UNIVERSITA' DEGLI STUDI DI ROMA
"LA SAPIENZA"

 

Facoltà di Scienze Umanistiche

Tesi di Laurea

 

La Repubblica Romana vista da Pio IX in Gaeta (tpfs*)

 

 

Relatore
Chiar.mo
Prof. Francesco Pitocco

Candidato
Francesco Pesce

 

ANNO ACCADEMICO 2002-2003


Indice

 


Introduzione

Dal Congresso di Vienna la politica dei governi restaurati fu apertamente reazionaria. Reazione significava il ritorno all'antico regime, all'assolutismo monarchico e al sistema dei privilegi, schiacciando ogni sentimento liberale e nazionale, e la difesa dei soprusi di una minoranza contro i diritti di tutti i cittadini. La politica adottata dai monarchi non permetteva alcuna manifestazione di libertà. I popoli erano sudditi di sovrani investiti della suprema autorità da Dio. Le libertà di pensiero, di opinione, di stampa, di associazione e di riunione non erano permesse, perché dannose all'autorità costituita e quindi a tutta la società. Le leggi napoleoniche erano in molti Stati, abrogate e i privilegi dei nobili e del clero ripristinati. I sovrani si attorniavano di ministri retrivi, di uomini faziosi e di intelletto ristretto, incapaci di capire il nuovo corso storico. I sovrani avevano dalla loro parte molti aristocratici, la maggioranza dei funzionari pubblici, le forze di polizia e tutta la gente interessata a mantenere l'ordine costituito,i conservatori. L'assolutismo veniva inoltre favorito dall'indifferenza delle masse, ignoranti, povere e rassegnate. Gli innovatori sono un'esigua minoranza, scrittori, studenti, avvocati, giuristi, vecchi giacobini, ed erano animati da genuini ideali, ma con scarso senso della realtà politica.
Non si può esaminare ed interpretare un qualsiasi fatto, né tantomeno giudicarlo, se non si pone la massima attenzione alle condizioni storiche concrete presenti nel momento in cui tale avvenimento si è verificato. Quella che può sembrare una ovvia e banale precisazione si rivela, invece, di fondamentale importanza. E' anzi l'unica chiave che consente di capire la genesi dell'atteggiamento di Pio IX verso la Repubblica romana e più in generale verso il Risorgimento.Vediamo allora, seppure con una panoramica alquanto rapida ed incompleta, qual'era il clima che si respirava all'inizio del suo pontificato.
Un clima di generale e rapido cambiamento culturale caratterizzava la prima metà del diciottesimo secolo e preparava la stagione del Risorgimento italiano.Lo scontro culturale, filosofico, politico e sociale portato avanti dalla Rivoluzione francese verso la società pre-rivoluzionaria viene condotto, sul fronte italiano, sotto la bandiera dell'unità politica e dell'indipendenza del paese.
"Secondo la polemica condotta dai Gesuiti principalmente dalle pagine della Civiltà Cattolica, il Risorgimento non è solo un fatto nazionale, un nuovo assetto politico da dare all'Italia, ma un aspetto particolare di un fenomeno europeo, l'applicazione forse più coerente dei princìpi rivoluzionari, la violazione continua del diritto, l'assalto contro la religione e contro l'indipendenza del capo della Chiesa, cui si vuole togliere l'insostituibile garanzia di libertà" [1].
In che cosa consiste questo ordine nuovo, quali idee lo caratterizzano?
" Circa centocinquant'anni dopo Cartesio, constatiamo come tutto ciò che era essenzialmente cristiano nella tradizione del pensiero europeo sia già stato messo tra parentesi. Siamo nel tempo in cui in Francia è protagonista l'illuminismo, una dottrina con la quale si ha la definitiva affermazione del puro razionalismo. La Rivoluzione francese, durante il Terrore, ha abbattuto gli altari dedicati a Cristo, ha buttato i crocifissi nelle strade, e ha invece introdotto il culto della dea Ragione. In base al quale venivano proclamate la libertà, l'uguaglianza e la fratellanza. In questo modo il patrimonio spirituale, e in particolare quello morale, del cristianesimo era strappato dal suo fondamento evangelico, al quale è necessario riportarlo perché ritrovi la sua piena vitalità" [2] .
Il liberalismo razionalista e relativista ottocentesco viene così a contrapporsi frontalmente alla dottrina cattolica " negando la trascendenza e l'intervento di Dio nella storia; la comprensibilità e possibilità medesima della Rivelazione; l'utilità della religione in genere e la soprannaturalità del Cristianesimo; assolutizzando la libertà, il pensiero e la coscienza individuale; innalzando la ragione e la scienza a criterio unico ed autosufficiente di verità; esaltando lo Stato come detentore e fonte di ogni diritto ed assoggettandogli al tutto la Chiesa... " [3]
Questo è il clima che si respirava in quegli anni,e le condizioni filosofiche e culturali esistenti, ed è con questo genere di idee e di intendimenti che Pio IX deve confrontarsi, giorno dopo giorno, avendo cura di difendere l'integrità della dottrina e la piena libertà della Chiesa.
In un tempo in cui molti (compreso Pio IX) si preoccupavano della libertà nella chiesa,era principale preoccupazione per lui,garantire la libertà della Chiesa. Alla sfida culturale,così ardua, che si presentava, papa Mastai non si sottrasse, anche se il suo temperamento, certo non lo facilitò; posto a guida della Chiesa, visse in prima persona, lo scontro culturale. Del resto, era ben viva la memoria degli anni della giovinezza, quando la tempesta rivoluzionaria, smessi gli abiti dell'estremismo giacobino ed indossate le più tranquillizzanti vesti di Napoleone Bonaparte, era giunta fino a trarre in arresto papa Pio VII, relegandolo in esilio ed in stato di isolamento.
Ed è proprio in ricordo di Pio VII che il card. Mastai Ferretti, chiamato alla guida della Chiesa, sceglie il nome Pio IX.
Divenuto papa, dunque, si dedica a fronteggiare in maniera adeguata le nuove idee. Senza mostrare ostilità pregiudiziali, ma anche senza cedimenti sul piano dei princìpi. Pio IX manifesta subito la propria disponibilità al confronto con una realtà in rapida evoluzione, ma non può ignorare che, al di là dello sbandieramento di rivendicazioni più o meno comprensibili, la partita si gioca essenzialmente sul terreno dottrinale e dei princìpi. Fin dalla sua prima enciclica, pubblicata cinque mesi dopo il conclave, Pio IX individua con chiarezza i caratteri ideologico-filosofici dell'attacco alla Chiesa e mette in guardia i cristiani contro le false idee degli avversari della religione, i quali non " dubitano di arrogarsi il nome di filosofi, quasi che la filosofia, che si aggira tutta nell'investigazione delle verità naturali, debba rifiutare quelle che lo stesso supremo e clementissimo autore della natura, Iddio, per singolare beneficio e misericordia si è degnato di manifestare agli uomini, affinché conseguano vera felicità e salvezza. Quindi [...] audacemente blaterano, che la medesima [fede in Cristo] ripugna alla ragione umana". [4]
In Italia, accade che queste nuove idee siano fatte proprie da un ristretto gruppo di intellettuali ed uomini politici, molti dei quali vengono a costituire, contestualmente alla elezione di Pio IX, la classe dirigente del Regno di Sardegna. Torino diviene il perno attorno al quale ruoteranno i destini della Rivoluzione italiana e la monarchia sabauda comincia ad accarezzare il sogno della nascita di un Regno d'Italia da essa guidato.
L'adesione alle idee della Rivoluzione, unita alla ambizione di crescita politica e di espansione territoriale, generano la miscela esplosiva che consentirà la deflagrazione definitiva della Rivoluzione romana e nazionale. L'incontro tra tali aspirazioni espansionistiche e le cosiddette nuove idee prepara il terreno, sul piano ideologico, politico e militare, al successo della Rivoluzione italiana. La spinta iniziale propiziata dal movimento rinascimentale subisce poi una forte accelerazione con la dominazione napoleonica in Italia (1796-1815), prosegue durante l'apparente "restaurazione" e trova il proprio sbocco dopo il 1848 grazie all'incontro tra una dinastia e una classe politica disposte a guidare il cambiamento con gli aiuti interessati di grandi potenze europee .
Questa fase precedente al Risorgimento è anche influenzata da una scuola di pensiero, nata nell'ambito dell'illuminismo settecentesco e alquanto diffusa nell'Ottocento, secondo cui l'arretratezza politica ed economica italiana sarebbe da addebitarsi al ruolo dominante svolto dal cattolicesimo, mentre lo sviluppo del settentrione europeo dovrebbe tributarsi al maggiore rigore tipico del protestantesimo.
Queste sono alcune delle premesse ideologiche del Risorgimento ed è con queste che si dovette confrontare l'atteggiamento del Papa. Si deve anche considerare inoltre quale fu l'atteggiamento della Chiesa di fronte all'ipotesi dell'unificazione politico-territoriale della penisola italiana.
L'idea di unità risale a qualche secolo prima di Mazzini e Garibaldi e si fonda sulla considerazione dei comuni caratteri religiosi, culturali ed etnici delle popolazioni italiane. Tale idea non si traduce in vera e propria aspirazione alla unificazione politica se non relativamente tardi rispetto agli altri Paesi europei ed assume inizialmente i connotati di una unificazione di tipo confederale. Questa soluzione, che considera realisticamente, anche le non trascurabili differenze nonché la oggettiva plurisecolare suddivisione della penisola in diversi Stati, avrebbe consentito una fusione armonica delle diverse componenti nazionali senza alterarne caratteri autonomi e peculiarità locali. Il problema nacque dal contrasto che venne determinandosi tra questa prospettiva confederale "realistica" e il progetto annessionistico che venne ben presto elaborato dalla classe dirigente del Regno di Sardegna, con il fondamentale apporto dell'ala, definita come "democratica", ma che di fatto non riuscì a fermare la violenza, riconducibile ai filoni ideologici facenti riferimento a Mazzini e Garibaldi.Secondo costoro, l'Italia doveva uscire dall'arretratezza prodotta da secoli di cattolicesimo e di divisione politica, doveva recuperare le posizioni perdute rispetto alle progredite nazioni europee, liberarsi dal peso del papato, acquisire piena dignità di grande nazione moderna secondo i dettami della Rivoluzione francese. Tutto ciò imponeva la eliminazione degli Stati esistenti, primo tra tutti dello Stato pontificio, e la imposizione dalle Alpi alla Sicilia delle stesse leggi, della stessa amministrazione, della stessa cultura ufficiale, delle stesse idee.
In altre parole, il nodo del problema non era dato in alcun modo dall'idea di unità italiana, ma da come concretamente, di fatto il progetto unitario prese corpo ed andò realizzandosi.
Non contro l'unità, ma contro quella unità Pio IX non cessò di alzare la voce, tanto è vero che lo Stato Pontificio aveva compiuto i primi, ma concreti, passi per la realizzazione di una "Lega doganale" italiana, premessa necessaria ad una cooperazione sempre più stretta tra gli Stati della penisola.

Desidero qui ringraziare, la dottoressa Monica Romano, per il contributo determinante,allo svolgimento di questa tesi, e la cura nella ricerca delle fonti.



Capitolo I. Il Contesto storico

I.1 Il contesto culturale

"Alla fine di agosto [1847 ] cominciarono per iniziativa di Pio IX trattative per una lega doganale, che portarono il 3 novembre alla firma di un accordo preliminare tra i governi di Roma, Firenze e Torino" [5] .
Secondo un cattolico, ben difficilmente il conseguimento di un pur rilevante risultato politico può essere anteposto ai diritti della religione e della Chiesa. Infatti, "La nazione è il corpo storico che si organizza attorno a un retaggio spirituale e culturale, etnico e famigliare, nonché territoriale e patrimoniale, cioè attorno a una Tradizione, ed è certamente un bene. L'unità politica può essere a sua volta elemento preminente di protezione della nazione e quindi della Tradizione, ed è allora permessa dalla Provvidenza come configurarsi della libera volontà umana nel tempo e nello spazio, e indirettamente favorita attraverso la santità dei suoi capi e dei suoi membri; ma non è incondizionatamente un bene né incondizionatamente necessaria, e, pur potendo essere un bene, non è tale da poter essere perseguita contro la Tradizione e i valori spirituali e civili che la nazione veicola e di cui la nazione vive" [6] .
Questo accordo politico, tuttavia, non poteva far dimenticare,naturalmente, altre oggettive difficoltà di carattere culturale, apertamente contro, il ruolo svolto dalla Chiesa, nella società; parliamo dello sviluppo delle Società Segrete, ed in particolare della Carboneria e Massoneria.
Non si può dubitare che la Massoneria agisca a sostegno del movimento unitario in funzione anticlericale e che parte cospicua dei protagonisti della storia risorgimentale sono, con maggiore o minore forza, riconducibili alla principale società segreta dei tempi moderni. Questo ruolo emerge con chiarezza nella fase successiva all'avvenuta unificazione politica nazionale,quindi dopo l'esperienza della Repubblica Romana mentre nella fase preparatoria l'azione sovversiva vede tra i propri protagonisti un'altra società segreta, la Carboneria, che per alcuni aspetti appare l'antesignana della nascente Massoneria italiana moderna. Nel periodo della restaurazione ogni movimento politico innovatore trovava ostacoli insormontabili nelle disposizioni di legge e nelle persecuzioni della polizia. I liberali e patrioti che desideravano istituzioni civili e giuridiche più adeguate ai tempi erano a volte costretti a riunirsi di nascosto creando numerose società segrete atte a cospirare e a preparare la rivoluzione contro i sovrani. Le più importanti furono: la Carboneria, e la Massoneria. Quest'ultima si può ritenere la madre di tutte le sette fiorite nei secoli XVIII e XIX. E' la prima società segreta. I Massoni credono in Dio, "Grande Architetto Dell'Universo", ma negano i dogmi della Trinità e dell'Incarnazione ed avversano il cattolicesimo e il clero. Vogliono favorire il progresso, condividono le idee dell'Illuminismo ed intendono promuovere la libertà e l'uguaglianza degli uomini. Sotto l'impero napoleonico la Massoneria si riorganizzò e rafforzò le sue file, diventando uno strumento di governo. Caduto l'impero Napoleonico le logge si sciolsero e quelle che rimasero non ebbero più seria importanza politica. Molti affiliati, che non approvarono l'atteggiamento dei capi, si divisero dalla Massoneria e fondarono nuove sette. Esse erano diffuse soprattutto in mezzo alla classe borghese. La società più importante che primeggiò fra le sette fu la Carboneria. Società segreta, politica, liberale e patriottica che fiorì in Italia durante il periodo della Restaurazione e fu molto attiva durante il Risorgimento.
Non è stato ancora possibile stabilire con precisione, dove, come e quando sorgesse la Carboneria, visto le discrepanze delle più autorevoli fonti storiche oggi note. Secondo lo storico Giuseppe Ricciardi le origini della Carboneria sono poste nel XI secolo. Lo storico scrive: "Credesi fondatore di essa un Teobaldo, detto poi Santo, e meritevole di essere esaltato, siccome quegli che moriva da martire. Nacque in Francia Teobaldo nel 1017 nella città di Provins. Fattosi prete in Italia, si ritrasse, indi a poco, in Svezia, provincia germanica, ove dicesi nata la setta, alla quale, morto Teobaldo, non vennero meno le forze, ma invece, si accostarono uomini di ogni ceto. Un catechismo, in forma di dialogo, fu compilato sin da quei tempi e, ad accrescere il numero dei proseliti, in un'età di profonda superstizione, ogni cosa fu involta fra le dottrine e le pratiche del Cattolicesimo; ma ciò che fa la Carboneria degna di nota, anzi di somma lode, fin dai suoi principi fu questo, che ad essere accolto nel di lei seno condizione primaria ed indispensabile era una vita incontaminata. I buoni cugini, come si chiamavano fin da allora i Carbonari, eran tenuti strettissimamente ad esercitare l'ospitabilità non solo verso i loro consettari, ma a pro di chiunque loro apparisse perseguitato dalla fortuna, col dargli oltre il letto il mangiare e il bere, cinque soldi ed un paio di scarpe. Ben presto le foreste della Germania, della Franca Contea, dell'Ardesia, del Giuria furono piene di Carbonari, denominati così dalla professione esercitata dal maggior numero de' proseliti della setta, e le loro riunioni assunsero il nome di Vendite. A costituire le quali bastavano tre buoni cugini, undici a farle perfette. Affidabili e caritativi, in tempi tutt'altro che caritativi ed affabili, i Carbonari facevansi voler bene e rispettare da tutti. E la setta durò in questi termini fino agli ultimi anni del secolo scorso, cioè allo scoppiare della rivoluzione francese. La quale commoveva siffattamente i popoli tutti d'Europa che ogni più piccola associazione si mutava issofatto in politica: una tale trasformazione, che fu subita anche dalla Carboneria, ebbe luogo segnatamente in Italia, e in specie nel regno di Napoli, dove alcun ramo della setta esisteva da lungo tempo, anzi forse dal tempo in cui dominò quivi la dinastia degli Svevi" [7] .
Altri scrittori affermano l'origine straniera della setta. Le testimonianze sono discordi sul luogo di nascita della Carboneria; ma tutto porta a ritenere la nascita della Carboneria nel mezzogiorno visto la grande floridità, e il veloce propagarsi in pochi anni per tutta l'Italia.Come abbiamo detto la Carboneria sorse dal seno della Massoneria, con riti, simboli e formule pressoché uguali
Beniamino Costantini nel libro "Carbonari e preti in Abruzzo dal 1798 al 1860" riporta:"la Carboneria sorta con nobili scopi, presto degenerò e le vendite s'inquinarono di spie e di facinorosi. Vi fu anzi un momento, in cui anche Ferdinando IV si fece carbonaro, poi Francesco I di Borbone; però con l'unico intento di apportarvi il disordine e lo sfacelo. E difatti, accresciuto in modo straordinario il numero degli affiliati, furono stampati i catechismi dell'associazione, divulgati i misteri e si giunse persino a vendere i diplomi a chi offriva di più". La Carboneria si diffuse rapidamente in Italia, specialmente in Romagna, in Francia e in Spagna, e fu la principale causa di inquietudine dei governi fino al 1831. Gli appartenenti alla Carboneria - liberali e patrioti - erano soprattutto ufficiali, nobili, membri della borghesia illuminata e liberale, possidenti, commercianti, soldati, artigiani e intellettuali come scrittori, magistrati, avvocati, professionisti, giuristi, impiegati, studenti, vecchi giacobini, sacerdoti, ecc., che volevano instaurare regimi liberali e lottare per ottenere dai sovrani una Costituzione che sancisse i diritti dei cittadini. Lo scopo comune dei Carbonari era sostituire dappertutto le monarchie assolute con monarchie costituzionali; in Lombardia aspiravano alla liberazione dal dominio austriaco e all'indipendenza, e in Romagna ambivano alla fine del potere temporale dei papi.
In contrapposizione alle suddette aspirazioni Carbonare, il Papa Leone XII prima con la Bolla "Quo Graviora" del 13 marzo 1823 scomunica la Massoneria, poi con la "Ecclesiam a Jesu Christo fundatam" condanna La Carboneria, contro la quale attua un'attività repressiva che viene esercitata in Romagna dal Cardinale Agostino Rivarola. L'organizzazione Carbonara era regolata rigidamente dall'alto, il comportamento era ispirato alle regole della massima segretezza. Gli affiliati tenevano adunanze segretissime e si servivano del vocabolario cifrato, di un gergo per non destare sospetti nella polizia. Un misero mestiere del popolo come quello dei carbonari si prestava molto bene come camuffamento per i cospiratori politici, perché chi lo praticava doveva spostarsi di continuo dovunque ci fosse legname da trasformare in carbone. Inoltre si trattava di un'attività piuttosto diffusa in Italia. La Carboneria era divisa in quattro gradi: apprendista, maestro, gran maestro e Grande Eletto. In seguito vi saranno diverse riforme dei rituali e dei gradi, con l'introduzione di altri gradi e con una diversa gerarchia di essi. La Carboneria costituisce una esperienza intellettuale e storica finora trascurata e in parte ricostruita in modo superficiale e lacunosa .Essa comunque ha contribuito all'evoluzione delle idee e dei movimenti ed ha in un certo modo rafforzato l'idea democratica e repubblicana.
Invece, "La massoneria contemporanea è nata a Torino come Gran Loggia Ausonia tra le benedizioni del Fratello in Spirito Camillo Benso, Conte di Cavour. A battezzarla con l'antico nome dell'Italia - con augusta soddisfazione del fratello Vittorio Emanuele II è stato Livio Zambeccari, cospiratore del primo Risorgimento, colonnello garibaldino e Principe di Rosacroce del Rito scozzese sin dagli anni dell'esilio a Londra. Era l'8 ottobre del 1859" [8] . Qual'è lo scopo immediato della Massoneria italiana ottocentesca? Raccogliere l'eredità cospiratoria ed insurrezionale della Carboneria e costituire, con la propria ramificata presenza sul territorio italiano, il collante unitario in antitesi alla comune tradizione religiosa delle popolazioni della penisola: "In una Italia ove l'unica tradizione comune e popolare era allora rappresentata dalla Chiesa cattolica e nel cui ambito, in quella specifica situazione storica, ogni forma di conflittualità politica si presentava in costume regionale, con movenze e cadenze che testimoniavano la profonda diversificazione della penisola, le Logge divennero l'unica vera scuola di unità nazionale" [9] . Si trattava di scalzare il sentimento religioso dalla coscienza comune e cercare di far convergere gli entusiasmi civili sul progetto unitario centralista. L'operazione non era facile; occorreva trovare un momento superiore di sintesi tra le variegate posizioni carbonare, repubblicane, monarchiche, federaliste, centraliste, moderate e anticlericali che il Risorgimento esprimeva.
Pio IX non esitò a manifestare la propria opposizione e condanna. Già nella prima enciclica, il Papa mise in guardia i cattolici da coloro che "impugnano la divina autorità e le leggi della Chiesa, per conculcare insieme i diritti della potestà civile e di quella sacra. A questo mirano inique macchinazioni contro questa Romana Cattedra del Beatissimo Pietro, nella quale Cristo pose l'inespugnabile fondamento della sua Chiesa. A questo mirano altresì quelle sette segrete che occultamente sorsero dalle tenebre per corrompere gli ordini civili e religiosi, e che dai Romani Pontefici Nostri Predecessori più volte furono condannate con lettere apostoliche che Noi, con la pienezza della Nostra Autorità Apostolica, confermiamo e ordiniamo che siano diligentissimamente osservate" [10] .
Mentre lo scontro tra opposte concezioni dell'uomo, prima che del futuro assetto istituzionale italiano, si andava radicalizzando, Pio IX intervenne a condanna della Massoneria (direttamente o tramite la Curia e la segreteria di Stato) con 79 documenti diversi. Non a caso il più organico e completo degli oltre 500 interventi di condanna della Massoneria è la lettera enciclica Humanum genus, pubblicata da Leone XIII nel 1884, cioè pochissimi anni dopo la morte di Pio IX, a testimonianza della particolare rilevanza e persistenza che la questione massonica aveva in quegli anni.

I.2. Il contesto sociale

Il popolo, in nome del quale si è levata la bandiera della "liberazione" dall'oppressione straniera e clericale, in realtà in quegli anni non poteva essere annoverato tra i protagonisti del Risorgimento, se non nel senso che ne fu inconsapevole strumento. E' stata fatta una certa retorica sulle popolazioni pronte a sacrificare la vita per il sommo ideale unitario, sulle masse patriottiche osannanti il nuovo Regno, sui plebisciti che ne sancirono la legittimità democratica; la misura della realtà è diversa: "Abbiamo fatto l'Italia, adesso dobbiamo fare gli italiani",sono le famose parole con cui Massimo D'Azeglio ammetteva che l'Italia appena fatta era solo un'espressione geografica ottenuta dalla conquista diplomatico-militare piemontese e che il popolo era rimasto estraneo a questa operazione.Anche quindi nel contesto della Repubblica Romana, prima e dopo di essa, si respirava quella situazione.
I dati di fatto sono inconfutabili: lo storico Candeloro nota che " le grandi masse del popolo italiano rimasero senza dubbio estranee alla vita pubblica del nuovo Stato unitario" [11] , mentre Mack Smith osserva che "l'unificazione venne raggiunta con metodi che non pochi Italiani detestavano" [12] e che "le guerre e le sollevazioni del Risorgimento avevano scarse ripercussioni sulla gran massa della popolazione", tanto che "se avesse prevalso la volontà del popolo, forse non vi sarebbe stato Risorgimento". L'ostilità popolare non nasce da grettezza e povertà di vedute, ma dalla consapevolezza, o anche solo dalla percezione, dell'estraneità del progetto ideologico e politico della Rivoluzione italiana alle genuine tradizioni popolari ed ai valori comuni della religione che il popolo aveva da sempre vissuto prima ancora che condiviso. Possiamo dire che il Risorgimento è stato fenomeno elitario e minoritario nei suoi artefici, nel senso che è stato condotto dalle forze liberali con il determinante appoggio straniero. Per costoro il popolo non aveva un posto di primo piano o, in qualche ipotesi, era un ostacolo di cui liberarsi senza troppe formalità, come la storia di quegli anni dimostra, dall'aggressione militare del Regno delle Due Sicilie alle cannonate del generale Fiorenzo Bava Beccaris , a Milano.Tutto ciò è ulteriormente confermato da alcuni dati di quegli anni ; la Camera dei deputati, che Cavour riteneva il cuore della Rivoluzione italiana, rappresentava una bassa percentuale di italiani. Il suffragio era infatti esclusivamente maschile e su base rigidamente censitaria. Nel 1848 Garibaldi fu eletto nel Parlamento Subalpino grazie a diciotto voti; nel 1857 Cavour fu eletto con circa trecento voti; nel 1861 nelle elezioni per il primo Parlamento unitario avevano diritto di voto circa 420 mila elettori su oltre 22 milioni di abitanti: per di più votarono circa 240 mila elettori, ma i voti validi furono solo 170 mila.
Come se non bastasse, nelle menzionate elezioni piemontesi del 1857, dalle quali scaturì il Parlamento che portò a compimento la nascita del Regno d'Italia, la consistente affermazione dei cattolici fu vanificata da una serie di pretestuosi annullamenti delle votazioni nei collegi che avevano fatto segnare un risultato non "in linea" con gli auspici dei "piemontesi".Cavour vide che il gruppo dei deputati clericali poteva essere assottigliato mediante l'invalidazione di parecchie elezioni.

I.3. Il contesto politico

Pio IX arrivò a Gaeta a seguito dagli avvenimenti del 1848 e con scelta riflettuta anche se nell'urgenza della situazione, e politica; non comprenderemmo tutta la vicenda di quello che fu definito il secondo esilio avignonese se non incastonassimo l'avvenimento nella più ampia tavola di quel momento storico.
Per aderire a quel clima, è bene ricordare come, le menti fossero tanto surriscaldate da travisare le situazioni e renderle talora paradossali; ebbene in questo clima di grande tensione ed anche di confusione si maturò e si realizzò l'unità d'Italia.
Oggi per l'Europa, come ieri per l'Italia, il concetto di unità oscilla da quello di federazione a quello di stato unitario; da un rispetto dei vari stati con un parlamento soprannazionale all'abolizione di alcune autorità nazionali e creazione quindi di un organismo nuovo, più agile e moderno;dal concetto di "Lega" a quello di confederazione; dall'unità semplicemente doganale ed economica a quella più propriamente politica e culturale.
In questo clima si svolgono le vicende che porteranno all'allontanamento del papa e alla Repubblica Romana e che non avvengono improvvisamente, ma che hanno origine prossima dal 5 luglio 1847, giorno in cui Pio IX concesse a Roma la creazione della Guardia civica.
Vicende che registrano le insurrezioni di Messina e Reggio Calabria del 1° settembre 1847, e di Palermo del 12 gennaio 1848.
La concessione della Costituzione da parte di Ferdinando II a Napolil'11 febbraio 1848, da parte di Leopoldo di Toscana il 17 febbraio dello stesso anno, di Pio IX ai suoi stati il 14 marzo e la promulgazione dello Statuto da parte di Carlo Alberto, il 4-5 marzo 1848, sono poi alcune tappe fondamentali che danno vigore ai sostenitori della causa repubblicana, o più semplicemente a chi desiderava cambiamenti sostanziali nella amministrazione dello Stato Pontificio,e nella partecipazione più ampia dei laici alla funzione di governo; chiaramente molte furono le speranze alimentate dalla dichiarazione di guerra del Piemonte all'Austria il 23 marzo 1848; come molte furono le disillusioni della sconfitta di Custoza del 25 luglio 1848 e dell'armistizio di Salasco del 9 agosto del 1848.
Possiamo dire però che la svolta decisiva, il fatto che diede fuoco alla miccia fu l'uccisione a Roma del Primo Ministro Pellegrino Rossi il 15 novembre 1848; l'assalto al Quirinale , l'uccisione di Mons. Palma, segretario del Papa furono le immediate e forse imprevedibili conseguenze di quel gesto che portarono alla decisione di Pio IX di fuggire a Gaeta nella notte tra il 24 e 25 novembre 1848.
Anche se Metternich aveva scritto che Pio IX era tenero di cuore e debole d'intelletto e che da quando era divenuto Papa si era lasciato attirare in una rete dalla quale non sapeva più come districarsi, tuttavia non si deve dubitare che dinanzi alla storia il movimento impresso da Pio IX al processo di unificazione dell'Italia fu importante e decisivo; andava oltre le immediate vicende, e le stesse incomprensioni non sarebbero certo state capaci di fermare, un processo storico al quale anche la Chiesa per parte sua contribuì.
La neutralità sul piano militare ribadita con l'Allocuzione del 29 Aprile non impediva però una fittissima azione diplomatica.
Fu il Corboli Bussi la mente di questa azione che tendeva a giustificare il passaggio dalla neutralità all'intervento.
La famiglia Mastai,era in stretti rapporti con i Corboli Bussi e appena divenuto papa, Pio IX chiamò come suo stretto collaboratore, questo giovane sacerdote, con il quale ebbe subito una profonda intesa; egli fu per molto tempo il confidente più vicino al papa; fu lui ad estendere l'editto di amnistia;incontrò Carlo Alberto per le trattative per la Lega Doganale e fu sempre lui che suggerì al Papa le riforme; Corboli-Bussi propose al Papa un passo verso l'imperatore Ferdinando.
Il Papa accettò di scrivere una lettera all'imperatore, ma tolse dal testo redatto dal suo consigliere ogni velata minaccia all'Austria; la lettera esorta l'imperatore a rinunziare ad una guerra che non può riconquistare all'impero gli animi dei Lombardi e dei Veneti e ricorda in termini abbastanza espliciti il diritto delle nazioni all'indipendenza entro i propri confini naturali.
Queste stesse idee, vennero chiaramente e audacemente difese dal suo inviato davanti al Presidente del Consiglio Austriaco. Fu infatti inviato a Vienna Mons. Morichini.
Il gabinetto Mamiani era contrario a questo nuovo passo; prima di trattare con gli Austriaci essi dovevano lasciare l'Italia fino all'ultimo uomo. Il governo non volle perciò che la missione fosse composta da un ecclesiastico e da un laico, ma solo da un ecclesiastico, onde meglio risultasse il carattere dell'iniziativa, propria del Capo della Chiesa, e non del Sovrano costituzionale.
Il dissidio tra i due orientamenti appariva ormai evidente.
Il tentativo andato a vuoto del Morichini, costituì l'ultimo sforzo di Pio IX di appoggiare con la forza del suo prestigio la causa nazionale italiana, senza venir meno ai suoi doveri di capo universale di tutti i fedeli.
E' importante notare il commento a questo tentativo, fatto dai giornali favorevoli al Gabinetto Mamiani."la fortuna offre a Roma un'occasione favorevole…le proposte di pace furono rigettate… la missione del Pontefice è compiuta, comincia quella del Principe" [13] .
Ci si illudeva che il Papa potesse ora abbandonare la sua neutralità e cedere alle reiterate pressioni per l'intervento.In realtà Pio IX malgrado le sue intime oscillazioni, non cambiò atteggiamento; ovviamente tutto questo doveva avere delle ripercussioni nei rapporti tra il Papa e il suo governo.
Quando il Papa si ritirò a Gaeta, Corboli-Bussi fini' di avere qualsiasi rapporto con le cose dello Stato, ed usci' di scena attendendo una morte che lo raggiunse giovanissimo, mentre suo padre, già deputato della Camera nel 1848, poi Presidente e Ministro del governo provvisorio, fini' in esilio come membro della Costituente del 1849.

I.4. Da Roma a Gaeta

Il governo del Cardinale Antonelli che comprendeva parecchi laici e progressisti come Recchi agli interni Minghetti ai lavori pubblici Farini come Sottosegretario all'Interno, fu il governo della promulgazione della Costituzione (14 marzo 1848). Esso cadde dopo che Pio IX pronunziò l'allocuzione del 29 aprile 1848, con cui il Pontefice Romano affermava di non dover dichiarare guerra all'Austria.
Si cercò di richiamare al potere Minghetti , ma non si riusci' e, su consiglio di alcuni, il Papa pregò Pellegrino Rossi (nuovo ministro di Francia in Roma), di entrare nel nuovo Governo.Leggiamo quanto scrive David Silvagni, contemporaneo a quegli eventi:"Il Conte Rossi presto si avvide come l'opera di Pio IX e degli onesti liberali era osteggiata dalla Corte papale, cosicché nel dicembre 1847 scrisse una relazione al Ministro degli esteri di Francia, Guizot, colla quale dimostrò, che l'azione del Pontefice, era avversata e resa nulla dalla Curia romana, sicchè le riforme di Pio IX rimanevano prive di effetto.
E frequentando la casa della contessa Spaur, ove conveniva anche l'ambasciatore austriaco Lutzof, potè persuadersi che quella resistenza alle riforme era incoraggiata dai rappresentanti di Baviera e d'Austria, i quali si tenevano in stretta relazione con il cardinale Antonelli, che navigando astutamente tra opposte correnti,come era largo di sorrisi e strette di mano ai Recchi, e a lord Minto, mandato a Roma appositamente da lord Palmerston, ad incoraggiare il Papa nella sua politica liberale,aveva sorrisi ironici e parole amare per il liberalismo, quando si intratteneva coi ministri austriaci, bavaresi, spagnoli e napoletani" [14] .
Inutilmente il Rossi,convinto della gravità della situazione, e quindi desideroso di non avere tale incarico, cercò di ricordare a Pio IX che egli era stato del partito di Murat nel 1815 e quindi contro il Papa, che aveva pubblicato opere messe all'indice e che aveva contratto matrimonio misto in quanto la moglie era protestante.
Egli cedette alla insistenza del Papa e accettò di entrare nel governo presieduto dal Cardinale Soglia e nel quale fu Ministro dell'Interno ad interim e delle Finanze.
A giudizio di tutti questo governo operò bene e realizzò in due mesi cose che altri avrebbero attuato in due anni, tuttavia non potè resistere all'ondata crescente di contestazione popolare che non era legata ad un fatto amministrativo, ma che aveva il suo fondamento nella situazione politica.
Così Pellegrino Rossi il 15 novembre 1848, mentre si recava ad inaugurare la sessione parlamentare e ad esporre con il suo discorso il programma, sulle scale della Cancelleria, allora sede del Parlamento, viene ucciso con una pugnalata alla gola.
Nei giorni successivi una massa di popolo guidata da Giuseppe Galletti, Stermini, Mariani ed altri, al grido di "Ministero democratico" assalta il Quirinale, chiede che a tale governo partecipino Rosmini, Mariani, Galletti, Campello, Sereni, Stermini.
Pio IX non ha possibilità nè tempo di consultarsi ; alcuni dei nomi fatti sono addirittura fuori Roma come Campello e Mariani, Rosmini non sa nulla e una volta saputolo, non accetta.
La folla intanto disarma i pochi svizzeri messi a guardia del Quirinale, uccide Mons. Palma, il Principe di Canino, fa puntare un cannone alla porta del palazzo.
E' comune giudizio che l'unico a mantenere la calma fosse Pio IX , il quale, assediato, non può più prendere contatto con i suoi, e consigliato da vari ambasciatori e dal Cardinale Antonelli, parte e si rifugia a Gaeta.
E' interessante sentire gli avvenimenti attraverso i testimoni.
Il Capitano della Guardia Civica, Filippo Cagiati, così scrive:" La mattina del 16 novembre 1848, inteso che vi era tumulto intorno al palazzo del Quirinale per obbligare Pio IX restio a concedere un Ministero democratico dopo la uccisione di Rossi, mi recai colà in uniforme.
Incontrai alla metà della salita di Montecavallo un monsignore il quale mi disse: Cercate voi come capitano della civica, di far cessare le fucilate che si tirano contro il palazzo, e contro chiunque di noi passa per la piazza.
Proseguii la strada , e giunto a Montecavallo, vidi gruppi di gente, parte con i fucili, parte senza, di molto esaltati, ai quali mi rivolsi, comechè ancora io fossi un po' caldo, per consigliare a moderazione, a servirsi di mezzi legali, a non spargere sangue ; ma furono vane parole.
Poco dopo il mezzogiorno mi trovai insieme al banchiere Pietro Tommasini ed al Conte Schuwaloff alla scesa di Montecavallo dalla parte di via dei Lucchesi. Vidi avanzarsi una compagnia di carabinieri comandati dal colonnello Calderai, mentre dalla parte di Fontana di Trevi avanzavasi pure una compagnia di guardie civiche del IV battaglione Campo Marzio, avente alla testa il capitano Giuseppe Barba-Troysen, romano.
L'atteggiamento dei carabinieri sembrava piuttosto ostile, difatti alcuni di essi, spintisi dalla parte dei Lucchesi, voltato il fucile, minacciarono farsi addosso ai cittadini che ivi stavano, in parte armati. Fu un brutto momento di titubanza e di ansia; parve che si dovesse venire alle mani; quando il capitano Barba abbracciò e baciò il colonnello Calderai, il quale corrispose benevolo a quelli atti fraterni, e cosi' carabinieri e guardie civiche salirono in buono accordo tra loro fin sulla piazza, ove si schierarono a sinistra dalla parte di villa Colonna vicino al quartiere che allora ivi esisteva
Ricordo infine che verso sera mi condussi con alcuni della mia compagnia, 3° battaglione, a Montecavallo, e sulla piazza vidi un cannone posto rimpetto alla porta del palazzo del Quirinale. Veniva di tratto in tratto qualche raro colpo dalla parte degli svizzeri, a cui si rispondeva con qualche scarica di fucili. In questo mezzo un certo Selvaggi, orologiaio,voleva dar fuoco al cannone; io, conoscendolo, procurai con le buone di dissuaderlo, ma non voleva sentire ragioni di sorta,tanto esso era furibondo; allora visto venire da Via Magnanapoli il maggiore d'artiglieria Federico Torre,gli corse incontro, ed esso affrettato il passo impedì al Selvaggi di compiere l'atto sconsiderato" [15] .
E Alessandro Gualdi della artiglieria civica, così nelle "Rimembranze"descrive come e dove fu preso il cannone che puntò ancora sul Quirinale:"… per temerità degli uni, o per imprudenza degli altri, quella massa di gente si sollevò, corse alla vicina Piazza della Pilotta, ove si sapevano custoditi i cannoni della nostra artiglieria, né tolsero uno a viva forza e lo trasportarono sul Quirinale…molti si slanciarono sul nostro cannone pretendendo che partisse il colpo. I soli artiglieri tra i quali trovavami anche io, opposero la più viva resistenza; spegnevano la cordamiccia e toglievano la spoletta…" [16] .
Ma la più completa delle descrizioni ci è data dalla Contessa Spaur, moglie del Ministro- Ambasciatore di Baviera che insieme poi accompagnerà Pio IX a Gaeta.
La Contessa Spaur raccolse tutto ciò in una"Relazione del viaggio di Pio IX".Ecco come vede i giorni del disordine: "Poco prima che ciò avvenisse, una gran calca di guardia nazionale, e militi e giornalieri erano passati di presso la mia casa levando grandi grida, fra cui quello di viva la Repubblica!che non fu dai passanti ripetuto; ed uno di costoro che era un carabiniere,portava, tra le altre banderuole, di vari colori, il gonfalone bianco con i nomi scritti di quelli che erano della turba designati per ministri.
Avviavansi in questa forma al palazzo Quirinale, dove il Conte Spaur, mio marito, trasse dietro di loro a vedere che fosse stato per accadere; e poco stante di là mi mandò a significare che non stessi in pena se egli tardasse a ritornare a casa, dovendo trattenersi presso la persona del Pontefice.
Discorrevo io meco pensando che mai potesse ritenere il conte appo il Sovrano, quando ad un tratto fui riscossa da cupe e ripetute grida: allarme,allarme!E fattami alla finestra, vidi una infinità di gente scendere come onda dal Quirinale, accozzandosi gli uni gli altri, gridando all'armi, per avventarsi, come essi dicevano, contro gli infami svizzeri, i quali, in numero di poco più di 70, avevano onoratamente colle armi contraddetto loro la entrata nel palazzo. Che cuore allora pensate voi si facesse il mio nel vedere né udire altro che un pigliar d'armi, un gridar morte…
Venne finalmente a consolarci un poco, verso le ore dieci della sera, un biglietto scritto dal Palazzo dal ministro di Russit, M.de Buteineff a sua moglie e sottoscritto da quanti avevano famiglia, col quale accertatasi esser tutti salvi e in buon essere.
Un'ora dopo, ritiratosi il mio marito a casa, mi raccontò tutto pieno d'orrore, come era stato cinto d'armati il palazzo del Papa, e rivolto contro la maggior porta il cannone;come egli stesso aveva veduto arrivare le palle di fucile fin dentro la camera del contristato Pontefice; e in quale maniera fosse stato colpito a morte Mons. Palma; levata al Papa la guardia dei fedeli svizzeri e messa in luogo di quelli la milizia civica come, con arroganza e forza richiesto e proclamato a suon di archibusate, quello strano Ministero…" [17]
Non fu così pacifica né irrazionale, improvvisa e non meditata, la scelta di Gaeta.Si scartò la Francia perché il Presidente Generale Cavaignac stava per essere sostituito da Napoleone III e si stavano rimarginando le ferite della rivoluzione repubblicana del 1848 e dei primi moti socialisti del luglio dello stesso anno.
Il Papa avrebbe desiderato mettersi sotto la protezione della Spagna e partire quindi per le Baleari, ma ciò fu considerata impresa difficile e quindi fu accantonata.
Si scelse Gaeta perché era città fortificata, la più vicina ai confini dello Stato Pontificio, e anche perché, essendo Napoli amica dell'Austria era interesse di questa accogliere il Papa in uno Stato amico e dimostrare al mondo che i facinorosi liberali italiani non distraevano l'Austria dal fare il suo dovere verso la religione e l'ordine .
Prova di questo fu il fatto che il Ministro di Baviera Spaur, la moglie e il figlio, simularono il viaggio da Roma come una gita turistica e Pio IX passò come precettore della famiglia Spaur.
Gaeta in quel periodo è al centro della situazione politica internazionale:gli accreditati ambasciatori, diplomatici, consoli degli stati presso la S.Sede raggiungono Gaeta così come Ferdinando passa più tempo a Gaeta che a Napoli sicchè ministri, e dignitari, amministratori e politici del Regno delle due Sicilie passano spesso per la città.
Moltissimi Cardinali di Curia raggiungono Gaeta anche se alcuni saranno costretti a dimorare a Napoli, Capua, Sessa, Formia, Montecassino.
Gaeta divenne un punto di riferimento per molti, e luogo di decisioni che avrebbero segnato il futuro.
La sera del 24 novembre, travestito da prete ed accompagnato dal suo collaboratore segreto, Pio IX uscì dal Quirinale ...e in carrozza chiusa si fece accompagnare davanti la chiesa dei Santi Pietro e Marcellino, dove stava ad aspettarlo il conte Spaur, ambasciatore di Baviera. Salito nella carrozza di quest'ultimo, il Pontefice si diresse verso il confine napoletano.
Nel corso del viaggio Pio IX fu raggiunto dalla contessa Spaur, mentre il cardinale Antonelli travestito da laico lo raggiunse per poi precederlo nel luogo di destinazione, che era Gaeta, dove l'augusto fuggiasco giunse la sera del 25 e scrisse a Ferdinando II:"Il sommo Pontefice Romano, il Vicario di Gesù Cristo, il Sovrano degli Stati della Santa Sede si è trovato nella circostanza di abbandonare la capitale dei suoi domini per non compromettere la Sua dignità e per non mostrare di approvare con il Suo silenzio gli enormi eccessi che si sono commessi e si commettono a Roma. Egli è in Gaeta, ma vi è per breve tempo, giacché non intende compromettere in nessun modo la Maestà vostra e la quiete dei suoi popoli" [18] .
Ferdinando II, appena saputa la notizia, lasciò Napoli con la famiglia e si precipitò a Gaeta e, aiutato dal cardinale Antonelli, riuscì a persuadere il Pontefice a non proseguire il viaggio ma a prender dimora in quella città.
Pio IX, fuggendo da Roma, aveva lasciato al marchese Sacchetti, suo maggiordomo, queste righe:"Affidiamo alla sua nota prudenza ed onestà di avvertire della nostra partenza il ministro Galletti, impegnandolo con tutti gli altri ministri non tanto per premunire i palazzi, ma molto più le persone addette a lei stessa, che ignorano la nostra decisione. E se tanto abbiamo a cuore lei e i suoi famigliari, molto più abbiamo a cuore raccomandare a detti signori la quiete e l'ordine dell'intera città" [19] .
Il ministero, appresa la partenza del Pontefice pubblicò un energico proclama:
"Il Pontefice è partito questa notte da Roma trascinato da funesti consigli. In questi momenti solenni il Ministero non mancherà a quei doveri che a lui impongono la salute della Patria e la fiducia che gli accordò il popolo. Tutte le disposizioni sono prese perché l'ordine sia tutelato e siano assicurate le vite e le sostanze dei cittadini. Tutte le truppe e le guardie civili siano sotto le armi ai loro rispettivi quartieri pronte ad accorrere dove il bisogno lo richiedesse. Il Ministero unito alla Camera dei rappresentanti del popolo e al Senato di Roma prenderà quelle ulteriori misure che l'impero delle circostanze richiede. Romani, fidate in noi, mantenetevi degni del nome che portate e rispondete con la grandezza dell'anima alle calunnie dei vostri nemici" [20] .
Nel medesimo tempo fu convocata dal presidente Sterbini la Camera dei Deputati; il Mamiani diede lettura della lettera al Sacchetti, affermando che costituiva una prova della legalità del ministero; l'assemblea, infine, respinta la proposta del principe di Canino, di proclamare la Costituente, deliberò d'inviare un appello alle popolazioni delle province, annunciando loro la sua solidarietà con il ministero e invitandole all'unione da cui in gran parte dipendevano "l'unione, la concordia e la liberazione d'Italia". Identico invito rivolse ai Romani e alle province:
"Voi, popoli, ricorderete che la tranquillità dello Stato Pontificio non solo è necessaria a mantenere quella reputazione di civile sapienza e di bontà che avete nel mondo, ma è necessaria ancora a preservare e prosperare la sorte dell'italica grandezza e indipendenza e la pace del mondo". [21]
Il 3 dicembre 1848, giunse a Roma un " breve " pontificio, scritto a Gaeta il 27 novembre:"Le violenze usate contro di noi negli scorsi giorni e le manifestate volontà di prorompere in altre (che Iddio tenga lontane, ispirando sensi d'umanità e moderazione negli animi) ci hanno costretti a separarci temporaneamente dai nostri sudditi e figli, che abbiamo sempre amato ed amiamo. Fra le cause che ci hanno indotto a questo passo, Dio sa quanto doloroso al nostro cuore, ma di grandissima importanza è quella d'avere la piena libertà nell'esercizio della suprema potestà della Santa Sede, quale esercizio potrebbe con fondamento dubitare l'orbe cattolico che nelle attuali circostanze ci fosse impedito. Che se una tale violenza è oggetto per noi di grande amarezza, questa si accresce a dismisura ripensando alla macchia d'ingratitudine contratta da una classe di uomini perversi al cospetto dell'Europa e del mondo, e molto più a quella che nelle anime loro ha impresso lo sdegno di Dio, che presto o tardi rende efficaci le pene stabilite dalla sua Chiesa. Nella ingratitudine dei figli riconosciamo la mano del Signore che ci percuote, il quale vuole soddisfazione dei nostri peccati e di quelli dei popoli; ma senza tradire i nostri doveri, Noi non ci possiamo astenere dal protestare solennemente al cospetto di tutti (come nella stessa sera funesta del 16 novembre e nella mattina del 17 protestammo verbalmente avanti il corpo diplomatico che ci faceva onorevole corona, e tanto giovò a confortare il nostro cuore) che noi avevamo ricevuta una violenza inaudita e sacrilega. La quale protesta intendiamo di ripetere solennemente in questa circostanza, di avere cioè soggiaciuto alla violenza, e perciò dichiariamo tutti gli atti, che sono da quella derivati di nessun vigore e di nessuna legalità. Le dure verità e le proteste ora esposte ci sono state strappate dal labbro dalla malizia degli uomini e dalla nostra coscienza, la quale nelle circostanze presenti ci ha con forza stimolati all'esercizio dei nostri doveri. Tuttavia noi confidiamo che non ci sarà vietato innanzi al cospetto di Dio, mentre lo invitiamo e supplichiamo a placare il suo sdegno, di incominciare la nostra preghiera con le parole di un santo re e profeta: "Memento, Domine, David et omnis mansuetudinis eius". Intanto, avendo a cuore di non lasciare acefalo in Roma il governo del nostro Stato, nominiamo una Commissione Governativa composta da: il cardinale Castracane, monsignor Roberto Roberti, il principe di Ruviano, il principe Barberini, il marchese Bevilacqua di Bologna, il marchese Ricci di Macerata, il tenente generale Zucchi. Nell'affidare alla detta Commissione Governativa la direzione temporanea dei pubblici affari, raccomandiamo a tutti i nostri sudditi e figli, la quiete e la conservazione dell'ordine. Finalmente vogliamo e comandiamo che a Dio si innalzino quotidiane e fervide preghiere per l'umile nostra persona e perché sia resa la pace al mondo e specialmente al nostro Stato di Roma, ove sarà sempre il cuor nostro, qualunque parte ci alberghi dell'ovile di Cristo. E Noi, com'è debito del supremo sacerdozio, a tutti precedendo, devotissimamente invochiamo la Gran Madre di misericordia e Vergine Immacolata ed i Santi Apostoli Pietro e Paolo, affinché, come Noi ardentemente desideriamo, sia allontanata dalla città di Roma e da tutto lo Stato l'indignazione di Dio Onnipotente". [22]
Contemporaneamente Pio IX scrisse al cardinale Castracane di assumere la presidenza della Commissione e di prorogare i due Consigli legislativi.
Conosciuto il " breve " Pontificio, furono dal ministero interpellati i membri della Commissione nominata dal Papa. Essi dichiararono che non accettavano l'incarico e qualcuno domandò i passaporti per uscire dallo Stato. Quindi, il ministero, riunitosi in consiglio, deliberò di dimettersi, ma dietro richiesta del Parlamento, ciascuno rimase al suo posto, eccettuati alcuni; inoltre, la sera stessa del 3 dicembre la Camera approvò alcuni provvedimenti:
1° - Il Consiglio dei Deputati, riconoscendo che l'atto che si dice firmato dal Pontefice in Gaeta il 27 novembre 1848 non ha alcun carattere d'autenticità e che, quand'anche l'avesse, non presentando sotto nessun rapporto i caratteri della costituzionalità, ai quali è soggetto non meno il sovrano che la nazione, non potrebbe essere accettato; e dovendo altronde obbedire alla legge della necessità ed al bisogno di avere un governo, dichiara che gli attuali ministri debbono continuare nell'esercizio di tutti gli atti governativi finché non si è altrimenti provveduto.
2° - Si mandi immediatamente una deputazione del Consiglio a Sua Santità per invitarlo a tornare a Roma ed a provvedere altrimenti alla mancanza del capo dell'esecutivo.
3° - S'invita l'Alto Consiglio a fare un'eguale dichiarazione e ad unire taluno dei suoi membri alla formazione della deputazione da mandarsi a Sua Santità.
4° - Un proclama sia fatto al popolo di Roma e dello Stato onde prevenirlo delle misure prese dal Consiglio dei Deputati, ed altro alle Guardie civiche onde raccomandar loro la tutela dell'ordine pubblico e la garanzia delle libertà e leggi fondamentali dello Stato.
L'Alto Consiglio, si riunì il giorno dopo,e approvò queste deliberazioni. La rappresentanza da inviare al Pontefice fu formata dall'abate Rezzi e dal dottor Fusconi, a nome dei Deputati; da monsignor Mertel e dal marchese Paolucci per l'Alto Consiglio, infine,dal Principe Corsini per il Municipio. I legati partirono il 6 dicembre ma giunti a Portello sul confine napoletano furono impediti ad entrare nel regno. Scrisse il Corsini al Cardinale Antonelli lo scopo dell'ambasciata, ma ebbe la risposta che il Papa per i motivi espressi nel " breve " si era allontanato dalla capitale e per gli stessi motivi, con gran dispiacere, non voleva ricevere nessuna delegazione per convincerlo a tornare a Roma.
Qui intanto giungeva la notizia, che una flotta francese con tremilacinquecento soldati aveva gettato le ancore nelle acque di Civitavecchia per ristabilire con la forza il principato assoluto del Papa sotto il pretesto di difenderne la personale libertà.
Il Ministero, l'8 dicembre 1848, protestò vivacemente
"contro l'intervento armato straniero nello Stato romano e dichiarò che alle truppe della Francia si sarebbe impedita con tutte le forze possibili l'entrata e la violazione del territorio nazionale e che - concludevano i ministri - noi intendiamo di difendere l'onore non pure degli Stati romani, ma di tutta quanta l'Italia, e di assecondare la ferma volontà e deliberazione di tutti i suoi popoli; e similmente facciamo solenne e generale richiamo ai potentati di Europa e al senso loro di equità e di giustizia. Poiché, la causa è comune a tutte le nazioni gelose dell'indipendenza e altere di aver conquistato la propria libertà politica". [23]
Quattro giorni dopo, essendo falliti tutti i tentativi di accordarsi con il pontefice la Camera dei deputati decretò:
"che si costituisse una provvisoria e suprema Giunta di Stato composta di tre persone scelte fuori del Consiglio dei Deputati, nominata dal Consiglio dei Deputati stessi e approvata dall'Alto consiglio, la quale in nome del principe doveva esercitare tutti gli uffici pertinenti al capo del potere esecutivo nei termini dello Statuto e secondo le norme e i principi del diritto costituzionale; e dovesse immediatamente cessare le sue funzioni al ritorno del Pontefice o qualora esso deputasse, con atto vestito della piena legalità, persona a tener le sue veci e adempierne gli uffici, e questa assumesse, di fatto, l'esercizio di dette funzioni" [24] .
A formare la Giunta furono chiamati il principe Corsini, senatore di Roma, il conte Francesco Camerata, senatore di Ancona e Giuseppe Galletti. Contro questo fatto Pio IX, il 17 dicembre, protestò energicamente, dichiarando che:
"quella Giunta di Stato istituita in Roma non era altro che un'usurpazione dei Sovrani poteri, e che essa non aveva né poteva avere alcun'autorità". [25]
Allora la Giunta, con proclama del 20 dicembre 1848, diretto alle popolazioni dello Stato, promise che si sarebbe adoperata per la sollecita convocazione di una Costituente Romana.
Le cose precipitavano: il 23 si dimise il Mamiani e poiché si erano ritirati il Lunati e il Sereni, si chiamarono l'avvocato Carlo Armellini, l'avvocato Federico Galeotti e Livio Mariani. Al primo fu affidato il dicastero dell'Interno, al secondo quello della Giustizia, al terzo quello delle Finanze; il Muzzarelli, oltre alla presidenza e quello dell'Istruzione, prese il portafoglio degli Esteri; il 26 dicembre 1848, la Giunta di Stato chiuse il parlamento, che ormai non funzionava più per mancanza di numero legale, e il 29 il Camerata e il Galletti(il Corsini si era dimesso) dichiararono di assumer insieme con i ministri il governo provvisorio dello Stato (Suprema Giunta) fino alla convocazione della Costituente e indissero le elezioni a suffragio diretto e universale con il seguente decreto: "È convocata in Roma un'Assemblea Nazionale, che con pieni poteri rappresenti lo Stato romano; l'oggetto della medesima è di prendere tutte quelle deliberazioni che giudicherà opportune per determinare i modi di dare un regolare, compiuto e stabile ordinamento alla cosa pubblica, in conformità dei voti e delle tendenze di tutta o della maggior parte della popolazione. Sono convocati i comizi per le elezioni del 21 gennaio 1849; duecento il numero dei rappresentanti; il voto sarà diretto e universale; gli elettori tutti i cittadini dello Stato dagli anni ventuno compiuti, che vi risiedono da un anno e non privati dei diritti civili; eleggibili tutti i medesimi che abbiano compiuto l'età di 25 anni; il 5 febbraio destinato all'apertura dell'Assemblea". [26]
Anche contro il decreto che convocava l'assemblea il Papa protestò e il 1° gennaio del 1849 minacciò la scomunica a tutti coloro che avrebbero preso parte alle elezioni. A Roma iniziano manifestazioni popolari al grido di " Repubblica ". Dopo la pubblicazione del decreto, i due membri della Giunta deposero il loro mandato e rappresentanti del potere esecutivo rimasero i soli ministri. Il ministero prese il nome di Commissione provvisoria di Governo, e portò a termine alcune riforme per rendere più facile alla Costituente il suo compito.Il 21-22 gennaio si vota. Nonostante la minaccia delle censure ecclesiastiche, il concorso alle urne non fu scarso e, poiché i moderati si erano astenuti, la vittoria fu dei rivoluzionari. Per dare un certo carattere nazionale all'assemblea si elessero anche cittadini degli altri Stati italiani, come Giuseppe Garibaldi, e Giuseppe Mazzini.
Il 5 febbraio 1849 avvenne la prima adunanza dell'Assemblea costituente, la quale fu inaugurata dall'Armellini con un'orazione in cui, fatto omaggio alla sovranità dei popolo, narrava la storia del regno di Pio IX, i casi occorsi dopo la partenza del Papa, le opere dei ministeri e del Governo provvisorio ed augurava un fulgido avvenire alla patria.Cominciati i lavori, si discusse della forma di regime da dare allo Stato, e Terenzio Mariani si dichiarò contrario alla proclamazione della repubblica, che, diceva avrebbe, in ogni caso, dovuto esser lasciata alla Costituente italiana. Portata alla votazione la proposta per la repubblica messa avanti da Quirico Filopanti, di 142 deputati presenti 120 furono favorevoli, 10 contrari, 12 si astennero.
Il giorno 9 febbraio 1849 fu pubblicato il "decreto fondamentale " dell'assemblea.
Art. - Il Papato è decaduto di fatto e di diritto dal governo temporale dello Stato Romano.
Art.- Il Pontefice romano avrà tutte le guarentigie necessarie per l'indipendenza nell'esercizio della sua potestà spirituale
Art. - La forma del governo dello Stato Romano sarà la democrazia pura e prenderà il glorioso nome di Repubblica Romana
Art. - La Repubblica Romana avrà con il resto d'Italia le relazioni che esige la nazionalità comune.
L'assemblea creò un magistrato supremo per governare lo Stato con il nome di "Comitato Esecutivo" . La bandiera adottata fu il tricolore italiano con l'aquila romana sull'asta.
Il Pontefice protestò ancora e il 18 febbraio del 1849 il cardinale Antonelli, che fungeva da Segretario di Stato, inviò alla Spagna, all'Austria, alla Francia e al Regno delle due Sicilie, una nota:"….le cose dello Stato Pontificio sono in preda di un incendio devastatore per opera del partito sovvertitore di ogni sociale costituzione, che sotto speciosi pretesti di nazionalità e d'indipendenza nulla ha trascurato di porre in opera per giungere al colmo delle proprie nequizie. Il decreto, detto fondamentale, emanato nel 9 corrente dall'assemblea costituente offre un atto che da ogni parte ribocca della più nera fellonia e della più abominevole empietà. Con esso si dichiara principalmente decaduto il papato di fatto e di diritto dal governo temporale dello Stato Romano, si proclama una repubblica e con altro atto si decreta l'abbassamento degli stemmi del Santo Padre. Sua Santità, nel vedere così vilipesa la suprema sua dignità di Pontefice e di sovrano, protesta in faccia ai potentati tutti, a tutte le nazioni ed a tutti i singoli cattolici del mondo universo contro quest'eccesso d'irreligione, contro sì violento attentato di spoglio degli imprescrittibili e sacrosanti suoi diritti; quindi laddove non occorresse con un pronto riparo, giungerebbe il soccorso allorquando gli Stati della Chiesa, ora intieramente in preda dei suoi acerrimi nemici, fossero ridotti in cenere. Pertanto, avendo il Santo Padre esauriti tutti i mezzi che erano in suo potere, spinto dal dovere che ha al cospetto di tutto il mondo cattolico di conservare integro il patrimonio della Chiesa e la sovranità che vi è annessa, così indispensabile a mantenere, come Capo Supremo della Chiesa stessa, e mosso altresì dal gemito dei buoni che reclamano un aiuto, non potendo più oltre sopportare un giogo di ferro ed una mano tirannica, si rivolge di nuovo a quelle stesse potenze, e specialmente a quelle cattoliche, che con tanta generosità di animo ed in modo non dubbio hanno manifestato la loro decisa volontà di essere pronte a difendere la sua causa, nella certezza che vorranno con ogni sollecitudine concorrere col loro morale intervento affinché Egli sia restituito alla sua Sede, alla capitale di quei domini che furono appunto costituiti a mantenere la sua piena libertà ed indipendenza, garantita dai trattati che formano la base del diritto pubblico europeo.
E perché l'Austria, la Francia, la Spagna e il Regno delle Due Sicilie si trovano per la loro posizione geografica in situazione di poter sollecitamente accorrere con le loro armi a ristabilire nei domini della Santa Sede l'ordine manomesso da un'orda di settari, così il Santo Padre nel religioso interesse di queste potenze figlie della Chiesa, domanda con piena fiducia il loro intervento armato per liberare principalmente lo Stato della Santa Sede da quella fazione di tristi che con ogni sorta di scellerataggini vi esercita il più atroce dispotismo. Solo in tal modo potrà essere ripristinato l'ordine negli Stati della Chiesa e restituito il Sommo Pontefice al libero esercizio della suprema sua autorità, siccome lo esigono imperiosamente il sacro ed augusto suo carattere, gl'interessi della Chiesa universale e la pace dei popoli, e così potrà Egli conservare quel patrimonio che ha ricevuto nell'assunzione del pontificato per trasmetterlo, integro ai suoi successori. La causa è dell'ordine e del cattolicesimo. Per la qual cosa il Santo Padre si confida che mentre tutte le potenze con cui si trova in amichevoli relazioni e che in tanti modi nella situazione nella qual è stato gettato da un partito di faziosi gli hanno manifestato il loro più vivo interesse, daranno un'assistenza morale all'intervento armato, che per la gravità delle circostanze ha dovuto invocare; le quattro potenze sopraccennate non indugeranno un momento di prestare l'opera loro richiesta, rendendosi così benemerite dell'ordine pubblico e della Religione". [27]
Sta per iniziare un periodo difficile per la popolazione romana, che viene coinvolta,quando si muove per primo in soccorso del Pontefice, come potenza straniera il governo repubblicano francese di Luigi Napoleone Bonaparte, eletto il 10 dicembre dell'anno precedente, Presidente della nuova Repubblica Francese. Paradossalmente l'ex rivoluzionario, che aveva partecipato nel 1831 all'insurrezione nello Stato Pontificio, dopo aver cercato il consenso dei conservatori e dei cattolici francesi si muove per andare a provocare la fine dell'effimera stagione del repubblicanesimo italiana
Consideriamo che gli eventi che stiamo studiando avvenivano in quel tumulto generalizzato che fu il 1848.
Le rivolte a Parigi ,Vienna, Berlino, sintomi gravi e preoccupanti di un malessere che comunque covava nel vecchio continente, che stava ancora cercando i suoi equilibri, illusoriamente ristabiliti dal Congresso di Vienna, erano state seguite dagli eventi milanesi delle Cinque Giornate.
La sconfitta di Carlo Alberto nel conflitto con l'Austria aveva dimostrato che quest'ultima, favorita dalla pochezza dell'avversario, aveva comunque grossi problemi (il grande impero asburgico non era compatto come un tempo e la forza d'urto dell'esercito era diventata meno impetuosa), vista la relativa facilità con cui i rivoltosi milanesi avevano avuto,inizialmente, ragione delle truppe imperiali.
La situazione era difficile da decifrare e mancava un po' a tutti il senso della realtà: ai radicali che spinti da desideri di emancipazione popolare, pensavano che tutto fosse fattibile subito; ai liberali, che più concreti sul piano della politica quotidiana , non sapevano però come contenere l'onda del malcontento che comunque cresceva; ai regnanti, che vedendo minacciata alla base la loro stessa esistenza, reagivano in conseguenza, con misure,dettate da una pur comprensibile emotività.
Si stava vivendo insomma uno di quei momenti storici in cui si verifica la peggiore delle contingenze: tutte le parti in conflitto avevano in un certo senso ragione e mancava chi,al di sopra delle parti, sapesse distinguere invece una ragione oggettiva.
I comportamenti di tutti divengono così eccessivi e pericolosi. E così anche Pio IX, il Papa che inizialmente aveva suscitate tante speranze di rinnovamento, reagì in modo intempestivo, dando fiato ai suoi avversari.
Ora che la struttura legislativa ed esecutiva era completa, la nuova Repubblica iniziava effettivamente la sua vita, scontrandosi col più incancrenito problema ereditato dallo Stato Pontificio,la situazione disastrosa delle finanze pubbliche, che portava con sé anche la sfiducia verso i Buoni del Tesoro e verso le banconote, e i mille problemi pratici di fronte ai quali si trovavano soprattutto operai e manovali; essi, pagati abitualmente con danaro cartaceo, spesso non riuscivano a spenderlo per le necessità quotidiane, perché se lo vedevano respinto dai commercianti che pretendevano la moneta sonante. Né d'altra parte i nuovi organi di governo repubblicano avevano la bacchetta magica; la proposta di dichiarare decaduto il debito pubblico dello stato non aveva avuto seguito, anche per le conseguenze disastrose che una simile misura avrebbe avuto nei confronti del già esiguo credito che la Repubblica Romana poteva ottenere dall'estero.
Così il 21 febbraio l'Assemblea votò un provvedimento che suscitò enorme scalpore:l'incameramento dei beni ecclesiastici. Si trattava di somme ingenti,tra beni immobili,mobili,depositi in denaro,arredi sacri preziosi, il cui valore complessivo si calcolava attorno ai 120 milioni di scudi.Ma non era ancora una cifra sufficiente e si dovettero attuare altre misure, prima delle quali un prestito forzoso che obbligava tutti coloro che disponevano di una rendita superiore ai 2000 scudi annui a cederne una percentuale allo Stato, seppure sotto forma di prestito.Inoltre si istituiva il corso forzoso per la moneta cartacea, prevedendo pene severe per che rifiutava in pagamento Buoni del Tesoro o banconote della Banca Romana.
Questa serie di misure, di carattere chiaramente eccezionale, erano rese necessarie non solo dalla situazione finanziaria generale,ma anche dall'addensarsi di minacce attorno alla neonata Repubblica: il Papa da Gaeta invocava l'aiuto delle potenze cattoliche per ristabilire l'autorità legittima su Roma e, se il vagheggiamento dell'Assemblea di partecipare alla lotta per la liberazione d'Italia si scontrava con il disastro militare subito da Carlo Alberto a Novara, pur tuttavia la Repubblica doveva prevedere un aumento delle spese militari per tutelare se stessa contro un attacco dall'esterno che si faceva di giorno in giorno più probabile.
Ma anche all'interno le cose non funzionavano benissimo.Le misure economiche e finanziarie che abbiamo illustrato erano inevitabili, ma diedero anche fiato a quanti accentuavano ad arte un anticlericalismo che, seppur presente in molti dei nuovi governanti, tuttavia non si era tradotto in misure contro la libertà di culto.
Il prestito forzoso ovviamente non piaceva, e fu attuato solo parzialmente, tra mille difficoltà. Insomma,la Repubblica si trovava a fare i conti con una realtà che la superava, iniziando a dover prendere misure che avrebbero in parte alienato proprio quel consenso popolare che era alla base della sua stessa ragion d'essere.
L'incameramento dei beni ecclesiastici era senza dubbio un provvedimento violento, ma inevitabile,come il prestito, come il corso forzoso;gli uomini della Repubblica si trovarono a gestire una situazione che era di fatto ingestibile.
A nulla valse il cambiamento ai vertici della Repubblica, con Montecchi e Saliceti che lasciarono il posto, sostituiti da Saffi e Mazzini.
Piuttosto bisogna dire che l'arrivo di Mazzini diede alla Repubblica un carattere utopistico,che fu un aspetto interessante di questa vicenda politica;
è pensabile che Mazzini sperasse realmente in una Repubblica Romana che si sarebbe affermata, che avrebbe saputo difendersi dai suoi nemici esterni?è pensabile che egli credesse davvero che i tempi erano già maturi,soprattutto dopo il fallimento di tutte le altre piccole rivoluzioni italiane,per una vera esperienza di partecipazione popolare e di democrazia?
Penso che Mazzini avesse ben chiaro che il fallimento era alle porte, ma lui giunto al vertice della Repubblica Romana,solo negli ultimi tre mesi, né divenne il simbolo, e si assunse il compito di codificare il valore morale di quella esperienza.

I.5. Testimonianza inedita, dalle" Memorie Principali"
della vita di Maria de Rossi Schneider

"Cominciato nel settembre 1860 e proseguito per chissà quanti anni, o mesi?".
Queste parole introducono il diario che Maria de Rossi Schneider, appartenente ad una nobile famiglia romana, ha scritto per testimoniare la sua esperienza in Roma dal 1824, anno della sua nascita al 1869.
La famiglia de Rossi aveva strettissimi rapporti con la Curia romana, e fin dagli inizi del pontificato di Pio IX entrò in rapporto di amicizia con il Pontefice; dalle pagine di questo diario, custodito dagli eredi, si possono trarre alcune interessanti note, per aderire meglio al clima dei giorni in cui si metteva in atto la Rivoluzione romana; inoltre l'esperienza vissuta dalla signora Maria de Rossi Schneider, e dalla sua famiglia, erano una fonte molto diretta che contribui' a formare il pensiero e l'azione del Papa in quei mesi; infatti erano molto numerosi gli incontri che la famiglia aveva con Pio IX, anche in Gaeta, quasi tutti nella semplicità di un pranzo o di una udienza strettamente privata.
Decisivi furono gli incontri di Maria de Rossi con i fratelli Camillo e Toto Schneider, il primo che diventò suo marito, militare al servizio dello Stato pontificio, il secondo dirigente dell'amministrazione pontificia.
Leggiamo dalle pagine del diario al giorno 18 Novembre 1848,all'età di 24 anni:"Essendo il 15 e 16 precedenti accaduti disordini orribili in Roma per la morte del Rossi, e della rivolta avanti al Quirinale ecc; io mi spaventai talmente, che credettero bene mandarmi via da Roma…. Andetti in Albano con la mia famiglia; il 25 detto il S. Padre Pio IX fu obbligato a fuggire da Roma, e si seppe subito in Albano che era passato da quel luogo." [28]
Ma le notizie più interessanti per il nostro tema, sono alcune pagine dell'anno 1849; leggiamo al mese di Marzo:" Per una di quelle continue rivolte solite in Roma per causa politica, si radunò gran folla sulla Piazza del Gesù e fu attaccato un est locanda alla porta de' Gesuiti ed un buon giovane volle levarlo, fu tale la rabbia della folla accalcata, che io dalle finestre di Mammà vidi questo poveretto, in un tale stato di pericolo e di strazio, che mi misi a singhiozzare per lui. " [29]
Ancora il giorno 29 Aprile:" Prima battuta dell'armata Francese che comandata dal generale Oudinot, tentò di entrare a Roma. Io sempre spaventata mi era già premunita, per questo caso, di un biglietto del Col. Smith signore inglese che stava nella sua villa vicino a S.Bonaventura. Vi volli subito andare, per togliere Camillo dal pericolo di essere chiamato a difendere le barricate, che già si andavano vedendo per le strade di Roma. Toto coll'uniforme da Capitano civico e Luigi Zaccarini nostro Ministro, ci accompagnarono fino all'arco della Pace, facendoci scavalcare una forte barricata che era al primo stretto della strada Alessandrina sulla Piazza di Colonna Traiana.Sulla porta della villa ci intimarono che il colonnello con sua moglie erano venuti dentro Roma, perché non si credevano sicuri alla villa in quelle giornate di turbolenza.Noi restammo di sale; ma si dovette entrare, perché il cannone già rintronava da ogni parte. La prima notte dovemmo stare vestiti per la paura, perché una gran scampanellata di gente armata ci destò e volevano cavalli ed aiuto di gente….ci mettemmo in calma quando il Sig. Smith ci pregò di restare e a non temere. Così passammo otto giorni tranquilli, perché insieme ed informati sempre degli avvenimenti della città, ma nel tempo stesso quella solitudine era oltremodo tormentosa, perché si sentivano tanti misteriosi rumori da quell'altura che ci facevano gelare ogni momento.La Domenica sentimmo messa a S. Bonaventura, e poi ce ne tornammo a casa , vedendo per la città quelle barricate ancora armate, ma tutto era tranquillo; perché i francesi non credettero prudente inoltrarsi, quando si avvidero quale era la disperata difesa che usciva da Roma." [30]
Così il 22 Maggio:"Ma tornata a casa io stavo sempre agitata per Camillo, perché spesso era chiamato al quartiere, ed anche spinto a difendere le mura o le barricate.In quel primo attacco vari de' nostri romani vi lasciarono la vita.
Camillo domandò il permesso di partire; ma il Triumvirato glie lo negò quale persona contraria a questo nuovo governo.Ma io pensando di avere conoscenza con uno dei più fieri deputati volli azzardare da me questa dimanda. Camillo e Toto fecero i contrari alla mia idea; e così questo tale, a cui debbo pure una qualche riconoscenza, mi fece subito avere il passaporto. Il bagaglio fu fatto in un giorno, ed avemmo la fortuna di partire coll'ultima diligenza che uscì da Roma. Fu fatto il giro di porta Angelica, perché il ponte Milvio era saltato in aria alcuni giorni avanti; per impedire il transito ai francesi.Avemmo in compagnia…la famiglia Bobbio romana con la quale legammo in amicizia.Vi era in questa un giovane…; dopo molti e molti giorni che si stava a Firenze… ci disse che egli era sacerdote e religioso di S. Carlo a Catinari.La nostra sorpresa fu incredibile. Si giunse a Firenze il giorno stesso che vi entrarono gli Austriaci……Avevamo sempre puntualissime lettere da Toto, il quale raccontava con molto dettaglio tutto il lungo assedio che allora soffriva la povera Roma. Non si smarrì mai nessuna lettera…Ma solo dopo molto tempo si ebbe una lettera da papà da Napoli; così sapemmo di loro. C'invitavano a riunirci a loro, ma questo cambiamento era impossibile…non vedendosi mai una fine all'affare di Roma." [31]
Infine al mese di settembre, leggiamo:"Camillo credette necessario mostrarsi al S. Padre in Napoli come facevano generalmente tutti quell'impiegati che piuttosto rinunciarono al loro impegno per non aderire al governo repubblicano. Fu una gita per lui, di gran piacere, vi avvicinò molti personaggi della corte del S. Padre che ancora non si erano mossi da Napoli. " [32]
I rapporti di Pio IX con la famiglia de Rossi Schneider, continuarono per tutto il tempo del soggiorno a Gaeta, e si svilupparono poi ulteriormente al suo ritorno a Roma dove divennero quasi quotidiani,
E' chiaro che il pontefice, tramite questi e altri rapporti, diciamo confidenziali, si formò un'idea piuttosto precisa di quello che stava succedendo a Roma, al di là dei normali canali diplomatici; penso che i racconti circa la quotidianità di quello che avveniva per le strade della futura capitale, contribuirono a delineare alcuni scritti dall'esilio di Gaeta che adesso esamineremo.



Capitolo II.
Analisi di alcuni documenti di Pio IX dall'esilio di Gaeta

II.1. Introduzione

Il più lungo pontificato della storia, per la contestuale evoluzione di pensiero e di movimenti nazionalistici in Europa, è venuto a collocarsi in uno dei periodi storici, che sia pure non marchiato dall'esplosione di violenza di una Rivoluzione Francese, ha comunque segnato con alleanze, guerre e moti insurrezionali un'era di radicali cambiamenti nell'assetto politico europeo.
Ricostruire il profilo di un Pontefice, che vide disgregarsi e morire sotto le cannonate di Porta Pia un regno plurisecolare e che, all'inizio del suo pontificato aveva guardato con occhio di particolare simpatia, derivatagli da letture di un d'Azeglio, di un Balbo e soprattutto di un Gioberti, verso il movimento liberale con i primi tentativi di affermazione dei principi democratici, costituisce di certo un impegno di grande peso e delicatezza. Non va sottovalutata infatti la difficoltà di guardare e valutare, con il patrimonio culturale ad oggi acquisito, fatti e pensieri di un Papa, Re ad ogni effetto, che passa da una prima quasi entusiasta accettazione dei principi liberali della giovane democrazia, che timidamente incominciavano a farsi largo nella cultura e nella sensibilità delle persone, ad una cocente delusione per gli attacchi, le sommosse provocate ad arte nella Città Eterna e sfociate nella proclamazione della Repubblica Romana e alla finale capitolazione di fronte alla violenza di una “occupazione”, che sia pure motivata storicamente dal compimento dell'unità nazionale, non trovava alcuna valida giustificazione sul piano del diritto.
Per comprendere a pieno il pontificato di Pio IX e i drammi interiori che ne travagliarono l'intera durata, occorre ricordare l'apertura che per carattere, per cultura, per educazione il giovane Vescovo, e quindi Cardinale, Mastai Ferretti, provava nei confronti degli scrittori ricordati poco sopra e specialmente nei confronti di Vincenzo Gioberti, che aveva appena ultimato il suo «del Primato morale e civile degli Italiani», e che aveva elaborato, sull'onda di un neo-guelfismo che andava facendosi largo in alcuni strati della società, un programma federalista cattolico. Divenuto Papa nel 1846, a soli 54 anni, a distanza di un mese dalla sua elezione, il 16 luglio, emana un'amnistia estesa ai reati politici, che suscita ammirazione e entusiasmo in tutto il Paese, nel quale ancora si registravano movimenti di repressione da parte di sovrani poco aperti a recepire i concetti liberali, e le aspirazioni di democrazia e di libertà di pensiero sempre più condivise dai cittadini.
Ma già verso la fine del 1847, Pio IX sente l'esigenza di un ripensamento e, pur non rifiutandosi di concedere il 14 marzo 1848 la Costituzione, sull'esempio degli altri sovrani, inizia il suo ritorno su posizioni sempre più conservatrici, ridando forza a quella parte della Curia ostile verso certe idee e più propensa a conservare lo status quo.
In effetti, non va dimenticato, poco più tardi di un mese dall'emanazione dell'amnistia, il 29 aprile 1848, Pio IX tiene la famosa «allocuzione», con cui afferma la necessità di tenere separata nettamente la causa della Chiesa da quella dell'indipendenza italiana.
Egli incomincia a percepire con chiarezza che l'indipendenza e l'unità italiana non potranno fare a meno di Roma e che prima o poi si giungerà allo scontro tra lo Stato Italiano e il Regno Pontificio.
I moti e le reazioni che ne seguirono nella Città di Roma li abbiamo già menzionati, per tornare ad illustrarli: basti ricordare che i fatti di violenza culminarono l'11 novembre del 1848 con l'uccisione di Pellegrino Rossi, Capo del Governo pontificio, e con la proclamazione della Repubblica Romana il 9 febbraio 1849.
Ma già dal 15 novembre 1848,come abbiamo visto, il Papa aveva lasciato Roma cercando rifugio a Gaeta sotto la protezione dei Borboni.
Ed è appunto dal volontario esilio di Gaeta che Pio IX promulga alcuni documenti,tra i quali, un Proclama di protesta datato 17 dicembre 1848, una protesta davanti al Corpo Diplomatico il 14 febbraio 1849,una Allocuzione ai Cardinali il 20 Aprile 1849,e una Lettera ai Vescovi del 8 Dicembre 1849;essi rappresentano tutto il travaglio interiore di un Pontefice-Re, che vede in un contesto unico affacciarsi su uno scenario quasi apocalittico contestazioni politiche e religiose, istanze di libertà e democrazia e moti insurrezionali tesi ad abbattere un potere temporale plurisecolare (di certo il più antico di Italia se non dell'Europa). Il rilievo storico dei quattro documenti assume connotazioni, oltre che politico-religiose, anche psicologiche, rivelatrici di un dramma interiore, in cui si accomunano preoccupazioni e timori temporali ad angosce per attacchi durissimi alla Fede e alla Religione non disgiunti da calunnie sulla stessa Persona del Pontefice.
È8 questo dramma è talmente sentito e lacerante che Pio IX non esita in un passo a fare proprie le parole del Redentore sulla croce: “Padre, perdona loro che non sanno quello che fanno”.Esaminiamo ora nel particolare i quattro documenti.

II.2. Proclama di protesta di Pio IX (Gaeta 17 dicembre 1848)

Fin da questo proclama di protesta, il Pontefice manifesta la sua viva preoccupazione per l'unità dello Stato temporale della Chiesa, che fin dall'inizio del suo pontificato dichiara essere stata una delle sue prime attenzioni; dopo aver espresso sorpresa per le reazioni violente e ingrate ad alcune concessioni, il papa dichiara di essere stato costretto ad abbandonare Roma a causa della violenza di quei giorni, che aveva portato alla uccisione di Pellegrino Rossi, tra il plauso barbaro di alcuni.
"Rifugge il Nostro animo dal dover qui lamentare particolarmente gli ultimi avvenimenti incominciando dal giorno 15 del passato novembre, in cui un Ministro di nostra fiducia fu barbaramente ucciso in pieno meriggio dalla mano dell'assassino, e più barbaramente ancora venne quella mano applaudita da una classe di forsennati, nemici di Dio e degli uomini, della Chiesa non meno, che di ogni onesta politica istituzione". [33]
Notiamo che nell'analisi della situazione, Pio IX non disgiunge mai l'aspetto politico da quello religioso,e questo perché la sua autorità temporale era riconosciuta, di origine divina sia dai singoli che dagli altri stati nell'Italia e nell'Europa e nel mondo.
Pio IX rifugge subito da qualsiasi compromesso dichiarando illegittima e priva di qualsiasi autorità la Suprema Giunta di Stato, una rappresentanza governativa istituita il 12 giugno;l'unico potere legittimo in Roma e in tutto lo Stato pontificio derivava espressamente dal papa, che si era espresso con un motu proprio il 27 novembre istituendo una temporanea commissione governativa, e a questa sola apparteneva il reggimento della cosa pubblica durante l'assenza del papa.
In luogo dell'auspicato “rimorso dei Nostri figli traviati”, Pio IX è venuto a conoscenza della convocazione di un'Assemblea Generale Nazionale dello Stato Romano, del 29 dicembre, per stabilire il nuovo assetto politico dello Stato Pontificio.
Pio IX protesta contro l'attacco al potere temporale, rivendicando il fondamento giuridico e l'universale riconoscimento di tale autorità da parte delle altre nazioni.Notiamo quindi, che l'autorità temporale rivendicata dal Papa, era riconosciuta da lui,non solo di origine divina, ma fondata anche sulla norma giuridica, approvata dagli altri stati.
Tale presa di posizione viene spiegata dal Pontefice come necessaria in forza della responsabilità “al cospetto dell'Onnipotente” e dell'Autorità Apostolica di cui è investito.
Quella di Pio IX non è solo una protesta, ma una condanna dell' “enorme e sacrilego attentato commesso in pregiudizio della nostra Indipendenza e Sovranità, meritevole dei castighi comminati dalle leggi sì divine come umane”.
Lo scopo principale della lettera è quello di proibire a tutti i cristiani, pena la scomunica, di partecipare alle elezioni per la formazione dell'Assemblea Costituente. Si ricorda che il provvedimento di scomunica era già previsto nei Concili e soprattutto nel Concilio di Trento, per chiunque attenti alla sovranità temporale del Pontefice.
La conclusione della lettera ricorda però che, se da un lato il Papa è tenuto a difendere in ogni modo “il patrimonio della Sposa di Gesù Cristo alle Nostre cure affidato”, d'altro canto non può non esercitare la misericordia insieme alla giustizia. Mentre quindi ci si prepara ad affrontare le persecuzioni, non si smette di pregare per “la conversione e la salvezza dei traviati”. La lettera si conclude con espressioni di speranza, la speranza che le preghiere del Papa di tutta la Chiesa ottengano l'intervento della divina Misericordia affinché: “Ci sarà dato di veder rientrare nell'ovile del Signore quei Nostri figli, dai quali oggi tante tribolazioni ed amarezze ci provengono”.

II.3. Protesta di Pio IX pronunciata dinanzi al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede e da esso sottoscritta (Gaeta 14 febbraio 1849)

Questo documento consta di una breve quanto vibrata protesta che il Papa ritenne di dover ufficializzare al Corpo Diplomatico accreditato presso lo Stato Pontificio cinque giorni dopo la proclamazione della Repubblica Romana.
Come tiene a precisare esplicitamente, Pio IX rivendica dinnanzi al mondo, nella sua duplice qualità di “Principe temporale” e (“molto più”) di “Capo e Pontefice della Cattolica Religione”, la legittimità del diritto del temporale Dominio… universalmente riconosciuto da tanti secoli . Non senza risparmiare giudizi gravissimi nei confronti degli autori di quella serie ininterrotta di attentati commessi contro il Dominio temporale degli Stati della Chiesa , bollando la proclamazione della Repubblica Romana come un atto di ingiustizia, ingratitudine, stoltezza e empietà .
E in queste parole, più che nell'invito rivolto ai rappresentanti delle “Potenze e Governi amici della Santa Sede”, che intendiamo soffermarci: vi si legge tutta l'amarezza di un Papa, che subito dopo essere stato incoronato re del suo Stato, ritiene di dover compiere un gesto, che ha del sacramentale, concedendo un'amnistia anche per i reati politici e se ne vede ripagato dagli stessi destinatari di quell'atto di clemenza con proclami e attentati.
Il ritorno su idee meno liberali sembra a questo punto una strada obbligata per il Santo Padre, con la conseguenza che, una volta imboccata, sarà percorsa sino alle ultime, e aggiungiamo logicamente prevedibili, conseguenze.
In questa protesta, al di là dell'invocazione di aiuto alle Potenze amiche, si legge più che altro la delusione di un sovrano, che si riteneva a buon diritto in credito verso una certa parte dei suoi sudditi e che se ne vede ripagato con insurrezioni, moti di rivolta e persino con l'uccisione del suo Primo Ministro.

II.4. Allocuzione ai Cardinali, Quibus Quantisque, partecipanti al Concistoro segreto (Gaeta 20 aprile 1849)

Il 20 aprile del 1849, sempre a Gaeta, Pio IX tiene un'Allocuzione al Sacro Collegio dei Cardinali (allora e a maggior diritto insigniti del titolo di Principi di Santa Romana Chiesa), ritornando con più ampio respiro e con un'analisi molto più allargata sui fatti che stanno sconvolgendo lo Stato Pontificio e quasi tutta l'Italia .
Si scaglia con severità contro la Repubblica Romana: " Chi non sa che la città di Roma, sede principale della Chiesa cattolica è ora divenuta, ahi! una selva di bestie frementi, ridondante di uomini d'ogni nazione, i quali o apostati o eretici, o maestri, come si dicono, del Comunismo o del Socialismo , ed animati dal più terribile odio contro la verità cattolica, sia con la voce, sia con gli scritti, sia in qualsivoglia altro modo si studiano con ogni sforzo d'insegnare e disseminare pestiferi errori di ogni genere, e di corrompere il cuore, e l'animo di tutti, affinché in Roma stessa, se sia possibile, si guasti la santità della religione cattolica, e la irreformabile regola della fede?" [34]
La grande portata di questo documento non è dottrinale (come è il caso, ad esempio, della Qui pluribus e della Quanta Cura ) ma storica, perché costituisce un'analisi retrospettiva e, se così si può dire, un'interpretazione autentica dei primi tre anni di Pontificato di Papa Mastai, dalla sua elezione fino alla Repubblica romana. La Quibus, quantisque rappresenta realmente, come osservò lo Spada, “Il compendio di tutti gli avvenimenti più importanti del Pontificato (nei primi due anni), l'enunciazione delle intenzioni primitive che lo dominarono e degli inganni subiti per opera di un partito ch'egli credette col perdono di correggere e di ammansire” [35] .
Il “partito” che Pio IX si trovò di fronte nel primo biennio del suo Pontificato fu quello che, secondo la nota formula leninista, potrebbe essere definito dei “rivoluzionari di professione”. Essi costituivano a Roma, come negli altri Stati italiani, una minoranza organizzata che, secondo le parole di Luigi Salvatorelli, dirigeva l'agitazione popolare “prendendo occasione dalla concessioni di Pio IX, ingrandendole, cambiandone il significato, facendo pressioni per ottenerne sempre di nuove” [36] . Ciò spiega come fin dalla concessione della amnistia, divampasse attorno al nome di Pio IX, quello che il padre Martina ha definito “l'inizio di un delirio collettivo dell'opinione pubblica” [37] .
Nelle intenzioni del “partito della Rivoluzione”, le riforme pontificie erano fasi per giungere in maniera graduale ma rapida alla sostituzione dello Stato della Chiesa con una “Repubblica romana” che avrebbe dovuto costituire il centro promotore della repubblicanizzazione di tutta la penisola. Questo piano fu evidente a Pio IX fin dalle prime settimane del 1848, come egli stesso ci ricorda nella Quibus quantisque .
L'analisi parte, come punto obbligato, dal provvedimento di clemenza adottato dal Papa nel luglio del 1846 e dalla constatazione di come molti a cui fu largito quel perdono non solo non mutarono affatto il loro pensiero, come Noi speravamo, ma anzi… nulla mai tralasciarono… purché rovesciassero il civile Principato del Romano Pontefice, e… (aggiungendo un fatto o meglio una valutazione del tutto nuova della guerra mossa al Principato temporale del Papa) …. portassero insieme guerra acerbissima alla Nostra santissima Religione . Il duro giudizio si conclude quindi con il qualificare gli autori di una tale guerra come “ nemici di Dio e del genere umano ”.
Ma il Papa, con una sensibilità diremmo mediatica, tiene molto, in questo giudizio, a distinguere evangelicamente le pecore del suo gregge dai lupi, per il singolare affetto verso i sudditi , ai quali però non può non rimproverare il cedimento, malgrado gli avvisi, gli editti… ai pravi desideri ed alle macchinazioni di taluni .
Pio IX non si accontenta di cenni polemici contro tali nemici giurati della Religione: in una sintesi quasi puntigliosa, rappresenta ai Principi della Chiesa, suoi diretti collaboratori nel governo della stessa, i vari passi compiuti per tentare di neutralizzare le opere di suasione dei nemici di Dio , sempre più attivi tra le incaute masse dei popoli . E tra queste iniziative non omette di richiamare la costituzione della Guardia Civica e la creazione della Consulta di Stato.
Più pesante invece appare il richiamo (ma che nel contesto storico può trovare buone giustificazioni) all'avvertimento dato ai suoi sudditi nell'Allocuzione del 10 febbraio del 1847, chiarendo loro la possibilità che innumerevoli figli sarebbero accorsi a difendere la casa del Padre comune dei fedeli, ossia lo Stato della Chiesa .
Ma vi è un passo che appare decisivo per spiegare il ritorno del Papa su posizioni che oggi non esiteremmo a definire “illiberali”; ci si riferisce allo sdegno con cui il Papa ricorda il suo rifiuto alla proposta di proclamare la Repubblica Romana, vedendo in essa (per un comprensibile fenomeno di commistione nella massa dei nemici) il rischio di propagazione e dominazione dell' orribile e fatalissimo sistema del Socialismo, o anche del Comunismo, contrario principalmente al diritto e alla stessa ragione naturale.
Ma ancora più viva (e da questo punto di vista in linea con la perenne e più autentica missione della Chiesa) è l'espressione con cui Pio IX ricorda il suo rifiuto, pur in presenza di un' offerta certamente insidiosissima , di partecipare alla guerra cosiddetta di indipendenza, rifacendosi alla missione ricevuta da Dio di amare con paterno affetto indistintamente tutti i popoli, tutte le genti e le Nazioni, e di procurare, per quanto sta in Noi, la loro salvezza, non già di spingerli alle stragi e alla morte.
Questo passo è di grande importanza perché ci aiuta a far luce sulla celebre allocuzione Non Semel del 29 aprile 1848 [38] con cui Pio IX, rifiutandosi di porsi alla testa della guerra contro l'Austria, ruppe definitivamente con il partito della Rivoluzione.
Molti ritengono che la ragione principale della “svolta” di Pio IX fosse il timore di uno scisma dei cattolici austriaci, ventilato come possibile dal Nunzio a Vienna Viale Prela, dopo lo scoppio della guerra contro l'Austria, promossa da Carlo Alberto il 23 marzo 1848, con la partecipazione di volontari e milizie regolari del pontefice.
Ovviamente sorge il dubbio che tale scelta politica trovasse, al momento, motivazioni più profonde nel desiderio di non inimicarsi una potenza tradizionalmente “amica”. Dubbio se vogliamo legittimo, ma che a nostro avviso nulla toglie alla riaffermazione del principio.
Ma il Papa non dimentica – e il suo ruolo di sovrano glielo impone – che gli competono anche oneri di governo, tra i quali il mantenimento dell'ordine pubblico, turbato dai disordini provocati dai facinorosi, e pertanto si sente in obbligo di ricordare ai Cardinali di aver adempiuto anche a tale incombenza richiamando a Roma i Reggimenti Svizzeri.
Ma ancora una volta si deve sottolineare l'equivoco, evidente per noi ma non altrettanto percepibile per i contemporanei del Pontefice, tra la natura spirituale della Chiesa e le esigenze proprie di un governo laico: la commistione è tale da ingenerare, oggi, un disagio tanto più eloquente quanto maggiore appare lo stridore tra il riportare a Cristo Signore l'affidamento della cura e del governo di tutta la Chiesa e il voler condizionare tale compito all'esistenza e al mantenimento di un civile principato . Sottile peraltro appare la giustificazione che di tale esigenza fornisce Pio IX, quando si domanda: “ …con quale mai fiducia e rispetto riceverebbero le esortazioni, gli ordini, le disposizioni del Sommo Pontefice sapendolo soggetto all'impero di qualsiasi Principe o Governo? ”… ma nella natura retorica della domanda è agevole scoprire le tracce di un sottile sofisma: Pio IX è indotto a tale conclusione perché vuole sottolineare e confermare l'esigenza di una sovranità territoriale, non necessariamente richiesta per lo svolgimento della missione della cura e del governo della Chiesa : se così non fosse infatti, prima della “donazione di Sutri” non ci sarebbero stati cura e governo della Chiesa…
Ma al di là di questi tentativi di dare fondamento storico-giuridico alla “necessità” di uno “Stato Pontificio”, quello che qui conta evidenziare è il grande dramma che sconvolge il Pontefice nell'assistere impotente agli attacchi violentissimi, o, come egli si esprime, alle gravi ferite nello stesso Stato Pontificio dalle quali sia ora trafitta l'immacolata sposa di Cristo, nonché da quali ceppi, da quale vivissima schiavitù venga sempre oppressa e da quante angustie sia travagliato il suo Capo visibile .
E la gravità di tale dramma, che sembra assurgere a dramma di coscienza di un Papa, spinge Pio IX a muoversi sul campo internazionale chiedendo a Principi e popoli, anche non congiunti a Noi per vincolo di unità cattolica , … aiuto e soccorso. E non si esime dal ricordare espressamente l'aiuto richiesto all'Austria ( confinante a settentrione col Nostro Stato ), alla Francia ( alla quale portiamo singolare affetto e benevolenza ), alla Spagna ( assai premurosa e sollecita delle Nostre afflizioni ) e al Regno delle Due Sicilie ( dove siamo ospiti presso il Re… che tanto rifulge per religione e pietà… ). È un tessuto di trame internazionali che viene in evidenza, mirante a garantire o a consolidare patti di assistenza e di difesa, in nome della Religione cattolica, minacciata non solo dagli attacchi laicistici ma anche e di più dall'attacco portato al cuore del Potere temporale.
Ma nella mente del Pontefice non poteva certo non prospettarsi in tutta la sua evidenza la fragilità del tessuto di alleanze e di accordi: in un'Europa, in cui le alleanze (triplici o sante che fossero) mutavano e si trasformavano con rapidità impressionante, è impensabile che Pio IX non si fosse già accorto che l'evolversi del tempo avrebbe condotto prima o poi all'isolamento politico dello Stato Pontificio e che i pochi zuavi francesi e ancor meno i reggimenti svizzeri non avrebbero certo costituito un ostacolo insuperabile per l'esercito piemontese o per le camicie rosse di Garibaldi.
Ma per il momento le contingenze lo portavano a individuare solo un nemico interno al suo Stato, anche se per la descritta quanto inevitabile commistione dottrinale, il nemico politico viene giudicato e condannato come nemico della Fede, alla stregua di un torrente di tanti vizi ed errori .

II.5. Lettera ai Vescovi - “Noscitis et Nobiscum”(Portici 8 dicembre 1849)

La lettera dell'8 dicembre 1849 viene “data” a Napoli, dal sobborgo di Portici e trasmessa ai Vescovi dopo che la città di Roma e le altre province dello Stato Pontificio," la mercé di Dio, e per l'opera delle Nazioni Cattoliche siano state ridonate al civile Nostro reggimento, e i tumulti delle guerre cessati siano anche nelle altre regioni d'Italia".
Questo documento ha necessariamente un taglio ben diverso dai precedenti; esso infatti si apre con il rappresentare un quadro di ordine e di pace ristabilita. I vescovi, destinatari della lettera, non sono i Principi di Santa Romana Chiesa direttamente coinvolti nella gestione anche temporale dello Stato Pontificio e la loro dislocazione spesso in sedi molto lontane da Roma, non ha certamente agevolato una cognizione precisa dei fatti. D'altro canto la natura dei temi, che stanno a cuore del Santo Padre, una volta ristabilito l'ordine temporale, ritorna nei suoi alvei più naturali e consoni alla missione del Pontefice, Pastore del gregge ecclesiale
Il tono pertanto si fa più pacato (anche se non mancano espressioni dure nei confronti degli errori che si vanno a denunciare), la veste del discorso si svolge con analisi più compiuta, naturale prodotto di una serenità politica riacquistata.
Con tale spirito Pio IX, nell'espletamento del suo supremo magistero ritiene di dover richiamare l'attenzione e la cura dei Presuli su alcuni pericoli che mirano a infonder negli animi degli Italiani …astuti né sempre occulti artifici contro la Religione Cattolica.
La rassegna di tali tentativi e degli errori che vi si annidano è ampia e dettagliata.
Si inizia con il rappresentare la diceria, diffusa ad arte, secondo cui la Religione Cattolica si oppone alla gloria, alla grandezza, alla prosperità dell' Italia e quindi" essere di mestieri che le riunioni protestantiche s'introducano, si stabiliscano e si propaghino, affinché essa ricuperar possa l'antico splendore, quello cioè dell'età pagana".
Anche in questo prologo si rileva lo sfondo politico del quadro che il Pontefice va delineando: la contrapposizione tra l'Italia e lo Stato Pontificio viene ancora prospettata come contrasto di fede, aggravato dal diffondersi di tesi protestanti .
Tale premessa però offre il destro al Pontefice per un excursus storico, che partendo dalla caduta dell'Impero Romano evidenzia come sia stata la vera Fede unita al singolare privilegio di possedere la Sede Apostolica , a salvaguardare l'Italia e a farla passare indenne nell'arco dei secoli dalle sorti patite invece da altri popoli ( Assiri, Medi, Persiani e Macedoni ). Da ciò nasce un debito di riconoscenza dell'Italia per tanti capi della sua salute, felicità e grandezza .
Questo sentimento di riconoscenza pertanto impone agli italiani di guardarsi con cura dal sovvertimento dell'ordine delle cose , che rischia poi di condurli ad abbracciare gli scellerati sistemi del nuovo socialismo e comunismo , le cui origini Pio IX non esita a ricollegare a quel principio, sì solenne tra le dottrine dei Protestanti, che tutti hanno diritto d'interpretare a lor senno le Divine Scritture .
In questo modo il Papa completa il quadro dei pericoli che incombono sull'Italia: socialismo e comunismo, gemmati da principi in auge nel protestantesimo. Il suo appello ai Vescovi prosegue quindi con l'invito a diligentemente ammaestrare… i fedeli commessi alle vostre cure .
Meritevole di particolare attenzione è la prospettazione (si ritiene per la prima volta nella storia della Chiesa) del pericolo che nasce dalla diffusione a mezzo della arte tipografica di menzogne, di calunnie e di seduzioni. La preoccupazione pastorale del Pontefice appare peraltro giustificata in primo luogo alla diffusione di Sacre Bibbie traslate in lingua volgare, corrotte e con sacrilego ardimento pessimamente interpretate ; segue quindi l'invito ad allontanare la peste dei cattivi libri , infondendo nei fedeli un grande amore, venerazione e rispetto per questa Sede Apostolica .
Ma l'attacco più duro del Pontefice è diretto contro i nemici di Dio e dell'umana società che mirano ad affievolire e distruggere nel cuore degl'Italiani l'ossequio che portano a Noi e alla Santa Sede .
L'individuazione di tali nemici è netta e precisa: si tratta di coloro che mirano a diffondere e a rendere familiari nel popolo le stolte e pericolose invenzioni del comunismo e del socialismo , di quelli cioè, (subito definiti «maestri del comunismo e del socialismo») , che a mezzo di sofismi e di vane promesse di più felici condizioni, mirano a ingannare, agitare di continue scosse gli operai e le altre persone di basso stato, e a… valersi dell'opera loro per invadere, manomettere, dilapidare, le proprietà, in prima della Chiesa, e poscia di qualsivoglia altro legittimo possessore .
L'esame delle condizioni dei poveri in Italia prosegue con prospettazioni, oggi difficilmente condivisibili, specie alla luce delle conquiste sociali e del riconoscimento dei diritti di ogni singolo cittadino, cui lo stesso Papato (si pensi alla «Rerum Novarum») ha fortemente contribuito negli anni successivi…; ma sono conquiste dei tempi, frutto di movimenti, talvolta violenti, ma che, anche per l'alto prezzo pagato, oggi sembrano pacifiche per lo meno in linea di principio, anche se disattese nel quotidiano, ma che a metà del secolo XIX non potevano avere, neanche agli occhi di un Papa, quella valenza che oggi viene universalmente riconosciuta.
Sarebbe oggi difficile trovare negli atti apostolici o nei discorsi di Papa Giovanni Paolo II, frasi del tipo “ Del resto i nostri poverelli… si ricordino che non debbono rattristarsi della loro sorte: poiché lo stesso stato dell'indigenza dischiude loro una via più facile per procacciare la salute, ove essi sopportino di buon animo la povertà… »
D'altro canto Pio IX, da Buon Pastore, preoccupato anche delle defezioni di alcune persone Ecclesiastiche , non tralascia di raccomandare ai vescovi di vigilare molto attentamente nella scelta della Milizia Ecclesiastica .
Ma la parte, vorremmo dire più paterna, della Lettera è dedicata alla cura e all'attenzione da dedicare all' istruzione e l'allevamento dei fanciulli di ambedue i sessi , mettendo in guardia dalle strategie degli odierni nemici della Religione e dell'umana società , che mirano a pervertire dal primo fiore degli anni le menti e i cuori dei giovani.

II.6. Riflessione conclusiva sui quattro documenti analizzati

I quattro documenti, accomunati dal fatto che sono scritti in un periodo travagliatissimo della vita di Pio IX e della Chiesa, sono stati “dati”, come si precisa nel lessico tradizionale della Curia Romana, non dal Vaticano ma dall'«esilio», anche se per l'ultima tale esilio era di fatto venuto meno.
Nella loro successione sono chiari ed evidenti i diversi stati d'animo del Pontefice e il differente livello di intensità emotiva che colora contenuti e forma degli atti.
Nel primo, il Pontefice esprime con chiarezza la sua profonda amarezza per i fatti appena accaduti, e si dichiara lontano da alcuna possibilità di conciliazione.
Nel secondo, che, per i destinatari (“ … degni rappresentanti delle Potenze e Governi amici della Santa Sede ”), ai quali era diretto esigeva toni efficaci nella loro concisione e nell'esposizione dei fatti cui viene affidato il peso delle “accuse” con le conseguenti logiche richieste, è evidente lo sforzo del giovane Papa di mantenersi entro le righe di un linguaggio che alla diplomazia unisca l'efficacia della rappresentazione di misfatti e spoliazioni chiaramente illegittime.
Nel terzo, diretto ai suoi principali collaboratori nel governo dello Stato della Chiesa, trova di contro libero sfogo l'amarezza del Sovrano, che non risparmia parole di forte condanna contro gli autori (già da lui beneficati con l'amnistia) di tanta nefandezza; in essi il Papa vede i nemici non solo della sovranità temporale della Chiesa ma, per dare maggior forza al suo ministero pastorale, anche della Religione, accomunati da un unico disegno sovversivo. L'Allocuzione è in tal modo la più eloquente rappresentazione dello stato d'animo di Pio IX, amareggiato, offeso, deluso e nello stesso tempo preoccupato per la sorte dello Stato di cui è Sovrano e della Chiesa di cui è supremo Pastore. Nello stesso tempo è agevole riconoscere in tale documento la ferma volontà di Papa Mastai di ripensare, per modificarli radicalmente, sui suoi primi giudizi positivi di quel movimento liberale, che tanto fascino aveva esercitato in lui con le prime letture del d'Azeglio e del Gioberti. I suoi atti di accusa, articolati con sapiente tempismo e con un linguaggio quasi forense, lasciano poco spazio a interpretazioni benevole.
Le valutazioni e i giudizi risentono ovviamente del tempo e del contesto storico oltre che dello stato d'animo di un Re spodestato con la violenza; le condanne che ne conseguono sono dure e non lasciano spazi ad attenuanti di nessun genere, se si eccettua il ricordo delle parole del Salvatore sulla croce.
Con l'ultima lettera, il Papa torna, pur se con qualche digressione, ad un compito più decisamente pastorale e didattico. Il Papa, recuperata l'integrità dello Stato, è libero di dedicarsi a quella missione più propria di maestro di fede e di costumi. Ma la contiguità temporale con i gravi affronti subiti non consente al Pontefice un'esposizione dei pericoli incombenti sulla fede del suo gregge non disgiunta dal ricordo delle trame ordite a suo danno dai “nemici di Dio e del genere umano”.
È8 oltremodo agevole per noi del XXI secolo guardare con occhio quasi incredulo a tali vicende, meravigliati che il Capo della Chiesa Universale abbia affrontato gli eventi con quelle reazioni che non esiteremmo a definire emotive. L'evoluzione del pensiero e dei principi (ricordiamo per tutti il concetto di “ libera Chiesa in libero Stato ”), la supremazia data dalla Chiesa stessa a valori di stretta attinenza al mondo dello spirito… hanno segnato nella nostra mente dei parametri che ci consentono oggi valutazioni del tutto diverse da quelle possibili nel 1849 ad un Papa-Re, che in violazione di ogni principio di diritto, veniva spogliato delle sue prerogative sovrane, dei suoi territori per essere relegato e considerato (e tale situazione si protrarrà sino al Concordato del 1929) prigioniero in casa sua .
Nessun dubbio può oggettivamente porsi sull'illegittimità sia della costituzione della Repubblica Romana, sia della successiva conquista sabauda nel 1870: la scomunica papale che ne seguì non fu solo un atto canonico ma assunse e mantenne per decenni in una grande fascia del cattolicesimo italiano un peso politico di rilevanza nazionale.
Anche qui, nel ricordare a noi stessi che la storia è scritta sempre dai vincitori, non possiamo non rendere omaggio al coraggio di un Papa, che con ogni mezzo volle far fronte al sopruso che si apprestavano a arrecargli, senza cedere sui diritti e sulla dignità che gliene derivava nella sua duplice qualità di Sovrano e di Pontefice.

II.7. Atteggiamento di Pio IX verso la Repubblica Romana

La tesi largamente maggioritaria, circa l'atteggiamento di Pio IX verso la Repubblica Romana, è che il papa Mastai non abbia compreso l'ideale posizione della Chiesa in ordine alla questione politica italiana.
A ciò sarebbe stato indotto da carenze di spirito profetico, di lume teologico, di senso storico e politico, nonché da superficialità, emotività ed instabilità caratteriale.
E' chiaro che un giudizio equo sul rapporto Pio IX e Repubblica Romana e quindi l'intera questione risorgimentale, non può venire dall'interno delle posizioni ideologiche.
Su questo piano e data l'antiteticità della concezione cattolica della Chiesa e della concezione liberale-illuministico della religione e dello Stato, non può ottenersi altro che il rifiuto, da parte cattolica, della soluzione storica della questione romana e successivamente italiana (compresa Roma capitale), e, da parte dei liberali, del comportamento di Pio IX.
Per i liberali illuministi le religioni sono tutte riconducibili esclusivamente alla cultura (nessuna Rivelazione) e valutabili culturalmente; sono tutte "affare privato o di coscienza" senza rilevanza e incidenza sul civile-pubblico; lo Stato è detentore e fonte di ogni diritto. Per i cattolici la Chiesa è società perfetta e autonoma (dallo Stato), d'istituzione e costituzione divina (rivelata), con giurisdizione anche sui campi civili-pubblici (matrimonio, scuola, famiglia. . . ).
Per capire e giudicare obiettivamente, senza pregiudizio, le due posizioni in ordine alla questione di Roma e dell'Italia, bisogna stare sul piano storico documentale, e tener conto di alcuni dati.
Era legittima l'aspirazione del Risorgimento all'unità politica degli Stati italiani. Era diversa la via proposta da Repubblicani, Federalisti, annessionisti (al Piemonte).Si possono individuare alcune correnti ideologiche, che caratterizzavano quegli anni;
Corrente Democratica Repubblicana Unitaria; Mazzini ne fu l'animatore, il suo programma mirava a realizzare l'Italia una, indipendente, liberale e repubblicana.Tale obbiettivo andava perseguito attraverso la rivoluzione nazionale, la partecipazione delle masse popolari e la solidarietà tra le classi sociali.
Corrente Democratica Repubblicana Federalista; Cattaneo, liberale e Ferrari, socialista si fecero sostenitori, seguendo il federalismo, della conservazione dei costumi, valori e libertà delle diverse regioni che sarebbero andate formando lo Stato Italiano. L'Italia sarebbe divenuta una federazione di repubbliche fondate sulla sovranità popolare e sull'egualianza sociale.
Corrente Moderata Neoguelfa; ispiratore di questa tendenza fu Vincenzo Gioberti che nel "Primato morale e civile degli Italiani" propose di mettere il Papa a capo di una Confederazione di stati Italiani
Corrente Moderata Neoghibellina; tale tendenza ebbe scarso rilievo; fu promossa da Cesare Balbo autore de "Le Speranze d'Italia" in cui prospettava una federazione di stati guidati dalla monarchia sabauda.
Corrente Moderata Cattolico Liberale; ne facevano parte tutti coloro che volevano riforme e non rivoluzioni; questo orientamento mirava ad evitare il sollevamento popolare, e ad affrontare il problema dell'unificazione sul piano culturale e dell'educazione, era dunque necessario informare l'opinione pubblica del problema risorgimentale.
Tutti, anche i cattolici, pensavano alla fine dello Stato pontificio come era stato gestito sino ad allora; ma la maggioranza dei cattolici, federalisti e/o annessionisti, riteneva che dovesse rimanere garantita -preferibilmente a livello internazionale - l'indipendenza del magistero e ministero Papale.
Lo Stato pontificio era legittimo almeno quanto quello di Toscana, delle Due Sicilie, del Lombardo Veneto (Austria), del Piemonte.
Quanto alla "sovranità popolare" secondo cui avrebbe dovuto decidersi il regime politico di uno Stato, si nota che essa è stata tirata in ballo ad uso e consumo dei vari attori della scena politica; essa serviva solo per giustificare l'annessione degli Stati italiani al Piemonte, con plebisciti a suffragio ristretto e predeterminato.
La sovranità fu "del popolo", solo nel senso ideale.
Pio IX era il sovrano legittimo dello Stato della Chiesa; ma Pio IX era anche, e soprattutto, il Papa della intera e universale Chiesa Cattolica, e questo titolo, non poteva essere, semplicemente, messo nello stesso "piano politico" di un Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II, (di un Cavour, di un Garibaldi e di un Mazzini), di un Leopoldo II di Toscana, di un Ferdinando II delle Due Sicilie.
Roma rappresentava non solo una città con la sua concreta realtà ma una Idea, un ideale universale. Mazzini lo dice a chiare lettere: a chi dice «Roma è dei Romani» bisogna rispondere: «No; Roma non è dei Romani: Roma è dell'Italia: Roma è nostra perché noi siamo suoi. Roma è del Dovere, della Missione, dell'Avvenire». «I Romani che non lo intendono non sono degni del nome». [39]
Nello scritto redatto per la proclamazione della Repubblica Romana, Mazzini proclama: «Roma, la Santa, l'Eterna Roma, ha parlato…Noi vogliamo porre a capo del nostro edifizio sociale i migliori per senno e per core, il Genio e la Virtù». «Mazzini era tutto, regolava tutto. Egli era in trono; Papa, re, negoziatore, legislatore, cospiratore supremo, e tutto e tutti ai suoi ordini obbedivano», racconta lo storico romano contemporaneo Paolo Mencacci.I rivoluzionari dell'Ottocento sono assolutamente certi di avere ragione. Scrivendo nel lontano 1832 Mazzini esprime bene questa convinzione: «Le rivoluzioni, generalmente parlando, non si difendono che assalendo [...] se non è guerra d'eccidio, se non è guerra rivoluzionaria, guerra disperata, cittadina, popolare, energica, forte di tutti i mezzi, che la natura somministra allo schiavo del cannone al pugnale, cadrete e vilmente!». [40]
Pio IX, da Gaeta dove è fuggito, descrive la situazione romana in termini drammatici. I rivoluzionari, ricorda, sbandierano ai quattro venti di volere la libertà per tutti e in particolare per la Chiesa. Ebbene, commenta, questi sono i fatti: è impedita al pontefice ogni tipo di comunicazione vuoi col clero, vuoi con i vescovi, vuoi con i fedeli di Roma; la città si riempie di uomini (apostati, eretici, comunisti e socialisti, come si definiscono) provenienti da tutto il mondo pieni di odio nei confronti della Chiesa; i liberali si impossessano di tutti i beni, redditi e possedimenti ecclesiastici; le chiese sono spogliate dei loro ornamenti; gli edifici religiosi dedicati ad altri usi; le monache maltrattate; i religiosi assaliti, imprigionati ed uccisi; i pastori separati dal proprio gregge ed incarcerati. Questa la libertà che viene realizzata. Le società segrete, prosegue Pio IX, non si limitano a perseguitare la Chiesa, mettono in pericolo l'ordine e la prosperità della società civile: l'erario pubblico è dissipato e ridotto a nulla; il commercio interrotto e quasi inesistente; i privati derubati dei loro beni da coloro che si definiscono guide della popolazione; la libertà e la stessa vita di tutti i sudditi fedeli messa in pericolo. Il Papa mette in guardia i Cattolici: il vero fine delle società segrete (che non esitano a utilizzare a questo scopo lo stesso nome di Cristo) è la totale distruzione della Chiesa cattolica.Non si può dire che i rivoluzionari accorsi a Roma da ogni dove,e duramente condannati dal Papa, godano dell'appoggio della popolazione;leggiamo quanto scrive Luigi Carlo Farini, personaggio di primo piano del mondo liberale e futuro presidente del Consiglio. In Lo stato romano dall'anno 1814 al 1850 Farini scrive: «Fra gli inni di libertà, e gli auguri di fratellanza erano violati i domicili, violate le proprietà; qual cittadino nella persona, qual era nella roba offeso, e le requisizioni dei metalli preziosi divenivano esca a ladronecci, e pretesto a rapinerie».
Anche nelle campagne la situazione è molto complessa, e non si trova un forte e ben delineato sostegno alla causa repubblicana.
Le Memorie di Garibaldi tracciano un quadro inquietante;.scappando da Roma dopo l'intervento delle truppe francesi che riportano Pio IX in città, il generale così descrive l'accoglienza della popolazione: «Mossomi da Tivoli verso tramontana per gettarmi tra popolazioni energiche e suscitarne il patriottismo, non solo non mi fu possibile riunire un sol uomo, ma ogni notte [...] disertavano coloro che mi avean seguito da Roma» [41] .I rivoluzionari che disertavano, si ritrovavano sbandati e senza guida: «I gruppi di disertori si scioglievan sfrenati per le campagne e commettevano violenze d'ogni specie». [42]

II.8. Il mito del papa liberale.

Quando il cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti salì al soglio pontificio, la sua fama di uomo riflessivo, moderatore e conciliante scatenò le speranze dei contemporanei e contribuì a creare una mitologia sul patriottismo del nuovo Papa e la sua adesione sostanziale alla causa non solo unitaria ma anche liberale.
Il mito del "papa liberale" venne incrementato facendo leva sulla tradizionale amnistia per i prigionieri politici che papa Mastai, sull'esempio dei predecessori, concesse non appena eletto, nonché sull'adozione di talune significative riforme alle quali il nuovo pontefice mise mano fin dall'inizio del pontificato.
Basta rileggere il testo della menzionata enciclica programmatica Qui pluribus , del 9 novembre 1846, per rendersi conto del fatto che sul piano dottrinale e filosofico Pio IX non poteva essere avvicinato né tantomeno assimilato ai liberali e che, quindi, tanto i gesti di clemenza quanto la politica di riforma dello Stato pontificio non erano affatto riconducibili a presunte simpatie per le "nuove idee". Come osserva Aubert " Pio IX non intendeva dunque in nessun modo accettare i princìpi del liberalismo, e anche nelle loro applicazioni politiche era deciso a muoversi con la più grande prudenza " [43] .
Il tentativo di coinvolgere il Papa nel movimento nazionale sembrò ricevere nuovo impulso dalla allocuzione del 10 febbraio 1848, nel corso della quale, dopo aver ricordato come la vera forza che nei tempi antichi delle grandi invasioni aveva scongiurato l'annientamento completo della civiltà era stata quella derivante dalla grandezza spirituale di Roma cristiana, pronunciò la celebre frase " Benedite, dunque, o grande Iddio, l'Italia, e conservatele questo dono, il più prezioso di tutti, la fede! ". A rafforzare l'immagine erano altresì i noti sentimenti di genuina "italianità" di Pio IX, così come la decisione dello Stato pontificio di inviare, a fianco dei piemontesi e degli altri Stati italiani, un contingente di settemila soldati agli ordini del generale Durando quando iniziò la prima guerra d'indipendenza.
Mazzini, decide di puntare sul nome di Pio IX per il rilancio del programma risorgimentale e chiede al Papa di porsi alla testa del movimento unitario e riformatore: "Vi chiamo, dopo tanti secoli di dubbio e di corruttela, ad essere apostolo dell'Eterno Vero [...]. Siate credente. Aborrite dall'essere re, politico, uomo di Stato [...]. Annunciate un'Era: dichiarate che l'Umanità è sacra e figlia di Dio; che quanti violano i suoi diritti al progresso, all'associazione sono sulla via dell'errore [...]. Unificate l'Italia, la patria Vostra [...]. Noi Vi faremo sorgere intorno una Nazione al cui sviluppo libero, popolare, Voi, vivendo, presiederete" [44] . Iniziarono a comparire le scritte "viva Pio IX" tracciate dagli insorti, il nome del Papa divenne un simbolo, uno slogan: "La Rivoluzione, rinnovando la tentazione del demonio a Gesù nel deserto, giungerà a chiedere al vicario di Cristo l'apostasia, offrendo il compenso della popolarità e del successo mondano. Pio IX rifiuterà ogni lusinga, scegliendo la via della croce" [45] .
Lo storico liberale Luigi Salvatorelli svela con estrema franchezza l'uso strumentale che del papa la propaganda degli attivisti liberali intese fare: " L'opera positiva, cosciente non fu la sua, ma dell'agitazione popolare e di chi la dirigeva, prendendo occasione dalle concessioni di Pio IX, ingrandendole, cambiandone il significato, facendo pressioni per ottenerne sempre di nuove. [...] Il Risorgimento si è fatto contro il papato e non poteva farsi diversamente: e in questo senso hanno concorso anche quegli elementi credenti cattolici che vi hanno partecipato effettivamente. La contraddizione non era di un uomo, né poteva cancellarsi per opera di un uomo: era nell'istituto, nell'idea " [46] .
Pio IX non poteva però naturalmente acconsentire, come capo spirituale di tutti i cattolici, ad essere utilizzato da chi intendeva edificare lo Stato unitario su presupposti ostili alla comune fede delle genti italiane, né poteva porsi a capo di un movimento politico che richiedeva la dichiarazione di guerra ad altri Stati cattolici, come nel caso dell'Austria.
La mitologia del "Papa liberale" era quindi destinata a sgonfiarsi ben presto, come puntualmente avvenne con l'allocuzione concistoriale del 29 aprile 1848, allorché Pio IX dichiarò: " Errano dunque grandemente coloro i quali ritengono che il Nostro animo possa essere lusingato dall'ambizione di più largo temporale dominio, al punto che Noi Ci gettiamo in mezzo ai tumulti delle armi " [47] .
A Pio IX non premeva la conservazione dello Stato pontificio in quanto tale, bensì la libertà ed indipendenza del Papato. Questa, dai conservatori intransigenti (i Cardinali Gizzi e Lambruschini, i Gesuiti della Civiltà Cattolica), si considerava garantita soltanto dalla indipendenza dello Stato pontificio, perciò irrinunciabile; i conservatori moderati e i cattolici liberali, erano invece più aperti alla riflessione, ma sempre autonomamente da ogni tipo di forma di governo.
Pio IX si lasciava informare e consigliare dalle diverse parti (Antonelli, Corboli Bussi, Rosmini). ascoltava, rifletteva e poi (anche a costo di contrariare qualcuno, come Rosmini che pure stimava tanto) assumeva posizioni, che non raramente erano originali: quelle che gli imponeva la sua coscienza ed il suo ministero di Pastore e Capo della Chiesa universale, ruolo e responsabilità - anche sulla questione romana - ben diversi da quelli dei suoi consiglieri.
Pio IX rivendicava il diritto degli Italiani ad una loro nazionalità libera e indipendente; declinava la presidenza della confederazione degli Stati italiani perchè dannosa all'Italia e perchè la santa Sede non aveva l'intenzione di dilatare i suoi temporali domini.
Affermava i suoi diritti sovrani, la necessità ed inalienabilità dello Stato della Chiesa, ma come condizione provvidenziale storica, dell'indipendenza del Papato nell'esercizio del suo magistero e ministero spirituale;
Ricusava inoltre la definizione dogmatica della necessità assoluta del dominio temporale e questo risulta evidente dal proseguo del suo pontificato;
L'indipendenza politica è per lui garanzia, alla sovranità spirituale,e la denuncia dell'usurpazione dello stato della Chiesa dopo l'arrivo a Gaeta,manifestava più che una irrealistica speranza che ciò non avesse sviluppi nella storia futura del potere temporale, un richiamo alle grandi Potenze garanti del congresso di Vienna affinché intervenissero a sancire l'irrinunciabile indipendenza spirituale del Papato.
Queste considerazioni,diverse da quelle dei suoi consiglieri e dei teorici conservatori e liberali, mostrano la lucidità teologica e politica di Pio IX durante il suo soggiorno in Gaeta e il suo desiderio di operare per il bene della Chiesa e della società civile.Anche in questo senso si può leggere l'idea della condanna dei principali errori del tempo che era maturata durante i mesi di Gaeta.
Proprio nel 1849, l'arcivescovo di Perugia card. Gioacchino Pecci (il futuro Leone XIII), aveva suggerito alla Santa Sede l'opportunità di un intervento insieme dottrinale e pastorale, diretto a mettere in guardia i cattolici dalla pericolosità, filosofica e pratica, delle idee che si stavano affermando, come il più significativo e rilevante elemento della modernità .
L'idea venne accolta con favore da Pio IX , che appena tornato da Gaeta dette incarico al card. Fornari di avviare allo scopo consultazioni riservate con personalità di spicco del mondo cattolico,ecclesiastici e laici;era aperta la strada verso il Sillabo.



Conclusioni

Pio IX era personalmente convinto che la Chiesa era ormai entrata in un'altra fase della storia e vi si adeguò.
Un Pontefice che non avesse avuto una grande lucidità mentale e una chiara coscienza della sua missione, non avrebbe retto all'urto della storia.
La Carità lo spinse a comprendere la necessità delle riforme. Le attuò con decisione. Con altrettanta determinazione si oppose al partito della rivoluzione.
Egli comprese in particolare la differenza tra riforme e rivoluzione..
Le riforme possono talvolta condurre alla rivoluzione, ma sono atti di qualità e di natura diversa da questa. Le riforme si situano all'interno di un sistema che vogliono migliorare, la rivoluzione si situa all'esterno di un ordine che vuole distruggere. La rivoluzione spesso si serve della maschera delle riforme per attecchire e Pio IX visse drammaticamente il contrasto che all'interno del suo Stato si aprì tra le riforme e la rivoluzione
Un certo cliché storiografico vorrebbe contrapporre nel Pontificato di Pio IX due momenti: quello delle «riforme» e quello della «rivoluzione autoritaria». Nella prima fase, quella del biennio 1846-1848, tra l'elezione al Pontificato e la fuga a Gaeta, Papa Mastai appare come sovrano liberale e illuminato, campione del risorgimento incipiente. Nella seconda fase, il trentennio autoritario, egli sarebbe colpevole non solo di aver «tradito» la causa delle riforme e del risorgimento, ma di aver gettato, con il Sillabo e il Concilio Vaticano I, le basi di una concezione monolitica e accentratrice della Chiesa e della società.
Diversa si presenta la realtà allo storico che voglia indagare il Pontificato piano con obiettività e serenità di giudizio.
Sul fatto che Pio IX aprì il suo pontificato con una serie di rilevanti riforme politiche e sociali, non esiste dubbio. Tra la amnistia ai detenuti e agli esuli politici del 16 luglio 1846, primo atto del Pontificato, e la concessione dello Statuto fondamentale per il governo temporale degli Stati della Chiesa, il 14 marzo 1848, si situano l'introduzione del Comitato per la riforma della pubblica amministrazione, la creazione della Consulta per la revisione della procedura e del codice, l'istituzione della Consulta di Stato, costituita da due corpi legislativi elettivi, la concessione di una più ampia libertà di stampa, e così via, senza dimenticare la demolizione delle porte del Ghetto di Roma, il 17 aprile 1848. Tali provvedimenti, nelle intenzioni del Pontefice, erano motivati da un sincero desiderio di migliorare le condizioni materiali e morali dei suoi Stati, accogliendo le istanze politiche e sociali che da più parti gli venivano rivolte. Quando, l'8 settembre 1847, Giuseppe Mazzini invitava Pio IX a mettersi alla testa del moto risorgimentale, annunciando un'era in cui « l'Umanità è sacra e figlia di Dio » [48] , prefigurava quel momento della sostituzione della religione cristiana con quella mazziniana che egli stesso giudicò giunto assumendo il 29 marzo 1849 la carica di triumviro della Repubblica.
Pio IX, da parte sua, si rese ben presto conto di come il partito della rivoluzione tentasse di dare un indebito significato ideologico alle sue riforme, snaturandone l'essenza. Le riforme erano provvedimenti concreti, privi, nelle intenzioni del Pontefice, di significato politico; la rivoluzione si presentava invece come un principio, o meglio come un'ideologia, opposta, in radice, alla concezione cristiana dell'uomo e della società. Nella visione cristiana infatti, l'uomo, vulnerato dal peccato originale, necessita per raggiungere il suo fine, che è eminentemente soprannaturale, della Redenzione di Cristo e dell'opera della Chiesa. L'ideologia rivoluzionaria, al contrario, negava, con il peccato, la missione salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa, postulando la autoredenzione dell'umanità sul piano politico e sociale.
Pio IX avvertì come gli attacchi al potere temporale della Chiesa rientrassero in questa prospettiva. All'indomani della costituzione del Regno d'Italia, nella enciclica Jamdudum cernimus, del 18 marzo 1861, egli affermava che l'offensiva contro il Pontificato romano mirava non solo ad espropriare il Pontefice del suo principato civile, ma a dissolvere, se possibile, ogni influenza della Religione sulla società, «e perciò anche l'opera stessa di Dio, il frutto della Redenzione e quella santissima fede che è la preziosissima eredità a noi pervenuta dall'ineffabile sacrificio consumato sul Golgota». La difesa del potere temporale coincise per lui con la lotta contro quel processo di secolarizzazione e di immanentizzazione della società che secondo Augusto Del Noce avrebbe caratterizzato la storia d'Italia, "coprendo nel secolo successivo all'unificazione, realtà politiche diverse come il risorgimento, il fascismo, l'antifascismo" [49] .
Pio IX considerò, non a torto «traditori» delle riforme quei «rivoluzionari di professione» che si erano fatti schermo di esse per perseguire ben altri fini, ma non rinunciò al suo programma. Ciò è dimostrato dal fatto che con la restaurazione pontificia del 1850, la sua opera riformatrice non si arrestò, ma conobbe nuovo impulso. Nel trentennio successivo alla Repubblica romana, valendosi della collaborazione del Cardinale Antonelli, suo Segretario di Stato, il Pontificato sviluppò infatti una vigorosa politica di riforme nel campo amministrativo e sociale. Anche nel settore industriale, nel campo meccanico, tessile, chimico e cementifero, offrendo lavoro a migliaia di lavoratori, senza che mai sorgesse, come negli altri paesi industriali, una «questione operaia». La sensibilità sociale di Pio IX si manifestò in particolare nel settore della giustizia, dell'educazione e della assistenza caritativa e ospedaliera. "Le cifre relative al complessivo numero di letti e di ammalati a Roma, alla metà del secolo, variano nelle fonti, ma arrivano a circa cinquemila, con una proporzione di circa tre per cento per abitante" [50] .
Queste riforme si accompagneranno a un rinnovamento culturale, morale e religioso, che alla metà del secolo, pose lo Stato pontificio all'avanguardia tra gli Stati europei, accompagnandosi ad un'opera di rinnovamento spirituale che si tradusse da una parte in una poderosa azione missionaria e dall'altra in una ferma condanna degli errori religiosi e morali del tempo (Roberto de Mattei, Pio IX, Piemme, Casale Monferrato 2000, pp. 67-73).
Non bisogna separare, in Pio IX, il Sovrano temporale dal Pontefice, l'opera politica da quella religiosa e morale. Papa Mastai intese politica e morale come realtà distinte ma non separate e contrapposte, come voleva l'ideologia risorgimentale. Nel separatismo liberale egli intravide anzi quella divaricazione tra politica e morale che sarebbe stata all'origine delle grandi catastrofi totalitarie del secolo XX. È in questa prospettiva che a mio avviso occorre considerare l'opera riformatrice di Pio IX che, non perse vigore nella mente del Papa costretto a Gaeta e,si dispiegò anche nei successivi trent'anni di pontificato. Prima di essere l'opera politica e sociale di un sovrano temporale, fu innanzitutto quella religiosa e morale di un pontefice.


Bibliografia



Appendici
Documenti di Pio IX dall'Esilio di Gaeta

1. Proclama di protesta di Pio IX (Gaeta 17 dicembre 1848)

Per divina disposizione e in modo quasi mirabile assunti NOI, sebbene immeritevoli, al Sommo Pontificato, una delle Nostre prime cure fu quella di promuovere l'unione fra i Sudditi dello Stato temporale della Chiesa, di rassodare la pace tra le famiglie, di beneficarle in ogni maniera possibile e di rendere lo Stato florido e tranquillo per quanto NOI si potesse. Ma i benefizii che procurammo di impartire ai nostri Sudditi, e le più parghe istituzioni, con le quali fu da NOI accondisceso alle loro brame, pur troppo lo diciamo francamente, anzi che procurarci quella gratitudine e riconoscenza, che avevamo tutto il diritto di aspettarci, hanno prodotto invece replicate amarezze e dispiaceri al Nostro cuore per parte degl'ingrati, qualunque sia il loro numero,che il Nostro occhio Paterno vorrebbe sempre veder ristretto. Oramai tutto il mondo conosce in qual guisa siamo stati NOI contracambiati, quale abuso siasi fatto delle nostre concessioni.Sovvertendone l'indole e travisando il senso delle nostre parole per ingannare la moltitudine, e come di quegli eccessi contro la Nostra Sovrana Autorità e contro i diritti temporali della Santa Sede.
Rifugge il Nostro animo dal dover qui lamentare particolarmente gli ultimi avvenimenti incominciando dal giorno 15 del passato novembre, in cui un Ministro di Nostra fiducia fu barbaramente ucciso in pieno meriggio dalla mano dell'assassino, e più barbaramente ancora venne quella mano applaudita da una classe di forsennati, nemici di Dio e degli uomini, della Chiesa non meno, che di ogni onesta politica istituzione.Questo primo delitto aprì la serie degli altri che con sacrilega sfrontatezza si commisero nel giorno seguente: e poiché questi hanno già incontrato l'esecrazione di quanti sono gli animi onesti nel Nostro Stato, nell'Italia, nell'Europa, e la incontreranno nelle altri parti del Mondo, così Noi risparmiamo al Nostro cuore l'enorme dolore di qui ripeterli.
Fummo costretti di sottrarci dal luogo ove furono commessi, da quel luogo ove la violenza c'impediva di arrecarvi il rimedio, ridotto solo a lacrimar coi buoni ed a deplorare con essi i tristi casi, ai quali il più tristo ancora si aggiungeva di vedere isterilito ogni atto di giustizia contro gli autori degli abominevoli delitti.
La provvidenza Ci condusse in questa Città di Gaeta, ove trovandoci nella Nostra piena libertà, furono da Noi contro i suddetti violenti attentati solennemente ripetute le proteste, che in Roma stessa fin da principio avevamo già fatto innanzi ai Rappresentanti, presso di Noi accreditati, delle Corti d'Europa, e di altre lontane nazioni.
Nello stesso atto non tralasciammo di dare temporaneamente ai Nostri Stati legittimi rappresentanza Governativa senza derogare le istituzioni da Noi fatte, acchè nella Capitale e nello Stato rimanesse provveduto al regolare andamento ordinario dei pubblici affari, alla tutela delle persone e delle proprietà dei Nostri Sudditi. Fu da Noi altresì prorogata la sessione dell'alto Consiglio, e del Consiglio dei Deputati, i quali erano stati recentemente chiamati a riprendere le interrotte sedute. Ma queste Nostre determinazioni lungi dal far rientrare nella via del dovere i perturbatori ed autori delle predette sacrileghe violenze, gli 'anno anzi spinti ad attentati maggiori, arrogandosi quei Sovrani dritti, che solo a Noi appartengono, con aver essi nella Capitale istituita per mezzo dei due Consigli una illegittima rappresentanza Governativa, sotto il titolo di provvisoria e Suprema Giunta di Stato, pubblicato ciò con atto del giugno 12 di questo mese. Le obbligazioni indeclinabili della Nostra Sovrana, ed i giuramenti solenni con cui abbiamo al cospetto del Signore promesso di conservare il Patrimonio della Santa Sede, e trasmetterlo integro ai Nostri Successori, Ci costringono a levare alto la voce ed a protestare avanti a Dio ed in faccia di tutto il Mondo contro questo cotanto grave sacrilego attentato.Dichiariamo pertanto nulli e di nessuna legalità tutti gli atti emanati in seguito delle Nostre inferiteci violenze, ripetendo altresì, che quella Giunta di Stato istituita in Roma non è altro che una usurpazione dei Nostri Sovrani poteri, e che la medesima non ha, né può avere in alcun modo veruna autorità.Sappiano quindi tutti i Nostri Sudditi di qualunque grado e condizione, che in Roma e tutto lo Stato Pontificio non v'è, né può esservi alcun potere legittimo che non derivi espressamente da Noi; e che avendo Noi col predetto Sovrano motu-prprio del 27 novembre istituita una temporanea commissione governativa, a questa sola esclusivamente appartiene il reggimento della cosa pubblica durante la Nostra assenza, e finchè non venga da Noi stessi diversamente disposto.

2. Protesta di Pio IX pronunciata dinanzi al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede e da esso sottoscritta (Gaeta 14 febbraio 1849)

La serie non interrotta degli attentati commessi contro il Dominio temporale degli Stati della Chiesa, preparati da molti per cecità, ed eseguiti da quelli che più maligni e più scaltri avevano da gran tempo predisposto la docile cecità dei primi, questa serie, avendo oggi toccato l'ultimo grado di fellonia con un Decreto della sedicente Assemblea Costituente Romana in data 9 febbraio corrente, nel quale si dichiara il Papato decaduto di diritto e di fatto dal Governo temporale dello Stato Romano, erigendosi un così detto Governo di Democrazia pura col nome di Repubblica Romana, Ci mette nella necessità di avanzare nuovamente la Nostra voce contro un atto, il quale si presenta al cospetto del mondo col molteplice carattere della ingiustizia, della ingratitudine, della stoltezza, e dell'empietà, contro il quale, circondati dal Sacro Collegio e alla vostra presenza, degni rappresentanti delle Potenze e Governi amici della Santa Sede, protestiamo nei modi più solenni, e ne dichiariamo la nullità, come abbiamo fatto degli atti precedenti; Voi foste, o Signori,i testimoni degli avvenimenti non mai abbastanza deplorabili dei giorni 15 e 16 novembre dell'anno scorso, e insieme con Noi li deploraste e li condannaste. Voi confortaste il Nostro spirito in quei giorni funesti; Voi Ci seguiste in questa terra, ove Ci guidò la mano di Dio, la quale innalza, ed umilia, ma che però non abbandona mai quello che in Lui confida; Voi Ci fate anche in questo momento nobile corona, e perciò a Voi Ci rivolgiamo, affinché vogliate ripetere i Nostri sentimenti e le nostre Proteste alle vostre Corti ed ai vostri Governi.Precipitati i Sudditi Pontifici, per opera sempre della stessa ardita fazione nemica funesta della umana Società, nell'abisso più profondo di ogni miseria, Noi come Principe temporale, e molto più come Capo e Pontefice della Cattolica Religione, esponiamo i pianti e le suppliche della massima parte dei nominati Sudditi Pontifici, i quali chiedono di vedere sciolte le catene che li opprimono. Domandiamo nel tempo stesso che sia mantenuto il Sacro diritto del temporale Dominio alla Santa Sede, del quale gode da tanti secoli il legittimo possesso universalmente riconosciuto; diritto che nell'ordine presente di Provvidenza si rende necessario e indispensabile pel libero esercizio dell'Apostolato Cattolico di questa Santa Sede.
E' vivissimo L'interesse che in tutto l'orbe si è manifestato a favore della Nostra Causa, è una prova luminosa che questa è la Causa della Giustizia, e perciò non osiamo neppure dubitare che essa non venga accolta con tutta la simpatia e con tutto l'interesse dalle rispettabili Nazioni che rappresentate .

3. Allocuzione di Pio IX ai Cardinali partecipanti al Concistoro segreto (Gaeta 20 aprile 1849)

Da quali e quante calamitose procelle siano miseramente agitati e sconvolti, con sommo dolore del Nostro animo, il Nostro Stato Pontificio e quasi tutta Italia, nessuno certamente lo ignora, Venerabili Fratelli.
E voglia Dio che gli uomini, ammaestrati da queste luttuosissime vicende, comprendano finalmente che nulla è più dannoso per essi quanto il deviare dal sentiero della verità, della giustizia, dell'onestà e della Religione, appagarsi dei tristissimi consigli degli empi e lasciarsi ingannare e irretire dalle loro insidie, dalle frodi e dagli errori! Certamente tutto il mondo ben conosce ed attesta quali e quante siano state la cura e la sollecitudine del paterno ed amantissimo animo Nostro nel procurare la vera e solida utilità, tranquillità, prosperità dei popoli del Nostro Stato Pontificio, e quale sia stato il frutto di tanta Nostra indulgenza e di tanto amore. Con tali parole Noi condanniamo soltanto gli scaltrissimi artefici di così grandi mali, senza volere attribuire alcuna colpa alla massima parte dei popoli. Se non ché siamo costretti a deplorare che molti, anche tra il popolo, siano stati così miseramente ingannati che, chiudendo le orecchie alle Nostre parole ed ai Nostri avvertimenti, le abbiano poi schiuse alle fallaci dottrine di alcuni maestri i quali, lasciando " il retto sentiero e calcando vie tenebrose " (Pr 2,13) miravano solo a indurre e a spingere in pieno nella frode e nell'errore gli animi e le menti specialmente degli inesperti, con magnifiche e mendaci promesse.
Tutti ben sanno con quali lodi sia stato ovunque celebrato quel memorabile ed amplissimo perdono da Noi concesso per la pace, per la tranquillità e per la felicità delle famiglie. E nessuno ignora che parecchi a cui fu largito quel perdono non solo non mutarono affatto il loro pensiero, come Noi speravamo, ma anzi insistendo ogni giorno più acremente nei loro disegni e nelle loro macchinazioni, nulla mai tralasciarono che non ardissero, nulla che non tentassero, purché scuotessero e rovesciassero il civile Principato del Romano Pontefice e il suo governo, come già da gran tempo ordivano, e portassero insieme guerra acerbissima alla Nostra santissima Religione. A raggiungere poi più agevolmente tale scopo, non cercarono altro che di adunare dapprima le masse dei popoli, infiammarle e tenerle di continuo in grandi agitazioni, che si studiavano con ogni sforzo di fomentare ed accrescere quotidianamente col pretesto delle Nostre medesime concessioni. Quindi quelle larghezze da Noi spontaneamente e volontariamente concesse agli inizi del Nostro Pontificato non solo non valsero a produrre il desiderato frutto, ma neppure a metterne mai le radici, mentre gli espertissimi artefici di frodi abusavano delle stesse concessioni per suscitare nuovi torbidi. E in questo vostro consesso, Venerabili Fratelli, abbiamo creduto di toccare, benché leggermente, e di rammentare in modo sommario i fatti stessi, precisamente a questo fine: perché tutti gli uomini di buona volontà conoscano chiaro ed aperto che cosa mai pretendano i nemici di Dio e del genere umano, che cosa desiderino e che cosa mai sia stato sempre nell'animo loro fisso e determinato.
Per il Nostro singolare affetto verso i sudditi Ci doleva oltremodo e Ci affannava, Venerabili Fratelli, il vedere quei continui turbamenti popolari tanto avversi sia della pubblica quiete e dell'ordine, sia della tranquillità privata e della pace delle famiglie; né potevamo tollerare quelle frequenti collette pecuniarie che sotto vari titoli, non senza lieve molestia e dispendio dei cittadini, si andavano facendo. Pertanto, nel mese di aprile dell'anno 1847, con pubblico editto del Nostro Cardinale Segretario di Stato non tralasciammo di avvertire tutti di astenersi da simili popolari adunanze e largizioni, di attendere di nuovo ai propri affari, di riporre in Noi ogni fiducia, di tenere per certo che le Nostre paterne cure e i Nostri pensieri erano unicamente rivolti a procurare il pubblico bene, come già avevamo dato prove con parecchi e luminosissimi argomenti. Ma questi Nostri salutari avvisi coi quali Noi Ci sforzavamo di frenare così grandi movimenti popolari e richiamare i sudditi stessi all'Amore della quiete e della tranquillità, si opponevano assai ai pravi desideri ed alle macchinazioni di taluni.
Pertanto gli instancabili autori delle turbolenze, i quali si erano già opposti ad altra ordinanza emanata per Nostro comando dallo stesso Cardinale Segretario di Stato, intesa a promuovere una retta ed utile educazione del popolo, appena ebbero conosciuto quei Nostri avvisi, non desistettero dal gridare loro contro dappertutto e dal sollevare sempre più con maggiore impegno le incaute masse dei popoli, e dall'insinuare ad esse con molta scaltrezza e a persuaderle a non volersi mai dare a quella tranquillità tanto da Noi desiderata, poiché dicevano che in essa si nascondeva il proposito che i popoli si addormentassero e così potessero più facilmente essere oppressi dal duro giogo della schiavitù. E da quel momento Ci furono mandate moltissime scritture, anche stampate, piene di acerbissime ingiurie, d'ogni sorta di oltraggi, di minacce, le quali Noi coprimmo di un eterno oblio e consegnammo alle fiamme.
Ora i perturbatori, al fine di accreditare in qualche maniera i falsi pericoli che andavano gridando sovrastare al popolo, non ebbero ribrezzo di spargere nel volgo voci e timori di una supposta congiura, da essi a bella posta inventata, e di farneticare, con la più vituperevole menzogna, che si fosse ordita siffatta congiura per funestare la città di Roma con la guerra civile, con stragi ed eccidi: affinché, tolte ed annullate le nuove istituzioni, venisse ristabilita l'antica forma di governo. Ma sotto il pretesto di questa falsissima congiura i nemici avevano il nefando disegno di scuotere ed eccitare il popolo al disprezzo, all'odio, al furore persino contro taluni personaggi specchiatissimi per virtù, insigni per Religione e distinti altresì per dignità ecclesiastica. Voi ben sapete che in questo bollore di cose venne proposta la Guardia Civica, e fu raccolta con tanta celerità che non fu affatto possibile provvedere alla sua retta istituzione e disciplina.
Quando per prima cosa giudicammo opportuno, a procurare vieppiù la prosperità della pubblica amministrazione, di dar vita alla Consulta di Stato, i nemici presero subito occasione da ciò per portare al Governo nuove ferite, e fare in maniera che tale istituzione, la quale poteva riuscire di grande vantaggio ai pubblici interessi dei popoli, ritornasse a loro danno e rovina. E poiché era già impunemente invalsa l'opinione loro che con quella istituzione si cambiavano l'indole e la natura del Governo Pontificio, e che l'Autorità Nostra sottostava al giudizio dei Consultori, perciò in quello stesso giorno della inaugurazione di questa Consulta non tralasciammo di ammonire seriamente con gravi e severe parole parecchi turbolenti, da cui erano accompagnati i Consultori, e di manifestare loro chiaro ed aperto il vero fine di questa istituzione. Per altro i perturbatori non desistevano dal sollecitare e dallo spingere con sempre nuovo impeto la parte illusa del popolo, e per avere più facilmente maggior numero di proseliti con classica impudenza ed audacia andavano insinuando nel Nostro Stato, come pure presso le nazioni estere, essere Noi perfettamente d'Accordo con le loro opinioni e i loro divisamenti.
Rammenterete, Venerabili Fratelli, come e con quali parole nella Nostra Allocuzione pronunciata nel Concistoro del 4 ottobre 1847 Noi non omettemmo di seriamente ammonire ed esortare tutti i popoli a guardarsi con la massima attenzione dalle arti di simili ingannatori. Frattanto i pervicaci autori delle insidie e delle agitazioni per tenere sempre vivi ed attivi turbolenze e timori, nel gennaio dello scorso anno atterrivano gli animi degli incauti col falso allarme di una guerra esterna, e spargevano nel volgo l'Idea che la guerra stessa era fomentata e si sarebbe sostenuta per interne cospirazioni e per la maliziosa inerzia dei governanti. Per tranquillizzare gli animi e per ribattere le arti degli insidiatori, senza indugio il 10 febbraio dello stesso anno con quelle Nostre parole a tutti ben note, dichiarammo essere tali voci pienamente false ed assurde. Ed in quella occasione preannunziammo ai Nostri carissimi sudditi quel che ora con l'Aiuto di Dio avverrà, che cioè innumerevoli figli sarebbero accorsi a difendere la casa del Padre comune dei fedeli, ossia lo Stato della Chiesa, ogniqualvolta si fossero sciolti quegli strettissimi legami di gratitudine dai quali dovevano essere fra loro intimamente collegati i Principi e i popoli italiani, e i popoli stessi avessero trascurato di rispettare la sapienza dei loro Principi e la santità dei loro diritti, e di conservarli e difenderli con tutte le forze.
Quantunque poi le Nostre parole dette dianzi ridonassero per breve tempo la calma a tutti coloro il cui volere era contrario alla continua agitazione, tuttavia a nulla valsero presso gli accanitissimi nemici della Chiesa e della umana società, che già avevano eccitato nuove turbe e nuovi tumulti. Incalzando le calunnie già da essi e dai loro simili scagliate contro Religiosi consacrati al divino ministero e benemeriti della Chiesa, con grande violenza sollevarono ed accesero contro di questi il furore popolare. Né ignorate, Venerabili Fratelli, che nulla valsero le Nostre parole indirizzate al popolo il 10 marzo dell'anno scorso, con le quali energicamente procuravamo di sottrarre quella Religiosa Famiglia all'esilio e alla dispersione.
Mentre avvenivano questi fatti in Italia, e quei notissimi sconvolgimenti di cose in Europa, Noi di nuovo il 30 marzo dell'anno stesso, alzando la Nostra voce apostolica, non tralasciammo di avvertire ed esortare reiteratamente tutti i popoli a rispettare la libertà della Chiesa Cattolica, a mantenere l'ordine della società civile, a difendere i diritti di ognuno, ad eseguire i precetti della nostra sacrosanta Religione, e specialmente a porre ogni studio per esercitare verso tutti la carità cristiana; altrimenti, se essi avessero trascurato di operare in questo senso, fossero certi che Iddio avrebbe mostrato che Egli solo è il dominatore dei popoli.
Ora ognuno di voi ben sa come in Italia sia stata introdotta la forma di Governo Costituzionale, e come sia venuto alla luce il giorno 14 marzo dello scorso anno lo Statuto da Noi concesso ai Nostri Sudditi. Ma siccome gli implacabili nemici dell'ordine e della tranquillità altro non bramavano, se non fare ogni sforzo contro il Governo Pontificio, ed agitare senza tregua il popolo con continui e sospetti sommovimenti, così per mezzo di stampe, di circoli, di comitati e di altri artifizi d'ogni sorta non si stancavano mai di calunniare atrocemente il Governo, di tacciarlo d'inerte, d'ingannatore, di fraudolento, quantunque il Governo stesso con ogni cura e zelo si adoperasse perché il tanto desiderato Statuto venisse pubblicato con la maggior celerità possibile. E qui vogliamo manifestare al mondo intero che al tempo stesso quegli uomini, fermi nel loro proposito di sconvolgere lo Stato Pontificio e l'Italia tutta, Ci proposero di proclamare non una Costituzione, ma una Repubblica, come unico scampo e difesa della salvezza sia Nostra, sia dello Stato della Chiesa. Abbiamo ancora presente nella memoria quella notte, ed abbiamo ancora davanti agli occhi alcuni che, miseramente illusi ed affascinati dagli orditori di frodi, non dubitavano di patrocinare in ciò la loro causa e di proporci la proclamazione stessa della Repubblica. Il che, oltre ad innumerevoli e gravissimi altri argomenti, dimostra sempre più che le domande di nuove istituzioni ed il progresso tanto predicato da tali uomini mirano unicamente a tenere sempre vive le agitazioni, a eliminare ogni principio di giustizia, di virtù, di onestà, di religione; e ad introdurre, a propagare ed a far largamente dominare in ogni luogo, con gravissimo danno e rovina di tutta la società umana, l'orribile e fatalissimo sistema del Socialismo , o anche Comunismo , contrario principalmente al diritto ed alla stessa ragione naturale.
Ma sebbene questa nerissima cospirazione, o piuttosto questa lunga serie di cospirazioni apparisse chiara e manifesta, purtuttavia, così Dio permettendo, rimase ignota a molti di coloro ai quali per tanti motivi doveva stare molto a cuore la comune tranquillità. E quantunque gli instancabili direttori delle agitazioni dessero gravissimo sospetto di sé, pure non mancarono uomini di buona volontà che porgessero loro la mano amica, forse confidando nella speranza di poterli ricondurre nel sentiero della moderazione e della giustizia.
Intanto un grido di guerra corse all'improvviso per tutta l'Italia, per cui una parte dei Nostri Sudditi, commossa e trasportata, volò alle armi, e resistendo alla Nostra volontà volle oltrepassare i confini del Nostro Stato. Voi sapete, Venerabili Fratelli, come Noi, adempiendo all'officio di Sommo Pontefice e di Sovrano, Ci opponemmo agli ingiusti desideri di coloro che volevano trascinarci ad intraprendere quella guerra, e che esigevano che Noi spingessimo alla battaglia, cioè a strage certa, una gioventù inesperta, raccolta in un baleno, mai istruita nell'arte e nella disciplina militare, sfornita di abili comandanti e di attrezzi di guerra. E questo si pretendeva da Noi che, sebbene immeritevolmente innalzati per imperscrutabile decreto della divina provvidenza al vertice della dignità Apostolica, sostenendo qui in terra l'officio di Vicario di Gesù Cristo, ricevemmo da Dio, autore di pace e di carità, la missione di amare con paterno affetto indistintamente tutti i popoli, tutte le genti e le Nazioni, e di procurare, per quanto sta in Noi, la loro salvezza, non già di spingerli alle stragi e alla morte. Che se ad ogni Principe è vietato senza giuste cause intraprendere una guerra, chi sarà mai così privo di consiglio e di senno, il quale chiaramente non vegga che l'orbe cattolico esige a buon diritto dal Romano Pontefice una giustizia di gran lunga maggiore e più gravi cause qualora si accinga ad intimare e a portare ad altrui una guerra?
Pertanto con la Nostra Allocuzione del 29 aprile dello scorso anno pronunciata davanti a voi, dichiarammo al mondo intero essere Noi affatto alieni da quella guerra e in quel medesimo tempo rifiutammo e rigettammo da Noi un'offerta certamente insidiosissima fattaci sia a voce, sia per iscritto: offerta non solo a Noi sommamente ingiuriosa, ma anche fatalissima all'Italia, di volere cioè presiedere al governo di una certa Repubblica Italiana. Ed invero per singolare divina misericordia procurammo di compiere il gravissimo incarico impostoci da Dio stesso di parlare, di ammonire, di esortare, e perciò confidiamo che non Ci si possa rimproverare quel detto d'Isaia " Guai a me perché tacqui ". E Dio volesse che le Nostre paterne voci, i Nostri avvertimenti, le Nostre esortazioni fossero stati ascoltati da tutti i Nostri figli.
Rammenterete, Venerabili Fratelli, quali schiamazzi e tumulti si mossero dagli uomini della turbolentissima fazione dopo l'Allocuzione da Noi ora accennata, ed in qual modo Ci venne imposto un ministero civile del tutto contrario alle Nostre massime e ai Nostri divisamenti, ed ai diritti della Sede Apostolica. Noi certamente, fin da quel tempo, prevedemmo l'esito infelice della guerra d'Italia, mentre uno di quei Ministri non dubitava di asserire che la guerra medesima sarebbe durata, benché Nostro malgrado, e senza la Pontificia benedizione. Lo stesso Ministro altresì con sommo oltraggio della Sede Apostolica non ebbe ribrezzo di proporre che il civile principato del Romano Pontefice dovesse affatto separarsi dal potere spirituale del medesimo. Quegli stesso, non molto dopo, parlando di Noi osò affermare pubblicamente tali cose, con le quali bandiva in certo modo e segregava il Pontefice stesso dal consorzio degli uomini. Il giusto e misericordioso Signore volle umiliarci sotto la possente sua mano permettendo che, per lo spazio di più mesi, la verità da una parte, la menzogna dall'altra pugnassero tra loro con fierissima battaglia, alla quale pose termine la formazione di un altro Ministero, che poi cedette il posto ad altro, che accoppiava bellamente all'ingegno un particolare zelo per difendere l'ordine pubblico e mantenere le leggi. Ma la sfrenata licenza ed audacia delle prave passioni, levando ogni giorno più alto il capo, dilatavano la loro dominazione, ed i nemici di Dio e degli uomini, accesi dalla lunga e fiera sete di dominare, predare e distruggere, null'altro tanto anelavano quanto di rovesciare tutte le leggi divine ed umane, e saziare cosi le loro brame. Quindi le macchinazioni da tanto tempo preparate si manifestarono apertamente; si videro le vie macchiate di sangue umano, e furono commessi sacrilegi non mai abbastanza deplorabili, e violenze mai intese con indicibile ardimento fatteci nella Nostra stessa residenza al Quirinale. Quindi, oppressi da tante angustie, non potendo liberamente esercitare l'officio non solo di Sovrano, ma neppure di Pontefice, non senza somma amarezza del Nostro animo fummo costretti ad allontanarci dalla Nostra Sede. Passiamo ora sotto silenzio quei luttuosissimi fatti da Noi narrati nelle pubbliche proteste, perché non si esacerbi il Nostro comune dolore nel ricordarli. Appena poi i sediziosi conobbero quelle Nostre proteste, infuriando, e con maggiore audacia, e tutto a tutti minacciando, non risparmiarono alcuna sorta di frode, d'inganno, di violenza per gettare sempre più grande spavento nei buoni già abbastanza atterriti. E dopo che ebbero introdotto quella nuova forma di Governo da essi chiamata Giunta di Stato , e tolti di mezzo i due Consigli da Noi istituiti, si adoperarono con tutta lena per adunare una nuova assemblea da essi chiamata Costituente Romana . L'Animo certamente rifugge e ripugna al rammentare quali e quante frodi usassero per riuscire in tale intento. Qui poi non possiamo dispensarci dal tributare le debite lodi alla maggior parte dei Magistrati dello Stato Pontificio, i quali memori del proprio onore e del proprio dovere vollero piuttosto ritirarsi dall'officio, anziché collaborare in alcun modo ad un'impresa che tendeva a spogliare il loro Sovrano ed il Padre amantissimo del suo legittimo civile principato. Si adunò finalmente quell'Assemblea, ed un certo avvocato romano, sin nell'esordio del suo primo discorso pronunciato ai congregati, dichiarò solennemente a tutti ciò che egli e tutti gli altri suoi compagni autori dell'orribile movimento sentissero, volessero e dove mirassero. " La legge del progresso morale , diceva egli, è imperiosa ed inesorabile ", e insieme soggiungeva che egli e gli altri erano già da molto tempo decisi di abbattere dalle fondamenta il dominio temporale e il governo della Sede Apostolica, qualunque cosa da Noi si fosse fatta per secondare i loro desideri.
Tale dichiarazione abbiamo voluto rammentare in questo vostro consesso, affinché tutti intendano che tale perversa volontà non fu da Noi attribuita agli autori delle sedizioni solo per congettura e mossi da qualche sospetto, ma che in tutto il mondo fu palesemente e pubblicamente manifestata da quegli stessi che anche il solo pudore avrebbe dovuto trattenere dal proferire simile dichiarazione.
Siffatti uomini, dunque, non miravano ad avere istituzioni più libere, né riforme più utili alla pubblica amministrazione, non pròvvide misure di qualunque genere, ma volevano bensì invadere, scuotere, distruggere il dominio temporale della Sede Apostolica. E questo loro proposito, per quanto poterono, lo realizzarono con quel decreto emanato dalla cosiddetta, da loro, Costituente Romana il giorno 9 febbraio del corrente anno, con il quale dichiararono essere i Romani Pontefici decaduti di diritto e di fatto dal governo temporale: né sappiamo dire se sia stata più grave l'ingiustizia contro i diritti della Chiesa Romana e la libertà ad essi congiunta nell'adempiere l'officio Apostolico, o se furono maggiori il danno e la calamità per tutti i Sudditi pontifici. Per così deplorevoli fatti non fu certamente lieve la Nostra afflizione, Venerabili Fratelli, e ciò che soprattutto massimamente Ci addolora è che la città di Roma, centro dell'unità e della verità cattolica, maestra di virtù e di santità, per opera di empi, che ivi in folla ogni giorno accorrono, appaia, al cospetto di tutte le genti, dei popoli e delle nazioni, autrice di tanti mali. Ma in così grave affanno del Nostro cuore Ci è pur dolce il poter affermare che la massima parte tanto del popolo di Roma, quanto degli altri di tutto il Nostro Stato Pontificio, costantemente affezionata e devota a Noi e alla Santa Sede, ha avuto in orrore quelle nefande macchinazioni, benché sia stata spettatrice di tanti luttuosi avvenimenti. Egualmente fu a Noi di somma consolazione la sollecitudine dei Vescovi e del Clero del Nostro Stato che, adempiendo ai doveri del proprio ministero in mezzo ai pericoli e ad ogni sorta d'impedimenti, non tralasciarono, con la voce e con l'esempio, di tenere lontani i popoli da quegli ammutinamenti e dalle malvagie insinuazioni dei faziosi.
In così grande conflitto di cose ed in tanto disastro, nulla lasciammo intentato per provvedere all'ordine e alla pubblica tranquillità. Infatti, assai prima che avessero luogo quei tristissimi fatti del novembre procurammo con ogni impegno che si richiamassero in Roma i Reggimenti Svizzeri addetti al servizio della Santa Sede e stanziati nelle Nostre province; ciò però, contro il Nostro volere, non ebbe effetto per opera di coloro che nel mese di maggio avevano l'incarico di Ministri. Né questo soltanto, ma anche prima d'allora, come in seguito, al fine di difendere l'ordine pubblico specialmente in Roma, e di comprimere l'audacia del partito sovversivo, rivolgemmo le Nostre premure a procurarci soccorsi di altre truppe che, con il permesso di Dio, date le circostanze Ci vennero meno.
Finalmente dopo gli stessi luttuosissimi fatti di novembre non tralasciammo d'inculcare in ogni modo, con la Nostra lettera del 5 gennaio a tutte le Nostre truppe indigene che, memori della religione e dell'onore militare, mantenessero la fedeltà giurata al proprio Principe, e con zelo si adoperassero perché ovunque si conservassero la quiete pubblica e la dovuta obbedienza e devozione al legittimo Governo. Oltre a ciò demmo ordine che si trasferissero in Roma i Reggimenti Svizzeri, i quali non obbedirono al Nostro volere, specialmente perché il loro Generale tenne, in quest'affare, una condotta non retta e poco onorevole.
Frattanto i capi della fazione, spingendo la loro impresa con maggiore impeto ed audacia, non tralasciavano di scagliare orrende calunnie e contumelie d'ogni sorta contro la Nostra persona e contro coloro che Ci affiancavano; inoltre osavano, per somma nefandezza, abusare delle parole stesse e delle sentenze del Santo Vangelo per adescare sotto la veste di agnello (mentre non sono al di dentro se non lupi rapaci) l'inesperta moltitudine ai loro pravi disegni e complotti, e per avvelenare con false dottrine le menti degli incauti. I Sudditi poi, fedelmente attaccati e devoti a Noi ed al dominio temporale della Santa Sede, Ci richiedevano meritatamente ed a buon diritto di essere liberati da tante gravissime angustie, pericoli, calamità e rovine da cui erano oppressi per ogni dove. E poiché taluni di essi Ci ravvisano come cagione, sebbene innocente, di tante perturbazioni, così vogliamo che essi riflettano che Noi di fatto, appena innalzati al soglio pontificio, rivolgemmo le Nostre paterne cure e disegni, come sopra dichiarammo, precisamente a migliorare con ogni impegno la condizione dei popoli del Nostro Stato Pontificio; ma per opera di uomini nemici e turbolenti è avvenuto che riuscissero inutili quei Nostri disegni, mentre all'apposto accadde, così permettendolo Iddio, che i faziosi medesimi siano potuti riuscire a mandare ad effetto quello che già da lungo tempo non avevano mai desistito di ordire e tentare con ogni e qualunque genere di malizia.
Pertanto qui di nuovo ripetiamo ciò che già altre volte manifestammo, cioè che nella così grave e luttuosa tempesta dalla quale quasi tutto il mondo è così orrendamente travagliato, si deve riconoscere la mano di Dio ed ascoltare la sua voce, che con tali flagelli suole punire i peccati e le iniquità degli uomini, affinché essi tornino frettolosi nelle vie della giustizia. Ascoltino dunque questa voce coloro che si dipartirono dalla verità, ed abbandonando l'intrapreso cammino si convertano al Signore; l'ascoltino pure coloro che nell'attuale tristissimo stato di cose sono assai più attenti ai loro comodi privati, che al bene della Chiesa e alla prosperità della Religione Cattolica, e ricordino che nulla giova all'uomo " il possedere il mondo intero, se poi abbia a perdere la sua anima "; e l'ascoltino ancora i pii figli della Chiesa, ed aspettando con pazienza il soccorso di Dio, e con sempre maggiore impegno mondando le loro coscienze da ogni macchia di peccato, procurino d'implorare le celesti misericordie, e di piacere sempre più agli occhi di Dio, e di servirlo continuamente.
Fra questi Nostri ardentissimi desideri non possiamo non avvertire specialmente e riprendere coloro che plaudono a quel decreto con cui il Romano Pontefice viene spogliato d'ogni onore e d'ogni dignità del suo Principato civile, ed asseriscono essere il decreto stesso di gran lunga giovevole a procurare la libertà e la felicità della Chiesa medesima. Qui poi, apertamente ed al cospetto di tutti, attestiamo che nel dire questo Noi non siamo mossi da alcuna cupidigia di dominio o da alcun desiderio di potere temporale, mentre la Nostra indole, il Nostro animo sono in verità alieni da qualsivoglia dominazione. Peraltro il Nostro dovere richiede che nel difendere il civile principato della Sede Apostolica difendiamo con tutte le forze i diritti ed i possedimenti della Santa Romana Chiesa, e la libertà della Sede stessa, che è intimamente congiunta con la libertà ed utilità di tutta la Chiesa. Invero coloro che, plaudendo al decreto predetto, asseriscono tante falsità ed assurdità, o ignorano o fingono d'ignorare essere avvenuto per singolarissima disposizione della divina provvidenza che, diviso l'impero romano in più regni e stati diversi, il Romano Pontefice, cui da Cristo Signore vennero affidati la cura e il governo di tutta la Chiesa, avesse perciò appunto un civile principato, affinché nel reggere la Chiesa medesima e nel custodirne l'unità godesse di quella piena libertà che si richiede per l'esercizio del supremo ministero apostolico. Infatti nessuno ignora che i fedeli, i popoli, le nazioni ed i regni non presterebbero mai piena fiducia e rispetto al Romano Pontefice se lo vedessero soggetto al dominio di qualche Principe o Governo, e non già pienamente libero. Ed invero i fedeli, i popoli ed i regni non cesserebbero mai dal sospettare e temere assai che il Pontefice medesimo non conformasse i suoi atti al volere di quel Principe o Governo nel cui Stato si trovasse, e perciò, con questo pretesto, sovente non avrebbero scrupolo di opporsi agli stessi atti. In verità dicano i nemici stessi del civile principato della Sede Apostolica, che ora dominano in Roma, con quale mai fiducia e rispetto riceverebbero essi le esortazioni, gli ordini, le disposizioni del Sommo Pontefice sapendolo soggetto all'impero di qualsiasi Principe o Governo, specialmente poi se fra uno di questi e lo Stato Romano si fosse da lungo tempo in aperta guerra?
Intanto ognuno vede da quali e quanto gravi ferite nello stesso Stato Pontificio sia ora trafitta l'immacolata sposa di Cristo, da quali ceppi, da quale vilissima schiavitù venga sempre più oppressa, e da quante angustie sia travagliato il suo Capo visibile. E a chi mai è ignoto esserci perfino impedita la comunicazione con Roma, e con quel Clero a Noi carissimo, e con l'intero Episcopato, e con gli altri fedeli di tutto lo Stato Pontificio, tanto che non Ci è neppure concesso d'inviare e ricevere liberamente lettere, anche se si riferiscano ad affari ecclesiastici e spirituali? Chi non sa che la città di Roma, sede principale della Chiesa Cattolica è ora divenuta, ahi! una selva di bestie frementi, ridondante di uomini d'ogni nazione, i quali o apostati, o eretici, o maestri, come si dicono, del Comunismo o del Socialismo , ed animati dal più terribile odio contro la verità cattolica, sia con la voce, sia con gli scritti, sia in qualsivoglia altro modo si studiano con ogni sforzo d'insegnare e disseminare pestiferi errori di ogni genere, e di corrompere il cuore e l'animo di tutti, affinché in Roma stessa, se fosse possibile, si guasti la santità della Religione Cattolica, e la irreformabile regola della Fede? Chi non sa, né ha udito essersi, nello Stato Pontificio, con temerario e sacrilego ardimento, occupati i beni, le rendite, le proprietà della Chiesa; spogliati i templi augustissimi dei loro ornamenti; convertite in usi profani le case religiose; le sacre vergini malmenate; sceltissimi ed integerrimi ecclesiastici e religiosi crudelmente perseguitati, imprigionati, uccisi; venerandi chiarissimi Vescovi, insigniti perfino della dignità cardinalizia, barbaramente strappati dal loro gregge e cacciati in carcere? E come questi tanti ed enormi misfatti contro la Chiesa, e i suoi diritti, e la sua libertà si commettono nello Stato Pontificio, così in altri luoghi ove dominano quegli uomini o i loro pari in quel tempo appunto in cui essi stessi dovunque proclamano la libertà, e danno ad intendere essere nei loro desideri che il supremo potere del Sommo Pontefice, sciolto da qualsivoglia vincolo, possegga e fruisca di una piena libertà.
Inoltre nessuno poi ignora in quale tristissima e deplorevole condizione si trovino i Nostri dilettissimi Sudditi per opera di quegli uomini medesimi che commettono tanti eccessi contro la Chiesa: dissipato, esausto il tesoro pubblico, interrotto e quasi estinti il commercio, gravissime contribuzioni di danaro imposte ai nobili e ad altri; derubati i beni dei privati da coloro che chiamansi capi del popolo e duci di sfrenate milizie; manomessa la libertà personale di tutti i buoni, e posta all'estremo pericolo la loro tranquillità; la vita stessa sottoposta al pugnale dei sicari, ed altri immensi e gravissimi mali e calamità, da cui senza tregua i cittadini sono grandemente travagliati, atterriti. Questi precisamente sono gli esordi di quella prosperità che i nemici del supremo Pontificato annunciano e promettono ai popoli dello Stato Pontificio!
In mezzo dunque al grave e incredibile dolore da cui eravamo intimamente penetrati per le tante calamità sia della Chiesa, sia dei Nostri sudditi, ben conoscendo che la ragione del Nostro dovere esigeva assolutamente che facessimo di tutto per rimuoverle ed allontanarle, fin dal 4 dicembre dello scorso anno non tralasciammo di domandare ed implorare dai Principi e dalle Nazioni aiuto e soccorso. E non possiamo trattenerci dal comunicarvi ora, Venerabili Fratelli, la particolare consolazione che provammo nell'apprendere che gli stessi Principi e popoli, e quelli pure non congiunti a Noi per vincolo di unità cattolica, attestarono e dichiararono con vive espressioni la spontanea propensione loro verso di Noi. Il che, mentre mirabilmente lenisce l'acerbissimo Nostro dolore e Ci conforta, maggiormente dimostra come Dio propizio assista sempre la sua santa Chiesa.
Nutriamo speranza che tutti si persuadano che dal disprezzo della santissima nostra Religione sono derivati quei mali gravissimi da cui, in tanta difficoltà di tempi, popoli e regni sono percossi, né che si possa ricercare sollievo e rimedio se non dalla divina dottrina di Cristo e dalla sua Santa Chiesa che, feconda madre e nutrice di ogni virtù e nemica dei vizi, mentre educa gli uomini ad ogni verità e giustizia e li unisce nella scambievole carità, attende e provvede mirabilmente al bene pubblico ed all'ordine della società civile.
Dopo avere invocato l'aiuto di tutti i Principi, chiedemmo tanto più volentieri soccorso all'Austria, confinante a settentrione col Nostro Stato, in quanto essa non solo prestò sempre la sua egregia opera in difesa del dominio temporale della Sede Apostolica, ma fa ora certamente sperare che, secondo gli ardentissimi Nostri desideri e giustissime domande, vengano eliminati da quell'impero alcuni principi riprovati sempre dalla Sede Apostolica e perciò, a bene e vantaggio di quei fedeli, ivi la Chiesa recuperi la sua libertà. La qual cosa, che con sommo piacere vi annunciamo, siamo certi che arrecherà a voi non piccola consolazione.
Simile aiuto domandammo alla Francia, alla quale portiamo singolare affetto e benevolenza, poiché il clero e i fedeli di quella Nazione posero ogni studio nel lenire e sollevare le Nostre amarezze ed angustie con amplissime dimostrazioni di filiale devozione ed ossequio.
Chiedemmo ancora soccorso alla Spagna che, assai premurosa e sollecita delle Nostre afflizioni, eccitò per prima le altre Nazioni cattoliche a stringere tra loro una filiale alleanza per procurare di ricondurre alla sua Sede il Padre comune dei fedeli, il supremo pastore della Chiesa.
Finalmente chiedemmo siffatto aiuto al Regno delle Due Sicilie, dove siamo ospiti presso il Re, che, occupandosi con tutte le forze nel promuovere la vera e solida felicità dei suoi popoli, tanto rifulge per religione e pietà da servire di esempio ai suoi stessi sudditi. Sebbene poi non possiamo esprimere abbastanza a parole con quanta premura e sollecitudine quel Principe stesso ambisce con ogni maniera e con chiari argomenti di attestarci e confermarci continuamente l'esimia sua filiale devozione verso di Noi, purtuttavia gl'illustri suoi meriti verso di Noi non andranno giammai in oblio. Né possiamo altresì in alcun modo passare sotto silenzio le testimonianze di pietà, di amore e di ossequio che il clero ed il popolo dello stesso Regno, fin da quando vi entrammo, non cessarono mai di porgerci.
Pertanto speriamo che con l'aiuto di Dio quelle Potenze Cattoliche, avendo presente la causa della Chiesa e del suo Sommo Pontefice, Padre comune di tutti i fedeli, si affretteranno ad accorrere quanto prima a difendere, a rivendicare il civile principato della Sede Apostolica e a ridonare ai Nostri sudditi la pace e la tranquillità; confidiamo che saranno allontanati da Roma e da tutto lo Stato Pontificio i nemici della nostra santissima Religione e della civile Società.
Appena ciò avverrà, sarà Nostra cura con ogni vigilanza, sollecitudine e sforzo procurare che si rimuovano tutti quegli errori e gravissimi scandali che con tutti i buoni così altamente abbiamo dovuto lamentare. Dapprima sarà opportuno adoperarsi sommamente a rischiarare col lume della verità eterna gli animi e le inclinazioni miseramente illuse dalle fallacie, dalle insidie e dalle frodi degli empi, affinché gli uomini conoscano i funesti frutti degli errori e dei vizi, e siano eccitati ed animati a seguire le vie della virtù, della giustizia e della Religione. Infatti molto bene conoscete, Venerabili Fratelli, quelle orrende e mostruose opinioni che, scaturite dal fondo dell'abisso a rovina e a desolazione, già prevalsero e vanno furibonde con danno immenso della Religione e della Società. Le quali perverse e pestifere dottrine i nemici non si stancano mai di diffondere nel volgo, con le parole e con gli scritti, e nei pubblici spettacoli per accrescere e propagare ogni giorno di più la sfrenata licenza di ogni empietà, di ogni cupidigia e libidine. Di qua derivano quelle calamità e sventure e disastri che tanto funestarono, e funestano, il genere umano, e quasi il mondo intero. Non ignorate quale guerra si faccia anche nella stessa Italia alla Religione nostra santissima, e con quali frodi ed artifizi i terribili nemici della Religione e della Società si adoperino per allontanare gli animi, specialmente inesperti, dalla santità della fede e dalla sana dottrina, e sommergerli nei vorticosi flutti dell'incredulità, e sospingerli ai più gravi misfatti.
Per agevolare l'esito dei loro disegni, ed eccitare e promuovere le sedizioni e i tumulti sull'esempio degli eretici, disprezzata appieno la suprema autorità della Chiesa, ardiscono invocare, interpretare, mutare, stravolgere nel privato e perverso loro senso le parole, le testimonianze, i sentimenti delle divine scritture e, a colmo di empietà, non hanno orrore di abusare iniquamente dello stesso nome santissimo di Gesù Cristo. Né li trattiene il pudore dall'asserire pubblicamente che tanto la violazione di qualunque più sacro giuramento, quanto qualsivoglia azione scellerata e criminosa, ripugnante anche alla stessa eterna legge di natura, non solo non debba riprovarsi, ma addirittura essere appieno lecita e degna di ogni encomio, quando si faccia, come essi dicono, per amore della patria. Con così empio e stravolto modo di argomentare, da tali uomini si toglie ogni idea di onestà e di giustizia; si difende e si loda con somma impudenza la mano dello stesso ladrone e del sicario.
Alle altre innumerevoli frodi, delle quali i nemici della Chiesa cattolica di continuo si valgono per divellere e strappare dal seno di essa gl'incauti principalmente e gl'inesperti, si aggiungono le più atroci e turpi calunnie, che non arrossiscono d'inventare e lanciare contro la Nostra persona. Noi certamente, benché immeritevoli, facendo qui in terra le veci di Colui che " mentre era maledetto non malediceva, mentre soffriva non minacciava ", sopportammo con ogni pazienza ed in silenzio i più amari oltraggi, e non tralasciammo mai di pregare per i Nostri calunniatori e persecutori. Ma essendo debitori ai dotti ed agli ignoranti, e dovendo con ogni cura provvedere alla salvezza di tutti, al fine di prevenire specialmente lo scandalo dei deboli, non possiamo non rigettare da Noi, in questo vostro consesso, quella falsissima e fra tutte più nera calunnia divulgata contro di Noi da alcuni recentissimi giornali. In verità fummo colpiti da incredibile orrore quando leggemmo quella invenzione con cui i Nostri nemici si sforzano di arrecare grave ferita a Noi ed alla Sede Apostolica, tuttavia non possiamo in alcun modo pensare che simili impudentissime menzogne possano anche solo leggermente offendere quella suprema Cattedra di verità, e Noi che, senza alcun merito, Ci troviamo in essa collocati. E certamente per singolare celeste misericordia possiamo usare quelle parole del nostro divin Redentore: " Io ho parlato palesemente al mondo... e in segreto nulla ho detto ". Qui, Venerabili Fratelli, stimiamo opportuno ripetere ed inculcare quanto segnatamente dichiarammo nella Nostra Allocuzione del 17 dicembre 1847, cioè che gli empi, per potere più facilmente danneggiare la vera e genuina dottrina della Religione Cattolica, e ingannare ed indurre altri in errore, non tralasciano di adoperare invenzioni, macchinazioni e sforzi d'ogni genere affinché in certo modo la stessa Santa Sede appaia partecipe e fautrice della loro stoltezza.
A tutti poi è palese quali tenebrosissime, non meno che dannosissime società e sette siano state fondate in vari tempi dai fabbricatori di menzogna, seguaci di perverse dottrine, per istillare più incisivamente negli animi i loro deliri, sistemi e trame, corrompere i cuori dei semplici ed aprire un'ampia via a commettere impunemente ogni sorta di scelleratezze. Le quali abominevoli sette di perdizione, perniciosissime non solo alla salute delle anime ma al bene altresì e alla quiete della società, sempre da Noi detestate e condannate già dai Nostri Predecessori, Noi pure nell'Enciclica ai Vescovi dell'Orbe cattolico data il 9 novembre 1846 condannammo, ed ora egualmente con la suprema autorità apostolica torniamo a condannare, a proibire, a proscrivere.
Non fu Nostro scopo in questa Nostra Allocuzione di enumerare tutti gli errori dai quali i popoli miseramente delusi vengono spinti a così gravi sciagure, o di additare tutte le macchinazioni con cui si cerca la rovina della Religione Cattolica, e di attaccare da ogni parte, e d'invadere la rocca di Sion. Quanto abbiamo fin qui con dolore rammentato dimostra a sufficienza che dalle invalse prave dottrine e dal disprezzo della giustizia e della Religione derivano quelle calamità e sciagure da cui le nazioni e le genti sono tanto travagliate. Ad eliminare dunque danni così gravi non si devono risparmiare cure, consigli, fatiche e veglie, perché, sradicate tante perverse dottrine, comprendano tutti che nell'esercizio della virtù, della giustizia, della Religione consiste la vera e solida felicità. Quindi Noi e voi e gli altri Venerabili Fratelli Vescovi di tutto l'orbe cattolico dobbiamo con ogni cura, sollecitudine e sforzo adoperarci perché i fedeli, allontanati dai pascoli avvelenati, e condotti ai salubri, e nutriti ogni giorno più con le parole della fede, conoscano, evitino le frodi e gli inganni degli insidiatori e, ben comprendendo che il timore di Dio è la fonte di ogni bene, e i peccati e le iniquità attirano i flagelli di Dio, si studino con tutta diligenza di fuggire il male, ed operare il bene. Perciò in mezzo a tante angustie proviamo certamente non lieve letizia sapendo con quanta fermezza e costanza d'animo i Venerabili Fratelli Vescovi dell'Orbe cattolico, strettamente fedeli a Noi ed alla Cattedra di Pietro, insieme con il clero a loro obbediente virilmente si adoperino a difendere la causa della Chiesa, ed a sostenere la sua libertà e con quale sacerdotale premura e diligenza diano ogni opera per confermare sempre più i buoni nella bontà, ricondurre i traviati nel sentiero della giustizia, e con la voce e con gli scritti ribattere e confondere gli ostinati nemici della Religione. E mentre siamo lieti di porgere ai Venerabili Fratelli medesimi le giuste e meritate lodi, li rincuoriamo affinché con l'Aiuto divino proseguano con zelo sempre maggiore ad adempiere il proprio ministero, a combattere le battaglie del Signore, a sollevare la voce con sapienza e vigore per evangelizzare Gerusalemme e sanare le piaghe d'Israele. Conforme a ciò, non cessino dal ricorrere con fiducia al trono della grazia, dal raddoppiare sia pubbliche sia private preghiere e dall'Inculcare con impegno ai fedeli che facciano penitenza, affinché possano ottenere dal Signore misericordia, e rinvenire la grazia nell'Aiuto opportuno. Né desistano dall'Esortare gli uomini d'Ingegno e di sana dottrina, onde essi sotto la scorta dei propri pastori e dell'apostolica Sede si sforzino a rischiarare le menti dei popoli, ed a dissipare le tenebre dei serpeggianti errori.
Qui pure scongiuriamo nel Signore i carissimi figli Nostri in Gesù Cristo i Principi e i Governanti, e a loro chiediamo che, attentamente e seriamente considerando i mali e i danni derivanti nella società da un torrente di tanti vizi ed errori, vogliano principalmente con ogni cura, ingegno e sollecitudine, che la virtù, la giustizia, la Religione ovunque trionfino ed abbiano sempre maggior incremento. E tutti i popoli, le genti, le nazioni e i loro reggitori pensino e meditino assiduamente ed attentamente che tutti i beni sono riposti nella pratica della giustizia, che tutti i mali scaturiscono dalla iniquità: poiché " la giustizia innalza le nazioni, invece il peccato rende miseri i popoli " (Pr 14,34).
Ma prima di porre fine al Nostro dire non possiamo fare a meno di attestare apertamente e pubblicamente il Nostro animo grato a tutti quei carissimi ed affettuosissimi figli che, grandemente solleciti delle Nostre calamità per un sentimento singolarissimo di affetto verso di Noi, vollero inviarci le loro oblazioni. Sebbene tali pie elargizioni Ci apportino notevole sollievo, tuttavia dobbiamo confessare che il cuor Nostro è assai angustiato temendo purtroppo che, nella tristissima condizione della cosa pubblica, essi, trasportati da uno slancio di amore, non vadano ad incontrare nei loro generosi sacrifizi un vero incomodo e danno.
Finalmente, Venerabili Fratelli, Noi rassegnandoci pienamente agli impenetrabili decreti della sapienza di Dio, con i quali Egli opera la sua gloria, mentre nella umiltà del Nostro cuore rendiamo grazie infinite a Dio per averci fatti degni di soffrire le ingiurie pel nome di Gesù, ed esser fatti in parte conformi all'immagine della sua passione, siamo pronti nella fede, nella speranza, nella pazienza, nella mansuetudine a soffrire i più acerbi travagli e pene e a dare per la Chiesa perfino la Nostra vita, se col Nostro sangue Ci fosse dato di riparare alle calamità della Chiesa. Frattanto, Venerabili Fratelli, non tralasciamo di porgere umilmente giorno e notte fervorose preghiere al Signore Iddio, ricco di misericordia, e di scongiurarlo affinché, per i meriti dell'Unigenito suo Figlio tragga con la sua destra onnipotente la Chiesa sua Santa dalle tante tempeste onde è sbattuta, e col lume della divina sua grazia rischiari le menti di tutti i traviati e vinca i cuori dei prevaricatori nella sua infinita misericordia, affinché, banditi dappertutto gli errori e rimosse tutte le avversità, vedano e riconoscano tutti la luce della verità e della giustizia e corrano nella unità della fede e nella conoscenza di nostro Signore Gesù Cristo.
E non cessiamo mai di chiedere supplichevoli, da Quello stesso che forma la pace nei cieli e che è la nostra pace, che, tolti appieno tutti i mali da cui è straziato il Cristianesimo, si degni accordare ovunque la tanto sospirata pace e tranquillità. E perché più facilmente Iddio si pieghi alle nostre preghiere, avvaliamoci dei mediatori presso di Lui, e soprattutto ricorriamo alla Santissima Vergine Immacolata Maria, la quale è madre di Dio e nostra, e che, madre di misericordia, ciò che domanda ottiene e non può non essere esaudita. Imploriamo ancora i suffragi di San Pietro, Principe degli Apostoli, e del coapostolo Paolo e di tutti i Santi che, divenuti già amici di Dio, regnano con Lui nei cieli, acciocché il clementissimo Signore per i loro meriti e per le loro preghiere liberi i fedeli dai flagelli della sua collera e li protegga sempre e li allieti con l'abbondanza della sua divina benignità.

4. Lettera ai Vescovi "Noscitis et Nobiscum"
data a Napoli dal sobborgo di Portici l'8 dicembre 1849

Voi conoscete, e vedete con Noi, o Venerabili Fratelli, con quanta malvagità siano invalsi e abbiano preso animo, non ha guari, certi dichiarati nemici della verità, della giustizia e di ogni onestà, i quali sia con frode e con insidie di ogni fatta, sia all'aperto e come flutti del mare inferito che spumano le proprie turpitudini (Jud. 13), si studiano di propagare da per tutto tra i popoli della Cattolica Italia una sfrenata licenza di pensare, di favellare e di osare ogni cosa, e si sforzano di indebolire nella stessa Italia la Religione Cattolica, e di atterrarla, se fosse possibile mai, fino dalle fondamenta. La trama di questo infernale divisamento si diede a conoscere in parecchi luoghi, ma soprattutto nell'alma Nostra città, sede del Nostro supremo Pontificato, nella quale, poiché fummo costretti a partirne, imperversarono più liberamente, sia pure per pochi mesi; e ove, messa con sacrilego attentato sottosopra ogni cosa divina ed umana, il loro furore giunse a tal segno, che conculcata l'autorità e impedita l'opera dello specchiatissimo Clero Romano e delle Autorità che per Nostro comando soprattendevano ivi alle cose sacre, più d'una volta gli stessi miseri infermi già presso a morire, sprovveduti di ogni conforto della Religione, furono astretti ad esalare lo spirito fra le lusinghe di sfacciata meretrice.
Ancorché dopo questi avvenimenti la stessa città di Roma, e le altre province del Pontificale dominio, la mercé di Dio, e per l'opera delle Nazioni Cattoliche siano state ridonate al civile Nostro reggimento, e i tumulti delle guerre cessati siano anche nell'altre regioni d'Italia; nulladimeno non cessarono, né cessano tuttavia, questi perversi nemici di Dio e degli uomini dal proseguire nell'indegno divisamento se non colla forza aperta, certo con astuti né sempre occulti artifici. Non vi ha dubbio, che a Noi che sosteniamo in questi difficilissimi tempi la suprema cura del gregge del Signore, e Ci addoloriamo profondamente dei pericoli in cui si ritrova l'Italia, riesce di singolare conforto il considerare lo zelo di che siete animati, o Venerabili Fratelli, e del quale Ci avete forniti molti argomenti, allorché infieriva il turbine della passata procella, e di cui Ci fornite ogni giorno più bellissime prove. Sennonché la gravità del pericolo C'incalza, perché Noi, secondo il debito del Pastorale ufficio, a voi, chiamati a parte della Nostra sollecitudine, porgiamo colle nostre esortazioni nuovo stimolo, sia a combattere costantemente con Noi le guerre del Signore, sia a provvedere e a metter mano con concordia di animi a quelle cose, in forza di cui con la Benedizione celeste si metta riparo a quei mali che la Religione nostra santissima avesse per isventura sofferti in Italia, e si appresti un qualche rimedio ai futuri pericoli.
Fra le molteplici astuzie, con cui i sopraddetti avversari della Chiesa usano svolgere gli animi degli Italiani dalla Religione Cattolica, vi è pur quella di asserire e di spargere sfacciatamente per ogni dove, la Religione Cattolica opporsi alla gloria, alla grandezza, alla prosperità dell'Italia, e quindi esser di mestieri che le riunioni protestantiche s'introducano, si stabiliscano e si propaghino, affinché essa ricuperar possa l'antico splendore, quello cioè dell'età pagana. Ora in questa loro bizzarra invenzione se spicchi più la detestabile malizia della furiosa empietà, ovvero l'impudenza della malvagità mentitrice, è cosa al tutto difficile a definirsi.
Per verità lo spirituale vantaggio di essere stati trasferiti dalla potestà delle tenebre nella luce di Dio, e giustificati per la grazia di Gesù Cristo, e fatti eredi in isperanza di vita eterna (Tit. I, 2), certo questo vantaggio delle anime che trae la sua origine dalla Religione Cattolica, è di così alto pregio, che qualsivoglia grandezza e felicità di questa terra al confronto non merita la più piccola estimazione. " E infatti, che giova all'uomo se acquisti l'intero universo, e poi perda se stesso? E qual cambio potrà mai dar l'uomo per ricuperar l'anima sua? ". Se non che non solamente è alieno dalla verità che l'Italia abbia incorse disavventure a motivo della vera Fede che professò, ché anzi essa deve alla Religione Cattolica se in sul declinare del Romano Impero non fu colta da quegli stessi infortuni nei quali gli Assiri, i Medi, i Persiani e i Macedoni, dopo lunghi anni di estesa dominazione, mutatesi alla perfine le sorti, erano precipitati. Di fatto non vi è alcun uomo prudente che ignori, siccome avvenne per l'ammirabile efficacia della Religione di Cristo, che l'Italia uscisse non solo dalle tante e sì folte tenebre in che giaceva sepolta, ma che tra le rovine di quell'antico Impero, e le scorrerie dei barbari imperversanti per tutta Europa, giungesse ella nulladimeno, a preferenza di tutte le nazioni del mondo, a un grado così eccelso di gloria, che a motivo dell'augusta Cattedra di San Pietro per ispecialissimo favore di Dio in essa collocata stendesse più largamente e stabilmente il dominio con una Religione celeste, di quello che avesse signoreggiato un tempo colla dominazione terrena.
E da questo singolare privilegio di possedere la Sede Apostolica, e dalla Religione Cattolica che approfondì ognor più le radici fra i popoli d'Italia, ebbero origine altri moltissimi e soprammodo insigni vantaggi. In verità, la Santissima Religione di Gesù Cristo, maestra della vera Sapienza, difenditrice degli uomini, e madre feconda di qualsivoglia virtù, distolse bensì gli animi degl'italiani da quella luce passeggera di gloria, che i lor maggiori, soprastando essi nelle armi, avevano riposto nell'incessante tumulto delle guerre, nell'oppressione degli stranieri, e nell'assoggettare a durissimo servaggio quel maggior numero di uomini che per loro si potesse; ma rischiaratili a un tempo colla luce benefica della verità, a praticare la giustizia e la misericordia, e ad opere insigni di pietà verso Dio e di beneficenza verso gli uomini, li confortò. Di qui nelle precipue città dell'Italia, templi meravigliosi, ed altri monumenti dell'Evo cristiano, edificati non già per mano di uomini gementi sotto intollerabile schiavitù, ma eretti dallo zelo di spontanea carità; e per tutto pii Istituti, quali per l'esercizio della Religione, quali per l'educazione della gioventù, quali per coltivare a dovere le lettere e le arti, quali per conforto degli infermi, quali per sollievo dei bisognosi. E questa Religione adunque tutta divina, a cui l'Italia va debitrice per tanti capi della sua salute, felicità e grandezza; questa Religione adunque si è quella, che gridasi doversi bandire dall'Italia? Noi non possiamo raffrenare le lacrime, Venerabili Fratelli, mentre consideriamo esservi al presente parecchi Italiani cotanto perversi e miseramente ingannati, che plaudendo alle scellerate dottrine degli empi non hanno ribrezzo di cospirare con loro all'estrema rovina dell'Italia.
Non vi è ignoto certamente, o Venerabili Fratelli, come i principali artefici di questa perfida macchinazione abbiano per ultimo scopo di spingere i popoli, agitati dal vento di ree dottrine, al sovvertimento di ogni ordine di cose, e condurli poscia ad abbracciare gli scellerati sistemi del nuovo socialismo e comunismo. Sanno essi benissimo, e veggono comprovato dalla lunga esperienza di molti secoli, come non hanno a sperare alcuna alleanza colla Chiesa Cattolica, la quale nel custodire il deposito della divina rivelazione, né soffre che tolgasi alcunché dalle proposte verità della Fede, né permette che alcuna cosa di umana invenzione loro si aggiunga. Laonde hanno abbracciato il partito di condurre i popoli dell'Italia alle dottrine e ai conventicoli dei Protestanti, nei quali, ad inganno dei semplici, vanno dicendo non ritrovarsi altro se non una diversa forma della vera Religione di Gesù Cristo, e che in essi si può essere accettevoli a Dio non meno che nella Chiesa Cattolica. Intanto non ignorano già, che all'ampia lor causa gioverà assaissimo quel principio, sì solenne tra le dottrine dei Protestanti, che tutti cioè hanno diritto d'interpretare a lor senno le Divine Scritture. Dalla quale folle dottrina essi confidano ottenere più agevolmente, sia di diffondere le ree loro massime, quasi a nome di Dio, appoggiandole a false interpretazioni dei sacri libri; sia di condurre gli incauti, resi superbi dall'insano orgoglio di portar giudizio delle cose di Dio, a mettere in dubbio gli stessi primi principi dell'equo e dell'onesto.
Tolga Iddio, Venerabili Fratelli, che l'Italia, dalla quale, per la Sede dell'Apostolico Magistero stabilito in Roma, le nazioni straniere eran solite di attingere le pure e salutifere acque della vera dottrina, facciasi per l'avvenire lapide di offesa e pietra di scandalo; tolga Iddio che questa diletta parte della Vigna del Signore venga manomessa e distrutta da ogni vil bestia del campo; tolga Iddio che i popoli d'Italia resi furenti dai sorsi avvelenati del calice di Babilonia impugnino le parricide armi contro la Chiesa lor madre. Noi certo, e voi pure, per segreto giudizio di Dio riserbati a questi tempi sì perigliosi, dobbiamo guardarci dal temere le frodi e gli assalti di questi cospiratori contro la Fede dell'Italia; né dobbiam credere di poter vincerli colle sole nostre forze; imperciocché il nostro consigliere e il nostro braccio è Cristo Gesù, senza di cui non possiam nulla, e col quale possiamo ogni cosa (San Leone Magno, Ep. ad Rusticum Narbonensem). Per la qual cosa fate animo, o Venerabili Fratelli, e vegliate attentamente sopra del gregge a voi affidato, e studiatevi di difenderlo dalle insidie e dagli assalti dei lupi divoratori. Comunicatevi a vicenda i consigli, proseguite a riunirvi, come cominciaste già a fare; così che, conosciuti a fondo i principi dei mali, e le fonti dei pericoli propri a ciascun luogo, voi possiate sotto l'autorità e la guida di questa Santa Sede recar ad essi rimedio più prontamente; e per questa maniera, congiunti a Noi con perfettissima concordia di animi, voi rivolgiate con tutta la forza del vostro zelo pastorale ogni vostra cura e travaglio a questo fine, che tutti gli assalti, le arti, le insidie e gli sforzi dei nemici della Chiesa tornino vani ed inutili.
Ma ad ottenere questo scopo devesi procurare con ogni premura, che il popolo poco ammaestrato intorno alla dottrina Cristiana e la legge del Signore, e reso a così dire stupido dalla lunga licenza nei vizi che signoreggiano in molti, possa conoscer bene le insidie che gli si tendono e la laidezza degli errori che gli si propongono. Per la qual cosa, o Venerabili Fratelli, Noi richiediamo ardentemente dalla vostra pastorale sollecitudine, di non cessare giammai dal porre ogni studio perché tutti i fedeli commessi alle vostre cure siano, secondo la capacità di ciascuno, diligentemente ammaestrati intorno ai santissimi dogmi e ai precetti della nostra Religione, e perché siano ammoniti ed eccitati allo stesso tempo a conformare ad essi la loro vita e i loro costumi. Infiammate a questo fine lo zelo degli Ecclesiastici, di quelli soprattutto, cui è commessa la cura delle anime, affinché persuasi intimamente dell'altezza del Ministero confidato loro dall'altissimo, e avendo sempre dinanzi agli occhi le prescrizioni del Concilio Tridentino ( Sess. V cap. 2. - Sess. XXIV cap. 4 e 7 de Ref. ), con sempre maggiore alacrità, siccome richiedono le circostanze particolari dei tempi, si adoperino nella istruzione del popolo cristiano, e cerchino d'insinuare nel cuore di tutti salutevoli ammonimenti, indicando loro con brevità e chiarezza sia i vizii che hanno a sfuggire, sia le virtù che debbono praticare affinché sfuggano le pene eterne e giungano in Cielo.
Sennonché devesi procurare in ispecial modo, che i fedeli abbiano impresso e scolpito profondamente nell'animo quel dogma della santissima nostra Religione, che versa intorno la necessità della Cattolica Fede per giungere a salvamento. ( Questo dogma manifestato da G. C. e inculcato dai Padri della Chiesa e dai Concili, ha luogo pure nelle formule di professione di Fede, sia in quella che è in uso presso i Latini, come in quella che è invalsa fra i Greci, e anche in quella che è usata dagli altri cattolici dell'oriente). A questo fine gioverà grandemente, che nelle pubbliche preci i fedeli laici insieme col Clero rendano di tanto in tanto vivissime grazie al Signore per l'inestimabile favore della Fede Cattolica che per ispeciale sua misericordia ci compartì, e chiedano allo stesso Padre delle Misericordie che si degni di difendere la professione della medesima Fede nel nostro Paese e serbarla ivi nella sua integrità.
Pertanto voi porrete certo ogni studio perché tutti i fedeli ricevano per tempo da voi il Sacramento della Confermazione, pel quale per ispecial grazia di Dio vien conferita una particolare fortezza a professare costantemente la Fede Cattolica, in mezzo anche ai più temuti pericoli. Né ignorate nemmeno di quale giovamento sia allo stesso fine, che essi, mondatisi dalle sozzure delle colpe colla sincera detestazione dei peccati e col Sacramento della Penitenza, ricevano spesso divotamente il Santissimo Sacramento dell'Eucaristia, che è il vero cibo spirituale delle anime, e l'antidoto pel quale siam liberati dalle colpe quotidiane e preservati dai peccati mortali, e che è pure simbolo di quel corpo, il cui capo è Gesù Cristo, e al quale, stretti dai fortissimi vincoli della Fede, della Speranza e della Carità, a maniera di membra, volle che Noi appartenessimo, perché unico fosse il nostro sentimento, né ci fossero scismi fra di noi.
Noi non dubitiamo in verun modo che i Parroci e i loro coadiutori e gli altri Sacerdoti, i quali in certi determinati giorni, soprattutto quando corrono i dì delle consuete astinenze, sogliono destinarsi al ministero della Predicazione, siano per darvi mano nelle opere di cui abbinino testé favellato. Nulladimeno al loro concorso gioverà l'aggiungere talvolta gli aiuti straordinari degli Esercizi Spirituali e delle Sacre Missioni, le quali ove sieno affidate ad acconci operai, tornano la merce di Dio utilissime, sia per nutrire nei buoni la pietà; sia per eccitare alla penitenza i peccatori, quelli anche che fossero allacciati da ree, inveterate abitudini; sia ancora perché il popolo fedele cresca nel conoscimento di Dio, e porti frutti di buone operazioni, e premunito da più abbondevoli aiuti della grazia rifugga con più generosa costanza dalle perverse dottrine dei nemici della Chiesa.
Del rimanente in queste pie opere le vostre cure e quelle dei Sacerdoti che vi aiutano, mireranno fra le altre cose a ciò, che i fedeli concepiscano un orrore più sentito di quei delitti che si commettono con iscandalo altrui. Di fatto voi sapete quanto cresciuto sia in parecchi luoghi il numero di coloro che ardiscono di bestemmiare in palese i Santi del Cielo, e lo stesso Sacrosanto Nome di Dio, o ardiscono di vivere in pubblico concubinato, accompagnato alcune volte dall'incesto; o lavorano i dì festivi nelle aperte botteghe; o disprezzano anche in presenza di molti i comandamenti della Chiesa intorno i digiuni o la scelta dei cibi; e non hanno rossore di commettere altrettanti delitti. Per la qual cosa alle vostre fervide esortazioni raccordisi il popolo e consideri attentamente la immane gravità di questi peccati, e le pene severissime con cui saranno puniti gli autori di essi, non solo per la bruttezza che è propria di qualsivoglia delitto, ma sì ancora pel pericolo spirituale cui esposero con contagioso esempio i loro stessi fratelli. Infatti sta scritto: Guai al mondo per gli scandali... Guai all'uomo che diede scandalo ad altrui (Matth. XVIII, 7 ).
Tra i vari generi d'insidie, coi quali questi maliziosissimi nemici della Chiesa e della società umana si sforzano di trarre i popoli in inganno è certamente uno fra i precipui quello che loro somministra l'arte tipografica, tutto a seconda dei loro perversi disegni. Per la qual cosa si danno attorno in mille guise per ispargere e moltiplicare ogni giorno più cattivi libri, giornali e scritti volanti che riboccano di menzogne, di calunnie e di seduzioni. Anzi prevalendosi delle Società Bibliche, già condannate da questa Santa Sede ? sopra questo argomento, oltre i precedenti Decreti vi è la Enciclica di Gregorio XVI che incomincia " Fra le principali macchinazioni " , in data degli 8 di Maggio del 1846, i cui decreti Noi pure abbiamo inculcato nella Nostra Lettera Enciclica del 9 di novembre del 1846 ? osano a dispetto delle leggi ecclesiastiche ( Veggasi la Regola 4 fra quelle che scritte prima dai Padri trascelti nel Concilio di Trento, furono approvate poi da Pio VII nella Costituzione " Dominici gregis " dell'anno 1819; e l'aggiunta che le fu fatta dalla Congregazione dell'Indice per l'Autorità di Benedetto XIV il 17 Gennaio 1757: che sogliono premettersi all'indice dei libri proibiti ) di spargere Sacre Bibbie traslate in lingua volgare, corrotte e con sacrilego ardimento pessimamente interpretate, e ardiscono raccomandarne ai fedeli la lettura sotto speciosi pretesti di religione. Per la qual cosa voi comprendete benissimo, o Venerabili Fratelli, con quanta vigilanza e sollecitudine dobbiamo adoperarci, sia perché i fedeli sfuggano a tutto potere qualsivoglia lettura di quel genere, sia perché si ricordino esser vero soprattutto delle Divine Scritture, che niun uomo, soverchiamente affidato a se stesso, può arrogarsi il diritto di torcerle ai propri sensi, non attenendosi a quelle interpretazioni, che ha approvate e approva tuttavia la Santa Madre Chiesa; cui solo fu commesso dal Redentore di custodire il deposito della Fede, e di portar giudizio del legittimo senso della parola inspirata ( Veggasi il Tridentino ; Sess, IV, nel Decr. De Editione et usu Sacrorum Librorum).
Ma ad allontanare la peste dei cattivi libri sarà cosa giovevolissima, o Venerabili Fratelli, che chiunque primeggia presso di voi per insigne e sana dottrina, avutane da voi l'approvazione, dia egli pure alla luce degli scritti di piccola mole, sia a difesa della Religione, sia a salutevole ammaestramento del popolo. E apparterrà pure al vostro zelo che questi brevi scritti, e altri ancora di dottrina parimente incorrotta e di provata utilità dettati da altre penne, vengano sparsi fra i fedeli, secondo che le circostanze dei luoghi e delle persone lo consiglieranno.
Se non che tutti coloro che si affaticano con voi nel propugnare la Fede mireranno soprattutto a ciò: di insinuare, di conservare, di scolpire profondamente nell'animo dei fedeli commessi alle vostre cure un grande amore, venerazione e rispetto per questa Sede Apostolica, del quale ossequio voi, o Venerabili Fratelli, porgete meraviglioso esempio. Rammentino adunque i Cristiani che San Pietro, il Principe degli Apostoli (Dagli Atti del Conc. Efesino, Act. III e da San Pietro Crisologo, Ep. ad Eutpchen), vive e presiede ne?suoi successori, la cui sublime dignità non vien meno in un suo erede, per quanto indegno (San Leon. M., Serm. in Anniv. Assumpt. suae). Rammentino che Cristo Signor Nostro pose in questa Cattedra di Pietro l'inespugnabile fondamento della sua Chiesa (Matth. XVI, 18) ; che consegnò a Pietro le chiavi del Regno dei cieli (ibid. V, 19); e che pregò appunto perché la fede di lui non si spegnesse, e che gli comandò di raffermare nella fede i suoi fratelli (Luc. XXII, 31, 32 ); e come perciò il Romano Pontefice abbia il Primato sopra tutta la terra, e sia il Padre e il Maestro di tutti i Cristiani ( Dal Conc. Gen. Fior. nel defin. n. decr. dell ? nione ) .
Certamente il conservare e difendere la comunione e l'ossequio dei popoli verso il Romano Pontefice è il mezzo più breve e a così dire compendioso per conservarli costanti nella professione della cattolica Verità. Non può infatti accadere che alcuno si ribelli anche pochissimo dalla Cattolica Fede, senza che rigetti a un tempo l'autorità della Chiesa Romana, nella quale trovasi l'infallibile Magistero della stessa Fede fondato dal Divino Redentore, e nella quale perciò si è serbata per sempre la Tradizione che ci viene dagli Apostoli. Quindi gli eretici antichi e i protestanti dei giorni nostri, per quanto discordissimi fra di loro circa ogni altro punto di dottrina, si accordano mirabilmente in ciò, di muover guerra all'autorità della Sede Apostolica, che in nessun tempo, benché usassero di ogni arte e conato, non poterono indurre giammai in un solo dei loro errori. Per la qual cosa anche gli odierni nemici di Dio e dell'umana società non lasciano intentato qualsivoglia artificio, per affievolire e distruggere nel cuore degli italiani l'ossequio che portano a Noi e alla Santa Sede; certi che, venuti a capo di ciò, potranno allora soltanto contaminare l'Italia coll'empietà della loro dottrina e colla rea peste dei loro sistemi.
E per ciò che si attiene alle loro dottrine, già è noto a voi tutti, siccome, abusando dei nomi di libertà e di uguaglianza, mirino soprattutto a questo: di rendere familiari nel popolo le stolte e pericolose invenzioni del comunismo e del socialismo. È noto pure, siccome i maestri del comunismo e del socialismo, sebbene per diversa via e per vario modo, abbiano tutti per ultimo scopo, col mezzo di sofismi e di vane promesse di più felici condizioni, ingannare, agitare di continue scosse gli operai e le altre persone di basso stato, e adusarle a poco a poco a più gravi misfatti onde valersi poi dell'opera loro per invadere, manomettere, dilapidare le proprietà, in prima della Chiesa, e poscia di qualsivoglia altro legittimo posseditore: per violare infine tutti i diritti sia umani che divini; e per questa maniera distruggere il divin culto, e annullare ogni ordine della civile società. Ora in un pericolo sì spaventoso dell'Italia, è vostro debito, o Venerabili Fratelli, il mettervi in guardia e l'adoperare ogni sforzo, perché il popolo fedele ravvisi la perversità di questi fallaci sistemi e sappia che, se si lascerà da essi sedurre, quelle dottrine si volgeranno a sua rovina temporale ed eterna.
Siano adunque ammoniti i Fedeli commessi alla vostra cura, che è cosa appartenente alla natura della società umana, che tutti debbano prestare obbedienza all'autorità costituita in essa legittimamente; e che non si può toglier sillaba di quei comandamenti che sopra di questo particolare sono registrati nelle Divine Scritture. Ed infatti sta scritto: " Siate per riguardo a Dio soggetti ad ogni umana creatura, tanto al Re come superiore a tutti, quanto ai presidi come spediti da lui per far vendetta de?malfattori e per onorare i buoni; imperocché tale è la volontà di Dio, che operando bene chiudiate la bocca all'ignoranza degli uomini stolti; come liberi, e non quasi tenendo la libertà per velarne della malizia, ma come servi di Dio ". (I Petr. II, 13 seq. ). E in un altro luogo " Ogni anima sia soggetta alle potestà superiori; imperocché non esiste potestà che non venga da Dio; e quelle che vi sono, sono da Dio ordinate. Per la qual cosa chi si oppone alla potestà resiste all'adorazione di Dio: e quelli che resistono, chiamano sopra di se la dannazione " (Rom. XII, 1, 2 ).
Sappiano inoltre, che è pur cosa tutta propria della naturale e immutabile condizione delle umane cose, che anche fra quelli che non sono nei primi posti della società, gli uni soverchino gli altri e per le doti dell'animo o per quelle del corpo, ovvero per ricchezze, ovvero per beni esteriori; e che non può farsi giammai che per qualunque pretesto di libertà e di uguaglianza sia lecito invadere o violare in qualsivoglia maniera gli altrui beni o diritti. Anche sopra questo particolare vi sono nelle Divine Scritture parecchi comandamenti di Dio chiari e inculcati in più luoghi, pei quali ci si vieta non solo il rapire l'altrui, ma fino il desiderarlo.
Oltre di ciò rammentino i poverelli e i miseri di qualsivoglia fatta, quanto essi debbano esser grati alla Religione Cattolica, nella quale palesemente e in tutta la sua purità predicasi la dottrina di Gesù Cristo, il quale protestò di avere le beneficenze conferite ai poverelli ad ai miseri come fatte a se stesso (Matth. XVIII, 15; XXV, 40, 45 ); e volle pure annunziarci che nel dì del Giudizio chiederà un conto particolare delle opere di misericordia, sia per rimunerare coi premi eterni coloro che le avessero praticate, sia per punire di fuoco eterno coloro che le avessero neglette (Matth. XXV, 34 seq. ).
Orbene, dall'esatta custodia di questo pronunciamento del Redentore e di altri severissimi avvisi di Lui intorno alle ricchezze e ai pericoli che le accompagnano (Matth. XIX, 23 seq.? Luc. VI, 4; XVIII, 22 seq. ? Ep. Tac. V, 1 seq. ), ne è provenuto nella Chiesa Cattolica, che i poverelli e gli altri infelici si trovino presso di noi Cattolici in una condizione molto più mite che quella in che sono presso le altre nazioni. E più copiosi ancora sarebbero i sovvenimenti loro largheggiati, se parecchi istituti cui aveva dato essere la pietà dei nostri maggiori, negli ultimi sommovimenti della pubblica cosa, non fossero stati impoveriti, e anche distrutti. Del resto i nostri poverelli, dietro gl'insegnamenti di Gesù Cristo, si ricordino che non debbono rattristarsi della loro sorte: poiché lo stesso stato dell'indigenza dischiude loro una via più facile per procacciare la salute, ove essi sopportino di buon animo la povertà, e siano poveri di cose e anco di spirito. Conciossiaché ha detto Gesù Cristo: Beati i poveri di spirito; ché il regno dei cieli loro appartiene (Matth. V, 3 ).
Sappiano inoltre tutti i fedeli, che i re e i superiori tutti delle nazioni pagane si abusavano più spesso e più gravemente del loro potere che non fanno i superiori presso di noi; quindi riconoscano di essere debitori alla nostra santissima Religione, se i Principi dei tempi Cristiani timorosi, come ne li avverte la Religione, di quel severissimo giudizio che dovran dare di se quelli che comandano, e di quell'eterno supplizio pel quale i grandi sopporteranno grandi tormenti (Sap. VI, 6, 7 ), fan uso coi popoli loro soggetti di un reggimento più equo e più benigno.
Considerino infine i fedeli commessi alle vostre e alle Nostre cure, che la vera e perfetta uguaglianza degli uomini consiste nell'obbligo che corre ad ogni uomo di osservare la legge di Gesù Cristo; poiché quell'Iddio Onnipotente che creò il piccolo e il grande, e che ha cura egualmente di tutti (Ib. VI, 8 ), non darà esenzione a chicchessia, né avrà riguardo alla grandezza di alcuno (Ib.), e ha statuito il giorno nel quale giudicherà il mondo nell'Equità (Act. XVII, 31 ) pel mezzo del Suo Unigenito Figliuolo Cristo Gesù, il quale è per venire coi suoi Angioli nella gloria del Padre suo e renderà a ciascuno secondo le operazioni ( Matth. XVI. 27 ).
Ché se gli stessi fedeli, messi in non cale i paterni ammonimenti dei loro Pastori, e i comandi testé accennati della legge di Gesù Cristo, si lasceranno travolgere dai già detti promovitori degli errori moderni, e vorranno cospirare con loro nei perversi sistemi del socialismo e del comunismo, sappiano e considerino attentamente, che si tesoreggeranno appresso il Divin Giudice tesori di vendetta pel giorno estremo; e che da quella cospirazione non è per derivare nel popolo una benché lieve felicità, ma uno spaventoso accrescimento di miserie e di calamità. Conciossiaché non è in potere degli uomini il fondare nuove società e comunanze contrarie alla natural condizione delle cose umane: per la qual cosa il frutto di queste cospirazioni, ove per isventura prendano piede, non può esser altro, se non che indebolito e crollato fino dalle fondamenta l'odierno stato delle pubbliche cose per via di continue vicendevoli aggressioni, rapine e orribili stragi di fratelli contro i fratelli, alcuni pochi alla fine, arricchitisi delle spoglie di molti, prendano a signoreggiare con la rovina di tutti.
Del rimanente per liberare i fedeli dalle insidie degli empi, e rinfiammarsi alle opere di vera virtù, voi sapete benissimo, quanto poderoso mezzo siano la vita e l'esempio di coloro che al ministero divino si consacrarono. Eppure, o mio Dio, in piccol numero, sì, ma non mancarono qua e là per l ? talia alcune persone Ecclesiastiche, le quali, lasciato il lor posto, passarono al campo nemico, e furono di non piccolo aiuto ai nemici della Chiesa per trarre in inganno i fedeli. Sennonché a voi, o Venerabili Fratelli, la costoro defezione fu di pungente stimolo per vegliare con ardore sempre più acceso alla disciplina del Clero. E qui desiderando Noi, come lo porta il nostro debito, provvedere anche all'avvenire, Noi non possiamo rattenerci dal raccomandarvi di bel nuovo quello che inculcammo nella prima nostra Enciclica ai Vescovi di tutto il mondo (9 novembre 1846 ), cioè di andare a rilento nell'imporre le mani (I Tim. V, 22 ), e nell'usare una diligenza ognor più squisita nella scelta della Milizia Ecclesiastica. Soprattutto riguardo a coloro che desiderano essere iniziati nei Sacri Ordini, è necessario condurre diligentissime ricerche, se essi siano commendevoli per dottrina, per bontà di costumi, e per assiduità nel divin culto, così che abbiasi una fondata speranza che a maniera di lampade ardenti nella magione di Dio, siano per arrecare un giorno sia coll'esempio della vita, sia colle sante operazioni, edificazione e vantaggio spirituale al vostro gregge.
Ma siccome dai Ministeri amministrati a dovere un grande splendore e utilità nella Santa Chiesa derivano, e siccome il Clero Regolare dà opera insieme con voi nel procurare la salute delle anime; così Noi vi commettiamo, in primo luogo, o Venerabili Fratelli, di far consapevoli a nome Nostro le Comunità religiose delle vostre Diocesi, che Noi deploriamo di cuore le particolari disgrazie, che parecchie di loro ebbero a sopportare in questi ultimi tempi calamitosi; ma che frattanto Ci fu di non leggero conforto la pazienza di animo e la costanza nella virtù e nello zelo della Religione, nelle quali moltissimi Religiosi si sono resi degni di commendazione; sebbene non siano mancati alcuni, che dimentichi della lor professione, con iscandalo dei buoni e dolore sì Nostro che dei loro fratelli, indegnissimamente prevaricarono. In secondo luogo poi vi commettiamo di esortare a nome Nostro i Presidi e Superiori delle stesse Comunità, perché secondo esige il loro dovere, non perdonino a qualsivoglia cura e industria perché la Disciplina Religiosa ove è in fiore rinvigorisca ognor più, e perché là ove ha sofferto alcun danno riviva al tutto e si rinnovelli. Gli stessi superiori ammoniscano, confortino, rimproverino all'uopo i religiosi loro alunni, perché considerando essi seriamente con quali voti si sono astretti, si adoprino con ogni premura in soddisfarli, e osservino con grande diligenza le regole dei loro Istituti, e portando continuamente nel loro corpo la mortificazione di Gesù Cristo si astengano da tutte quelle cose che sono aliene dalla lor vocazione, e si esercitino in quelle opere che o alla carità di Dio e del prossimo, o all'acquisto della perfezione appartengono. Si guardino in ispecial modo i sopraddetti Superiori di Ordini dall'ammettere alcuno nella Religione, se prima non avranno disaminato con ispecial accuratezza la sua indole, vita e costumi; oltre di che non ammettano alla professione religiosa se non quelli, che dato termine al loro noviziato, avranno fornite così chiare prove di vocazione, che si possa credere con fondamento che essi non si appigliano allo stato religioso mossi da alcun altro motivo, fuorché quello di vivere soltanto in Dio, e per procurare la propria e la salute altrui, secondo il peculiar fine di ciascun Ordine. Sopra del quale particolare oggetto Noi abbiamo fermo in animo che si osservino tutte quelle cose che a vantaggio degli Ordini Religiosi furono stabilite e prescritte nei decreti del 25 Gennaio dell'anno scorso dalla Nostra Congregazione sopra lo stato dei Regolari, e che furono approvate dalla Nostra Apostolica Autorità.
Dopo di che, richiamando il discorso alla sceltezza del Clero secolare, Noi vi raccomandiamo in primo luogo l'ammaestramento e l'educazione dei giovani Chierici; poiché è quasi impossibile che alcuno addivenga idoneo Ministro della Chiesa, se dai primi suoi anni non si è esercitato a dovere nell'adempimento dei suoi sacri doveri. Per la qual cosa proseguite, o Venerabili Fratelli, a porre ogni opera e studio perché gli aspiranti alla sacra Milizia siano accolti, per quanto è possibile, nei Seminari Ecclesiastici, e perché ivi, a modo di piantagioni novelle, crescenti attorno al Tabernacolo del Signore, si formino alla innocenza dei costumi, alla religione, alla modestia e allo spirito ecclesiastico, e imparino a un tempo le inferiori e le superiori discipline sotto la savia direzione di sceltissimi maestri, che professino dottrine aliene da qualsivoglia ombra di errore.
Nondimeno, siccome non è possibile che tutti i giovani Chierici compiano nei Seminari la carriera dei loro studi, per altra parte essendo cosa certissima che anche i giovinetti del clero secolare debbono essere a parte della vostra pastorale sollecitudine, così spetta a voi vegliare, o Venerabili Fratelli, sopra tutte le pubbliche e private scuole, e adoperarvi con ogni studio e industria perché la ragione degli studi sia in esse conforme in ogni sua parte al Cattolico insegnamento, e perché la gioventù ammaestrata convenientemente in esse nella vera virtù e nelle buone arti e discipline da professori idonei e di specchiata probità e religione, venga premunita degli opportuni aiuti, coi quali ravvisi le insidie che le sono tese dagli empi e possa riuscire di ornamento e di utilità a sé, e alla cristiana e civile repubblica.
E in quanto a questo, usando di una pienissima libertà, voi vi prenderete una special cura dei professori delle Sacre Discipline, e di tutte le altre cose che appartengono al dominio della Religione, o che la toccano da vicino. Siate vigilanti perché nelle scuole, soprattutto per ciò che riguarda la Religione, si faccia uso di libri immuni da qualsivoglia benché lieve sospetto di errore. Fate avvertiti i Pastori di anime, perché vi diano mano in tutto ciò che ha riguardo alle scuole dei fanciulli e dei giovinetti della prima età: perché siano destinati a tali scuole Maestri e Maestre di paragonatissima onestà, e perché nell'ammaestrare i fanciulli e le fanciulle nei rudimenti della Fede Cristiana si faccia uso di libri approvati da questa Santa Sede. Nel che non dubitiamo che i Parroci siano per essere loro di esempio; anzi, siam certi che i medesimi Parroci dietro le vostre esortazioni attenderanno con zelo ognor più crescente all'ammaestramento della fanciullezza nei rudimenti della Dottrina Cristiana, memori che un così fatto genere di istruzione è uno dei loro doveri principalissimi ( Tridentinum , Sess. . XXI V, c. 4 ?Benedetto XIV, Const. "Etsi nimis" , 7 Febbr . 1742). Gli stessi poi dovranno essere ammoniti ad avere innanzi agli occhi sia nelle loro istruzioni ai fanciulli, sia al rimanente del popolo, il Catechismo Romano, pubblicato per ordine del Concilio di Trento e di San Pio V immortal Nostro Predecessore, e cui poi altri Sommi Pontefici, ed in ispecial modo Clemente XIII di felice memoria raccomandarono di bel nuovo a tutti i reggitori di anime, come un acconcissimo aiuto per tener lontane le frodi delle dottrine perverse, e per dilatare e render stabile la vera e sana dottrina. (nell'Enciclica a tutti i Vescovi in data del 14 Giugno 1764).
Non meravigliatevi, o Venerabili Fratelli, se Ci siamo trattenuti alquanto lungamente sopra questo argomento. Ed infatti non isfuggirà certo alla vostra prudenza, che in questi tempi pericolosi, sì voi che Noi, dobbiamo porre ogni studio, e fare ogni sforzo, e usare di una grande fortezza di animo e vigilanza, in tutto ciò che spetta alle scuole, e l'istruzione e l'allevamento dei fanciulli e dei giovani di ambedue i sessi. Imperocché vi è noto, che gli odierni nemici della Religione e dell'umana società, mossi da uno spirito al tutto diabolico, rivolgono tutte le loro mene a questo scopo di pervertire dal primo fiore degli anni le menti e i cuori dei giovani. Per la qual cosa non lasciano nulla d'intentato perché tutte le scuole e istituti, destinati all'educazione della giovinezza, vengano sottratti per ogni verso all'autorità della Chiesa e alla vigilanza dei Sacri Pastori.
Ma quanto a ciò Noi abbiamo fiducia che tutti i dilettissimi Nostri Figliuoli nel Signore i Sovrani dell'Italia verranno in vostro aiuto col potente lor braccio, sì che possiate soddisfare al vostro debito più pienamente, nelle cose già dette; né dubitiamo che essi vorranno prendere la difesa della Chiesa e di tutti gli spirituali e temporali suoi diritti. Certo non vi è cosa che si convenga meglio di questa alla religione e pietà avita, di cui si mostrano animati, e della quale sono di esempio ad altrui. Non isfugge per fermo alla loro avvedutezza che i primordi di tutti i mali che ci opprimono sì gravemente, si hanno a ripetere dai danni che la Religione e la Chiesa ebbero a sostenere già dal bel principio del Protestantesimo. Quei Principi conoscono assai bene, che dall'autorità dei Prelati Ecclesiastici soventi volte conculcata, e dalla ostinatezza crescente ogni giorno più nel violare a man salva i divini ed ecclesiastici comandamenti, ne risultò che diminuisse pure nei popoli l'ossequio verso la civile Potestà, e si schiudesse la via agli odierni nemici della pubblica tranquillità per macchinare ribellioni contro i Monarchi. Quei Principi comprendono a maraviglia, che dalla usurpazione, dal saccheggio e dalla pubblica vendita dei beni temporali appartenenti per legittimo diritto di proprietà alla Chiesa, ne nacque che illanguidisse nei popoli la riverenza verso le proprietà sacre per religiosa destinazione, e che quindi molti prestassero volentieri l'orecchio agli audacissimi difensori del socialismo e del comunismo, i quali van divisando anch'essi d'impadronirsi, e dividere e convertire in qualsivoglia altro modo ad uso altrui le umane proprietà. S'avveggono inoltre che quei legami con cui in addietro con molteplici artifizi si vollero legare i Pastori della Chiesa, anziché non usassero liberamente della sacra loro Autorità, quei legami stessi vennero a costringere a poco a poco la Potestà civile. Conoscono finalmente che non vi è rimedio alcuno più pronto né più efficace contro le calamità che ci affliggono, del far rivivere in tutta l'Italia l'antico splendore della Religione e Chiesa cattolica, nella quale non ha dubbio trovarsi acconcissimi rimedi per qualsivoglia condizione di uomini e bisogno che occorra.
E in verità (sono parole di Sant'Agostino) " la Chiesa Cattolica abbraccia non solamente lo stesso Dio, ma anche la dilezione e la carità del prossimo per guisa, che sovrabbonda in lei ogni sorta di medicamento confacentesi ai morbi, dei quali infermano le anime pei loro peccati. Ella fanciullescamente i fanciulli, fortemente i giovani, quietamente i vecchi, siccome porta l'età del corpo e dell'animo di ciascuno, esercita ed ammaestra. Ella assoggetta con pura e fedele obbedienza le mogli ai loro mariti, non perché sfoghino la libidine, ma perché generino figliuoli, e pel bene della domestica società; e vuole che il marito sia superiore alla moglie non perché irrida al sesso più debole, ma perché l'ami con sincera affezione. Ella sottopone i figli ai parenti con una cotale libera servitù, e vuole che questi sovrastino a quelli con amorevole impero. Ella lega i fratelli ai fratelli col vincolo della Religione, vincolo più stretto e durevole che quello del sangue; e ogni legame di parentela e ogni strettezza di affinità, serbati intatti i vincoli della natura e della volontà, stringe con vicendevole a amore. Ella insegna ai servi l'affezionarsi ai padroni non tanto per necessità di condizione quanto per la soavità del dovere; e colla considerazione di un Dio Signore universale di tutti, rende i padroni miti verso i loro servi e propensi più ai consigli che non ai castighi. Ella colla ricordanza dei primi Padri congiunge i cittadini ai cittadini, i popoli ai popoli, e gli uomini tutti, non tanto avvicinandoli della persona, quanto stringendoli di fraterno amore. Insegna ella ai monarchi di provvedere ai popoli, ammonisce i popoli a soggettarsi ai monarchi. Insegna ella sollecitamente cui debbasi onore, cui affetto, cui riverenza, cui timore, cui conforto, cui ammonimento, cui esortazione, cui insegnamento, cui rimprovero, cui supplizio, addimostrando come non debbasi a tutti ogni cosa, e a tutti debba usarsi carità, e a niuno debba farsi aggravio (Sant'Agostino, De Moribus Catholicæ Ecclesiæ; lib. I )."
Pertanto Nostro e vostro debito si è, o Venerabili Fratelli, il non perdonare a qualsivoglia fatica, e non lasciandoci intimorire da qualsivoglia difficoltà, metterci con tutta la forza dello zelo pastorale a difendere nei popoli Italiani il culto della Cattolica Religione, e non solamente far fronte con alacrità ai conati degli empi che si studiano di distaccare l'Italia dal seno della Chiesa, ma sforzarci pure di ricondurre sul buon sentiero quei degeneri figliuoli di essa, che si fossero lasciati già sedurre dalle loro arti.
Nondimeno, siccome ogni favore più scelto e ogni dono perfetto scende dall'alto, portiamoci con fiducia, o Venerabili Fratelli, al trono della Grazia, e non cessiamo dal porgere vive suppliche e scongiuri sia con private sia con pubbliche preghiere al celeste Padre dei lumi e delle misericordie, sì che pei meriti dell'unigenito suo Figliuolo Gesù Cristo Signor Nostro, rivolgendo Egli il volto dalle nostre colpe, irraggi misericordiosamente le menti e i cuori di tutti coll'efficacia della sua grazia; e traendo a sé le volontà a Lui ribelli, renda gloriosa la Santa Chiesa per nuove vittorie e nuovi trionfi; per modo che il popolo che gli rende omaggio cresca per merito e per numero in tutta l'Italia, anzi per tutto il mondo. Invochiamo pure la Santissima Madre di Dio, l'Immacolata Vergine Maria, che col potentissimo suo patrocinio ottiene ciò che domanda, e le cui richieste non possono andar fallite; e invochiamo ancora il Principe degli Apostoli San Pietro, e il Santo Apostolo Paolo, e tutti i Santi del Cielo, perché il pietosissimo Iddio, alla loro intercessione, tenga lungi dai popoli fedeli i flagelli dell'ora sua, e conceda misericordiosamente a tutti coloro che sono insigniti del nome di Cristiani, di ripudiare colla sua grazia tutto ciò che si oppone a questo nome, e di operare tutto ciò che gli è conforme.
Infine, o Venerabili Fratelli, ricevete a pegno della nostra vivissima affezione la Benedizione Apostolica, che a voi tutti, e ai Laici fedeli commessi alla vostra vigilanza compartiamo con sincerissimo amore.



Note:

[Nota 1]
Giacomo Martina, Il Pontificato di Pio IX (1846-1878), di Roger Aubert 2a edizione italiana sulla 2° francese, parte I, S.A.I.E., Torino p. 355.

[Nota 2]
Giovanni Paolo II, Varcare la Soglia della Speranza, Mondatori, Milano 1994, p. 56.

[Nota 3]
Manlio Brunetti, Pio IX: giudizio storico-teologico, ed. Opera Pia Mastai Ferretti, Senigallia, 1992, p.15.

[Nota 4]
Lettera enciclica "Qui Pluribus", in Ugo Bellocci (a cura di), Pio IX (1846-1878)

[Nota 5]
Giorgio Candeloro, Storia dell'Italia moderna, vol. III, Feltrinelli, Milano 1979, p.60.

[Nota 6]
Giovanni Cantoni, l'Italia tra Rivoluzione e Controrivoluzione,saggio introduttivo a Plinio Correa DeOliveira,Rivoluzione e Controrivoluzione 3° ed.it. Cristianità,Piacenza 1977,p.44

[Nota 7]
G.Ricciardi,Conforti all'Italia, Parigi 1846

[Nota 8]
Enrico Nassi, La Massoneria in Italia, Newton Compton, Roma, 1982, p.140.

[Nota 9]
Aldo A.Mola Storia della Massoneria italiana, Bompiani,Milano, 1994,p.845

[Nota 10]
Pio IX, Lettera Enciclica Qui Pluribus, cit.

[Nota 11]
Giorgio Candeloro, Il Movimento Cattolico in Italia, Editori Riuniti, Roma, 1982, p. 140.

[Nota 12]
Denisi Mach Smith, Mazzini, Rizzoli, Milano 1993

[Nota 13]
Gazzetta di Roma, 1847-48, Monitore di Roma,collezione completa,

[Nota 14]
David Silvagni, La Corte pontificia e la Società romana, nei secoli XVIII, e XIX, in Biblioteca di Storia Patria, 1971, pp.209-210

[Nota 15]
David Silvagni,op. cit.

[Nota 16]
Gualdi A., "Rimembranze della mia vita". Roma, Tip. Popolo Romano, 1881

[Nota 17]
Relazione del Viaggio di Pio IX, Firenze -Galileiana, 1851

[Nota 18]
David Silvagni, op. cit.

[Nota 19]
David Silvagni, op. cit.

[Nota 20]
David Silvagni, op. cit.

[Nota 21]
Mariani T., "Scritti politici," Firenze, Le Monnier,1853

[Nota 22]
David Silvagni, op.cit

[Nota 23]
Gennarelli A., "Il Governo Pontificio e lo Stato romano".Documenti.Prato,tip.Alberghetti,1860,voll.2.

[Nota 24]
Gennarelli A., op.cit.

[Nota 25]
Vittorio Cervone, "Italianità di Pio IX," Società editrice napoletana,1980,p.99

[Nota 26]
Gennarelli A., op.cit

[Nota 27]
V.Vetere,"I ventidue anni del cardinale Antonelli", Roma 1871

[Nota 28]
Memorie Principali della vita di Maria de Rossi Schneider, p.17

[Nota 29]
Ibidem

[Nota 30]
Memorie Principali op. cit. p. 18

[Nota 31]
Memorie Principali op. cit. p. 19

[Nota 32]
Ibidem

[Nota 33]
Vittorio Cervone, op.cit.

[Nota 34]
Vittorio Cervone, op. cit

[Nota 35]
Giuseppe Spada, Storia della Rivoluzione di Roma dal 1 giugno 1846 al 15 luglio 1848, Firenze 1868-69, vol. III, P.3879

[Nota 36]
Luigi Salvatorelli, Pio IX e il Risorgimento, in Spiriti e figure del Risorgimento, Le Monnier, Firenze,1961, pp.253-257

[Nota 37]
Giacomo Martina . Pio IX, vol. I, Gregoriana, Roma 1974, p.101.

[Nota 38]
Pio IX, Allocuzione Non semel del 29 aprile 1848 in U.Bellocci, pp.44-48

[Nota 39]
Mazzini G., Edizione nazionale,scritti editi ed inediti

[Nota 40]
Mazzini G., op.cit.

[Nota 41]
Garibaldi,G., "Memorie", Rizzoli, Milano 1982

[Nota 42]
Ibidem

[Nota 43]
Roger Aubert,op.cit.,

[Nota 44]
Giuseppe Mazzini, lettera a Pio IX Pontefice Massimo, in Opere, Rizzoli, Milano 1967, pp.361-368

[Nota 45]
Roberto De Mattei, il Papa di Porta Pia, in Cristianità, anno VI,n.36, aprile 1978, p.4.

[Nota 46]
Luigi Salvatorelli, Pio IX e il Risorgimento, in Spiriti e figure del risorgimento, Le Monnier, Firenze 1961,pp.253-257

[Nota 47]
Pio IX, Allocuzione concistoriale Non semel del 29-04-1848,

[Nota 48]
Lettera a Pio IX Pontefice Massimo, in Opere, vol. II, Rizzoli, Milano 1967, pp.361-368

[Nota 49]
Augusto Del Noce, Il suicidio della rivoluzione, Rusconi, Milano 1975

[Nota 50]
Fiorella Barroccini, Roma nell'ottocento, Cappelli, Roma 1987, pag. 203


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