29/7 VI meditazione di Dossetti su Col 1, 21-29


Vorrei dedicare questa nostra riflessione di stamane alla considerazione di alcuni dati emergenti dalla ultima parte del cap. I della Lettera ai Colossesi. Anzitutto la leggiamo: “E anche voi un tempo eravate stranieri e nemici, con la mente intenta alle opere cattive che facevate, ma ora Egli vi ha riconciliato per mezzo della morte del suo corpo di carne per presentarvi santi, immacolati e irreprensibili al suo cospetto, purché restiate fondati e fermi nella fede e non vi lasciate allontanare dalla speranza promessa del vangelo che avete ascoltato, il quale è stato annunziato ad ogni creatura sotto il cielo e di cui io Paolo sono diventato ministro. Perciò sono lieto delle sofferenze che sopporto con voi e completo nella mia carne quello che manca ai patimenti di Cristo a favore del suo corpo che è la Chiesa. Di essa sono diventato ministro secondo la missione affidatami da Dio presso di lui, di realizzare la sua parola, cioè il mistero nascosto dai secoli e da generazioni, ma ora manifestato ai suoi santi ai quali Dio volle fare conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero in mezzo ai pagani, cioè Cristo in voi, speranza della gloria. E’ lui infatti che noi annunziamo, ammonendo e istruendo ogni uomo con ogni sapienza, per rendere ciascuno perfetto in Cristo. Per questo mi affatico e lotto con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza”.

Abbiamo visto ieri, con una certa insistenza - certo non esaustiva, avrebbe meritato ben altra trattazione - l’inno cristologico della lettera. Il materiale, le strutture intellettuali, diciamo, di cui l’autore della Lettera si è servito, non corrisponde alle categorie cultuali ebraiche e ai materiali comuni di altre lettere di Paolo, certamente di Paolo, per esempio giustificazione, sacrificio, espiazione, rinnovamento dell’alleanza, del patto, ecc., cose di cui qui non si parla. Ma qui sono state adottate categorie intellettuali e materiali del pensiero cosmologico del tempo, le quali gli hanno consentito di raggiungere risultati che, forse, con materiali tradizionali, cultuali, specialmente ebraici, non avrebbe potuto raggiungere. Parlando e confutando gli eretici gnostici di Colossi, egli ha potuto così affermare chiaramente nella prima parte di questo capitolo I l’estensione sovra-temporale e sovra-spaziale della salvezza, della rivelazione unica e quindi la sua contrarietà e la sua continuità diciamo, la sua contrarietà al movimento del mondo e la sua continuità - di questa salvezza e di questo annunzio del Cristo - nel movimento e nella trasformazione del mondo.

Può sembrare che in questo continuo movimento e questa trasformazione che per noi si fa sempre più visibile anzi direi vertiginosa, il cristianesimo non abbia potuto dire nulla di nuovo. Anche le affermazioni che abbiamo constatato nella lettera, appunto perché enunciate dentro strutture sovra-temporali e sovra-spaziali, sembrano però non avere portato a risultati concreti e visibili nella concezione culturale, strutturale, sociale del mondo. La Lettera stessa, nell’ultima parte relativa alle applicazioni morali, domestiche, sembrerebbe essere anzi una conferma dell’esistente, sembrerebbe, sembrerebbe! Sottolineo tre volte perché penso tutto il contrario, ma, a prima vista, nei rapporti per esempio tra uomo-donna, tra padroni e schiavi, sembra che non abbia mutato nulla. E così può sembrare che l’introduzione di questo pensiero della lettera oggi, per esempio, non possa significare nulla e non porti a nessuna trasformazione visibile nel comportamento degli stessi cristiani.

C’era un mio amico molto intelligente, intelligentissimo, Filippo Conti, che per molti anni mi veniva a trovare e mi diceva sempre una sua frase tipica: “Non é cambiato nulla, il mondo é come prima, non ci si accorge che il Cristo abbia portato un qualche cambiamento”. A forza di seguire questo ritornello “non é cambiato nulla” ha finito, me l’ha detto in una sua lettera recentissima arrivata in modo improvviso, ha finito con il seguire un suo giovane figlio in una Ashram di indù dove fa man bassa di cuori e di intelligenze un certo santone nel centro dell’India. Ecco la fine di questo nostro povero Filippo, bravissimo, intelligentissimo e cristiano che però constatava la nullità del cambiamento, a suo avviso.

Di fronte a questo “non é cambiato nulla”, stando alla Lettera, secondo la Lettera sono introdotti, l’abbiamo visto ieri, due elementi di novità, per lo meno due elementi generali di novità che forse a prima vista sembrano niente, oppure possono essere ridotti a niente, ma che poi, se considerati effettivamente sono all’origine di un vero, incessante, inesauribile movimento. E quali sono, secondo le indicazioni anche di quella parte della lettera che abbiamo già considerato, questi due elementi di novità? Oltre che il fatto storico della Croce! Sono due i residui, per così dire: l’esistenza della Chiesa e in secondo luogo la professione di fede. Questi sono i due grandi elementi di novità: l’esistenza della Chiesa e la professione di fede, nella Chiesa, conforme alla Chiesa. Nella Chiesa, per chi vive veramente nel suo spirito e con conformità al suo dinamismo interiore, il trionfo di Cristo si può, anche oggi e sempre, sperimentare. Come? Si può sperimentare come libertà dalle potenze - ma voi, io sono libero dalle potenze, non ci penso mai! - libertà dalle potenze e superamento della paura. Questa é l’esperienza che si può vivere, che si deve vivere nella Chiesa. Lo dice anche la Lettera agli Ebrei al cap. II, versetti 14 e 15, dopo avere parlato della nostra filiazione divina assicurataci dal Cristo nostro fratello: “Perché dunque i figli hanno in comune il sangue e la carne, anche Egli ne é divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano tenuti in schiavitù per tutta la vita”. Libertà dalle potenze e libertà dalla paura. Potrebbe darsi che uno non sentisse né la schiavitù dalle potenze, né si sentisse soggetto alla paura, ma sarebbe un’autodiagnosi molto superficiale ed infausta, direi. Se veramente ci mettiamo dinanzi a noi stessi - qui in questo caso bisogna esaminarsi molto profondamente e mettersi molto seriamente dinanzi a noi stessi - noi dobbiamo ammettere che schiavi delle potenze, chi in un senso chi in un altro, chi in una forma chi nell’altra, siamo e che schiavi della paura siamo o saremmo se non ci liberasse la fede nel Cristo morto e risorto per la nostra salvezza e se quindi non riuscissimo a trascendere questa duplice schiavitù istintiva e radicata profondamente nel nostro essere in una possibilità genuina di autentica libertà, anche terrena, già sperimentata qui, con continuità, con la stessa libertà che sperimenteremo un giorno quando vedremo Dio faccia a faccia come Egli é. Ma già adesso abbiamo di questa visione di Dio, nella fede, la possibilità di godere almeno in questo senso e in questa misura di essere veramente, genuinamente liberati in tutto e nella nostra esistenza terrena. Vediamo e questo non spetta a me, spetta a ciascuno di noi considerare e considerarsi autenticamente dinanzi a Dio e di vedere i punti in cui ci possono essere ancora delle soggezioni e questa libertà che ci dovrebbe essere - non é stata ancora pienamente raggiunta. La libertà che ci dovrebbe essere genuinamente già nella nostra esistenza terrena. Ebbene, nei versetti che abbiamo ora letto, l’autore della Lettera ci insegna come deve realizzarsi in noi questa genuina libertà cristiana e poi completerà la sua analisi ancora più profonda della vera libertà nei capitoli 2 e 3.

Questi versetti che abbiamo letto, dunque, seguono l’inno. Sono versetti in prosa. Dopo la grande contemplazione lirica, possiamo dire, del Cristo creatore e redentore egli, l’autore, scende alle applicazioni ai fedeli del contenuto del canto. Per questo segue lo stile un po’ solito in alcune lettere di Paolo - per esempio nella lettera ai Romani é evidentissimo, nei capitoli 1, 2 e 3 - della contrapposizione tra lo stato precedente, stato di incredulità, con tutte le conseguenze e lo stato presente che é una situazione di grazia. Il passato, lo stato precedente, non viene valutato e giudicato per i suoi valori positivi o negativi, che non vengono elencati. Non é fatto nessun bilancio - per esempio avrebbe potuto fare come ha fatto nei primi due capitoli della lettera ai Romani, esaminare le condizioni concrete, particolarmente di vizio, dell’umanità precedente e le condizioni di ira, l’ira di Dio, di tutti, i giudei e pagani. Avrebbe potuto anche elencare dei valori positivi, fare appello alla sapienza nei suoi vertici, alla sapienza pagana. Questo Paolo, in un certo modo, per un momento, sembra farlo nel discorso dell’Areopago, in cui perlomeno cita i poeti del paganesimo, li cita per una frazione, per così dire, ma insomma ha un riferimento. Qui non c’è niente di simile, non c’è un bilancio, non é introdotta nessuna analisi, ma c’è la situazione precedente, valutata e giudicata solo per il suo aspetto di situazione di non salvezza. Non salvezza! Attenti bene, quando io dico situazione di non salvezza non intendo riferirmi alla situazione individuale. Sappiamo benissimo che ancora oggi può essere ammessa una salvezza individuale, per vie straordinarie, che non sono la via ordinaria, predisposta secondo il disegno rivelato di Dio nel Nuovo Testamento. Ma quando si dice non salvezza si dice uno stato comune, generale. Si vuole dire lo stato comune, generale, di mancanza di una via di salvezza vera, oggettiva e generale. Un giorno eravate separati e ostili. Ostili indica naturalmente una colpa, una separazione concreta – “per colpa delle nostre opere”, lo dice espressamente. “Anche voi un tempo eravate stranieri e nemici con la mente intenta alle opere cattive che facevate”. Qui si può richiamare ancora Paolo – è il discorso dell’Areopago - che se sembra citare per un momento la sapienza pagana, ritratta poi subito, perché qualifica al capitolo XVII negli Atti degli Apostoli, dopo avere citato Arato “perché di Lui stirpe noi siamo”, soggiunge poi subito: “Essendo noi dunque stirpe di Dio, non dobbiamo pensare che la divinità sia simile all’oro, all’argento, alla pietra, che porti l’impronta dell’arte e dell’immaginazione umana”. E qui al versetto 30 ha una qualifica generale che veramente impressiona: “Dopo essere passato sopra ai tempi dell’ignoranza, ora Dio ordina a tutti gli uomini di tutti i luoghi di ravvedersi, poiché egli ha stabilito un giorno nel quale dovrà giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo che egli ha designato dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo dai morti”. I tempi dell’ignoranza, in cui Dio per sua benevolenza è passato sopra, perché tanto aveva in mente la pienezza dei tempi in cui il Figlio suo si sarebbe incarnato. Tutto il resto è tempo dell’ignoranza, secondo Paolo!

Ora, invece, la salvezza è aperta a tutti. “Ma ora Egli mi ha riconciliato per mezzo della morte del suo corpo di carne” - versetto 22.

U.Neri: Qui bisogna sostare. Correggerei leggermente la versione, se lei mi permette.

d.Dossetti: Sì.

U:Neri: Anche prima al versetto 21 non “estranei” - è strano, perché a questo punto la traduzione della lettera ai Colossesi comincia a vacillare - non “estranei o nemici con la mente intenta alle opere”, ma “estranei e nemici nella mente”, nel sentire, nel sentire più profondo”. “Te diania”, non “te diania en tois ergois” (N.d.R. qui Neri usa la pronuncia del greco moderno, dando successivamente la pronuncia più probabile antica “dianoia”), che è impossibile dal punto di vista grammaticale. “Exthrous te diania” - “dianoia” come pronunciate voi – “nemici nella mente più profonda”. E poi ancora, l’altro, il versetto 22.  Ancora più importante la variazione. “Li ha riconciliati nel corpo della sua carne mediante la morte”, quindi il corpo della carne del Cristo è il luogo della riconciliazione. “Nel corpo della sua carne mediante la morte”. Esattamente. E così anche proprio l’ordine delle parole.

Dossetti: Questa è un’ulteriore precisazione rispetto a quello che ha detto nell’inno, perché vengono messi ancora di più in evidenza due elementi e cioè nel corpo della sua carne, prima di tutto, quindi ancora di più una conferma che è stato questo strumento del corpo della sua carne mediante il quale ci ha salvato e ha redento tutto, interamente l’uomo, anche nel corpo della sua carne, come dicevamo ieri. E in secondo luogo il fatto che individua ancora di più e strettamente il punto, il punto storico dell’esistenza della salvezza, nel Cristo morto e risorto. Quindi ancora più strettamente è collegato tutto il discorso al suo essere corporeo e carnale e allo strumento della realizzazione della salvezza elargita attraverso la sua morte. Perché?

Adesso: “Per presentarvi santi e irreprensibili”, “santi e immacolati e irreprensibili dinanzi a lui”. Dunque esprime il risultato concreto - quello che è e quello che dovrebbe essere - della salvezza, con tre aggettivi. “Santi”: abbiamo già visto della santità oggettiva che ci è elargita dal Cristo. “Immacolati”, una santità che non ci consente e che non lascia nessun punto di macchia e pertanto “irreprensibili”, cioè - potremmo dire con il linguaggio nostro, ma forse tuttavia inadeguato - perfetti. Ma perché questa perfezione - sia ben chiaro - non deve diventare un oggetto di compiaciuta riflessione, di ripiegamento sul nostro stato attuale di grazia - dunque allora siamo santi, immacolati, irreprensibili, non c’è più niente da fare e questo è considerato come vanto e come ragione di compiacenza - perché non sia così, tutto questo è inquadrato in una espressione che garantisce che non siamo noi a renderci perfetti ma che veniamo presentati davanti a Dio come tali. Quindi è una grazia e non è una ragione di vanto. E’ questo un pensiero ricorrente in Paolo, che non possiamo vantarci di nulla e che se c’è un vanto è soltanto un vanto in Cristo. E di Cristo.

A questo punto poi c’è una rottura. Il versetto 23: “Ei ge”. “Se tuttavia rimanete fondati e saldi nella fede e non smuovibili dalla speranza dell’evangelo che avete ascoltato”. Qui è il centro della lettera: tutto quello che precede si concentra su questo “tuttavia”, per così dire. E’ un’indicazione del rischio, del rovesciamento e della negatività. Fondati e stabili nella fede in Cristo e nella sua unica salvezza, immobili dalla speranza dell’evangelo ricevuto, cioè quella del Cristo crocifisso e risorto. E’ il versetto centrale. E’ il nostro aut aut, proprio singolo, posto di fronte a noi.

Abbiamo visto in una di queste conversazioni tutti i problemi nostri, alcuni dei problemi più gravi che si presentano al nostro mondo ed alla chiesa in questo momento. Dovremo ancora parlarne, ne parleremo presto anzi. Però io faccio appello all’esperienza di ciascuno di voi. Ciascuno di voi rifletta sulla propria esperienza, sulle difficoltà, le frustrazioni, i complessi di colpa, di paura, nonostante tutto quel che s’è detto, sugli annebbiamenti di tutte le motivazioni che ci possono indurre ad agire come cristiani e come sacerdoti che giorno per giorno sembrano svanirci di mano, sembrano veramente lasciare le nostre mani completamente vuote e i nostri cuori freddi e inariditi. Io faccio appello a questo. In questo momento vorrei, non per guastarvi la giornata domenicale, per così dire, la grande festa del Signore, vorrei però seriamente chiedervi di fare una riflessione su questo e di sentire nel vostro essere, nella vostra anima, nella vostra carne, nelle vostre ossa, il rischio. Il rischio tremendo, la tentazione a cui in ogni momento e in ogni circostanza anche a prescindere dai nostri buoni propositi, dalla formazione salda che abbiamo ricevuto per grazia di Dio, dal fondamento che pare inconcusso della nostra esistenza, tuttavia, ci sfiora ci minaccia. Com’è che tanti cristiani dopo una vita relativamente integra, magari nella loro giovinezza, arrivano a una maturità sfiniti, stanchi, totalmente svogliati, completamente presi nel vortice, e tanti sacerdoti hanno - per lo meno a una certa età - un senso proprio di frustrazione tremendo? Com’è? E che cosa si può fare e che cosa si deve fare? La Lettera ce lo dice in modo tassativo: una cosa sola, rimanere, nonostante tutto, fondati e stabili nella fede e inamovibili dalla speranza dell’evangelo che abbiamo ricevuto, cioè dalla speranza del Cristo crocifisso e risorto. Non c’è altra strada, non c’è altra strada per rifarci, per ricaricarci, per ritrovare tutte le motivazioni, tutta l’energia che Cristo - ci assicura la lettera stessa nell’ultimo versetto di questo capitolo - “incessantemente rigenera con il suo dinamismo incessante dentro di noi”. Ma l’inamovibilità dalla speranza, nella salvezza della fede! Non c’è niente, niente che possa equivalere a questo e tutto il nostro essere, il nostro essere personale e la nostra programmazione - per così dire - dell’esistenza e della nostra attività pastorale, come preti, pastori, non può essere altro che riducibile a questa animazione incessante della fede, fermissima, e della inamovibilità della nostra speranza in Cristo. Tutto quello che Paolo ha detto prima è sottoposto a questa condizione e in questa condizione trova la risoluzione di ogni cosa, il “tuttavia” che si presenta (così). Tutto dipende da questo, (se sfuma questo), allora sfuma tutto, nulla è vero. Se invece restiamo fermi e stabili nella fede - fra l’altro troviamo queste parole anche nel capitolo 15, un punto importante, della I ai Corinti a proposito appunto della risurrezione di Cristo, al versetto 58 dello stesso capitolo: “Perciò fratelli miei carissimi rimanete saldi e irreprensibili, prodigandovi sempre nell’opera del Signore, sapendo che la vostra fatica non è vana”. Sono i due concetti accostati. Questo è quanto. Altrimenti non serve niente, sono tutte toppe che guastano ulteriormente e strappano il vestito. Tutte le trovate, le invenzioni, i pellegrinaggi - sì anche quelli - tutte le iniziative anche bellissime, anche inedite, anche fortunate, tutte toppe dannose, se non animate da una fede incrollabile, inamovibile dalla nostra speranza nel Cristo. Se ha servito qualche cosa la contemplazione del Cristo, creatore e redentore, nell’inno, questo qualche cosa deve portarci ad un’opzione definitiva e non solo definitiva, ma infuocata, veramente (...) che sempre più si riaccenda e si scaldi nonostante tutta l’opera di raffreddamento del mondo oggi e (che) anche la realtà endo-ecclesiale può esercitare sopra di noi. Non bisogna (dissimulare), ne parleremo, spero.

Ieri sera, per esempio, quando tornavo dal Sepolcro, mi è capitato di scambiare due parole con due persone che erano venute dall’Italia. Ho avuto un momento di vertigine a sentire tante chiacchiere, chiacchiere che poi parevano fondate - è certo che voi ne saprete cento volte più di me e ne sperimenterete magari mille volte più di me, nell’esistenza concreta di ogni giorno della vostra vita pastorale - ma non c’è altro mezzo. Se c’è questo mezzo tutto va bene. Allora anche la povertà di altri mezzi non solo non è un ostacolo, ma forse potrebbe essere un vantaggio e anche gli ostacoli reali frapposti dal mondo e dalla stessa realtà visibile della chiesa non possono ostacolare, potranno fare soffrire ma non possono ostacolare, anzi potranno fare soffrire per il bene in modo benefico, perché rientrano nella grande visione complessiva. Come una cosa necessaria, vedremo subito dopo. Ma se qualcosa in noi, anche un po’ di calce di un mattone, solo, della costruzione, si sgretola su questo punto fondamentale della fede e della speranza che ci è data nella verità dell’evangelo, nell’annunzio fondamentale – l’evangelo è sempre Cristo morto e risorto - allora tutto, tutto il problema (crolla e) non ci sarà possibilità con il tempo, con l’avanzare dei giorni, dei nostri giorni e dei giorni del mondo e dei giorni della Chiesa di ricostruire qualche cosa (…). E’ tutto qui il problema, in questo “tuttavia”.

Poi seguono i versetti dal 24 in avanti, perché il pensiero dell’evangelo che deve essere e che è stato annunziato in tutto il mondo (se da un lato ha una realtà) sempre e in maniera certissimamente, oggettivamente esaustiva, sufficiente per tutte le esigenze, ha però come elementi intrinseci, che ne fanno parte in modo essenziale, gli elementi della sua comunicazione, cioè della fede, della parola, della fede e del predicatore.

Parola, fede e predicatore. Il versetto 24 introduce tutto questo in una prima parte molto simpatica e gioiosa, per così dire, che ci conforta – “ora gioisco nei miei patimenti per voi”. Però introduce nella seconda parte del versetto quella che potremmo dire una delle croci degli interpreti: la sua sofferenza, dell’autore, deve completare ciò che ancora manca ai patimenti di Cristo nel suo corpo, per il suo corpo che è la chiesa. Come si deve intendere esattamente nella sua portata reale questo versetto? Si possono completare i patimenti di Cristo? C’è una deficienza oggettiva? Non credo che l’autore possa pensare a questo. O forse pensa che Cristo continua a patire nell’apostolo? Che l’apostolo patisce una morte mistica con il suo Signore e che perciò le sue sofferenze possiedono un valore vicario come la persona storica del Cristo? Non credo che sia questo quello che vuol dire. Per quanto la interpretazione completa e soprattutto nitida di questo versetto non mi risulta che sia stata ancora data in modo sufficiente, penso che, comunque, perlomeno, confluiscono in questo versetto due pensieri. Il primo è che, soffrendo per la chiesa, l’apostolo rappresenta Cristo nel mondo. Questo è uno. E un secondo è che porta a compimento l’opera di Cristo, proclamando Cristo nella totalità del suo mistero, Cristo morto e risorto. Non penso che egli pensi davvero ad un bisogno oggettivo di completamento o ad una deficienza oggettiva perché l’opera salvifica, unica, è stata già realizzata. E’ più che bastevole. Mi pare che voglia affermare che la totalità dell’azione salvatrice si esprime solo nella predicazione, che è un evento solo con l’evento salvifico fondamentale. E nella predicazione - successivamente va puntualizzato - che si attualizza massimamente nella sofferenza. Non si attualizza massimamente in funzione della qualità eccellente della stessa predicazione o della sua efficacia discorsiva o convertitrice visibile. Si attualizza massimamente nella totalità della rappresentazione di Cristo morto e risorto, quindi nella sofferenza dello stesso apostolo. La sofferenza è il culmine della predicazione ed è la garanzia suprema della sua attendibilità e della sua efficacia. Questo credo che voglia significare. E allora anche qui dobbiamo tirare le conseguenze: non solo ci è chiesto di essere saldi ed immobili nella fede di Cristo morto e risorto, inamovibili dalla sua speranza, ma ci è chiesto di più, di annunziarlo come un necessario elemento dell’attuazione dell’evento salvifico e di annunziarlo massimamente nella nostra sofferenza, e la sofferenza in particolare, la sofferenza nella chiesa e per la chiesa. E quindi è ovvio che anche questo ci sia inevitabilmente, che la chiesa ci debba fare soffrire, ci debba fare soffrire o perché in qualche modo ci contrasta e non tiene conto delle nostre esigenze fondamentali spirituali, cristiane o perché ci ostacola proprio in questo. E allora dobbiamo vedere in questo l’apice dell’annuncio, come elemento stesso intrinseco all’evento salvifico. Il quale annunzio poi, superato il versetto 24, nella continuazione della Lettera, appare come un servizio della parola dal punto di vista formale e dal punto di vista del contenuto viene espresso come mistero. E quale contenuto è questo mistero? “Cristo in voi, speranza di gloria”. Ritorniamo quindi in un circuito incessante che deve sempre più intensificarsi nell’attualizzarsi. Ritorniamo al punto di partenza, cioè quella speranza inamovibile che ha per oggetto Cristo morto e risorto deve essere anche il culmine del nostro annuncio, verificato, garantito nella sua attendibilità e nella sua efficacia, come annunzio totale del Cristo morto e risorto, sperimentato nella nostra stessa persona e nella nostra stessa vita. Cristo in noi e in voi nella persona dell’annunziatore e nella persona di coloro che sono annunziati, “speranza di gloria”. Questo è tutto compreso sotto quel “tuttavia” e sotto le condizioni assolute dell’efficacia della verità, dell’autenticità del nostro operare cristiano e tanto più operare pastorale.

Il mondo, il mondo intero, attende nel suo intimo ed ha sempre atteso - dice l’apostolo - questo annunzio del mistero, “Cristo in voi, speranza di gloria”. Ha gravitato, malgrado tutte le apparenze e malgrado tutte le sue realtà contrarie, il mondo intero ha gravitato e gravita verso questa rivelazione del mistero, Cristo in voi, speranza di gloria. E noi dobbiamo cogliere questo anelito o se volete questo “gemito”, secondo l’epistola ai Romani capitolo VIII, anelito e gemito della creazione intera e del mondo intero, di questo mondo che ci appare - ed è - così avverso, così odiante il Figlio e perciò odiante il Padre, come si diceva ieri sera. Ma, nonostante tutto, anelante a Cristo: non dobbiamo confondere l’anelito reale con una realtà già espressa e lucida. Anzi l’atteggiamento è magari contraddittorio, è contrario, è ostile persino, ma sotto questa ostilità e questa contraddizione, c’è un anelito reale che non possiamo disconoscere e a cui noi siamo destinati a dare soddisfazione. E quindi l’inevitabilità della missione. Alla missione non possiamo rinunziare, né alla missione interna, per così dire, in terra cristiana o comunque già cristianizzata e solo nuovamente da evangelizzare o da attualizzare nell’evangelo, né alla missione esterna nel mondo ancora non cristiano.

Qui vorrei leggere il discorso del Cardinale Tomko appunto di questi giorni sulla missione cristiana in Asia. Alcune affermazioni che mi sembrano importanti: “Per noi cristiani è un principio inattaccabile il fatto che l’atto di fede, così come quello della conversione, deve essere totalmente libero, altrimenti la Chiesa non lo accetterà. Con la stessa forza e convinzione noi affermiamo anche che la libertà di professare, diffondere e anche convertire altri, mutandone le precedenti convinzioni religiose, costituisce un diritto umano fondamentale e così non solo per la Chiesa, che afferma solennemente un principio, durante il Concilio Vaticano II, nella dichiarazione Dignitatis humanae, ma anche per la comunità internazionale”. Questa riduzione dentro il quadro dei diritti umani garantiti dalla comunità internazionale mi persuade relativamente, ma in ogni modo può essere invocata come se ne parlava ieri, ex paritate, da un punto di vista dialogico. Perciò consideriamo - qui ci siamo un po’ di più - consideriamo la conversione e il battesimo come un diritto umano concernente la persona. Ancor prima costituiscono un diritto divino della Chiesa, ancor prima costituiscono un diritto divino della Chiesa. “Conseguentemente ci sentiamo obbligati dal solenne mandato di Gesù Cristo a battezzare coloro che accettano il suo vangelo, e battezzare, come ben si sa, significa essere inseriti nel Cristo mistico, nella chiesa di Cristo, condurre qualcuno alla fede, al battesimo della Chiesa è attività unica e primaria - e il mandato del Signore è la nostra inseparabile missione. Perciò non possono essere giustificate delle teorie teologiche che, con la scusa di non cadere nell’ecclesiocentrismo, tolgono di mezzo la chiesa, il battesimo, la conversione e finiscono con l’abbandonare il chiaro annuncio di Gesù Cristo, Figlio di Dio incarnato per la salvezza di tutti”.

Una delle grandi personalità, dei sostenitori, dei propagandisti più attivi e più considerati delle teorie che si dicevano ieri, l’abbiamo sentito noi stessi dire: “Deve venire, dopo il primo Concilio di Gerusalemme che ha abolito la circoncisione, un secondo Concilio di Gerusalemme che abolisca il battesimo e questo perfettamente è coerente (con la loro visione), ma con questo il cristianesimo (finisce!)

Il discorso poi prosegue: “Vi sono alcuni che sembrerebbero enfatizzare il concetto di Regno di Dio, mentre allo stesso tempo limitano la sua ricchezza soltanto ad alcuni aspetti. Vi è perfino una teologia basata sul Regno che propone come ideale una Chiesa il cui scopo sia quello di servire il Regno, cioè di costruire una nuova umanità. La Chiesa deve praticare una kenosis che sia soltanto per il prossimo e che promuova i cosiddetti valori del Regno: pace, giustizia, fraternità, non violenza, oltre al dialogo tra le nazioni, le culture o le religioni per un arricchimento ed una unione reciproci, lasciando in disparte ciò che (le è proprio). Vi è quindi bisogno di abbandonare l’ecclesiocentrismo e il cristocentrismo a favore di un teocentrismo”.

U.Neri: Formalmente in una delle, nella penultima – credo - riunione dell’assemblea dei teologi indiani, (è stato proposto) il superamento prima dell’ecclesiologia, del centralismo della chiesa, poi del cristocentrismo per il teocentrismo. Esattamente la tesi formale è ripresa di peso.

Dossetti: Di fronte a questo, invece, sentiamo un’altra voce. Qui nel Regno-Documentazione del primo di maggio, è riportata con sottotitolo redazionale, come Congresso dei Protestanti fondamentalisti, ma in realtà è il Manifesto cosiddetto di Manila, che riprende il Manifesto del Gruppo di Losanna di una decina di anni fa e che si esprima con questo titolo generale: “L’intera Chiesa è chiamata a portare l’intero vangelo al mondo intero per proclamare Cristo, fino alla sua venuta”. Quale sia il fondamentalismo che si vede in questo è eresia, è l’eresia moderna! Sono affermazioni genuine e bellissime, è quello che dovremmo dire noi!

Domanda: Scusi potrebbe rileggere?

Dossetti: “La Chiesa intera è chiamata a portare l’intero vangelo al mondo intero per proclamare Cristo fino alla sua venuta”. L’intera chiesa, l’intero vangelo, il mondo intero, per proclamare Cristo fino alla sua venuta! Poi possiamo leggere alcune proposizioni. Ne leggo alcune, perché danno il tono della cosa. “Riaffermiamo il nostro impegno nei confronti del Patto di Losanna, in quanto fondamento della nostra operazione in seno al movimento di Losanna, affermiamo che nelle Scritture dell’Antico e del Nuovo Testamento, Dio ci ha disvelato in modo autorevole la sua essenza, la sua volontà, i suoi atti salvifici e il loro significato e inoltre il comandamento della missione. Affermiamo che il vangelo scritturistico è il messaggio permanente di Dio per il nostro mondo e siamo decisi a difenderlo, proclamarlo e incarnarlo. Affermiamo che tutti gli esseri umani, sebbene creati a immagine di Dio, sono peccatori e colpevoli e senza Cristo si perdono e che questa verità è una premessa necessaria al vangelo. Affermiamo che il Gesù della storia e il Cristo della gloria sono la stessa persona e che questo Gesù Cristo è assolutamente unico, perché solo lui è Dio incarnato, il portatore dei nostri peccati, il vincitore della morte e il giudice che verrà. Affermiamo che sulla croce Gesù Cristo ha preso il nostro posto, ha preso su di sé i nostri peccati ed è morto della nostra morte e che solo per questo motivo Dio liberamente perdona coloro che vengono condotti al pentimento e alla fede. Affermiamo che altre religioni ed ideologie non sono vie alternative a Dio e che se non è redenta da Cristo la spiritualità umana non porta a Dio, ma al giudizio, poiché Cristo è l’unica via. Affermiamo di dovere manifestare visibilmente l’amore di Dio prendendo cura di coloro che non ottengono giustizia, dignità, cibo ed alloggio. Affermiamo che la proclamazione del regno di giustizia e pace di Dio esige la denuncia di ogni ingiustizia ed oppressione - qui sta andando per le conseguenze. Affermiamo che coloro che dicono di essere membra di Cristo, del corpo di Cristo, debbono trascendere, nella nostra comunione, le barriere di razza, di sesso, di classe. Affermiamo che i doni dello Spirito vengono distribuiti a tutto il popolo di Dio, donne ed uomini, e che la loro partecipazione all’evangelizzazione deve essere accettata con favore per il bene comune. Affermiamo che noi che proclamiamo il vangelo dobbiamo viverlo un’esistenza di santità e di amore, altrimenti la nostra testimonianza perde di credibilità. Affermiamo che ogni assemblea cristiana deve uscire incontro alla propria comunità locale, nella testimonianza evangelica e nel servizio ai bisognosi”, ecc.

U.Neri: E l’alternativa è precisa oggi.

Dossetti: Certo è quello che poi si legge nel versetto 28, che è una ripresa dei versetti precedenti: “Cristo in voi, speranza di gloria che noi annunziamo ammonendo ogni uomo e insegnando ad ogni uomo in tutta sapienza, affinché presentiamo ogni uomo perfetto in Cristo”. Questo vangelo, l’annuncio dell’intero vangelo a tutta l’umanità, perché sia perfetta in Cristo, fino che il Cristo torni. Io mi fermerei qui.

Domanda: Il discorso di Tomko che documento è?

E’ il discorso tenuto in questa riunione, di tutte le conferenze episcopali delle Asie, per le quali il Papa aveva mandato una lettera che - c’è, ho anche questa - ma, non contiene delle affermazioni così esplicite. Pare che in questo discorso abbia affrontato i problemi che sono dati oggi da molte correnti, sempre più divulgate ed affermate, nella teologia e nella pastorale indiana, asiatica.


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