31/7 Conclusione di Dossetti


Io cercherò, come posso, di tirare un poco le fila, una specie di conclusione, di ripetizione, di conclusione. Abbiamo visto il primato e la signoria incondizionata, universale del Cristo, come tesi fondamentale di tutta la lettera ai Colossesi. Il suo dominio e signoria a tutti gli strati dell’essere, a tutti i livelli della creazione, di tutte le realtà create. Se c’è qualche cosa di vero nello gnosticismo, - lo gnosticismo in genere è, come abbiamo visto, incompatibile con il cristianesimo – ma quella che è la sua punta, invisibile quasi, di verità e la ragione per cui questa punta d’acciaio penetra dappertutto e specialmente all’interno della comunità cristiana, senza sforzo, con una certa facilità e spontaneità, se c’è, è che dice, anche all’uomo moderno, che la struttura dell’essere, lo spessore dell'essere, gli strati degli esseri non sono come lui pensa. Non sono come lui pensa, come l’uomo moderno pensa, tutti appiattiti al solo uomo fisico, empirico e gli rivela in qualche modo, a quest’uomo - è la ragione della sua attrattiva potente - una complessità di strati, una pluralità di livelli, una inesauribile quasi, facendogli venire l’ansia e il desiderio grandissimo di penetrarvi, in tutti i diversi spessori della creazione. Cioè gli dice, in sostanza, che la realtà è infinitamente più complessa di quello che pensa ed esperimenta nel suo io empirico e nella sua fisicità.

La rivelazione cristiana - Paolo in particolare - ci dice già che, oltre all’uomo fisico, c’è l’uomo psichico - l’uomo animale, come traduce, non nel senso spregevole, la nostra Vulgata, ma l’uomo essere vitale, composto di corpo e di psiche, di principio vitale – e, finalmente, l’uomo spirituale, l’uomo più umano. E poi - oltre l’uomo - così gerarchicamente composito ci stanno anche altri esseri intellettuali. Questo lo gnosticismo lo dice e lo ridice in mille modi, con mille simboli, con mille trovate, inesauribili, ma, tuttavia, con verità, per sé. Anche se è una verità catturata e catturante e quindi deviante dalla vera verità.

Le potenze! Le potenze positive e le potenze negative, in tutta questa insondabile complessità del reale, che non sappiamo e non dobbiamo nemmeno immaginarci come realmente sia, perché lasciarci trascinare da questa curiosità e da questa immaginazione è già pericoloso! Però una cosa è lasciarci trascinare da una curiosità malsana, quella gnostica, e un’altra cosa è lasciarci trascinare dalla pura negazione, che non è neanche il principio della verità, di questa complessità a più strati del reale.

Ora su tutta questa realtà domina il Signore Gesù, l’Unigenito Dio, incarnato, crocifisso, risorto, esaltato alla destra del Padre. Domina nella sua carne, carne come la nostra, soltanto che, diversamente dalla nostra, è carne innocente, crocifissa, risorta, glorificata alla destra del Padre. Questo è il nocciolo di tutte le cose che abbiamo detto, specialmente nei primi giorni, e che dobbiamo, con incrollabile fede, credere.

Non sono profeta, e non voglio neanche farlo, o apparire tale, ma è solo un’ipotesi che, peraltro, è già stata avanzata da persona, da penna molto più autorevole di me. Von Balthasar nel suo librettino “Cattolico” dice così: “Nella vita di Gesù si ebbe un momento di stasi e di peripezia - i sinottici articolano, su quest’ultimo, tutta la loro narrazione - fu quando la sensazione prodotta dalla sua parola e dai suoi miracoli, l’entusiasmo delle masse ebbe raggiunto il grado di saturazione, mentre la crescente opposizione dei dominanti si raggrumava nella sentenza di morte. Da quel momento, con lo sguardo fisso, Gesù imbocca la via per Gerusalemme, tirandosi dietro i discepoli sgomenti e ben sapendo che cosa l’attendeva. La stessa peripezia vive Paolo allorché, a dispetto di ogni messa in guardia, imbocca la strada che sale a Gerusalemme, mentre lo Spirito gli dice che colà l’attendono catene e tormenti. Perché non dovrebbe suonare l’ora storica e planetaria anche per la Chiesa? E perché non oggi?” Cioè lui parla di una kenosis della Chiesa, inevitabilmente gravitante a subire la stessa sorte, la stessa peripezia del Salvatore. “Allora la discesa lungo l’altro pendio dovrebbe avvenire con piede non meno fermo che durante l’ascesa di un tempo. Né occorre che gli sia risparmiata un’intima angoscia, l’ha conosciuta anche il suo Signore”[1]. Uno di voi mi chiedeva stamane se dobbiamo farci la psicologia dell’assedio, sentirsi come assediati da molti nemici. Ho risposto di no e dico adesso, più positivamente e completamente. Qualunque fosse l’esito di questo accerchiamento multiplo, plurimo che viene da diverse parti, dalle religioni orientali, dall’Islam, dal mondo contemporaneo tecnologico, da certi problemi della Chiesa che arrivano ad una certa acme, qualunque fosse l’esito di tutto questo, alla fine noi non dovremmo mai, questi presunti nemici, considerarli come dei nemici, ma come dei collaboratori, collaboratori del grande dinamismo del Creatore e Redentore. Anche se dovessero strapparci non solo le vesti - di cui si diceva, in una conversazione precedente, che dovremmo fare deposizione - ma anche brandelli di carne viva e anche membra intere del nostro corpo, come è già accaduto una volta per le cristianità, per esempio, fiorenti dell'Africa completamente e irrimediabilmente per tanti secoli sommerse.

Dovremmo considerarli come dei cooperatori del dinamismo di Cristo, nella nostra vita e nella chiesa, nella nostra vita personale e nel corpo della Cattolica. Dovremmo non solo tollerare, ma patire e ringraziare e glorificare. Riconoscere in essi degli operatori, talvolta agiti dalle potenze avverse, e, comunque, sempre, strumento nella nostra vita e nella vita della Chiesa della realizzazione della Croce e quindi della vittoria di Cristo. Di quel momento privilegiato in cui il Cristo crocifisso muore sulla croce e ad un tempo ridà il grande respiro, l’anelito vitale della Resurrezione e quindi anche quel momento in cui le stesse potenze che possono avere insufflato a questi nostri accerchiatori le idee e i movimenti dell’assedio vittorioso, sono essi stessi vinti nella vittoria di Cristo e, come sappiamo dalla lettera, sono ormai aggiogati al carro trionfale del vincitore. Anche se noi non sempre possiamo vederlo.

Tutto questo a un patto: “ei ge” dicevamo – “si tamen”, “se tuttavia” - quel versetto centrale del primo capitolo, il 23 del primo capitolo - “se tuttavia” con tutta l’autenticità del nostro essere cristiano e sacerdotale e della nostra missione appunto di sacerdoti, (che) sta infine solo in questo, nel realizzare questo “si tamen”, questo tuttavia. Quale? Non darci da fare ansiosamente, non sopravvalutare i nostri programmi, non sopravvalutare quindi le nostre conseguenti delusioni o frustrazioni, ma stare immobili come dice il versetto 23 del primo capitolo, “me metakinoumenoi apo tes elpidos tou euangeliou”, “non movibili”, “non mobili dalla speranza del Vangelo”. Occorre che noi, sempre di più, consideriamo la speranza come virtù teologale fondamentale. Delle volte rimane un pochino - tra la fede e la carità - rimane un pochino compressa, ma abbiamo visto che, dal principio della Lettera, si parla della fede e della carità “che viene dalla speranza”. Rimanere immobili dalla speranza del Vangelo! Questa è tutta la condizione e, se volete, tutto, tutto, tutto, il nostro essere e tutta la nostra missione. Se ci lasciamo smuovere da questa speranza, anche per un infinitesimo, qualunque cosa facciamo, anche la più bella del mondo, è pura vanità. Anche che tutti ci applaudissero come coloro che hanno inventato la rivoluzione decisiva e la cristianizzazione di tutta l’umanità, se noi ci smuoviamo da questa speranza, tutti i modi che avremmo potuto inventare - e anche ottenere grandi successi e grandi approvazioni - sono puro nulla, puro vuoto, puro inganno, nostro e degli altri.

E allora che cosa dobbiamo fare? Rimanere – dico -immobili in questa speranza. E poi accogliere - dal capitolo III - alcuni consigli. Mi pare, in particolare, il principio: “Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio. Pensate alle cose di lassù, non a quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio.” Non solo continuare a credere e a sperare, ma continuare a mantenerci nella morte di Cristo, nascosti e protetti da questa indicibile ed inesauribile forza, che è il Cristo salvatore, dentro di noi, morti e nascosti, per continuare a spogliarci, come poi dice nei versetti seguenti, in conseguenza, dell’uomo vecchio e a rivestirci dell’uomo nuovo, che si rinnova incessantemente fino a raggiungere l’immagine del suo Creatore.

Non si tratta di avere trovate o di avere espedienti pastorali. Io vi dico la verità: la prima sera ho rifatto un pochino la mia vicenda, facendola coincidere con alcuni eventi che hanno segnato il passaggio dall’infanzia alla prima fanciullezza, andando al ginnasio poi alla prima adolescenza e via via in corrispondenza di certe date storiche che hanno caratterizzato questo secolo. Avrei potuto nello stesso modo dirvi, in modo significativo, quella che è stata la mia vicenda personale, facendo la storia di quelli che possono essere stati le trovate e gli espedienti pastorali per raggiungere la gente in questi decenni. Ne potrei enumerare parecchi - ci ripensate anche ciascuno di voi per quello che è il corso della vostra esistenza - ma anche andando indietro, andando a monte, io ne ho trovate molte, e anche quelli corrispondenti ad una certa datazione, ad una certa fase della mia esistenza, ad una certa fase degli uomini del mio tempo. La stessa storia! Là è la storia civile, qui è storia ecclesiale. Ma la vicenda è stata la stessa e anche se sono stati eventi grossi e che potevano sembrare di grande spettacolo sono rimasti (sempre la stessa storia)!

Quindi non affidatevi, non credeteci, rimanete immobili dalla speranza teologale. Quella di Cristo è quella sola speranza che è custodita per noi nei cieli. Potete adottare via via anche certi metodi, ma come metodi empirici, non tanto per seguire le mode, ma per raggiungere dei modesti risultati immediati, ma non illudetevi sulla loro efficacia sostanziale, anche se tanta gente corre e tanti spettacoli sembrano spettacoli veri. Ma di veri spettacoli ce n’è uno solo – sapete? - che resta nel cuore della storia, quello di cui parla l’evangelo di Luca a proposito della Crocifissione del Signore, la grande “theoria”. (E noi partecipiamo a questo) attraverso questa speranza che resta immobile e attraverso le conseguenti, vere, applicazioni di essa, per esempio, come abbiamo letto stamane: “Fate morire dunque quelle membra di voi che sono della terra, fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e quella avidità insaziabile che è idolatria, cose tutte che attirano l’ira di Dio sui figli della disobbedienza” e poi ancora: “Vi siete spogliati dell’uomo vecchio, con le sue azioni, ed avete rivestito l’uomo nuovo che si rinnova per una piena conoscenza ad immagine del suo Creatore”. La novità è lì. La trovata fondamentale è quella unica e sempre nuova, del Cristo. Non ne abbiamo altre da fare di invenzioni fondamentali. “Rivestitevi dunque, come eletti di Dio, santi e amati, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza, sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi vostri. Come il Signore vi ha perdonato, così anche fate voi. Al di sopra poi di tutto vi sia la carità che è il vincolo della perfezione”.

Da queste conseguenze del nostro restare immobili nella speranza dell’evangelo, da (queste) prime applicazioni, il risultato quale deve essere? Il risultato della carità. Il risultato di concepire sempre di più la Chiesa come grande comunione fraterna. Con le sue strutture, sì essenzialissime, e con il rispetto e la devozione che ad esse dobbiamo, ma sempre e sostanzialmente come realtà che o si sostanzia in questa grande comunione di fraterna carità o altrimenti è tutta illusione, anche nelle sue fondamentalissime e divine istituzioni.

E allora la Chiesa, malgrado tutte le sue avventure e le sue disavventure, conseguirà, come frutto di questa grande comunione fraterna sempre più vibrante di carità, animata dalla speranza inconcussa e inamovibile dell’Evangelo di Cristo, raggiungerà la gioia perfetta, la perfetta letizia dei santi, di S.Francesco in particolare.

E naturalmente questa gioia, consumata in questa carità, sempre più profonda e feconda, la esperimenterà soprattutto, anzitutto, riempiendosi della Parola di Dio. Dice il versetto 16: “La Parola di Cristo dimori da voi abbondantemente. Ammaestratevi ed ammonitevi con ogni sapienza, cantando a Dio di cuore e con gratitudine, salmi, inni e canti spirituali”.

Riempiendoci della Parola di Dio e riempiendoci della celebrazione dei Santi Misteri, sempre più con una celebrazione sempre più degna, sempre più adeguata, sempre più distesa e dilatata, sempre più anche inventiva, ma non inventiva delle invenzioni nevrotiche e consigliate lì per lì dalle mode, ma dalla sobria ebbrezza dello Spirito. Questa sì che è una invenzione alla quale ci dobbiamo abbandonare, soprattutto nella celebrazione dei Santi Misteri. E questa sì, che porterà avanti il vostro cammino spirituale, di ciascuno di voi, e porterà avanti le vostre assemblee parrocchiali, le vostre comunità cristiane. Se ogni Messa sarà una novità assoluta, non una novità per segni esterni, ma una novità profonda che deriva dalla invenzione inevitabile che dalla sobria ebrietà nello Spirito risulta, in modo pacato e conquistatore, nei nostri cuori. Pacato e conquistante, inevitabilmente conquistante. E tutto, e soprattutto queste due cose, il riempirci della parola di Dio e della celebrazione dei Santi Misteri, “Tutto fate - dice il versetto 17 - tutto quello che fate in parole ed opere, allora si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di Lui grazie a Dio Padre”. Inevitabilmente. Inevitabilmente! Una conseguenza che non dovremo nemmeno cercare che fiorirà spontanea dalle nostre anime, dal nostro cuore, dal nostro essere anche se non voluto, e si trasmetterà per forza in un contagio di ringraziamento anche da parte degli altri.

C’è ancora da dire una piccola, ulteriore conseguenza, che troviamo al capitolo IV, ai versetti 2 e 3: “Perseverate nella preghiera e vegliate, rendendo grazie al Signore”. Perseverare nella preghiera vuol dire che tutto questo dovrà essere fatto non in modo discontinuo, ma in modo costante e che ci deve essere in noi quella “gregoria”, quel vegliare, quel vegliare che deve essere l’espressione, anch’essa molto spontanea, del nostro spirito orientato verso il Signore, del nostro spirito che già è nascosto in Lui. Questa veglia escatologica è la conseguenza inevitabile di ogni eucarestia e più si celebrano le eucarestie e più si riesce a portare il proprio essere in piena adesione al Signore, più anche chi ci sta intorno e le comunità che così costituiamo ed alimentiamo, sono trasportate in questa atmosfera ed in questa inevitabile attesa del Signore. E la conformazione dei costumi, l’applicazione conseguente dei comportamenti, le conseguenze anche sul piano che si diceva stamane, inevitabile, di quel tanto di attività e di invenzione sociale, è però allora una cosa non impiantata sulla terra e con tutte le limitazioni della terra e della contingenza inevitabile del terreno, ma è già una cosa anch’essa impiantata in qualche modo in Cielo. E’ tutto un abito diverso. Restano magari le stesse cose, si possono fare anche le stesse cose, ma si fanno con uno spirito e con un abito completamente diverso e che edifica già la comunità cristiana con questo sentire inevitabile della venuta del Signore e della provvisorietà di queste cose terrene, senza nessun pericolo, quindi, di installazioni, di ambizioni conseguenti. Appunto può essere che, talvolta, si veda con tristezza delle persone già avanzate negli anni - come posso essere io - attaccate ancora al loro ruolo terreno, con una morbosità insanabile e questo certo non costruisce perché dov’è l’attesa escatologica?

Il dialogo con quelli di fuori! C’è anche un consiglio su questo, c’è anche una indicazione su questo. “Perseverate nella preghiera e vegliate in essa rendendo grazie, pregate anche per noi, perché Dio ci apra la porta della predicazione e possiamo annunziare il mistero di Cristo, per il quale mi trovo in catene, che possa davvero manifestarlo parlandone come devo.” Se l’Apostolo, quello che ha scritto questa lettera, certo vicinissimo alle scaturigini apostoliche paoline in ogni modo, sentiva il bisogno di chiedere la preghiera per sé e per il proprio annuncio, questa è un’altra delle realtà fondamentali che noi non possiamo non fare. Tante cose non le facciamo per il dritto o ci riescono storte, perché chiediamo poco alla preghiera, la preghiera specialmente degli altri, per noi e per la nostra missione, la preghiera dei sofferenti, la preghiera di coloro che sono nella croce, di coloro che sono nella più squallida povertà anche spirituale, senza - sembra - alcun fuoco acceso dentro. Ma possono anche loro pregare e, se li si invita a pregare almeno per noi e per la nostra missione, perché il Signore ci apra una porta, questa preghiera anche del più squallido tra i nostri parrocchiani, è una preghiera feconda e certamente gradita a Dio, ascoltata, che feconderà mirabilmente il nostro apostolato e ci farà superare delle difficoltà in apparenza insormontabili, che, con tutta la nostra analisi anche di questi giorni, possiamo avere l’impressione che non si romperanno mai, che non si sfonderà mai. Ma abbiamo mai chiesto la preghiera umilmente della povera gente in tutti i sensi, di chi è spiritualmente, anche come uomo e come cristiano, povero? Se la chiediamo può rimanere disorientato. Forse un’Ave Maria per noi ce la dice e così intanto incomincerà a ripetere l’Ave Maria, che forse ha dimenticato, e l’efficacia è sicura, che ci apra una porta.

E poi: “Comportatevi saggiamente con quelli di fuori, approfittate di ogni occasione - traduce qui - il vostro parlare sia sempre con grazia, condito di sapienza per sapere come rispondere a ciascuno.” Certo che bisogna avere (attenzione perché tutti gli uomini) portano ciascuno una realtà culturale profondamente diversa. (Però) noi preti non dobbiamo, non possiamo pensarci come una enciclopedia che si sfoglia: la voce data, per dare una risposta. E’ il Signore che, aprendoci una porta a quel contatto, ci deve mettere anche sulla bocca la parola giusta, quella che conviene, il modo sapiente di rispondere. Però sempre con grazia, condito di sapienza, condito quindi del sale della sapienza, per sapere rispondere a chiunque, nel modo dovuto. Notate una piccola cosa, una piccola osservazione a proposito del dialogo e di questi versetti, che possono in qualche modo essere utilizzati come una norma, in ordine ad esso. Non dice: “Parlate.” Lo dice dopo. Dice innanzitutto: “Camminate.” Comportatevi, propriamente, e camminate saggiamente. E se voi camminate bene, camminate secondo il Cristo, camminate con Lui e in Lui, dopo potrete parlare e potrete trovare la parole che sono adatte al momento, anche se non siete forniti di tutta la conoscenza naturale, scientifica che può essere opportuna. Se la domanda vi sorprende, ma se fate con saggezza e con grazia, questo è fatto in Cristo e, comunque, anche se può essere meno o più esatto, sarà la risposta che in quel momento dovevate dare. Orbene questa grazia e questa fraterna carità e comunione di Spirito Santo in Gesù nostro Signore e Salvatore, Creatore e Redentore, io vi auguro con tutto il mio cuore. Amen.


Note:

[1] Hans Urs von Balthasar, Cattolico, Jaca Book, Milano, 1976, pp.21-22.


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