30/7 IX meditazione di Dossetti su Col 3,1-17


Stamattina volevo fare una cosa, poi mi sono dimenticato. Mi ero proposto di pregarvi di leggere i primi 17 versetti del cap. 3, perché era bene che li avevate già presenti e così evitavo - lo debbo evitare per forza, perché il discorso ormai non lo consente più - di leggerli. Però insieme li rileggiamo adesso, con qualche piccola modifica della versione della CEI per rendere in modo un pochino più aderente il testo: “Se dunque siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove si trova Cristo assiso alla destra di Dio. Sentite le cose di lassù, non  quelle della terra. Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando si manifesterà Cristo, la vostra vita, allora anche voi sarete manifestati con lui nella gloria. Mettete a morte dunque le membra che sono sulla terra: fornicazione, impurità, passioni, desideri cattivi e l’avidità che è l’idolatria, tutte cose per le quali viene l’ira di Dio sui figli della disobbedienza. In esse anche voi un tempo camminavate, quando vivevate in esse. Ora invece deponete anche voi tutte queste cose: ira, passioni, malizia, maldicenze, parole oscene dalla vostra bocca. Non mentitevi gli uni gli altri. Vi siete infatti spogliati dell’uomo vecchio con le sue azioni e avete rivestito il nuovo che si rinnova a conoscenza, a immagine del suo Creatore. Dove non c’è più greco o giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro o Scita, schiavo o libero, ma Cristo è tutto in tutti. Rivestitevi dunque, come diletti di Dio, (…), santi e diletti, di viscere di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi. Al di sopra poi di tutto ciò vi sia la carità, che è il vincolo della perfezione. E la pace di Cristo sia (…) nei vostri cuori, perché ad essa siete stati chiamati in un solo corpo e siate riconoscenti. La parola di Cristo dimori tra voi abbondantemente; ammaestratevi ed ammonitevi (…), cantando a Dio di cuore e con gratitudine salmi, inni e cantici spirituali. E tutto quello che fate in parole ed opere, tutto nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di lui grazie a Dio Padre”.

Se nei primissimi versetti del primo capitolo abbiamo visto una certa continua trasposizione tra la comunità locale e la chiesa universale, nella sua unità di corpo di Cristo, in questi si considera prevalentemente la comunità unica del Cristo creatore e redentore e quindi la chiesa nella sua universalità. Però si fissa una fisionomia per essere chiesa e del vivere nella chiesa che è paradigmatica, con i suoi atti più importanti e con i suoi pericoli, le sue possibili deviazioni e con, invece, il suo programma spirituale, teso alla vita eterna. Io non faccio il commento di questi versetti, ma li tengo presenti appunto e anche voi li rileggerete come il paradigma di fondo della vita ecclesiale.

Io, d’altra parte, non intendo neppure, oggi, anche se prendo le mosse per questa strada, di fare una specie di storia della chiesa per giungere ai nostri giorni e ai nostri problemi, questa volta i nostri problemi ecclesiali, direttamente considerato in recto, non più solo rispetto al mondo circostante e ai problemi che il mondo e la storia possono oggi porre alla chiesa.

Girolamo, buon anima, nella sua Vita di Paolo, Ilarione e Malco un libricino scritto probabilmente fra il 388 e il 392, più probabilmente ancora nel 391 a Betlemme, che mi piace considerare proprio perché la sua ombra è presente in tutti questi nostri giorni, qui, dove voi avete respirato l’aria delle grotte di San Girolamo, avete riconsiderato la grande funzione ecclesiale del dottore massimo delle Scritture e insieme avete potuto sentire a Betlemme nelle grotte, ancora il suo spirito e quello delle sue figlie aleggiare nell’atmosfera. Dunque Girolamo in questo libricino della vita di Paolo, di Ilarione e di Malco precisamente al principio della vita di Malco incomincia così. Dopo poche battute dice: “Se il Signore mi darà vita e se i miei detrattori cesseranno di perseguitarmi - si vede subito il suo complesso di persecuzione - ora a meno che io fugga e me ne stia rinchiuso intenderei scrivere una storia che vada dall’avvento del Salvatore ai nostri tempi, ossia dall’età apostolica fino al marciume dei nostri giorni. Vorrei narrare come, ad opera di chi sia nata la chiesa di Cristo, come una volta cresciuta si sia ingrandita in forza delle persecuzioni e come, infine, da quando è giunta nelle mani di imperatori cristiani ne siano aumentate la ricchezza e la potenza, ma diminuite le virtù”. E’ un proposito che lui non ha mai portato ad effetto e che io non voglio certamente nemmeno lontanamente oggi tentare di fare, anche perché già qui non condividerei tante espressioni che sono tipiche sue, il “marciume” per esempio - non lo penso. Però alcuni aspetti di questa vicenda, in fondo, nella linea che Girolamo si proponeva di seguire, mi sembrano interessanti, soprattutto quello che dice: “nelle mani degli imperatori cristiani”. Vedremo queste mani, e quale problema pongono. Naturalmente egli parlava alla fine del IV secolo soprattutto con riferimento a Bisanzio, dove anche i monaci del deserto dovevano andare per poter risolvere questioni ecclesiali. Saba si toglieva dalla (…) della sua grotta per esser spedito più di una volta a Bisanzio per trattare con l’imperatore di questioni relative all’origenismo.

Comunque è certo che vi era già a quel tempo un accentramento del potere politico ed ecclesiale in qualche modo chiuso e indistinguibile, o per lo meno distinguibile a fatica, queste mani dell’impero che potevano alterare i contorni limpidi e puri della chiesa d’oriente. Mi vorrei fermare su questo intanto un po’ a lungo. Dalla chiesa d’oriente noi abbiamo avuto molto, da quella che è l’insieme della chiesa d’oriente - dirò poi che cos’è la chiesa d’occidente e i suoi valori positivi - ma certo ci sono alcuni valori caratteristici e che sono propri delle chiese orientali e che ancora oggi sono un grande patrimonio, dal quale ancora la chiesa nella sua unità complessiva deve attingere. E cioè noi abbiamo attinto la fede nel suo complesso più originario - certo non dimentico la Roma di Pietro e Paolo e il primato della carità di cui parla Ignazio - ma il grande patrimonio si è formato nella chiesa d’oriente. Il pensiero, la riflessione sulla fede, il discorso sulla fede, il quadro teologico fondamentale viene di là, nelle sue varie e sfumate componenti, già in tutte le componenti giudaiche per i cristiani che - è il grande deposito della Palestina e anche delle vicine terre considerate medio-orientali, e cioè da una parte l’Egitto e dall’altra parte i paesi della Siria - hanno (trasmesso) ed hanno immesso nel filone fondamentale della chiesa.

Poi alla chiesa d’oriente dobbiamo anche il patrimonio, la conservazione, di quello che c’era di meglio nella filosofia precedente, la filosofia ellenistica, soprattutto il neo-platonismo. E poi i grandi padri, specialmente i cappadoci anche i copti - questo patrimonio complessivo, grossolanamente accennato per un momento, che costituisce il patrimonio vario e si potrebbero aggiungere ancora molti elementi delle chiese orientali - è tuttora una miniera che va attinta anche dalla chiesa d’occidente e che per molto tempo è stata comune alla chiesa d’oriente ed alla chiesa d’occidente sia pure con caratterizzazioni particolari al genio di ciascuno.

Poi abbiamo attinto un’altra cosa: il culto, nelle sue origini, nelle sue grandi matrici liturgiche. “Lex orandi, lex credendi”, le grandi anafore nelle varie famiglie, la famiglia alessandrina, la siriaca, o le siriache orientali e occidentali, il rimaneggiamento bizantino, gli alessandrini appunto, i copti, tutto questo è un patrimonio che ancora io ritengo normativo in grande parte, anche per noi, e di cui dovremmo prendere sempre più coscienza. Non possiamo… Disgraziatamente mi sentirete un pochino parlar male delle anafore. E’ certo! Quando si confrontano le nostre ultime tre, e poi quelle altre peggio ancora che sono state aggiunte dopo, alle grandi anafore celebri delle liturgie veramente praticate delle chiese d’oriente, si sta male, si sta male. Si sta molto male! Quale immenso patrimonio di testi fondamentali, di capacità di sintesi e di raffronti impensabili e profondissimi, tra punti e punti essenziali della rivelazione neotestamentaria, vissuti, praticati, nutrimento abituale. Anche lì ci saranno dei problemi, anche per le stesse chiese orientali. La pratica e l’esercizio potranno essere discusse di questo grande patrimonio e la pratica quasi invalsa, non però dappertutto, di una eucaristia piuttosto rarificata, frequentata al massimo alla domenica. Però a quelle (anafore) dobbiamo ritornare. Un libro che io consiglio sempre è semplicemente la raccolta delle anafore

Intervento di Neri: “Prex eucharistica” a cura di  A.Haenngi e I.Pahl, edito a Friburgo, è un testo meraviglioso, ci sono le migliori anafore, con il testo originale quando è greco, e la versione latina. Non c’è il testo originale delle anafore orientali, c’è solo il testo, la versione latina. E’ fatto molto bene, è molto accurato, è perfetto, è in un volume, c’è un patrimonio tale di (ricchezza) teologica!

Dossetti: Immenso. Immenso! Io credo che ogni prete un po’ coltivato dovrebbe avere quello sempre a portata di mano. E farà delle scoperte continue ed interessantissime e gli verrà anche la voglia, delle volte, di praticarle. Questo grande patrimonio viene soprattutto dalle chiese orientali, perché anche il nostro canone romano è fondato principalmente sul canone alessandrino e fa quindi parte di una famiglia delle liturgie orientali.

Poi una terza cosa che io ritengo sia una realtà profonda delle chiese d’oriente alla quali dobbiamo attingere per un confronto: direi strutture fondamentalmente più semplici. Cioè le strutture ecclesiali sono, nella loro fondamentale portata, ancora fondate sulle attività cultuali liturgiche fondamentali. C’è una minore proliferazione di uffici, di specializzazioni, di diramazioni e branchificazioni del ministero che da noi si è andato pianino pianino sempre più gonfiando, tanto che anche gli ultimissimi pontificati si sono proposti sempre di ridurre e sempre lo hanno aumentato. Questo è un dato inoppugnabile. Le varie riforme avevano anche come obiettivo quello di ridurre gli uffici centrali, invece sappiamo benissimo che sono aumentati. Questa elementarietà strutturale fondata essenzialmente sui dati liturgici, cultuali, sul ministero fondamentale è una caratteristica delle chiese orientali. Potete dire che adesso è anche consigliata per forza dalla loro riduzione quantitativa, ma non è esatto, è l’ispirazione corrisponde a questo tema.

Una quarta fondamentale, fondamentalissima secondo me, caratteristica alla quale dobbiamo guardare con desiderio, e non con disprezzo ma con ammirazione, è la portata della tradizione non solo come norma di fede, ma anche come norma ecclesiale. Cioè la tradizione, la norma tradizionale, i canoni fondamentalissimi, prevalgono sulle norme positive, su quello che si potrebbe dire il diritto positivo ecclesiastico, che nell’occidente ha cominciato molto presto a proliferare con una maggiore forse tempestività di aggiornamento e di (…)

(Siamo dinanzi alla realtà) del succedersi continuo delle norme positive ecclesiastiche. Molte volte nell’ambito di un solo Pontificato, quasi sempre nel corso di una successione, molte di queste norme vengono non soltanto completate ed aggiornate, ma addirittura invertite dal Pontificato successivo.

Come ripeto certi vantaggi indubbi - per contro nelle Chiese orientali c’è il pericolo di un certo fissismo o di una lungaggine o di una impossibilità, accennava Umberto l’altro giorno qui, è vero, alla impossibilità delle volte nelle Chiese orientali, specialmente tutte le Chiese autocefale, di mettersi d’accordo per poter anche arrivare a concrete disposizioni normative che si impongono, anche a loro giudizio - però per conto nostro, da parte nostra, c’è il pericolo opposto, c’è il pericolo appunto di un positivismo giuridico che riduce tutto alla volontà del Papa o alla volontà degli organi che esprimono il governo centrale, via via in continua modificazione, con ben scarsa considerazione della tradizione.

Su questo si potrebbe parlare molto, potremmo anche dare dei casi recentissimi, per esempio quella norma che a mio giudizio è stato un vulnus, una ferita grave, relativa ai Salmi espunti dal Salterio, o ai versetti espunti. Questo a mio giudizio è stato un vulnus molto grave. Non potrebbe mai avvenire nelle Chiese orientali, e costituirebbe comunque un gravissimo scandalo rispetto al giudaismo. Anche se si può giustificare con l’opportunità. Finché si diceva i Salmi in latino nessuno si scandalizzava, quando il popolo tutto è chiamato a dire, a comprendere i Salmi allora c’è pericolo di inopportunità e si è cercato di ridurre questa inopportunità, (cosa) che poi ha messo in un vicolo cieco, perché ditemi un po’ se, per esempio, al Salmo 109 (110) che è così decisivo - è il Salmo prevalente in tutto il Nuovo Testamento per la cristologia, sia possibile togliere alcuni versetti, quello in particolare…

U.Neri: Il versetto (6).

d.Dossetti: E tuttavia ancora tollerare - per forza! - “ha detto il mio Signore al mio Signore: Tu siedi alla mia destra finché abbia posto i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi”. Si è tolto un versetto, ma non lo spirito del Salmo. Non lo si poteva togliere. Si poteva sopprimere, ma il Salmo è intoccabile. Perché tutta la cristologia è fondata su di esso. Questo è quello che io chiamo il pericolo gravissimo di un positivismo giuridico.

Un altro caso molto grave - e che è poi la ragione principale, anche se può essere più un equivoco che una ragione formale di differenza - il Filioque; L’introduzione nel Credo del Filioque. Con tutta la vicenda secolare che ha avuto e le irreparabili ripercussioni perlomeno nella incomprensione reciproca delle due Chiese.

Certo non tutto è oro nella chiesa d’Oriente. Ci sono anche delle scorie naturalmente: un certo formalismo, un superclericalismo e soprattutto la commistione con il potere civile e la mancata distinzione tra la Chiesa e lo Stato - il discorso di Gerolamo “nelle mani di imperatore cristiani”, che non dice “nelle mani degli imperatori pagani” - cioè il cesaropapismo, che ha sempre caratterizzato sostanzialmente la chiesa di Bisanzio e che è stata anche causa di molti malanni. Alludevo l’altro giorno (a questo): anche qui si può ritrovare qualche cosa che ha creato quel disagio per cui poi queste regioni hanno sostanzialmente, i cristiani, hanno sostanzialmente aperto le porte all’Islam. Forse resistenza non la potevano fare, ma insomma l’Islam è stato accolto con più ingenuità e più favore iniziale di quanto avrebbe permesso una distinzione più pacata, che non avesse lo stimolo della reazione al centralismo bizantino e al centralismo particolarmente complesso della Chiesa e dello Stato.

E questo cesaropapismo si è sostanzialmente conservato sino ai nostri giorni pressappoco. Vogliamo prendere una data? La rivoluzione d’ottobre. E poi non sappiamo che cosa stia accadendo. Da quel che si è visto, cioè dalle richieste della Chiesa russa presentate a Gorbaciov, si sente un po’ odore cattivo, di bruciato. Alcune richieste finalmente piò che legittime, naturalmente indiscutibili, ma qualche cosa che fa ripensare alla vecchia commistione c’è, anche in quelle richieste finora disattese dal governo russo. Ma per dire che come si era arrivati alla vigilia della rivoluzione d’ottobre per me è paradigmatica la canonizzazione di un grandissimo Santo, forse il più grande Santo, almeno degli ultimi due secoli della Chiesa russa, Serafino di Sarov. E’ emblematica. Possiamo ricavare alcuni dati da quel bel libro di Irina Gorainoff su Serafino di Sarov che è anche in italiano. E’ pubblicato dall’Abbazia di Bellefontaine dai Trappisti, ma è tradotto in italiano da Bose. Nel 1902 l’Imperatore Nicola II espresse il desiderio di vedere il Santo Sinodo concludere la procedura della canonizzazione del Santo, che già durava da anni, e con celerità rinnovata sotto lo stimolo della volontà imperiale, nel gennaio 1903 il Santo Sinodo sottometteva la sua decisione all’Imperatore di tutte le Russie. Pubblicata nel n. 5 del giornale ecclesiastico del 1° febbraio del 1903. La canonizzazione fu un trionfo del Santo e certamente lo meritava. E anche è apparso trionfo dello stesso popolo russo, della Santa Russia e quindi dell’unità tra il popolo e l’Impero, tra il popolo, la Chiesa e l’Impero. Partecipò naturalmente l’Imperatore, l’imperatrice e tutta la famiglia imperiale. Per due giorni si recarono a Sarov e poi dalle Monache di Divejevo, il ramo femminile. L’imperatore e l’imperatrice erano ancora in giovane età in quel momento e desideravano un figlio e chiesero probabilmente - si può dedurlo da vari elementi - la grazia di un figlio a San Serafino. Difatti poi l’anno dopo nasceva lo sperato erede che era però emofilico.

L'imperatore prima di lasciare Divejevo volle parlare con una “folle in Cristo” che era ospitata dalle monache, Pasha di Sarov. Il colloquio fu certamente tragicissimo perché questa “folle in Cristo” rivelò all’imperatore quello che era il futuro e uscì sconvolto dall'incontro.

1903, luglio 1903. Nel 1904 seguiva la guerra russo-giapponese e la grande sconfitta del colosso russo. Nel 1905 i primi fremiti della rivoluzione e a 15 anni, meno di 15 anni dalla canonizzazione di San Serafino l’Impero crollava, lo Zar e tutta la famiglia imperiale veniva assassinata. Però ecco, quello fu il momento apice, emblematico, quello che era stato e che era ancora il cesaropapismo della chiesa russa, in questo erede della chiesa bizantina.

Ora vediamo l’occidente. Nel IV secolo la lingua parlata nella chiesa di Roma era ancora il greco. L’occidente ha recepito la fede da Pietro e da Paolo e l’ha elaborata con i suoi doni propri. Ha incluso in questa elaborazione innanzitutto il martirio dei suoi corifei Pietro e Paolo. Sto parlando del principio; nel quarto secolo cominciavano ad esserci traduzioni latine, c’erano di certo. Però sostanzialmente la lingua più praticata era ancora il greco. L'occidente ha dunque messo il martirio in modo caratteristico ed evidente. Poi la inclusione progressiva dei doni propri delle nuove nazionalità, la Gallia, la nazione germanica centrale, la Spagna, tutta l’Africa settentrionale occidentale, con tutto quello che significa e tutti gli apporti di razze, di nazioni e di genialità, i grandi padri dell’Occidente, in particolare Ilario ed Agostino, in un monachesimo recepito ben presto dalla chiesa orientale, con la conoscenza molto recente, molto prossima, della vita di Antonio di Atanasio e la pratica effettiva del monachesimo nella chiesa di Francia e anche nella chiesa d’Italia, e poi oltre. Se volete, in modo particolare, un genio come Gregorio Magno. Ma ben presto si sono fatte sentire anche qui le conseguenze delle vicende politiche - non sto a rifare la storia della chiesa che magari sapete molto meglio di me. Arriviamo a Carlo Magno e qui c’è il primo episodio: l’adozione da parte della cappella imperiale di Aquisgrana del Credo con il Filioque e la successiva imposizione praticamente a Roma di adottarlo, nonostante le resistenze fortissime del Papa. Questo elemento ha insinuato nell’unità di fede e di professione di fede delle due Chiese una divaricazione che è andata oltre la stessa formula del Filioque, la quale ha una sua portata, ma poi l’alone di equivoci e di contese intorno ad esso è ingrandito gravemente. Comunque se non altro per la verità dell’adesione al simbolo niceno-costantinopolitano non si doveva e comunque per l’opportunità si sarebbe dovuto sconsigliare. E invece è avvenuto. E qui appunto sono state principalmente le vicende politiche che hanno influito sul movimento della vita della chiesa.

Pressappoco nello stesso tempo, con qualche anticipo, le Decretali (pseudoisidoriane) hanno introdotto una nuova forma di centralismo articolato, attraverso la depressione della funzione episcopale, a tutto vantaggio della funzione metropolitana. Principio anche questo di una evoluzione che è andata molto lontano. La riforma gregoriana risanando i costumi e riuscendo in parte a sganciare dal potere secolare la Chiesa, ha però anch’essa accentuato certi movimenti e particolarmente il movimento accentratore. E a questo hanno contribuito principalmente i grandi ordini monastici, Cluny e Citeaux, i cluniacensi e i cistercensi che sono stati i grandi operatori anche della riforma effettiva del costume ma che, d’altra parte, hanno finito con il diventare prevalentemente il clerus Papae che consentiva di agire direttamente da Roma sulle Diocesi, e un’ulteriore svalutazione della funzione episcopale dovuta ancora ai risentimenti della confusione tra investitura laica e investitura ecclesiastica e il processo è andato avanti con i Papi del Medioevo - del basso Medioevo - e poi ha raggiunto in un certo senso il suo apice concettuale in Innocenzo IV, Sinibaldo Fieschi, sul quale mi è giunto proprio in questi giorni, prima di partire, una monografia recentissima e secondo me di valore, di una specie di pronipote non di sangue, ma un po’ così di pensiero, di ideologia, che si rifà in qualche cosa a me. Comunque il libro è di valore. Il libro è di Alberto Melloni, un giovane studioso e dice già nel titolo molto bene la tesi fondamentale, “La concezione e l’esperienza della cristianità come regimen unius personae”. Il titolo già dice tutto e ritengo che da quel momento-apice non si sia ancora del tutto definitivamente usciti, nonostante tutto quello che è avvenuto dopo: la decadenza del potere papale nel XIV secolo, i Concili di Costanza, di Basilea – quest’anno, l’anno scorso precisamente era l’anniversario del tentativo di unione del Concilio di Firenze subito poi fallito nonostante la riforma, nonostante il Concilio di Trento, nonostante i grandi Papi dell’epoca contemporanea, nonostante il Concilio Vaticano I e Vaticano II soprattutto. Ho l’impressione che tuttavia l’arco della parabola non si sia ancora definitivamente esaurito e chiarito. Soprattutto che non si sia decantato il potere ecclesiale da tutta una serie di equivoci e di confusioni permanenti - non nella forma delle chiese orientali, ma tuttavia endoecclesiali permanenti - tra funzione propriamente ecclesiale e funzione politica, per una serie di supplenze, talvolta anche necessarie, e per una inclinazione un po’ tradizionale e impropria della chiesa d’occidente a influire nel sociale in qualche modo (direttamente). Da una parte abbiamo avuto il cesaropapismo con tutte le degenerazioni che ha implicato, anche a danno della chiesa nel suo interno, e dall’altra abbiamo avuto una sorta di sacralizzazione di tutte le funzioni e un istinto - diciamo la parola perché la troviamo nel testo di oggi - di una certa avidità che è idolatria, ci dice la lettera ai Colossesi, e secondo me non ancora decantata del tutto e ancora un pochino da scontare. Questa può essere un’opinione personale. Potremmo parlarne e discuterne. Se non fossimo proprio alla fine mi vorrei fermare su questo, però credo che comunque vada detto e costituisca una premessa necessaria anche per qualificare bene l’essenziale della nostra stessa funzione e del nostro stesso ministero e l’essenziale assoluto della Chiesa, nel suo corpo vitale. Ci sia come una specie di deposizione delle vesti – l’ho sentito l’altra sera, l’altro giorno nell’omelia su Giovanni 13 - di tanti compiti che noi riteniamo assolutamente necessari e che invece non lo sono, che appesantiscono molto il nostro ministero, anzi sempre più lo appesantiscono, quanto più il numero dei sacerdoti è insufficiente. E poi provocano una specie di struttura rigida, la quasi impossibilità, per esempio, di ridurre i campi di azione, le funzioni propriamente ecclesiali al loro nocciolo fondamentale, e perciò questo affaticamento anche frustrante di tutto il clero. Perché non lo possiamo negare questo: c’è un affaticamento dei giovani come dei vecchi, per diversi motivi, ma che pesa, pesa sul cuore soprattutto. E c’è un desiderio, magari in molti vivissimo, di deporre le vesti, di cingersi i fianchi. Ma non è possibile, perché si è ancora dentro uno schema che è ancora, nonostante tutto, quello di (…) fa, nonostante tutto. Sono intervenute delle grandissime trasformazioni, sono intervenuti anche degli stati d'animo e delle esigenze spirituali molto innovatrici, talvolta troppo innovatrici, ma non è intervenuta una decisione profonda e radicale, relativa alla funzione e individuata nel suo punto più proprio e alle strutture più essenziali e caratteristiche. Io non la vedo. Sinceramente dico che non la vedo e più ripenso - per quel poco che ho saputo e che ho cercato di sapere in anni lontani, perché adesso non mi occupo più di niente, non mi occupo più di questo perlomeno, ma per quello che io mi sono fatto l’idea della vita della Chiesa e della storia del suo diritto e delle sue funzioni fondamentali - mi sembra che ci sia proprio progressivamente sempre stata una impossibilità di raggiungere quello che si vuol tutti raggiungere, l’essenziale.

Perciò ecco, la raccomandazione che a me pare di ricavare. Bisogna che noi ritorniamo a questo cristocentrismo, che in questi giorni abbiamo tanto considerato, al primato - non solo al primato - della sua funzione supremamente gerarchica e unificatrice della Chiesa, ma al primato concreto della sua azione. Noi lo vogliamo rendere troppo disoccupato questo Signore. Lo pensiamo inevitabilmente così, come uno che non prenda una iniziativa incessante e continua a favore della sua Chiesa e vogliamo supplire - non supplire solo le funzioni della società politica, ma supplire anche una funzione di Cristo, alla quale dovremmo chiedere una pienezza di fede capace di restituirgli tutta l’iniziativa che gli compete. Se è Lui non può non essere così? E noi cosa siamo? Siamo proprio quello che dobbiamo essere? E quali sono gli atti fondamentalissimi e più importanti, (impreteribili) assolutamente, che dovremmo riporre continuamente al centro di tutta la realtà ecclesiale quali? il Concilio Vaticano II ci dice che la fonte e il culmine di tutte le operazioni ecclesiali stanno nella Messa, ma io non vedo che questo sia vero e dico francamente - adesso vi faccio una confessione: la Diocesi di Bologna ha celebrato nell’87 il suo Congresso eucaristico decennale. C’è a Bologna il costume che ogni parrocchia fa la sua decennale, che ogni zona fa la sua decennale, la diocesi intera fa la sua decennale. Cioè ogni 10 anni si celebra, con solennità, non solo una riproposta al popolo cristiano della centralità dell’Eucarestia, ma si dovrebbe riproporre la centralità dell’Eucarestia anzitutto per il prete. E questo non è avvenuto. Dico francamente - a tre anni mi sento di dire - che il bilancio sotto questo aspetto ha lasciato le cose come erano prima. Non è avvenuto. Può darsi che il popolo abbia cambiato in qualche cosa, ma il clero no, è rimasto nelle stesse posizioni di prima, per quel che riguarda l’Eucarestia. Non è avvenuta nessuna modificazione, non si è sentito che ci fosse qualche cosa di vitale, di nuovo riproposto al clero, per porre veramente al centro della propria funzione, della propria vita, l’Eucarestia.

Questa amarezza e questa delusione mi resta e più ci si allontana da quella data più mi aumenta. Non l’ho mai detto al Cardinale, però adesso glielo direi. Lui si è illuso, ha fatto un Congresso stupendo, magnificamente organizzato - tra l’altro con un grande dispendio di mezzi ed una sapienza anche organizzativa concreta e una proposta interessante in vari campi. Ha cercato di individuare dei punti nodali di eredità del Congresso: una casa per i poveri, un ricovero per i vecchi, sei o sette opere che sono in via di realizzazione, ma il clero? Non credo che abbia fatto nulla per il clero questo Congresso. E secondo me (questa) cosa non è accaduta. Dobbiamo cambiare noi completamente, perché veramente Cristo sia al centro anche della vita del popolo cristiano e anche della vita della Chiesa, e dobbiamo necessariamente deciderci a semplificare le nostre funzioni e a centrarle tutte su quella che è la funzione fondamentale. Io non ho poi altro da dire, semmai da riprendere in un dialogo con voi.


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