28/7 IV meditazione di Dossetti su Col 1, 12-20


Proseguiamo dunque la nostra lettura della Lettera ai Colossesi. Andremo avanti finché è possibile, cioè possiamo interrompere quando è ora, in qualunque momento, tanto il discorso non si esaurirà in questo primo incontro della giornata nemmeno per la considerazione dell’inno cristologico. Ne vedremo eventualmente solo una parte e poi dopo cercheremo di trarre alcune conclusioni, ma non stamane. Prima di considerare l’inno però dobbiamo ancora leggere il versetto 12, che è come un’introduzione, la transizione dalle considerazioni precedenti, sempre sul grande tema del ringraziamento al Padre.

Difatti leggiamo nel versetto 12: “Con gioia grande ringraziando il Padre che ci ha reso idonei di avere parte nell’eredità dei santi nella luce”. Questo grande ringraziamento, che qui diventa ancora più puntuale, suppone - è chiaro - la professione di fede della chiesa e quindi dei dati già ben conosciuti da coloro a cui l’autore si rivolge, perché era una chiesa già costituita e costituita da tempo, e pertanto egli stesso ritiene di dovere, poter contare su alcuni concetti assimilati e di comune accezione, comunemente ricevuti. Il Padre! “Ringraziando il Padre”. Certo il Padre chi è? Quello che già è conosciuto dal fedele per la sua stessa professione battesimale, il Padre, il creatore, il Dio invisibile, trascendente, creatore di tutte le cose. E quindi così è già introdotto un dato fondamentale e cioè il rapporto del mondo al Padre. Il mondo di cui parla poi subito dopo è creazione del Padre e quindi fondamentalmente buono, non estraneo, non opposto al Padre, per sé. Qui già si supera la posizione di un dualismo separatista. Poi questo Padre “ci ha fatti degni”, lui ci ha fatti degni, di essere partecipi dei santi, della sorte e dell’eredità dei santi, nella luce. Il concetto di eredità, che è concetto biblico, qualifica e precisa questa luce. E’ la luce degli gnostici? E’ il regno ultra-mondano di cui il regno presente, il mondo presente, rappresenta come un’alienazione e una cattura? No, perché è del Padre. E l’eredità a cui siamo chiamati è sì una eredità di luce, ma una luce che non è il tutto indifferenziato, rispetto al quale il Padre è un estraneo, un inesistente, che si confonde e che è una cosa sola non distinta e non distinguibile da Dio. Il divino impersonale! Questa luce non è il divino impersonale, è la luce del Padre a cui lui ci chiama per eredità secondo il concetto biblico di eredità. E che ci ha quindi “trasferiti dalla podestà delle tenebre, nel regno del Figlio del suo amore”. Regno di Cristo, regno del Figlio del suo amore. Regno di Cristo e anche regno del Padre e più precisamente regno di Cristo. Non è la chiesa. Potrebbe venire spontaneo qui di sostituire regno del Figlio del suo amore con la chiesa. Ma no, perché la chiesa è ancora in questo mondo: il regno di cui si tratta è il regno del Figlio. Sì, ed è il regno della luce. Ci si potrebbe chiedere a questo punto se nuovamente ricadiamo nella gnosi, perché questo concetto di luce è troppo usato continuamente dalla gnosi e però Paolo, o l’autore, si serve di questo concetto per fare proprio e assimilare e assumere quello che il mondo e le categorie intellettuali fondamentali della gnosi pur distinguendosene chiaramente, perché la risposta che differenzia questo regno di luce come regno del Figlio dell’amore del Padre, la si trova poi al capitolo 2 formalmente e categoricamente. Sono i versetti 6 e seguenti che dovremmo esaminare se la nostra navigazione arriverà sino ad essi. Comunque è già detto che lì è confutata chiarissimamente l’identificazione di questo regno di luce con una possibile luce indifferenziata e il divino indifferenziato proprio della gnosi in cui gli uomini sono soltanto portatori di singole scintille che vanno recuperate a questo regno di luce. E’ invece una cosa molto concreta e che ha il suo fondamento storico nella rivelazione e nella redenzione storicamente avvenuta in questo mondo, come poi dicono i versetti 6, 7 e 8 del capitolo seguente.

E poi non è un cosa che sia già tutta nel presente. E’ radicata nel presente per effetto del battesimo. E’ già certa! Ma il concetto stesso di eredità, la traspone in un futuro. Resta certa, resta già presente, ma la lotta della potenza delle tenebre ancora non è finita, come si rivela al versetto 13: “qui eripuit nos de potestate tenebrarum”. Può darla come già presente e superata perché indubbiamente è solo attraverso quello che poi qui l’autore descrive, che la lotta diventa efficace e diventa vittoriosa. Vittoriosa! E’ certamente già vittoriosa ma ancora permane e dal regno delle tenebre finché siamo quaggiù, non siamo totalmente strappati e non abbiamo ancora riportato con Cristo la vittoria definitiva. Il mondo quindi non viene abbandonato a se stesso, è oggetto ancora dell’interessamento di Dio e continua quindi, come risulta dal versetto 15, ad essere sotto la sua signoria e sotto il suo influsso. Al versetto 15 leggiamo che è l’immagine - il Redentore - del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione. Dunque, se la creazione ha questo primogenito che la esprime, è ancora essa nella sua totalità ancora ricuperabile a Dio. E quindi, come creazione di Dio, è buona.

Ora questa è l’introduzione. Possiamo un momento considerare la struttura complessiva prima di analizzare i singoli versetti. Nella struttura complessiva si vede una certa simmetria tra la prima parte e la seconda. Le parti sono distinte dal versetto 18a. C’è una prima parte in cui si parla dell’immagine di Dio, il primogenito della creazione, e una seconda parte in cui si parla del principio e del primogenito dai morti. Questa è la distinzione fondamentale e sono le due strofe, per così dire, dell’inno. La prima considera il Cristo, il Messia, come mediatore della creazione, la seconda, come mediatore della redenzione e quindi sin dal principio si stabilisce nel Cristo una identificazione che è fondamentale - ed è già distruttiva di tutto il sistema opposto - l’identificazione tra il creatore e il redentore. Il redentore non è altro che il creatore stesso e il creatore stesso è il redentore, colui che compie storicamente la redenzione, con un suo atto inserito in questa storia, nella storia di questo mondo. Quindi si definisce che il mondo è creatura di Dio ed è ancora buono. Vedremo poi che chiede una redenzione, e richiede il superamento di un abisso, di una interposizione, di una separazione, ma in sé è ancora buono e si stabilisce che colui che compie il superamento e il recupero totale del mondo è colui stesso che l’ha creato. Le due strofe vogliono significare questo. Il mondo è quindi l’ambito della redenzione e la redenzione si attua in esso mondo e costruisce la riconduzione del mondo alla sua origine, ma dal di dentro di questo mondo, nella storia di questo mondo. Parrebbe che il perfetto parallelismo fosse infirmato fra le due strofe da un versetto, da una parte, da un membro del versetto 18, dove si dice: “Egli è il capo del corpo che è la chiesa - mettiamola tra parentesi - che è il principio, il primogenito dai morti”. Probabilmente - questo però è più induttivo che sicuro - probabilmente qui si tratta di un inno recuperato dall’autore, dalla tradizione precedente, quasi certamente un inno cristiano di già, un inno che peraltro parlava solo del rapporto mondo-creatore-redentore e che qui invece trova una particolare precisazione, una determinazione aggiunta dall’autore della lettera: questo primogenito dai morti che salta fuori un po’ improvvisamente, come nella lettera ai Filippesi. La parte che riguarda appunto l’accenno alla morte del Cristo è supposta normalmente come una parte aggiunta dal redattore della lettera e quindi non corrispondente proprio al senso originario, ma trasformato ancora di più in senso cristiano.

Dunque, questo accenno del versetto 18 a Cristo “capo della chiesa” - molto probabilmente invece si diceva prima capo del corpo che è il mondo - e che è il principio, il primogenito dai morti, rivela la mano e l’intenzione dell’autore della lettera. Ed ora possiamo, considerato così l’inno nel suo insieme, cominciare ad esaminarlo e farne un’analisi. Questo Redentore, che ha operato la redenzione consistente nella remissione dei peccati, come dice il versetto 14, e che è il Figlio dell’amore del Padre, è anche “l’immagine del Dio invisibile, il primogenito di ogni creatura”. Con queste attribuzioni si qualifica bene il personaggio come esso stesso creatore di tutto il mondo, immagine del Dio invisibile. Bisogna andare a cercare gli equivalenti nei precedenti giudaici, dove già negli ultimi libri della Scrittura della Bibbia vetero-testamentaria, troviamo delle personificazioni di un’entità che stanno tra Dio e l’uomo, perché quanto più il giudaismo ha insistito giustamente sull’assoluta trascendenza del Dio creatore e sulla invisibilità e inarrivabilità del Dio creatore, tanto più si è sentito il bisogno di interporre tra lui e l’uomo delle vie d’accesso, degli elementi di accostamento e si sono visti ora nella Sapienza, ora nella Parola, ora nell’Immagine, (nel) filone dove chiaramente ricorre il concetto di immagine. Ma non è il concetto di immagine da pescare metafisicamente. E’ invece l’immagine da leggere nel contesto giudaico, la quale è stata fatta propria dal cristianesimo per esprimere l’essere del Messia quale rivelatore del Padre e l’unità tra la rivelazione e il rivelatore. La novità non sta tanto in questi concetti o nelle operazioni compiute su questi concetti, ma la novità sta essenzialmente sulla attribuzione, sulla identificazione di questi concetti con il Messia storico, con Gesù. L’immagine, che aveva nel pensiero giudaico questa funzione di mediare tra il creatore e il Signore di tutte le cose e la realtà degli uomini, di rivelare il Padre e di rappresentare anche la sostanza della rivelazione stessa, la rivelazione del Padre, l’immagine è identificata col Cristo. E questo è il proprio cristiano che si aggiunge e che viene a completare in senso fortemente cristiano tutto il significato dell’inno. E orbene questa “immagine” non solo è anteriore al mondo ma precede il mondo e partecipa alla sua creazione e questa non è solo un’attività del passato ma è una realtà ancora del presente e quindi anche rapporto col futuro. Tutto questo si esprime attraverso una serie di proposizioni: “che è l’immagine del Dio invisibile”, “il primogenito di ogni creatura”, perché “in lui sono state create tutte le cose nei cieli e nella terra, le visibili e le invisibili, i troni e le dominazioni, i principati e le potestà” e soprattutto attraverso questo membro del versetto 16, “tutte le cose sono state fatte per lui e in lui e in vista di lui”, il che vuol dire appunto che attraverso queste serie di proposizioni si garantisce all’“immagine” di Dio la funzione di Dio, perché queste preposizioni non si devono tanto vedere nel contesto stoico ma essenzialmente nel contesto del pensiero giudaico.

Dio non è tutto, ma è l’origine ed il Signore di tutto e riferendo a Cristo queste funzioni “in lui, per lui” si attribuisce al Cristo la posizione di signoria incondizionata del Padre e del Creatore di fronte al mondo. Il mondo è sua opera, è stato fatto per lui e in lui ed egli è colui (il) quale non solo precede tutte le cose, ma colui nel quale tutte le cose hanno consistenza e dignità, quindi la funzione di Dio. E’ chiaro che qui ogni dualismo è superato, il mondo non può contrapporsi né a Dio né al suo Cristo, perché il mondo è sotto la signoria creatrice di Dio, come è sotto la signoria creatrice del mediatore. E perciò non solo viene ricuperato alla sua origine, ma viene mantenuto ed integrato in quella che era la sua bontà originaria attraverso l’opera della redenzione di cui si parla ora.

Il mondo allora che cos’è? E’ il luogo in cui si è operata la salvezza di Dio. Non solo il mondo è stato creato da Dio ed è sotto la signoria di Dio, ma nel mondo, nell’ambito del mondo è stata operata la salvezza di Dio. Allora che cosa dobbiamo concludere? Che c’è forse un’armonia totale tra Dio e il mondo e l’universo? Questo ci farebbe ricadere o potrebbe farci ricadere nella gnosi. C’è invece una tensione, perché è esistita una frattura. Una frattura che non poteva essere superata, se non attraverso un’opera di redenzione compiuta da Dio e voluta da lui. Tutta la struttura complessiva dell’inno ed il parallelismo tra le due strofe denunciano appunto questa tensione e particolarmente poi essa appare dove questa tensione è qualificata come una tensione che doveva essere vinta e superata attraverso la morte di colui che come creatore e redentore è il primogenito, oltre che della creazione, il primogenito dai morti. Perché sia colui che in ogni caso tiene il primato su tutte le cose. Quindi la frattura è una frattura grave, superabile soltanto dalla morte e dalla morte precisamente di colui che è il creatore di tutto. Non è una pace ovvia, spontanea, naturale e non è neanche l’effetto di una semplice riconciliazione pacifica, avvenuta ad un certo momento, non si sa come né perché. Tra lo stato originario e la salvezza c’è una separazione che è vinta soltanto attraverso la morte sacrificale di colui che è l’oggetto e cioè in questo caso il Gesù storico.

Il versetto 19 fornisce un altro elemento: “Perché in lui si compiacque di abitare tutta la pienezza” o “perché Dio si compiacque di far abitare in lui tutta la pienezza”. Le due traduzioni possono - sono possibili tutte e due, però tra le due non c’è una differenza sostanziale - vogliono dire la stessa cosa. Il termine di “pienezza” nel linguaggio dell’epoca esprime tutta la pienezza di Dio, la totalità dell’essere divino, come risulta poi al capitolo seguente nei versetti 3 e 9 e anche i seguenti. La totalità della potenza e della vitalità di Dio risiede dunque in lui, nel Redentore ed è il Redentore perché appunto in lui risiede la totalità della potenza e della vitalità di Dio e comprende la sua signoria su tutte le realtà create, cioè non solo sull’uomo, ma anche sulle potenze super-umane, come dice il versetto 16, sul quale dovremo tornare più volte. Questa opera di ristabilimento potrebbe essere compresa in due modi: mediante la riconduzione di tutta la realtà e quindi di tutte le potenze ad uno stato di pace, oppure con una effettiva sottomissione, in qualche modo forzosa, delle potenze. Ed è chiaro che l’autore della lettera opta per questa seconda soluzione. La tensione che esiste e che è dovuta alla frattura originaria è superabile soltanto con la morte, si è già detto, e nella quale morte si attua non soltanto una pacificazione, ma si attua una sottomissione, una opera di conquista e di sottomissione delle potenze. E questa riconciliazione, quindi, è una riconciliazione in qualche modo forzosa e cruenta, come dice manifestamente il versetto 20: “Per esso riconciliare tutte le cose, in esso, pacificando per il sangue della sua croce sia le cose della terra, sia le cose del cielo”.

Possiamo per il momento quindi fermarci su alcune conclusioni fondamentali: l’opera della riconduzione del mondo alla sua origine e la sua costituzione nella sua bontà originaria è avvenuta all’interno della storia attraverso un’opera concreta del riconciliatore ed un’opera che è precisamente la morte e la riconciliazione compiuta nel suo sangue. Il Redentore, colui che compie questa opera, è lo stesso che il creatore. Il mondo e la redenzione non si possono separare, quindi il mondo non è abbandonato a se stesso, perché è già sotto l’influsso di questa opera di conquista e di redenzione. La redenzione non si può distinguere dalla sua realizzazione storica per mezzo della croce e del sangue della croce. La redenzione in altre parole non è mitica, ma è storica, compiuta in questo mondo e non è neanche semplicemente irenica o pacifica, ma attraverso un’opera forzosa, un’opera cruenta che è costata la vita e il sangue di colui che ha creato tutte le cose. Mi fermerei qui.


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