Che cosa in realtà ha espresso il Collodi nel suo più celebre libro, di là dalle sue
intenzioni consapevoli e dichiarate?
Non ha espresso nessuna delle ideologie correnti, che erano tutte ignote ai suoi destinatari e che d'altronde non
erano più pacificamente accettate nella profondità della sua coscienza. E sarà sempre una
prevaricazione dare di Pinocchio delle spiegazioni ideologiche di qualunque tendenza e di qualunque colore, come di
fatto sono state date: conservatorismo moralistico, liberalismo illuministico, pauperismo, marxismo, psicanalismo
ecc.
Non le ideologie ma la verità, di sua natura universale ed eterna, è contenuta in questo magico
racconto e, servita com'era da un'alta fantasia e da una fresca ispirazione poetica, spiega la sua rapida
affermazione e il suo duraturo trionfo.
Ma, per non lasciare nel vago le nostre affermazioni, quali sono specificamente le verità che senza
possibilità di discussione, traspaiono nella storia del burattino?
Sono sette quelle che reggono e illuminano tutta la vicenda.
a) Il mistero di un creatore che vuole essere padre
Pinocchio, creatura legnosa, origina dalle mani di chi è diverso da lui; è costruito come una cosa, ma
dal suo creatore è chiamato subito figlio. C'è qui l'arcano di un'alterità di natura, superata
da uno strano, gratuito, imprevedibile amore.
Il burattino, chiamato sorprendentemente a essere figlio, fugge dal padre. E proprio la fuga dal padre è
vista come la fonte di tutte le sventure; così come il ritorno al padre è l'ideale che sorregge
Pinocchio in tutti i suoi guai, costituendo infine l'approdo del tormentato viaggio e la ragione della raggiunta
felicità.
b) Il mistero del male interiore
In questo libro è acutissimo il senso del male. E il male è in primo luogo scoperto dentro il nostro
cuore. Non è un puro difetto di conoscenza, come nell'illuminismo socratico; non è risolto tutto nella
iniquità o nella insipienza delle strutture, come nell'ideologia liberalborghese in polemica con l'Ancien
Régime o nell'ideologia marxista in polemica con la società liberalborghese. «Dal di dentro,
cioè dal cuore degli uomini escono le intenzioni cattive» (Mc 7, 21).
Pinocchio sa che cosa è il suo bene, ma sceglie sempre l'alternativa peggiore (Vedi, c. 9: a scuola o al
teatro dei burattini?; cc. 12 e 18: a casa o al campo dei miracoli col gatto e la volpe; cc. 27: a scuola o alla
spiaggia a vedere il pescecane?; c. 30: dalla Fata o al Paese dei balocchi? ). Soggiace chiaramente alla
narrazione di queste sconfitte la persuasione della «natura decaduta», della «libertà
ferita», della incapacità dell'uomo a operare secondo giustizia, espresso nelle famose parole:
«Non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rm 7, 19).
c) Il mistero del male esteriore all'uomo
La nostra tragedia è aggravata dal fatto che sono all'opera, esteriormente a noi, le potenze del male. Esse
non sono viste come forze impersonali, quasi oggettivazioni delle nostre inclinazioni malvagie o dei nostri
squilibri, ma come esseri astuti e intelligenti che si accaniscono inspiegabilmente ed efficacemente contro la nostra
salvezza.
Nella fiaba queste forze malefiche sono rappresentate vivacemente nelle figure del Gatto e della Volpe e raggiungono
il vertice della intensità artistica e della lucidità speculativa nell'Omino, corruttore mellifluo,
tenero in apparenza, perfido nella realtà spaventosa e stupenda raffigurazione del nostro insonne Nemico:
«Tutti la notte dormono, e io non dormo mai» (c. 31).
d) Il mistero della mediazione redentiva
L'ideologia illuministica aveva diffuso nel mondo l'orgogliosa affermazione dell'autoredenzione dell'uomo: l'uomo
può e deve salvare se stesso, senza alcun aiuto dall'alto.
Tutta la seconda parte del libro (dal c. 16 in avanti, che si potrebbe considerare quasi il Nuovo Testamento di
questa specie di Bibbia) è costruita per smentire questa che è l'illusione dominante della nostra
cultura. Pinocchio, interiormente debole e ferito, esteriormente insidiato da intelligenze maligne più astute
di lui, non può assolutamente raggiungere la salvezza, se non interviene un aiuto superiore, che alla fine
riesce a compiere il prodigio di riconciliarlo col padre, di riportarlo a casa, di dargli un essere nuovo.
Lo straordinario personaggio della Fata dai capelli turchini è posto appunto a indicare l'esistenza di questa
salvezza che è donata dall'alto e può guidare al lieto fine la tragedia della creatura ribelle.
e) Il mistero del padre, unica sorgente di libertà
La scelta di un burattino legnoso come protagonista della narrazione è anch'essa una cifra: è il
simbolo dell'uomo, che è da ogni parte condizionato, che è schiavo degli oppressori prepotenti e dei
persuasori occulti, che è legato a fili invisibili che determinano le sue decisioni e rendono illusoria la sua
libertà.
Il burattinaio di turno può anche essere soppresso dall'una o dall'altra rivoluzione, ma fino a che la
creatura umana resta solitaria marionetta, ogni burattinaio estinto avrà fatalmente un successore.
Pinocchio non può restare prigioniero del teatrino di Mangiafuoco, perché a differenza dei suoi
fratelli di legno riconosce e proclama di avere un padre. Il senso del padre è dunque la sola sorgente
possibile della liberazione dalle molteplici, cangianti e sostanzialmente identiche tirannie che affliggono
l'uomo.
f) Il mistero della trasnaturazione
Pinocchio riesce a raggiungere la sua perfetta libertà interiore e a realizzarsi perfettamente in tutte le
sue virtualità soltanto quando si oltrepassa e arriva a possedere una natura più alta della sua, la
stessa natura del padre. È la realizzazione sul piano dell'essere della vocazione filiale con la quale era
cominciata tutta la storia.
Noi possiamo essere noi stessi soltanto se siamo più di noi stessi, per una arcana partecipazione a una vita
più ricca; l'uomo che vuole essere solo uomo, si fa meno uomo.
g) Il mistero del duplice destino
La storia dell'uomo, come è concepita e narrata in questo libro, non ha un lieto fine immancabile. Gli esiti
possibili sono due:
se Pinocchio si sublima per la mediazione della Fata nella trasnaturazione che lo assimila al padre, Lucignolo
— che non è raggiunto da nessuna potenza redentrice — s'imbestia irreversibilmente. La nostra
vicenda può avere due opposti finali: o finisce in una salvezza che eccede le nostre capacità di
comprensione e di attesa, o finisce nella perdizione.
Queste sette convinzioni, si è visto, sono affermate e concIamate dal libro, e non so come sia possibile
con qualche ragionevolezza dubitarne.
Orbene, è anche fuori dubbio che esse siano sette fondamentali verità della visione cristiana, e
cioè:
Il Collodi che sazio delle ideologie si rivolge ai ragazzi d'Italia, con felice intuito di artista riscopre
nell'anima dei destinatari l'unica concezione della realtà che accomunava tutti gli abitanti della penisola,
prima che l'unificazione politica li dividesse nel profondo ed erigesse tra loro le barriere avverse delle
ideologie.
I ragazzi italiani del 1881 potevano certo avere padri e zii clericali o anticlericali, cattolici intransigenti o
conciliatoristi, filo-sabaudi o repubblicani, liberali o socialisti; ma nessuna di queste contrapposizioni li toccava
minimamente. I ragazzi italiani del 1881 avevano come sola chiave interpretativa della realtà la concezione
che potevano desumere dalle preghiere delle loro mamme e delle loro nonne, dagli affreschi e dalle vetrate delle loro
chiese, dalle spiegazioni del vangelo del loro parroco, dal catechismo studiato per la prima comunione, dalle
espressioni popolari della sapienza cristiana. I ragazzi italiani del 1881 non conoscevano ideologie, conoscevano la
verità.
E il Collodi, entrando in comunione di spirito con loro in virtù della capacità penetrativa della sua
arte, riconquista senza volerlo e probabilmente senza saperlo la verità della sua primissima giovinezza, la
verità che aveva dato a sua madre la forza di vivere, la verità che ogni cuore umano non prevenuto
percepisce d'istinto come la loro luce che salva. Si è in modo singolare avverata per lui la parola profetica
del Signore Gesù: «Se non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18, 3).
«Chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei
cieli» (Mt 18, 4).
E' dunque una lezione di vita che possiamo imparare: le ideologie. possono servire per far politica, per
arricchire, per far carnera, per organizzare meglio l'esteriorità della vita terrena, per assicurarsi onori e
vantaggi, per avviare rivoluzioni che lasciano la sostanza delle cose come prima, per intraprendere liberazioni che
di solito si risolvono in un cambio di schiavitù; ma per la salvezza dell'uomo come uomo non servono. Per la
salvezza occorre la verità: la verità sulla vita e sulla morte, sul senso dell'esistenza e sulla sua
insignificanza, sulla felicità e sul dolore, sulla possibilità di speranza e sulla disperazione, sulla
nostra origine e sul nostro ultimo destino.
La salvezza comincia quando l'uomo si rende conto che la sua vera alienazione sta nel rifugiarsi nell'una o
nell'altra ideologia per la paura di misurarsi con la verità, e comincia a capovolgere questo mortificante
processo. E' l'insegnamento più elevato e più utile che si possa trarre dalla vicenda umana di Carlo
Lorenzini detto Collodi e dal «caso» letterario de «Le avventure di Pinocchio».
Devo molto a Pinocchio. Il mirabile burattino mi ha tra l'altro procurato l'onore inatteso
dell'attenzione garbatamente critica di Giovanni Spadolini, il compianto storico e uomo politico che tutti abbiamo
stimato. Per il centenario della morte di Carlo Collodi, all'Archiginnasio di Bologna, avevo svolto un tema
abbastanza singolare e per la verità anche un po' provocatorio: "Pinocchio e la questione italiana". A
differenza di altri che hanno reagito "a caldo" e senza diretta conoscenza di ciò che avevo detto, Spadolini
molto correttamente si era fatto inviare il testo dell'intervento, e dopo qualche settimana ha reso pubbliche le sue
considerazioni in un articolo della Stampa di Torino. Quelle argomentazioni sono state poi riproposte in un
capitolo del suo ultimo libro (Il mondo frantumato, Milano 1992); un capitolo intitolato: Burattino
d'Italia: l'unità secondo Pinocchio, che è tutto dedicato a discutere le mie posizioni.
Senza dubbio la preoccupazione principale di quelle pagine è di contestare una valutazione del Risorgimento
che certo egli non poteva condividere. Ma questa è una discussione che non è il caso qui di
riprendere.
Spadolini però esprimeva anche contestualmente alcune persuasioni a proposito di Collodi e di Pinocchio, che
si possono sintetizzare in cinque punti.
Le ragioni delle mie riserve nei confronti dell'analisi spadoliniana emergeranno dal seguito di
questa mia conversazione, che intende più che altro richiamare l'attenzione su alcuni interrogativi, ai quali
non si è ancora data, mi sembra, una risposta esauriente e persuasiva.
Le questioni essenziali saranno due: una prima che concerne la biografia interiore di Carlo Lorenzini e una seconda
che indirettamente tocca l'indole della famosa e impareggiabile fiaba. Ne aggiungerei una terza - e mi scuso di dover
discorrere di qualcosa che mi riguarda personalmente - circa la mia "lettura teologica" di Pinocchio.
Ferdinando Martini ha affermato che il Lorenzini "tornò a Firenze dalla guerra nell'agosto
del '48 mazziniano sfegatato". Che valore possiamo dare a questa notizia?
Nell'infanzia era stato educato da una madre religiosissima. Nell'adolescenza era andato a scuola dai preti, alunno
per cinque anni del Seminario di Colle Val d'Elsa. Poi fino a diciotto anni frequenta i corsi di retorica e filosofia
dei padri scolopi.
Ma tra il 1845 e il 1848 - mentre è impiegato alla libreria Piatti - ha tempo di assimilare le nuove idee di
libertà civile e di indipendenza nazionale. Ed è plausibile che il magistero mazziniano si facesse
sentire e apprezzare anche nell'atmosfera un po' sonnolenta del Granducato.
Sarà anche stato mazziniano, e dunque repubblicano e federalista. Ma nel 1859 prende la divisa del Re di
Sardegna e serve la causa annessionistica e unitaria del Governo Piemontese.
Quando poi torna dalla seconda guerra d'indipendenza, il suo mazzinianesimo si è ormai dissolto. Nel 1860 -
Pinocchio comincerà a percorrere le vie del mondo più di vent'anni dopo - su La Nazione il
Collodi arriva a scrivere: "Tutto è favola in questo mondo, tutto è invenzione, dall'idea di Mazzini
all'Ippogrifo dell'Ariosto... Che il cielo mi perdoni, ma l'anarchia regna nello Zodiaco..." (citato da Bruno
Traversetti, Introduzione a Collodi, p. 65, Bari 1993). [È curiosa l'analogia con una frase di
Euripide: "Nelle cose divine e nelle umane regna un grande disordine" (Ifigenia fra i Tauri)].
È una confessione sorprendente, e non va trascurata. Se nella prima frase ci rivela lo scolorimento delle sue
precedenti convinzioni politiche, la seconda ci dà la misura della sua profonda inquietudine che qui pare
raggiungere addirittura una dimensione cosmica e, per così dire, metafisica.
Del resto, facciamo fatica a pensare che tra il padre di Pinocchio e il pensatore ligure potesse istituirsi una
consonanza autentica e duratura, tanto i due erano umanamente lontani e diversi; scanzonato e spregiudicato, ma
concreto e realistico il primo; serioso, sistematico, intransigente, ma astratto e utopistico l'altro.
Collodi non avrebbe mai scritto un libro intitolato I doveri (e si ha qualche dubbio che potesse mai
leggerlo). Il 3 agosto 1860, recensendo la commedia di Pietro Thouar (Dovere), così annotava: "I doveri
sono sempre un peso! Ed io, che non sono mai stato troppo appassionato per i pesi né per i doveri, avrei fatto
volentieri a meno di sentire per la seconda volta il Dovere e il peso in tre atti del sig. Pietro Thouar" (citato da
Renato Bertacchini, Il padre di Pinocchio, Milano 1993, p. 183).
Ma non era solo la visione mazziniana a diventargli sempre più estranea: un po' tutte le idee ispiratrici del
sommovimento risorgimentale, che pure avevano affascinato seriamente la sua giovinezza, non lo incantano
più.
Beninteso, non rinnega niente del suo passato, non diventa affatto un reazionario; ma i risultati della grande
impresa, cui aveva fattivamente contribuito, non gli piacciono. Non arriva a essere un nostalgico dell'Ancien
Régime, anche se è stato notato che l'ambientazione del suo più famoso racconto sembra essere
quella del casalingo e pacioso mondo del Granducato. Forse faceva capolino inconsciamente in lui anche l'insofferenza
toscana nel dover ammettere che in fin dei conti l'Italia l'avevano fatta i "buzzurri". Più profondamente,
è deluso della meschinità e della scarsa attenzione all'uomo del nuovo stato; e gli stessi miti
dell'illuminismo, perfino l'istruzione obbligatoria per tutti, cadono sotto la sua ironia.
Comunque, a partire dal 1860 il suo malessere è così intenso da trasparire anche all'esterno e da
essere percepito da chi gli sta attorno: "Non era più del suo umore di una volta - scrive il nipote Paolo
Lorenzini - appariva chiuso, taciturno, malinconico, per quanto avesse sempre pronta la barzelletta e la facezia
quando si animava un po'" (citato da E. Petrini in Studi collodiani, p. 486).
È sintomatico che la crisi spirituale e politica del Collodi coincida col suo "ritorno a casa". A partire
proprio dal 1860 egli ricomincia a vivere con la madre, cui rimase sempre attaccatissimo. Angelina morirà solo
quattro anni prima del figlio nel 1886 quando già il fatale burattino aveva cominciato la sua fortunata corsa
nel mondo.
Non sarebbe il caso di studiare un po' più da vicino, accantonando gli schematismi ripetuti e convenzionali,
la vicenda interiore del Lorenzini? E in che misura la sua lunga "crisi" sta all'origine della sua decisione - nel
1875 con la traduzione dei Contes di Perrault - di dedicarsi a scrivere per i bambini? Forse anche Le
avventure di Pinocchio potrebbero ricevere un po' di luce in più.
Renato Bertacchini ha ben capito la fondatezza e anzi l'ineludibilità della problematica sulla quale ho
cercato di attirare l'attenzione. Gli sono grato e gli lascio la parola.
"Le recenti polemiche suscitate dal Cardinale Giacomo Biffi...hanno fatto perdere di vista almeno due punti fondamentali riguardanti la "svolta" collodiana...
La crisi e il "rifugio" nella cosiddetta letteratura infantile che segnano gli ultimi quindici anni di vita e di lavoro del Lorenzini non sono un fatto soggettivo, ma devono iscriversi oggettivamente nella vicenda storica del Risorgimento, in quanto il padre di Pinocchio era deluso dai miti illuministici (alla base del processo risorgimentale), non meno che degli altri, moderni miti professati dal socialismo, dai quali non fu mai persuaso.
Fino allora, da pubblicista, il Lorenzini si era rivolto soprattutto "alla classe di quelli che contano, a quanti erano occupati nell'azione politica"; a un certo momento, il suo pessimismo, o meglio "il pessimismo del suo realismo" lo convince dell'inutilità di un simile orientamento. "Egli decide allora di cambiare destinatari e di spendere le sue fatiche non più per gli adulti, non più per i personaggi importanti sì sulla scena pubblica ma ormai ideologicamente fissati e sclerotizzati senza rimedio, bensì per i ragazzi che possiedono un'umanità ancora nativamente fresca aperta alla verità" (R. Bertacchini, Il padre di Pinocchio, Milano 1993, p. 203).
Le avventure di Pinocchio costituiscono un fenomeno letterario che a prima vista non
è agevole giustificare.
L'Italia unita non ha dato all'umanità nessun'altra opera che, per il successo senza confini e la risonanza
in ogni cultura, possa essere paragonata a questa.
Ed è libro nato quasi per caso. Anzi, si ha proprio l'impressione che il libro sia stato anche scritto di
malavoglia. Apparso a puntate con scadenze irregolari sul Giornale per i bambini di Ferdinando Martini, non si
ha notizia che sia stato preceduto da un disegno accuratamente elaborato e rifinito.
Due volte la pubblicazione è stata interrotta, e la prima addirittura con il proposito di non dare altro
seguito alla vicenda.
È difficile immaginare peggiori premesse e condizioni più sfavorevoli alla nascita di un
capolavoro.
Eppure Pinocchio si è imposto all'attenzione universale, è stato tradotto in quasi tutte le
lingue, continua dopo più di un secolo a provocare dotti commenti e disquisizioni sottili. C'è dunque
una evidente e strana sproporzione tra le premesse e gli esiti, che incuriosisce e fa riflettere.
Qual è la ragione di tanta fortuna? La domanda non ha ancora trovato una risposta decisiva e convincente.
Innegabilmente il fascino del libro è dato anche dalla freschezza della lingua, asciutta, essenziale, ma
sempre scintillante e briosa. Siamo conquistati tutti, piccoli e grandi, dall'originalità e dalla
imprevedibilità della trama. Una fantasia inesauribile sorregge l'intera favola e avvince ineluttabilmente chi
si pone in ascolto di questo straordinario narratore.
Ma sono spiegazioni che francamente non ci sembrano sufficienti. Quei pregi si ritrovano, magari in misura minore,
in altri scritti collodiani che, fossero rimasti soli, non avrebbero assicurato al Lorenzini molta fama oltre gli
ultimi decenni dell'Ottocento e di là da un ambito poco più che regionale. Se quelle pagine ancora ci
interessano, è perché sono del padre di Pinocchio.
Tanto meno si può indicare tra le cause della riuscita "cosmica" del racconto il suo messaggio etico e il suo
valore educativo.
C'è sì del moralismo facile e convenzionale ne Le avventure di Pinocchio. Ma è
precisamente l'aspetto del libro che alla mia giovinezza l'aveva reso uggioso e insopportabile. Per fortuna - e me ne
sono poi avveduto - è un moralismo alleggerito e superiormente riscattato dal distacco e dall'ironia
dell'autore, il quale (è già stato notato) dimostra più simpatia per il suo sfaticato e
trasgressivo protagonista che non per il Grillo parlante (il solo di tutta la storia che poteva forse aver letto I
doveri di Giuseppe Mazzini).
C'è anche in quelle pagine, doverosamente, l'esaltazione del lavoro. Ma su questo argomento il Lorenzini si
è sempre dimostrato allergico a ogni enfatizzazione e a ogni retorica. Proprio nel 1881 - anno di nascita
dell'immortale burattino - a chi si congratulava con lui che aveva raggiunto il giorno bellissimo della pensione,
rispondeva: "Potrà essere un bel giorno per chi ha sgobbato cento anni, ma per me, che non ho fatto nulla,
è un giorno come tutti gli altri".
Si sente una certa condivisione e un'attitudine di simpatia nei confronti del suo accuratamente delineato "ragazzo
di strada".
"L'uomo che lavora, dice il ragazzo di strada nella sua arguta ignoranza, non può essere fatto a immagine e
somiglianza di Dio: perché Dio lavorò appena sette giorni e sono ormai seimila anni che riposa"
(Collodi, Opere, Milano 1995, p. 181).
Penso che il Lorenzini si sarebbe meravigliato - e probabilmente anche divertito - nel sentirsi lodare come il
cantore di quella religione del lavoro, "segno distintivo del nuovo laicismo operoso su cui doveva fondarsi lo stato
italiano" (Spadolini, c.c., p. 387).
Egli del resto si è sempre compiaciuto di presentarsi non solo come uno scrittore ma anche come un lettore
che non aveva propensioni pedagogiche prevalenti: “io chiamo belli i libri che mi piacciono, e se, oltre a
piacermi, si provano anche a volermi istruire, chiudo un occhio e tiro via. All'opposto chiamo brutti i libri che mi
annoiano...".
Come si può risolvere allora questa questione?
La mia ipotesi è che la forza intrinseca e l'attrazione nascosta di Pinocchio stanno nel fatto che vi
si raffigura oggettivamente la realtà delle cose come è davanti agli occhi del Creatore, come è
stata rivelata dal figlio di Dio, unico Salvatore e unico vero Maestro, come è da sempre offerta alle genti
dalla predicazione ecclesiale.
"Il Collodi aveva un cuore più grande delle sue persuasioni, una carisma profetico più alto della sua militanza politica. Così poté porsi in comunione forse ignara con la fede dei suoi padri e con la vera filosofia del suo popolo.
L'ortodossia, che non avrebbe potuto superare con le proprie vesti gli sbarramenti censori della dittatura culturale dell'epoca e della stessa coscienza esplicita dello scrittore, travestita da fiaba eruppe dal profondo dello spirito e risonò apertamente. In quella fiaba gli italiani di istinto riconobbero la loro canzone di sempre e gli uomini di tutti i paesi avvertirono inconsciamente la presenza cifrata di un messaggio universale" (G. Biffi, Contro Maestro Ciliegia, Milano 1998, pp. 16-17).
È quasi un luogo comune che i massimi libri italiani per l'infanzia - Pinocchio
appunto, e il Cuore di De Amicis - siano del tutto areligiosi: non vi compare mai il nome di Dio e meno che
meno c'è in essi qualche traccia o qualche flebile eco del culto cristiano. Possiamo convenirne, anche se
nessun collodiano degno di questo nome dovrebbe sentirsi lusingato dall'accostamento.
Non meraviglia perciò che un commento teologico a Le avventure di Pinocchio sia stato accolto, fuori
dall'area cattolica, con poco entusiasmo e molta sufficienza, in alcuni casi con qualche fastidio e persino con
indignazione.
Si è parlato di "libro parallelo", e dunque estrinseco, gratuito e arbitrariamente giustapposto a quello del
Lorenzini: un'operazione illegittima di annessione di un autore assolutamente "laico" a una "parrocchia" che non era
la sua. Insomma, un ennesimo caso di invadenza clericale.
Per la verità, mi ero dato premura di informare i miei eventuali lettori del carattere innocente e pacifico
dei miei intendimenti: lungi da me il pensiero - dicevo - "di incolonnare dietro i santi stendardi uno spirito laico
e libero come il Collodi" (G. Biffi, o.c., p. 222).
Con giovanile impertinenza avevo anzi dichiarato che il pensiero dell'autore non mi interessava affatto: mi bastava
rendermi conto della stupefacente analogia - di più, della perfetta concordanza - tra la struttura oggettiva
del racconto e la struttura oggettiva della visione di fede.
Confessavo di essere stato ammaliato e divertito dal "gioco del Padre che si compiace di caricare del suo messaggio
le parole più disparate, anche quelle che a un primo esame sembrerebbero disadatte o lontane" (o.c. p. 223).
Che se il Lorenzini fosse stato ateo - scrivevo - "il gioco mi sarebbe piaciuto anche di più, perché
sarebbe apparso più scintillante l'umorismo di Dio" (ib).
Il problema è dunque uno solo: quello di appurare la fondatezza di quella "analogia" e di quella
"concordanza" di cui si parlava. Il volume da me pubblicato non mira ad altro.
Non potendo qui infliggere l'esposizione analitica dell'intero suo contenuto, mi limiterò a indicare gli
elementi più rilevanti e, a mio parere, meno contestabili.
Non mi resta allora che rivendicare l'intemerata correttezza metodologica della mia lettura.
A darne una giusta valutazione, il pensiero personale del Lorenzini, le idee diffuse nella società in cui
viveva, la cultura all'epoca dominante, non vanno chiamate in causa. Il nocciolo del problema si riduce ad accertare
se ci sia o non ci sia questa sorprendente correlazione tra il racconto collodiano, come è in se stesso a
prescindere dagli intenti dell'estensore, e la storia della salvezza, come è contenuta e proclamata
nell'annuncio evangelico.
Né gli studiosi della vita e delle opere del Collodi né i critici letterari né gli indagatori
del nostro Ottocento, propriamente parlando, hanno a questo proposito qualcosa da dire. Competente a giudicare se la
struttura oggettiva di una narrazione sia o no conforme alla struttura oggettiva della verità rivelata
è il teologo e, in ultima analisi, il magistero della Chiesa.
Senza dubbio, questo modo di accostarsi a Pinocchio abbastanza spregiudicato e divertito non è esente
da un certo gusto di cantare fuori dal coro.
Ma proprio per questo - se non mi illudo - non è troppo lontano dallo stile e dall'estro del Collodi. Se
è presunzione, posso ancora sperare nella misericordia del Signore e nella vostra.
Una parola che nelle pubblicazioni ricorre spesso a proposito di Pinocchio è l'aggettivo
“laico”. È sembrata spesso a molti una qualifica ovvia e indiscutibile: quasi una specie di
“dogma”.
Noi non abbiamo difficoltà “a priori” né obiezioni di principio che ci impediscano di
ratificarla. E tuttavia riteniamo che anche in questo caso sia più utile non rinunciare a un attento esame e a
una valutazione criticamente fondata.
“Laico” è vocabolo tipicamente ecclesiale. Nasce e tuttora sussiste entro la “societas
christiana”: solo in tempi relativamente recenti è trasmigrato per altri lidi. A rischio di apparire
pedanti e forse anche uggiosi, tentiamo una breve rassegna dei vari sensi che esso è andato via via
assumendo.
Originariamente ed etimologicamente designa colui che, avendo ricevuto il battesimo, appartiene al “popolo di
Dio” (in greco: “laòs”). In partenza, esprime dunque un concetto affermativo (che indica
“appartenenza”) e di per sé conviene a tutti i cristiani.
Ben presto però il termine fu riservato a quei battezzati che non sono annoverabili né tra il clero
né tra i monaci o comunque tra i religiosi. Assunse quindi una connotazione particolare e negativa (in quanto
esprimeva una “non appartenenza”).
Da qualche secolo (e segnatamente in Italia) “laico” ha cominciato a denotare colui che si dichiara
indipendente dall'autorità, dalla dottrina, dalle direttive della Chiesa, e intende sottrarsi alla sua
influenza.
Può arrivare a configurare, nei casi estremi, un'attitudine decisamente anticlericale, antiecclesiale e
perfino antireligiosa. Ma in questa ipotesi è più corretto e meno ambiguo parlare non di
“laicità”, bensì di “laicismo”.
Infine si può definire “laico” chi, senza essere programmaticamente ostile, nel presentare le
idee, i fatti, le persone evita ogni evocazione di natura teologica o cultuale.
Come si poneva il Collodi nei confronti della religione e della Chiesa? Non mancano nei suoi scritti giornalistici
- ed è ovvio - le punte polemiche contro il potere temporale del papa. C'è anche qualche osservazione
contro il celibato ecclesiastico, ed è una cosa normale: è curioso che così spesso gli scapoli
impenitenti vogliano a tutti costi far sposare i preti. Nel complesso però bisogna riconoscere che non emerge
mai in lui un vero e proprio anticlericalismo e, meno che meno, una disistima per la fede cristiana.
“Non sono un miscredente - disse un giorno alla madre. - A Dio ci credo. Stia tranquilla che ci
credo”.
Anche le pagine di Pinocchio confermano queste notizie. Se non ha ambizioni teologiche, né presenta preti e
frati, il libro di Collodi non si mette nemmeno in opposizione religiosa, non trasuda quell'anticlericalismo che fa
capolino continuamente in altri scrittori per l'infanzia del tempo. Quella del Lorenzini era una religiosità
silenziosa, che stava fedele alla sublimità del Cristianesimo.
Si può allora parlare di una “laicità” di Pinocchio? Si può e si deve, se con
ciò si intende sottolineare l'assenza nel libro di ogni elemento ecclesiastico e cultuale nonché di
ogni esplicito riferimento alle tematiche religiose.
E non è certo una latitanza casuale: descrivere nell'Italia dell'Ottocento le borgate, il paesaggio, la vita
associata, senza che nel racconto compaia mai nemmeno incidentalmente un campanile, un parroco, un rito, non poteva
che essere il risultato di una intenzionalità. L'unico cenno di religiosità si trova - ripetuto alla
lettera due volte - nel comportamento dei pescatori che assistono alla scomparsa in mare prima di Geppetto e poi del
burattino: “Brontolando sottovoce una preghiera si mossero per tornare alle loro case” (cap. XXIII). Ma
il particolare ha motivazioni puramente artistiche, per la concretezza della scena rappresentata.
A parte ciò, non c'è traccia di qualche estrinseca utilizzazione del “divino” o del
“religioso”: del “surnaturel plaqué”, come dicevano un tempo i teologi francesi. In
questo senso la “laicità” di Pinocchio è incontestabile.
Ma è una “laicità” analoga, per intenderci, a quella del racconto evangelico del
“figlio prodigo”, dove (a differenza di quel che avviene in altre parabole di Gesù) non si
ricordano né Abramo né Mosé né i profeti né i sacerdoti né il tempio. O
alla “laicità” del Cantico dei Cantici, che pure ha nutrito la letteratura mistica di ogni
tempo.
Pinocchio è un libro “cattolico”? Se con questo termine si intende alludere alla letteratura
edificante o apologetica o catechetica che così viene talvolta denominata, bisogna rispondere senza esitazione
di no. Per altri due aspetti si può dare invece un giudizio positivo.
In primo luogo, se ci si rifa all'origine del nome: “cattolico” significa etimologicamente
“secondo il tutto” (“kath'olon”). Si può quindi intendere con questo aggettivo una
visione delle cose, una mentalità, una proposta di comportamento e di vita che rifugga per quanto è
possibile da ogni parzialità e da ogni selezione arbitraria tra le “verità
sostanziali”.
Pinocchio è “cattolico” perché in esso coesistono e reciprocamente si integrano e si
equilibrano il realismo disincantato nel valutare le tristi situazioni di fatto che inevitabilmente si incontrano e
la fiducia nella possibilità di raggiungere un destino di gioia; la consapevolezza della debolezza umana e la
speranza di un aiuto decisivo dall'alto; il senso della giustizia e il primato della misericordia; il coraggio tanto
di guardare in faccia al male quanto di credere nella vittoria finale del bene. E così via.
Ma in un senso ancora più rigoroso questo libro può essere considerato “cattolico”, ed
è per la perfetta corrispondenza tra il racconto collodiano e la storia della salvezza come è
proclamata nell'annuncio evangelico, tra la struttura della sua vicenda e la struttura intrinseca all'ortodossia, tra
le “verità sostanziali” che esso propone e i caposaldi dell'insegnamento della Chiesa.
Gesù ha detto: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto
nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11, 25). Queste cose:
cioè i misteri del Regno di Dio, dell'uomo e del suo destino.
Proprio nel decennio in cui nascevano Le avventure di Pinocchio uomini straordinariamente dotti e perspicaci
elaboravano e facevano conoscere le loro dottrine: Friedrich Nietzsche pubblicava le sue opere più importanti
ed enunciava l'ideologia del “superuomo” e della “volontà di potenza”; uscivano i
volumi di “Das Kapital” di Karl Marx; Sigmund Freud portava a termine il suo percorso accademico. In
quegli anni venivano così poste dai “sapienti” e dagli “intelligenti” le premesse del
mare di lacrime che nel secolo ventesimo avrebbe irrigato la terra.
All'opposto, in Carlo Lorenzini si è in modo singolare pienamente avverata un'altra parola profetica del
Signore: “Se non diventere come bambini, non entrerete nel Regno dei cieli” (Mt 18, 3). Il Collodi si
è fatto piccolo coi piccoli, e in tal modo ha potuto diventare annunciatore del Regno, maestro di vita,
seminatore di consolazione e di gioia.