24/7 III meditazione di Neri, al monte Carmelo


(Ha detto) molto bene mons. Poli, con quelle note molto precise che ha dato in pullman. Il significato prevalente, nettamente prevalente, che ha una visita al monte Carmelo è il ricordo del profeta Elia. Il Carmelo è molto importante anche per altri riguardi, anche come tipo, promessa, della Chiesa, promessa che il Signore fa della fecondità che si rivela nel lussureggiare della vegetazione, promessa che il Signore fa di trasformare il deserto degli uomini, il vuoto del peccato, nella fioritura mirabile che qui si può vedere soprattutto in certe stagioni. Come il monte Carmelo. Come Gerusalemme, tipo della città futura, la città ben compatta, ben unita insieme, nella quale insieme abitano i fratelli e nella quale è dolce abitare, sulla quale scende la benedizione, la benedizione dell’Ermon, così il Carmelo è tipo della grande benedizione di Dio, che fa fiorire ogni cosa, anche la roccia, e che trasforma qualsiasi deserto, se appena lo vuole, e fa scendere la sua grazia.

Ma al di là di questa significazione tipica, il Carmelo ha una rilevanza, nella storia della salvezza, soprattutto incentrata nell’evento di Elia profeta. Evento! Evento di una storia che è nostra storia. Ecco di questo noi dobbiamo non tanto più convincerci, ma di ciò, di questa convinzione, maggiormente imbeverci in modo da farla diventare un nostro modo intimo di sentire. Ancora così in gran parte non è. Noi non sentiamo la storia dei patriarchi, la storia dei profeti, la storia di Israele come la nostra storia, come “oggi”, diversamente da quanto non fosse per esempio nell’Alto e nel meno Alto Medio Evo, di quanto non fosse nella grande tradizione cristiana. Non sentiamo più la storia di Israele come connessa essenzialmente con la storia della Chiesa, anzi non sentiamo più la Chiesa come una realtà che è da Abele “ab Abel ecclesia”. “Ab Abel”. Cosa che invece i grandi dottori della chiesa, soprattutto nel tempo medievale, capivano, sentivano, in modo fortissimo, commosso e che dava loro una capacità di leggere i testi dell’Antico Testamento e di rivivere, di ripensare all’esperienza veterotestamentaria, con una intensità di affetto, con una ricchezza, una dolcezza, una commozione di partecipazione, della quale noi non siamo più capaci, perché non ci sentiamo connessi. Abbiamo l’impressione che tutto cominci, cominci, con il Cristo, mentre tutto culmina con il Cristo. Il Cristo è l’alfa e l’omega e la stessa storia dei patriarchi è generata dalla grazia del Cristo anticipatamente proiettata nell’epoca che lo ha preceduto. Ma in realtà la Chiesa comincia da Abramo, dal grande momento della chiamata di Abramo e dal suo uscire dalla terra di Ur verso la terra che Dio gli avrebbe mostrata e dal momento in cui Abramo ricevette la grande promessa della benedizione con la quale, mediante lui, sarebbero state benedette tutte le genti della terra. Allora comincia la storia della chiesa, il suo grande pellegrinaggio, il suo cammino di fatica, di testimonianza, di sangue, di gloria, di attesa e di speranza. La nostra storia! Quindi quando ripensiamo a queste vicende delle generazioni antiche di Israele che hanno preceduto l’avvento del Cristo dobbiamo sentirla come la storia dei nostri padri, come diceva san Paolo parlando a coloro che non avevano nessun rapporto né etnico, né storico esterno, con i patriarchi e con i profeti e con il popolo che era stato esiliato in Egitto e dall’Egitto, con mano potente, da Dio era stato riscattato: “I nostri padri in Mosè, furono tutti battezzati nella nube e nel mare”. “I nostri padri” ed erano i padri anche di quegli abitanti di Corinto che avevano ascoltato il buon annuncio della salvezza e che da quella città avevano creduto, quella città nella quale Dio si era riservato un grande popolo, come aveva rivelato anticipatamente a Paolo. I nostri padri! Finché noi non sentiamo la storia di Israele come già storia della chiesa e finché noi non sentiamo la storia dei patriarchi e dei profeti come la storia dei nostri padri, come la nostra storia, avremo sempre con questi testi e con questi eventi un rapporto di una certa distanza e di una certa freddezza, che non ci consentirà mai di viverli come evento di grazia quando li rievochiamo o di trarne tutto l’incoraggiamento, tutta la consolazione, che dobbiamo trarne, che possiamo trarne, poiché tutto ciò che è stato scritto è stato scritto per la nostra consolazione, perché attraverso le parole della Scrittura noi avessimo la speranza.

Una storia che è nostra! E’ una storia che ha avuto negli eventi che si concentrano intorno alla figura del profeta Elia, uno dei suoi momenti salienti. La storia di Israele è passata attraverso Elia in un momento decisivo della scelta - aut aut - fra Dio e la fedeltà a Lui o il tradimento e l’abbandono e il rifiuto definitivo del ricordo del suo Dio e del suo salvatore. Quindi momento cruciale della nostra storia, noi abbiamo vissuto in Elia. E non lo sappiamo. Ci è più facile ricordare la storia di Napoleone, che la storia di Elia! E oltre a questo, oltre a questa dimensione di evento capitale per la nostra storia, la nostra fede dipende anche da lui. E’ fondata la chiesa certo sui profeti, gli apostoli del Nuovo Testamento, ma è fondata anche sui profeti dell’Antico e sui giusti dell’Antico, essendo pietra angolare e chiave di volta sempre il Cristo Gesù.

Oltre a questo, Elia è anche tipo. Tipo, quindi esemplare con il quale continuamente ci si deve confrontare - questo è il senso della parola - tipo di tutta la profezia, che non per nulla già questa mattina abbiamo visto in compagnia del Cristo trasfigurato appunto a tipizzare la profezia che ha predetto l’avvento del Salvatore e i profeti che l’hanno atteso, l’hanno desiderato e cantato in anticipo. Tipo di tutta la profezia come risulta tra l’altro dalla sua identificazione tipica con il Battista, o meglio dall’identificazione tipica del Battista con lui. Il Battista che è la sintesi della profezia, essendone la conclusione e il suggello, lui che ha indicato il Cristo presente, lui che ha testimoniato del Cristo presente, avendone ricevuto la rivelazione da parte del Padre, è l’Elia, è Elia al grado supremo. Cristo stesso dice: “Elia è già venuto e gli hanno fatto tutto quello che hanno voluto”, e alludeva evidentemente, così dicendo, alla tradizione rabbinica e profetica che voleva che Elia comparisse come precursore e segno e realtà preparatoria del Messia, del salvatore, e alludendo – dicevo - a questo e alla tradizione rabbinica che aveva molto elaborato questa idea, il Cristo ha qualificato Giovanni Battista, come Elia, cioè come profeta, il profeta e più del profeta, il profeta per eccellenza, colui che riassumeva in sé tutta la qualifica del profeta. Tipo dunque di tutta la profezia, perciò figura capitale per comprendere una parte così rilevante dell’Antico Testamento, anzi tutta una dimensione, uno spessore, con il quale può leggersi ed interpretarsi l’Antico Testamento che è tutto, come promessa, profezia, e tipo anche del servo fedele di Dio che vive in mezzo all’iniquità ed alla tenebra del mondo. Quindi della vocazione, in fondo, di tutti coloro che il Signore ha chiamato a sé e che, lasciandoli nel mondo, ha voluto che non fossero del mondo. Elia è il tipo di questi che, presenti nel mondo, non appartengono al mondo, perché sono servi di Dio. Figura quindi con la quale è essenziale confrontarsi ed alla quale è essenziale riferirsi per capire le dimensioni più elementari della nostra esistenza di appartenenti alla chiesa - i nostri padri - di cristiani e anche a mio parere, direi in modo particolare, la nostra missione, il nostro compito, il nostro ministero di presbiteri.

Chi è Elia? Come appare Elia? Particolarmente nella vicenda culminante della sua esistenza, della sua missione, che è quella che si è conclusa proprio qui, sul Monte Carmelo? La grande prova, il grande sacrificio, la grande sfida e il grande trionfo, compiuto da Dio mediante lui, e la grande giustizia resa da Dio al proprio nome, attraverso di lui. Come appare? Prima di tutto appare come il testimone. Ecco chi è il servo di Dio, ecco chi è il profeta: il testimone. Colui che sa e dice, questo è il testimone. La testimonianza è detta, la testimonianza è proclamata. Ormai così da molti anni vado dicendo, quando me ne capita l’occasione, che il discorso sulla testimonianza silenziosa è un discorso molto ambiguo, da mettere in questione. La testimonianza di per sé non è silenziosa. Il testimone non sta zitto, il testimone parla. Solo in casi di emergenza, solo in condizioni singolarissime, di assoluta eccezione, che non possono prendersi come norma, il testimone può anche tacere e il suo stesso silenzio ad essere più eloquente che qualsiasi parola. Ma di per sé il testimone parla, parla di ciò che ha visto, parla di ciò che ha udito, parla di ciò che sa, rende testimonianza. Il testimone è la figura che interviene nel processo, in ordine al giudizio. Elia come profeta è e appare particolarmente, e per questo emerge fra gli altri profeti sotto questo rapporto, come il testimone. Il testimone di “Colui che è”, rispetto a “quelli che non sono”, rispetto a quelli che la tradizione ebraica biblica e non biblica chiama “le vanità” cioè le nullità, le realtà inesistenti, i puri “flatus vocis”, i puri nomi, i baalim, tutti gli idoli che riempiono il mondo, i molti re e signori ai quali il mondo si prostra. Lui è il testimone di Dio. Sa che Dio c’è. Lo ha ascoltato Dio parlare. Lui l’invisibile, nella luce della fede, lo ha visto e ne rende testimonianza e lo proclama e ricorda il suo nome. Pronuncia il suo nome, annuncia il suo nome: Lui c’è. E Dio suscita e vuole questi suoi testimoni sulla terra. Lui che sceglie il nascondimento, non sceglie il silenzio, Lui tace, ma la sua parola, la sua volontà, la realtà della sua presenza emerge e si impone attraverso la voce, il martirio, la testimonianza dei suoi testimoni, dei suoi servi. Sono loro che rendono tangibile, percettibile, afferrabile, Dio nel mondo. E che, in qualche modo, superano l’abisso infinito che separa la creatura dal creatore e che in qualche modo, senza abolirlo, risolvono il problema e la realtà del nascondimento, dell’incognito di Dio. I suoi testimoni, quelli che sanno! Essi stessi sanno nella fede, essi stessi per la fede, ma sanno - io credo! - per la testimonianza di coloro che hanno creduto. Capite che funzione essenziale! Se mancasse questo anello di congiunzione sarebbe impossibile il rapporto dell’uomo con Dio, e Dio lo suscita. Il testimone che lo rende presente, colui che può dire “ io so” di Dio. E la fede del mondo, “perché il mondo creda”, dipende da questi suoi testimoni. Non Dio certo (dipende da loro, Dio) che c’è comunque, nella sua infinita beatitudine comunque, ma che essendo Padre ed essendo infinitamente amante, non si disinteressa delle sue creature e non vuole che la sua inaccessibilità, che vuole conservare, che il suo mistero, che vuole custodire, che il suo nascondimento del quale fa oggetto di scelta - abbiamo detto stamane - sia tale da ostacolare l’accedere alla salvezza degli uomini. E qual’è allora il termine che risolve? La testimonianza dei testimoni. E ciascuno di noi crede in base a qualcuno che gli ha dato testimonianza. La mia fede è basata sulla fede di coloro che mi hanno annunciato Dio, il Cristo, la Croce e la Resurrezione e che di ciò hanno reso testimonianza. Se no non ne saprei nulla.

Questa è la dinamica, è la dialettica della fede, è la struttura dell’atto. Elia è il testimone. E’ il testimone di “Colui che è” ed è il testimone del patto eterno. Di Colui che una volta, ma una volta per tutte, si è legato ad Israele facendo di Israele lo strumento della salvezza universale, nella promessa, e suscitando e tenendo viva continuamente e amplificando anzi incessantemente questa attesa, l’attesa dell’adempimento di questo immenso compito salvifico di Israele, popolo di testimoni, popolo-testimone per tutti gli altri popoli della terra, il popolo che dice come popolo, tutti insieme: “Noi abbiamo visto, noi abbiamo udito, noi abbiamo creduto”. Elia all’interno di Israele, del popolo chiamato ad essere il popolo dei testimoni, la chiesa, rende questa testimonianza, la testimonianza - ripeto - del patto eterno, con cui Dio ha fidanzato a sé per sempre il suo popolo. Lo ricorda quando tutto sembra smentirlo e quando tutti sembrano averlo dimenticato. Lo ricorda come una realtà mirabile, stupenda, che è folle dimenticare e che è iniquo tradire.

Ecco Israele “che ha cambiato”, come dice Geremia tanto spesso - un altro grande testimone in momenti non molto diversi da quelli in cui visse Elia, anche se nonostante tutto forse meno drammatici di questi. “Ha cambiato me fonte d’acque vive per cisterne screpolate che non contengono l’acqua”. E poi la meraviglia, lo stupore che esprime Dio attraverso Geremia: “Può forse la neve venire meno dalle cime dell’Ermon? Forse che la rondine non torna nel suo nido? Come mai il mio popolo non torna, come mai il mio popolo ha dimenticato me”. Il rammemoratore del patto e il testimone del Vivente è il profeta. E questo è Elia. Importanza capitale che ci sia, che ci sia. “Ascoltino o non ascoltino, sapranno almeno che sono un popolo di ribelli”, come dice il Signore in Ezechiele. Ma è importantissimo che ci sia, capitale che ci sia, perché se c’è, qualcuno che ascolta c’è sempre. Ma capite come Dio si lega al profeta e in qualche modo lega il suo disegno salvifico all’esistenza di questa voce che grida. Come adempie questa testimonianza? In che cosa consiste in qualche modo questa testimonianza resa dal profeta? (Essa è)  tipicamente, esemplarmente rappresentato da Elia nel ritorno incessante alla realtà fondante tutto, alla fonte, espressa in quel mirabile pellegrinaggio all’Oreb, che noi vediamo raccontato in modo così stupendo. Questo uomo solo, che trascorre infinite distanze nel deserto, per ritornare là. Dove? Là dove Dio ha pronunciato il suo nome ed ha detto “Io sono”, là dove Dio si è legato in eterno al suo popolo, reso popolo attraverso tante vicende, da piccola famiglia che era, e santificato alle falde di quel monte. Il ritorno all’Oreb, il ritorno. Anche questo è bellissimo. Il compito del profeta, che è quello di testimoniare così l’Esistente e di rammemorare l’evento del rapporto salvifico di Dio con il mondo ed è la scelta salvifica compiuto da Dio del suo popolo, si compie attraverso questo grande pellegrinaggio alla fonte, alla sorgente. Questo ritorno là dove Dio ha parlato e si è rivelato. E’ molto bello ed è anche molto nostro questo compito che noi abbiamo di testimonianza. E’ il primo. E’ la prima realtà della nostra missione che deve realizzarsi attraverso il nostro quotidiano pellegrinaggio alla fonte della Scrittura, alla sorgente della rivelazione. E questo è il quotidiano rinfrescarsi nella nostra memoria, nella nostra esperienza della certezza dell’esserci di Dio e del suo amore eterno e infinito. Elia! A me pare che sia un modello straordinario, un esemplare veramente per tutti noi, oltre che - ripeto - questa grande pietra miliare nella storia della nostra salvezza.

Questa missione fa di Elia - e concludo, faccio presto perché non dobbiamo (esagerare), bastano poche parole per suscitare in voi che siete esperti, non bisognerebbe mai far le prediche ai preti, tanti ricordi, infiniti testi per suscitare risonanze amplissime - questa missione fa, certo contribuisce a rendere ancor più il testimone, che tale è per vocazione, tale è per natura sua, un solitario. Come vediamo di nuovo esemplarmente in Elia, ecco questa figura del testimone emerge con una chiarezza straordinaria. Solo! Solo, rispetto ai 350 profeti dei Baal, solo. Solo, “Sono rimasto io solo” egli dice, quando invece poi Iddio, come è stato già ricordato, fa sapere che no, Lui si è riservato altre settemila persone che non hanno piegato le loro ginocchia ai Baal, ma la sua esperienza è un’esperienza di solitudine, che lo porta fino al limite della prova della fede. Ma il testimone può essere testimone soltanto se è passato egli stesso attraverso la prova della fede. Allora è testimone di Dio, del Dio vivo e vero, non di un Dio creato dall’immagine dell’uomo e dalla sua fantasia, creato a forma e similitudine dell’uomo, ma testimone del Dio che si nasconde, testimone del Dio libero, testimone del Dio che non è svegliato dalle grida degli uomini, né si commuove o si piega per le loro estasi orgiastiche. Testimone del Dio della fede! Non può essere testimone del Dio della fede, del Dio del mistero, quindi dell’unico Dio vivo e vero, se egli stesso non è testimone personalmente della fede e se egli stesso non passa attraverso quella dimensione dell’esperienza di Dio che è l’esperienza della fede. Altrimenti che cosa testimonia? Testimonierebbe agli altri un Dio che parla, quando Dio è in realtà un Dio che tace, testimonierebbe agli altri un Dio che si fa prendere con la mano e che uno può mettersi in tasca o in saccoccia, quando Dio è il sommamente, l’eternamente, il perfettamente libero che non lascia vincolare né piegare da nessuno e da nulla, la sua assoluta, sovrana e santa libertà. Come testimone, quindi, passa attraverso la prova della fede, sperimentata nella sua solitudine - quel dialogo con Dio drammatico e stupendo “Prendi la mia vita, perché io non sono meglio che i miei padri”. Questo “taedium vitae” che lo prende in quella solitudine del deserto, sotto il tamerisco. Con Dio che lo sostiene come lo aveva sostenuto nella persecuzione, non sottraendolo alla persecuzione, ma mantenendolo in vita per dargli la forza di continuare a reggere in questa situazione. “Prendi, mangia, bevi e cammina”. E cammina. Ecco il testimone. Sostenuto da Dio per sostenere e reggere la prova della fede, continua. Fino all’ultimo, perché, anche sull’Oreb, Dio non gli fa vedere il suo volto. E come il popolo di Israele sentiva solo le voci e non vedeva immagine alcuna, così neppure Elia vede un’immagine quando arriva là all’Oreb. Sente la voce. Ecco, è in questo modo che il profeta edifica Israele, lo unisce, lo raccoglie, lo rifonda, e garantisce la continuità della sua storia, lui il profeta. E’ lui che costruisce l’altare con le dodici pietre, con le quali rimette insieme l’Israele disgregato e dissolto e con il quale ne fa l’altare dell’offerta di gradevole odore a Dio, della quale Dio si compiace, mostrando il suo compiacimento con il mandare il fuoco dal cielo. E’ lui che ricostruisce Israele. E’ il profeta, è il servo, è il testimone, ed è lui che riceve l’incarico da parte di Dio ed è attraverso di lui, quindi, che questo dono si verifica, si realizza, di stabilire la continuità della storia. E’ per mezzo del suo ministero che la storia non finisce. Ed è questo il senso della missione che riceve Elia da Dio sull’Oreb e che comincia immediatamente a realizzare gettando il suo mantello su Eliseo e chiamandolo alla profezia. La storia continua in forza di questo testimone: è la storia della salvezza e giunge così in modo che la lampada non si spenga, fino al momento in cui tutte le lampade cessano per dare posto al sole della giustizia, Cristo Gesù, il testimone fedele e perfetto, eterno, colui nel quale il patto di Dio, non come il patto con i nostri padri, non potrà mai, neppure parzialmente, infrangersi. Ecco dunque il senso di questo incontro con Elia: il ritrovare, in tutta la storia della salvezza, la dimensione, il valore del profeta, del testimone, del testimone dell’invisibile, dell’inaccessibile, attraverso il quale soltanto si può generare la fede, del testimone, del rammemoratore dell’amore eterno e perfetto del Dio che si nasconde, ma ama, e ama con passione. Il testimone che adempie alla sua missione, ritornando con il pellegrinaggio in cui si risolve tutta la sua vita e con tutta la propensione del suo cuore, al momento fontale, alla sorgente di questo rivelarsi, di questo donarsi, di Dio, che è l’Oreb. Il testimone che realizza tutto ciò inevitabilmente nella solitudine ed inevitabilmente in una solitudine anche di fronte a Dio, essendo solo sulla breccia di fronte a Dio e solo gridando e invocando il nome del suo Dio, perché altrimenti di nulla potrebbe rendere testimonianza e non sarebbe diverso dal mondo. Diverso dal mondo come invece deve essere, e in qualche modo solo, anche se con lui ci sono altri settemila. Ma il testimone che in questo mondo riedifica il popolo di Israele, ricostituendolo nella propria unità, nel suo mistero, senza saperlo, senza verificarlo, senza toccarlo con mano. Mette insieme le dodici pietre dell’altare, ma non sa che il popolo in qualche modo è da lui rigenerato, da Dio, ma attraverso lui. Il testimone che in questo modo anche - ripeto un punto al quale accennavo - stabilisce la continuità della storia salvifica, impedendo che la fiamma dell’amore e della conoscenza, e della rivelazione di Dio si spenga e che la luce si estingua. Ecco Elia.


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