Anche quando ci si vuole concentrare nella illustrazione del mistero, dell’evento, piuttosto che di un testo particolare della Scrittura, talvolta si è posti in maggiore difficoltà di quella che si troverebbe se umilmente ci si lasciasse accompagnare in modo semplice e piano dalle parole che il Signore ci dice.
Oggi pensavo di parlarvi del mistero dell’Ascensione, ma il testo capitale degli Atti degli Apostoli che vi è stato letto, proclamato, come prima lettura mi accorgo che dice tanto di più, tanto meglio, con tanto maggiore equilibrio, lasciandomi tanto meno nel rischio di teologizzare e di costruire nella mia mente un sistema, in qualche modo, di pensiero da trasmettervi, che mi lascio semplicemente ed umilmente condurre per mano da questo testo. Ed è ciò che fraternamente vi consiglio di fare spesso. Troverete che la Parola del Signore dice sui misteri, sugli eventi, sulla problematica della vita spirituale, su ciò che noi vorremmo dire, tanto di più, tanto meglio, in modo così inconsueto e così continuamente nuovo, da stupire. Così è anche di questo testo notissimo che tutti conosciamo a mente. Intanto il prologo stesso è molto importante proprio per introdurci allo stesso mistero dell’Ascensione che, nella prima pagina, il redattore degli Atti degli Apostoli, il medesimo del terzo Evangelo, ci racconta. Il primo discorso lo abbiamo fatto riguardo a tutto ciò che “Gesù cominciò a fare” - la versione che si crede geniale a mio parere non è corretta, va tradotto proprio così: “che Gesù cominciò a fare e a insegnare” (At 1, 1). Il terzo evangelo racconta ciò che Gesù cominciò a fare e ad insegnare, gli Atti degli Apostoli raccontano ciò che Gesù continua a fare e a insegnare. Una ricerca, niente di speciale ma abbastanza accurata, minuta che ho fatto abbastanza recentemente sul libro degli Atti degli Apostoli, mi ha confermato che questa può essere, a mio parere, l’unica interpretazione veramente attendibile. E’ Gesù ancora il soggetto operante, è Gesù che continua a fare e ad insegnare, è Lui che, assunto nella gloria, in cielo, regna. Che non significa semplicemente essere assiso sul trono dormendo, ma esercita il governo, esercita il giudizio, annuncia la parola, opera prodigi, vivifica la chiesa.
Re! Continua a fare e ad insegnare. A fare. Quando la chiesa battezza è Gesù che battezza, come ci ricorda, riferendosi alla tradizione patristica stupenda anche il Concilio Vaticano II: “Quando nella chiesa si annuncia la parola è Gesù che proclama la parola”. Gesù è il soggetto operante della chiesa e gli Atti degli Apostoli sono tutti costruiti su questa tesi e vogliono mostrare quanto Gesù sia presente, quanto sia vero - ci dice Luca negli Atti - quello che Matteo riporta nella conclusione mirabile dell’evangelo che ora è stato proclamato: “Ecco io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”, ma quanto anche il Vangelo di Marco ci riporta nella conclusione lunga, quando dice che i discepoli andarono a predicare, ma il Signore cooperava con i segni che confermavano la Parola. Dunque è Gesù ancora il soggetto principale operante nella Chiesa. Noi siamo soltanto strumenti, siamo soltanto ministri. Non siamo soltanto testimoni del Cristo, non siamo soltanto coloro che annunciano il Cristo, Gesù non è soltanto l’oggetto per così dire dell’annuncio della chiesa, della sua predicazione, non è soltanto il termine verso il quale la chiesa si muove, Gesù è il soggetto, l’io operante della chiesa. Cambia tutto se si tiene presente questo. E mi accorgo con stupore che, ripensando a questo testo, praticamente molte delle cose - sono state tante che dire tutte sarebbe un po’ presuntuoso - che sono state dette da don Giuseppe nel corso di questo ritiro, sono qui rievocate e riproclamate con una chiarezza indicibile. E questo è molto consolante, è una conferma che abbiamo provvidenzialmente dal Signore. “Quello che Gesù dunque cominciò - dice - a fare e ad insegnare”.
“Fare ed insegnare” è quasi un’endiadi. I due termini si implicano a vicenda e si richiamano a vicenda e sono coessenziali in modo tale che nulla è, se non ci sono ambedue. Fare ed insegnare. La parola è vuota e il cristianesimo è ridotto ad ideologia - ricordate perché si diceva proprio il primo giorno al Tabor parlando del mistero del cristianesimo che è effettuale, storico, evento, non idea, non immagine, non ideale, è qualche cosa di diverso, è un fatto, Gesù cominciò a fare - la parola - dicevo - sarebbe vuota e ridurrebbe il mistero del cristianesimo, il mistero dell’opera di Dio, la forza, l’efficacia, la verità del suo amore a semplice discorso vano, di sapienza mondana, se non ci fosse il fatto.
Ma il fatto non sarebbe nulla, se non ci fosse il dire, l’insegnare. Se l’escludere il fare ridurrebbe il cristianesimo ad ideologia mondana e a parola vana, vuota, a sapienza che è stata evacuata dalla croce del Cristo - quella che non conta, quella delle persuasive parole della sapienza umana - l’escludere il dire, l’insegnare, e l’insegnare in rapporto a quel fare, lo spiegare che cos’è, lo sviscerare profondamente l’entità, “la profondità, la larghezza, l’altezza, l’ampiezza” e la lunghezza del mistero del Cristo che comprende ogni cosa, in modo che il fatto si comprenda, che il fatto si accolga e che così con pienezza e con forza e con crescente sapienza lo si creda. Ridotto a fatto bruto, il cristianesimo non è nulla, è mito. Può esser mito in due modi o essendo ridotto a parola o essendo ridotto a fatto, senza aggancio nella comprensione profonda di ciò che Dio ha voluto realizzare. Non bisogna svalutare la parola, non bisogna svalutare la riflessione profonda della fede e la contemplazione della fede e bisogna, inesausti, incessantemente dire e spiegare e ripetere e riannunciare, perché di giorno in giorno, essendo in noi presente in modo sovrabbondante la Parola di Dio, si cresca nella conoscenza e ci si rinnovi “avendo rivestito l’uomo nuovo che si rinnova a conoscenza”, come dice il testo della lettera ai Colossesi che proprio oggi abbiamo riletto. Dire ed insegnare, senza credere di aver già capito noi, perché non l’avremo mai capito, non avremo mai compreso le insondabili ricchezze della sapienza di Dio. “Come imperscrutabili sono le sue vie!”
Questa imperscrutabilità e questa insondabilità delle vie della sapienza del Signore non fanno che dirci che incessantemente occorre riprendere da capo, come scolaretti che ancora non sanno nulla e che sono ancora all’abc della conoscenza di ciò che il Signore ci ha fatto. E così spiegare, dire alla gente, senza disprezzare il popolo cristiano, senza ritenere che solo noi capiamo e che alla gente, cosa vuoi che interessi! Cosa vuoi che interessi! Sono sigillati con il dono dello Spirito, hanno avuto l’illuminazione spirituale, sono nutriti del Corpo e del Sangue di Cristo, sono fatti eredi del regno dei cieli, coeredi come noi, non meno di noi. Non meno di noi! E c’è questo rischio di clericalismo. Per me questa è la peggiore forma di clericalismo, quella di svalutare la capacità del nostro popolo di capire, di amare, di appassionarsi, di animarsi per queste cose, di accendersi di amore e di desiderio di sapere, di comprendere e di udire. L’occhio del fedele non si sazia di guardare, per riprendere una frase del Qohelet, né l’orecchio si sazia di udire. Colgo un testo bellissimo del tridentino, degli atti del tridentino, una grande discussione sulla versione della Scrittura e un teologo che credeva di saperla lunga disse che non era conveniente proprio tradurre la Scrittura in volgare, perché non bisogna gettare le perle ai porci. Madruzzo, il vescovo di Trento, si alzò e fece un discorso tremendo, tuonante: “Avete sentito, ha chiamato porci le pecore sante del Signore, il popolo di Dio”. Bisogna gettare a piene mani le perle della Parola di Dio al nostro popolo. Ne ha più fame di noi, ne ha più sete di noi spesso, comprende più di noi spesso, tanto più quanto più è popolo povero, umile, il popolo del Signore.
A fare e a dire. Scusate è quasi una divagazione, però non fa parte forse di ciò che noi dobbiamo con ancora maggiore sicurezza ora sapere di nuovo e con ancora maggiore forza, nella grazia dello Spirito, ora riprometterci di fare, come servi fedeli? Ora che il Signore è asceso al cielo! E difatti anche Gesù che appare ai suoi discepoli ha detto tante cose. Quanto predicava, quanto annunciava, quanto insegnava, ma ancora adesso che cosa fa? Fa quello che fece il primo giorno quando i due primi discepoli, Andrea e con ogni probabilità il discepolo che Gesù amava, che non è nominato, Giovanni, su indicazione del Battista andarono a trovarlo, avendogli chiesto “Maestro, dove stai?”, “e si trattennero tutto quel giorno a parlare del Regno di Dio”. E Gesù continua qui ancora in questi giorni che sono gli ultimissimi che trascorre qui sulla terra, prima di salire definitivamente, per sempre, al Padre in attesa del suo ritorno. Parla, parla e parla. Del Regno di Dio. Nel tempo in cui Gesù è nella gloria, regnante e quindi qui operante, in questo tempo il compito che è dato alla chiesa è chiaramente enunciato in queste sue parole. La chiesa è debitrice a tutti, a tutti, della Parola. A tutti! Un popolo lontano, sperduto, che nessuno conosce, la chiesa ha il compito di conoscerlo perché deve andare fino agli ultimi confini della terra. “Hic sunt leones” non vale per la chiesa. Deve varcare gli ultimi confini, andare alle terre più inesplorate, perché finché c’è un uomo sulla terra, noi siamo debitori a quest’uomo di annunciare la Parola.
C’è un testo magnifico al riguardo di San Francesco che riecheggia San Paolo. San Paolo dice: “Noi siamo debitori a tutti, sapienti e insipienti, greci e barbari, stolti e saggi, forti e deboli, dell’annuncio della fede”. E Francesco in un testo stupendo, la Lettera a tutti i fedeli, dice: “Noi che siamo frati minori e quindi siamo servi di tutti siamo debitori di tutti voi” e comincia ad elencare, nella chiesa, il papa, i vescovi, i presbiteri, i diaconi, i suddiaconi, tutti gli ordini minori, tutti i religiosi e le religiose, i papà e le mamme, i vecchi e i giovani, i sani e i malati, i piccoli e i grandi, gli uomini, le donne, tutti, tutti e poi a tutto il mondo e a tutte le nazioni. “Siccome siamo i servi di tutti, i frati minori, siamo debitori a tutti voi di amministrare le odorose parole del Verbo di Dio”, del Signore. E la chiesa deve sentirsi così, deve sentire che c’è un debito non pagato finché c’è un uomo che non ha ascoltato, finché c’è una parola che le è stata confidata che a tutti, a tutti, non sia stata ripetuta e proclamata. Fino ai confini della terra, senza dimenticare Israele, cominciando da Israele. “A voi per primi, fratelli, è stata portata questa promessa, è stato dato questo annuncio”. Che deve essere il grande amore della chiesa, eh! Non può dimenticare il popolo prediletto del Signore, eletto dal Signore.
E che cosa deve dire nella parola? “Voi sarete testimoni di me”. E’ una sintesi stupenda. Lui, Gesù. Testimoniare Lui. La Parola è Lui, è Lui il Verbum abbreviatum, la Parola che condensa in sé tutte le parole, è Lui tutta la Scrittura, è Lui tutta la storia, è Lui tutto il mistero, testimoniare Lui. Questo è il Vangelo, e tutto deve essere ricondotto a questa linea, tutto anzi deve essere fortemente attirato a questo nucleo e concentrato in questo cerchio. “Testimoni di me”, anche questo ci è stato detto e qui ci viene stupendamente ripetuto. Ma questo sarà possibile farlo - non dico soltanto possibile, sarà legittimo farlo - soltanto nella potenza dello Spirito – “Voi non muovetevi, finché non venga su di voi la potenza dello Spirito promesso dall’alto, lo Spirito non che avete udito dalle mie parole, ma lo Spirito del Padre mio che avete udito”. Lo Spirito del Padre. Solo nello Spirito è legittimo parlare, perché solo per lo Spirito la parola è corretta, è esatta. “Pregate perché mi sia dato lo Spirito Santo in modo che mi sia posta la parola giusta nel mio aprire la bocca - dice l’Apostolo - perché sappia annunciare, come si deve, la Parola di Dio”. Una Parola annunciata senza questa potenza dello Spirito non è nulla, è suono, è vacua, non penetra i cuori, non converte, non dice la verità, la verità che è densa, la verità che non è semplicemente non contraddizione rispetto a qualcosa, ma quella verità che è trasmissione di contenuto e comunicazione di vita nello Spirito. Allora come andremo, se la nube non si alza? Ma la nube s’è alzata e la nube si alza e lo Spirito è dato. Ci è stato dato nel nostro cuore, è stato dato sulla Chiesa e ci è dato ogni volta che noi lo imploriamo, perché se noi che siamo cattivi sappiamo dare cose buone ai nostri figli, il Padre nostro che è nei Cieli non darà forse lo Spirito Santo - dice Luca al capitolo XI - a quelli che glielo chiedono? Il rapporto fra la parola e la preghiera, il rapporto fra il Cristo e lo Spirito, e la pienezza del mistero che si compie in questa comunicazione della vita trinitaria che a noi si partecipa e da noi è partecipata, è espressa così in termini mirabili: “Attendete lo Spirito”. Lo Spirito della promessa del Padre, che il Padre vi manda, con il quale potete testimoniare me, il Cristo e il Verbo. Ecco che cos’è l’annuncio e la predicazione della Chiesa. Imploriamo dunque lo Spirito, sempre, sempre prima di aprire la bocca, sempre. Imbeviamoci dello Spirito, inebriamoci dello Spirito, nell’ascolto della Parola, prima di riecheggiare questa Parola con la nostra povera voce umana. Voi attendete che scenda su di voi lo Spirito Santo. E quando avremo invocato, e quando avremo implorato, quando ci saremo soffermati su questa Parola, lasciando che questa ci impregni, andiamo con fiducia, ubbidendo al Signore. Lo Spirito parlerà per mezzo di Lui.
E poi ci sono le parole stupende dell’Angelo: “Uomini galilei perché ve ne state a guardare in cielo?” Com’è facile deformarle queste parole, ma come è bello se il Signore ci dà di capirle in ciò che davvero vogliono dire. E dice: “Questo Gesù che è stato assunto da voi in cielo, così verrà nel modo che lo avete visto andare in cielo”. “Questo Gesù”. Stupendo! “Questo” Gesù. “Outos” E’ il medesimo, è il Cristo, è sempre Lui. E’ sempre Lui che è ieri, oggi e per i secoli, e che non cambia, è Lui il figlio di Maria, è Lui il promesso dai profeti, è Lui il Crocifisso, è Lui il risorto, è Lui tutto risolto, nel suo dono a noi, nel suo mistero pasquale di morte e di vita, di sangue e di spirito. E’ Lui il Cristo. E occorre sempre riandare a quest’unico evento, a quest’unico nome che non cambia. Nulla cambierà. La prospettiva sono i secoli, la prospettiva sono i secoli sopravvenienti, come direbbe San Paolo nella lettera agli Efesini. Questo Gesù, il medesimo Gesù in carne ed ossa, il figlio di Maria, quello che ha detto, dopo la sua resurrezione: “Guardatemi e toccate perché uno spirito non ha carne ed ossa come vedete che io ho”. Questo Gesù che anche nella gloria è ancora nella carne, questo Gesù che ha patito sotto Ponzio Pilato, è lui il Signore che regna per tutti i secoli ed è lui che ritornerà. Questo Gesù. Nulla cambia, nulla cambia. E’ per sempre e da sempre, il primo e l’ultimo, colui che è, colui che era, colui che viene.
Questo Gesù verrà. Non ho mai sentito con tanta gioia come così oggi, rileggendo questo testo, questo “verrà”. Perché, che cosa vuol dire? Vuol dire che se da un lato siamo rimandati incessantemente all’evento unico sul quale ci fondiamo, nel quale nasciamo, dal quale siamo avvolti e nel quale viviamo, quell’evento, la Pasqua del Signore, è vero anche, d’altro lato, che il futuro è del Cristo. Lui verrà. Non è suo soltanto il passato, non è suo soltanto il presente, è il futuro! La Chiesa non rievoca soltanto un evento trascorso, la Chiesa ha per sé il tempo. Il tempo gioca a suo favore, per dirla con una frase mondana, il futuro è suo, di Gesù. E nostro, perché tutto è nostro e noi siamo del Cristo. Il futuro è suo, lui verrà. Questo è l’evento che attendiamo. L’unico evento che accadrà, veramente nuovo, veramente decisivo, è suo. Siamo invitati quindi a protenderci in una grande speranza, non quasi che ciò che noi possediamo sia destinato pian pianino a consumarsi o come si dice in quel testo terribile: “E’ un evento tanto lontano che non è più vero”. No, è un evento vicino. E’ oggi. Ed è un evento che deve compiersi – “o erxomenos”, il veniente - il domani è di Gesù. Per questo, ci sono quelle formule magnifiche sia nella lettera ai Colossesi, che ci sono state ripetute, sulla speranza, sia nella lettera agli Ebrei, che fa dipendere tutto dal nostro tenerci saldi, attaccati alla speranza, sia nella prima lettera di Pietro – “saper rendere conto a tutti della nostra speranza” - perché la nostra fede è una grande speranza. E’ l’attesa di questo futuro del trionfo del Signore e del dono totale della sua misericordia.
E’ in questa attesa fervida che la chiesa ravviva incessantemente, vigilando in questa attesa, il proprio amore, perché più si attende più si è impazienti di vedere, più si attende più ci si innamora di colui che si ama e che si brama di rivedere. L’attesa accende l’amore, lo ravviva, perché caccia la sazietà. E’ il contrario della sazietà e della noia e della assuefazione, è l’imprevisto, è la freschezza perenne dell’amore sempre nuovo. E solo questa attesa mantiene la Chiesa tutta e le anime nella libertà. Ciò che toglie la libertà è la mancanza dell’attesa o l’attenuarsi del desiderio o l’attenuarsi della certezza che questo Signore che sta venendo, davvero sta venendo, è alle porte, bussa. E’ allora che ci si attacca, è allora che ci si attarda, è allora che ci si accasa, è allora che ci si instaura. La libertà è data soltanto dalla forza e dall’urgenza dell’attesa. Ed è una attesa piena di gioia, perché è l’attesa di quella che è chiamata in questo testo - perché bisogna avere il coraggio di recuperare certe parole, anche se se ne è abusato talvolta nella tradizione cristiana - l’“apocatastasis”, la “restitutio”, la “restituto in integrum” del piano di Dio corrotto dal peccato. “Sarà in questo tempo che “apocathistaneis”, che “restitues”, compirai l’apocatastasis, la restitutio del Regno di Israele?” Non è una domanda ingenua come tante volte si sente dalla predicazione, che Dio ci perdoni! E’ una domanda fondamentale, capitale. Gli apostoli hanno capito e chiedono: “Allora, è adesso che viene il Regno?” E Gesù dà la risposta classica che dà quando lo si interroga sull’escatologia e sul tempo e dice: “No, non est vestrum”, non è vostro sapere i tempi che il Padre ha riposto nel suo potere. Il “Regnum Israel” è la restituzione di tutto, è la restaurazione universale, è l’adempimento di tutte le profezie, è il Regno della resurrezione.
In questo testo gli Apostoli lo formulano con i termini classici della loro speranza: “Restitues Regnum Israel”. E difatti c’è un altro testo, al capitolo V, nel quale Pietro promette questa apocatastasis della quale hanno parlato tutti i Profeti. Ecco dunque che cosa noi attendiamo. Attendiamo il regno universale di Dio, quando Dio sarà tutto in tutti, attendiamo la comunione perfetta con gli angeli e con i santi, attendiamo l’effondersi totale della beatitudine stessa di Dio che ci inghiottirà in sé, lasciandoci vivere e anzi facendoci allora veramente vivere, noi con il nostro nome e il Signore che passerà dall’uno all’altro per servirci alla mensa celeste. La nostra vita, la vita cristiana è dunque tutta protesa nel futuro, ma a questo futuro, non ad una immagine diversa di futuro sul quale non sappiamo, non sappiamo, della cui tragicità o della cui normalità non possiamo dire nulla, prevedere nulla. E’ nelle mani di Dio. Sappiamo soltanto che questo futuro ormai è alle porte, perché i segni che Gesù ha preannunciati come tali da indicarlo come ormai imminente si stanno compiendo tutti sotto i nostri occhi e perché la nostra attesa deve essere quella dell’oggi, del domani. E’ solo l’ora che è incerta.