme”. E lui ha obbedito: è venuto a Gerusalemme. Stava facendo
una ricerca storica sui principi russi ed ha saputo che a Gerusalemme c'era una principessa russa. Allora ha cercato
dov'era e questa principessa era una donna di 92 anni, badessa di un monastero ortodosso del Monte degli Ulivi. E'
andato a trovare questa donna ed era la prima cristiana che incontrava in vita sua. Questa donna l'ha talmente
toccato che questo qui è rientrato in Sudafrica con questa cosa qua già in movimento.
All'età di 18 anni - aveva finito gli studi là - è venuto ad abitare in Israele, è
vissuto come ebreo israeliano, è diventato israeliano, ha preso la nazionalità e ha studiato
all'Università ebraica e - questo ce l'ha detto ultimamente - andava a pregare al Santo Sepolcro, al Calvario.
A pregare, così, ma senza sapere il perché. Gli sembrava che era un luogo che gli piaceva per pregare.
E fra le molte, molte avventure, gli è capitata questa. Mentre frequentava l'Università passava davanti
ad una casa e un giorno gli abitanti di questa casa l'hanno invitato - era una casa di musulmani - e gli hanno detto:
“Ma tu chi sei?”. Lui ha detto: “Io sono ebreo”. “Ma dov'è la tua
famiglia?”. “La mia famiglia è in Sudafrica”. “Ma sei da solo, ma come puoi vivere? Ma
viene a stare da noi!”. E sono diventati molto, molto amici con questa famiglia. E dopo un po' di tempo ha
incontrato i gesuiti. Allora è stato battezzato, all'età di 28 anni e, subito dopo, l'anno dopo,
è entrato nei gesuiti ed oggi vive in Israele. Poveretto! Ebreo, israeliano, cristiano e gesuita, amico di
questa famiglia musulmana. Conosce benissimo l'ebraico e l'arabo per cui ha contatti, conosce molto bene la
realtà palestinese. Se avesse parlato lui al mio posto, come ebreo israeliano, sarebbe stato molto più
duro di me verso lo Stato di Israele. Per me sono questi gli israeliani che danno fiducia che forse arriveremo a
qualcosa, chi ha conoscenza veramente di quello che sta succedendo e può autocriticarsi. Beh! Lì la via
è aperta per la pace e il cambiamento.
D: E il nonno che ha detto?
R: Il colmo dei colmi per un ebreo è diventare cristiano gesuita. Questo amico studia all'Università
ebraica di nuovo, e studia una cosa interessante: il primo testo della Bibbia tradotto in arabo, ma scritto con
caratteri ebraici, per scoprire se in questo testo ci sono influenze coraniche. E poi insegna in arabo al seminario,
perché è diventato prete quest'anno. Pensa un po! I suoi genitori sono venuti, hanno sorbito tutte le
prime messe nelle varie lingue, hanno pregato al Santo Sepolcro, hanno mangiato dalla famiglia musulmana. Insegna la
Bibbia al seminario arabo, di Beit Jalla, quel villaggio arabo bombardato adesso. Per recarsi a Beit Jalla - come
israeliano non ha il permesso di entrare e se dentro in un taxi palestinese scoprono un giorno che è
israeliano non so che fine fa, perché c'è un clima adesso che è molto molto teso - ha una carta
di identità italiana, va in giro con questa carta di identità. Quello che ci ha detto ultimamente
è questo: “Non ci sarà cambiamento in Israele se gli israeliani, gli ebrei israeliani, non si
libereranno dal complesso della vittima”. Perché fino ad oggi, in questa situazione in cui li vediamo,
hanno in mano tutto - non c'è confronto con la forza dei palestinesi - sparano ai bambini, ma sono loro le
vittime! Ed è questo il problema di fondo: se uno continua a sentirsi lui la vittima, non potrà
cambiare atteggiamento, si sentirà continuamente in pericolo. Vedono in un bambino di sette anni colui che
potrà annientare lo Stato di Israele. Questo cambiamento di mentalità non è facile. Lui ha dato
una conferenza ultimamente - non so dove - e parlando di questo cose ha detto: “Ho voluto veramente cercare di
uscire da questo complesso della vittima - perché anche lui è ebreo, anche lui sente così,
quando si parla della Shoah, non è una parola qualsiasi! Un uomo nell'assemblea gli ha detto: “Ma voi
ebrei che avete vissuto l'olocausto, eccetera…”. E allora ha detto: “Io non volevo presentarmi
così, ma è l'altro che mi ha rimesso in questa situazione inquadrata: voi siete quelli che avete
subito!”. Ma lui voleva dire: “Noi siamo anche quelli che possono fare un passo più lontano di
qua”. E' un uomo interessante, con tante identità, a volte difficili da vivere tutte insieme.