La domanda sul male e sulla sua origine, si pone dinanzi a Dio, al suo
cospetto. E' evidente come il sole che, se Dio non fosse, neanche il male sarebbe. Se avesse
ragione il materialismo, né la colpa morale, né il lutto sarebbero realmente
male, ma sarebbero semplicemente eventi che “appaiono” all'uomo, in una
realtà non dotata di radicale libertà e senso, in una natura né buona,
né cattiva. Come le idee di Dio, di anima e di libertà sono correlativa (e la non
verità della prima porterebbe alla insensatezza delle altre) così possiamo
affermare del male.
La lettura recente di alcuni contributi che si pongono volutamente e coscientemente da un
punto di vista teologico, da una prospettiva che considera il male non solo come evento morale
intra-umano, ma lo valuta al cospetto di Dio, ci ha spinto a voler condividere alcuni pensieri.
Il titolo “Pensieri da condividere” vuole esprimere proprio questo: non che essi
debbano necessariamente essere condivisi, ma che le parole di questo articolo sono scritte
proprio perché possano essere lette e lo scrittore di essi possa condividerli.
I tre approcci che proponiamo ci sono sembrati straordinariamente in consonanza e potrebbero
esser letti quasi come un testo unitario, pur nelle diverse sfumature.
E' in gioco innanzitutto che cosa sia il male o chi sia il male. E la sfumatura chi/che cosa -
come vedremo - è questione centrale. Non solo per l'origine del male. E' questione che
vuole identificare, nominare, ciò che il male stesso sia (e non si può definire
l'origine di qualcosa, se non si ha il coraggio di identificarlo). E' questione che determina
in conseguenza anche come il male si manifesti e quali siano le sue espressioni più
proprie.
Il card. J.Ratzinger, in un suo saggio che vi proponiamo, ha acutamente asserito il carattere
personale/non personale del male. Il maligno/il male è veramente nemico di Dio, è
veramente nemico dell'uomo – con linguaggio popolare potremmo dire che “ce l'ha con
l'uomo, se la prende con l'uomo, ce l'ha liberamente con lui” – con una
libertà che non è la necessità degli eventi naturali. Ma questa inimicizia
è proprio nella forma della non personalità. Non ha forse il pensiero cristiano
– ed è uno dei suoi contributi più significativi – mostrato che si
è persona, proprio perché si hanno relazioni e che queste relazioni sono
intessute di amore, di responsabilità, di fiducia, di fecondità, ecc. ecc.?
Eppure il male è proprio colui che non ha queste relazioni, colui che ha scelto e
sceglie di rifuggire da ogni relazione di amore, anzi di insidiare quelle che esistono, colui
che si è tagliato fuori da ogni fiducia da prestare a Dio e all'uomo. Il male è
rabbia, amarezza, tristezza, è il ghiaccio di una immobilità glaciale (come lo ha
ben descritto Dante). Ad una analisi precisa il male si rivela tutt'altro che goduria, piacere,
passione per la vita, ma piuttosto come l'incapacità di gioire, di prendere parte. Il
rifiuto di ogni relazione di bene diviene, infine, anche incapacità dell'amore di
sé: Il male si rivela così come essere personale, nella forma della non
persona.
E tutto questo perché non è semplicemente assenza di bene, come, pur acutamente,
talune posizioni filosofiche sono arrivate a definire, ma, più radicalmente, assenza di
quel bene che è Dio stesso, anzi opposizione decisa e determinata a Dio stesso, il
cosciente volgergli le spalle. E' rifiuto, non solo assenza di Dio. Il rifiuto di Dio è
così rifiuto dell'Origine della dignità personale umana, lotta contro il Creatore
stesso che diviene tentativo di dissoluzione della stessa personalità umana, a motivo
del legame di ogni persona con Colui che è l'Amante delle sue creature.
Ma seguiamo da presso il card.Ratzinger nelle sue considerazioni [1] . Esse prendono avvio dalla valutazione critica di un intervento
dell'esegeta H.Haag che, negli anni sessanta, si era espresso contro l'idea dell'esistenza
del Maligno.
Il vangelo della prima domenica di quaresima, che riferisce la tentazione di Gesù ad
opera di «Satana», dà occasione di anno in anno di meditare su quella
misteriosa potenza, che si nasconde dietro il nome di «Satana». Un ulteriore
impulso a questo problema venne alcuni anni fa da Tubinga; nel 1969 Herbert Haag, professore di
Antico Testamento, vi aveva pubblicato un libretto con il significativo titolo di La
liquidazione del diavolo?. Questo libretto culmina nella frase: «Noi abbiamo già
compreso che nel Nuovo Testamento il concetto di 'diavolo' sta semplicemente al posto del
concetto di 'peccato'» (p. 52). Al papa, che aveva sottolineato la reale esistenza di
Satana e si era dichiarato contrario alla sua dissoluzione in qualcosa di astratto, Haag ha di
recente rimproverato di ricadere nella visione del mondo giudaica dei primi tempi; Paolo VI
farebbe confusione, nella Sacra Scrittura, tra visione del mondo ed espressione della fede.
Cosa si può dire di ciò? E' importante qui, anzitutto, una precisazione
metodologica. Neppure Haag può negare che nel Nuovo Testamento Satana e i demoni
giochino un ruolo importante. Non può contestare nemmeno il fatto che nel Nuovo
Testamento il termine «diavolo» non rappresenta affatto un sinonimo di peccato, ma
allude ad una potenza esistente; l'uomo è abbandonato ad essa e ne viene liberato per
opera di Cristo, perché solo lui, nella sua qualità di «più
forte» può legare l'uomo «forte» (Lc11,22; cfr. Mc. 3,27). La
supposizione che si avrebbe conosciuto la possibilità di sostituire diavolo con peccato
sorge in Haag per via induttiva, senza un vero e proprio fondamento; il
«fondamento» si nasconde in una formulazione, che per la sua ovvietà
potrebbe indurre a rinunciare ad un esame più preciso: «Nel significato delle
forme di pensiero giudaiche di allora il diavolo appare nel Nuovo Testamento come l'esponente
del male. Gesù e gli apostoli si muovono entro queste forme di pensiero allo stesso modo
del loro ambiente» (p. 47). Qui si ammette — come il testo afferma
indiscutibilmente — che Gesù e gli apostoli fossero convinti dell'esistenza di
potenze demoniache; nello stesso tempo, però, si presuppone come del tutto evidente che
essi fossero vittime «delle forme di pensiero giudaiche di allora». Da qui non
è difficile derivare la conclusione seguente, che cioè «questa concezione
non è più conciliabile con la nostra immagine del mondo» (p. 27).
Ciò significa che il motivo per il «commiato dal diavolo» non poggia sulle
affermazioni bibliche, le quali sostengono il contrario, ma sulla nostra visione del mondo, con
la quale esso sarebbe «inconciliabile». In altre parole, Haag congeda il diavolo
non come esegeta, come interprete della Scrittura, ma come persona del nostro tempo, che
ritiene improponibile l'esistenza di un diavolo. L'autorità in forza della quale egli
asserisce il suo giudizio non è, dunque, quella di interprete della Bibbia, ma la
visione del mondo a lui contemporanea.
Si potrebbe pensare di aver così eliminato il problema, perché è
chiaro ormai che Haag giudica quello che è «conciliabile» con il pensiero
moderno, contro il testo della Bibbia, sulla base della sua concezione. Ma la questione non
è così semplice perché, in realtà, ci sono delle espressioni nella
Bibbia, che non si possono reputare come testimonianza della fede, ma devono venir considerate
come struttura della visione dei mondo, nella quale quell'idea particolare si esprime. Questo
vale ad esempio per la visione del mondo geocentrica, che venne difesa in un primo momento,
contro Copernico e Galilei, come dottrina biblica, finché si riconobbe che la Bibbia non
è competente per problemi di astronomia; ciò vale per l'interrogativo
sull'origine del mondo; per un certo tempo si volle vederla descritta letteralmente nel primo
capitolo della Genesi, finché si ritrovò la strada per dar ragione di nuovo alla
chiesa antica nell'ammettere che qui si tratta di affermazioni della potenza di Dio e del
compito dell'uomo, ma non di informazioni scientifiche. Si dovrà dichiarare pure che non
è affatto sempre chiaro fin dove arrivi l'affermazione di fede della Bibbia e cosa sia
soltanto una strumentalizzazione del suo tema peculiare, determinata dal tempo. Nel medioevo
l'idea della terra come centro dell'universo si era fusa così strettamente con la fede
nell'incarnazione di Dio, con la speranza in un nuovo cielo e una nuova terra, che la visione
del mondo eliocentrica apparve come un attacco al nucleo stesso della fede. Perché Dio
infatti dovrebbe essersi fatto uomo su un pianeta privo di importanza dal punto di vista
astronomico, posto in mezzo ad un gigantesco universo? La decisiva azione salvifica non era
stata privata di una degna sede? Solo con una faticosa lotta si poté arrivare a capire
cosa è necessario, e cosa non lo è, per credere nella «discesa» di
Dio. Per questo parla a sfavore di Haag la semplicità con cui egli stabilisce ciò
che è conciliabile o meno con la visione moderna del mondo; parla contro di lui la falsa
pretesa di decidere in qualità di esegeta, benché egli parli come filosofo e la
sua unica filosofia consista evidentemente in una irriflessiva modernità. Ma non
è ancora stato deciso in senso univoco il problema se qui, forse, non ci si trovi
realmente davanti solo ad un modo di vedere determinato dalla visione del mondo, il cui
contenuto reale si debba separare dalla forma.
Sorge perciò l'interrogativo: come si può chiarire ciò? Come si
può evitare che vengano qui ripetuti degli scontri falsi e dannosi come la disputa con
Galileo? Come si può impedire, viceversa, che la modernità venga amputata per
amore della fede stessa? Anche questo è accaduto, da Reimarus fino ai cristiani tedeschi
del Terzo Reich; nel mettere in guardia da nuovi casi Galileo, si tace in genere su questo
fatto, benché gli effetti di cristianesimi così conformistici fossero
probabilmente molto più catastrofici del processo a Galilei, che non fu soltanto un
prodotto dell'ostinatezza ecclesiastica, ma la lotta di un'intera società, la quale
doveva imparare a superare la scossa ricevuta dai principi spirituali della storia fin'allora
vissuta ed a distinguere di nuovo, nel cambiamento dei tempi, tra «stelle fisse» e
«pianeti», tra orientamento persistente e movimento transitorio. Non esistono
criteri che si possano impiegare subito, e senza tema d'errare, in ogni caso che si presenti;
il tracciare dei confini rimane un compito, che richiede anche un continuo sforzo spirituale;
si potrà comprendere così una lotta per i confini della fede, finché, per
un verso, rimane la disponibilità alla correzione sulla base di un sapere dimostrato e,
dall'altra parte, si riconosce che una fede può venir realizzata soltanto nella fede
comune con la chiesa; quello che di volta in volta viene considerato sostenibile o meno, non
è soggetto alle disposizioni di decisioni private. Anche se non esiste criterio alcuno,
che in tutti i singoli casi indichi automaticamente, volta per volta, dove termina la fede e
dove inizia la visione del mondo, esistono tuttavia una serie di aiuti per giudicare, i quali
indicano la strada da seguire nella ricerca di delucidazioni. Io ne nomino quattro. Un primo
criterio deriva dal rapporto dei due Testamenti. La Bibbia non esiste in uniformità, ma
nell'accordo tra Antico e Nuovo Testamento, che nel loro porsi di fronte e nella loro
unità si commentano a vicenda. Si deve affermare anzitutto che l'Antico Testamento ha
valore soltanto in unione col Nuovo, sotto i suoi segni, per mezzo della sua
rapportabilità, come pure che il Nuovo Testamento dischiude il suo contenuto solo grazie
al suo continuo riferirsi all'Antico. Questo dato di fatto è generalmente riconosciuto
per quanto riguarda le prescrizioni legislative dell'Antico Testamento; esse non hanno valore
di legge nella loro letteralità, ma valgono in quanto sono una parte della storia che
porta a Cristo, che è terminata in lui. La stessa regola di base, che Paolo ha
chiaramente formulato per la questione della legge, determina in generale la relazione dei
Testamenti. Se nell'ultimo secolo la si avesse avuta così chiaramente davanti agli occhi
come l'ebbero i padri della chiesa, si sarebbe evitata tutta la disputa sul racconto della
creazione. In base ad essa, infatti, il racconto della creazione della Genesi non ha valore
diretto, come testo veterotestamentario, nella sua nuda letteralità, ma in quanto viene
accolto nella prospettiva del Nuovo Testamento, nell'ambito della cristologia. Se si usa questo
criterio, si vede che Gv. 1,1 è l'assunzione neotestamentaria del testo della Genesi, la
cui vivace descrizione viene riassunta nell'unica affermazione: in principio era il Verbo.
Tutto il resto viene così rimandato nel mondo delle immagini. Ciò che rimane
è la provenienza della creazione dalla parola, la quale si rispecchia nell'Antico
Testamento in molte parole. Che senso ha questo criterio per le nostre questioni? Chi lo usa va
incontro ad un risultato sconcertante. Mentre noi nel problema della creazione e nella
questione della legge trovavamo, nel porre il Nuovo Testamento di fronte all'Antico, la
tendenza alla concentrazione, al riassunto in un semplice punto centrale, qui appare
esattamente il contrario, la tendenza cioè all'espansione; la presentazione di potenze
demoniache appare nell'Antico Testamento soltanto gradualmente; nella vita di Gesù
invece possiede un peso incredibile, che rimane immutato in Paolo e si mantiene fino agli
ultimi scritti del Nuovo Testamento, nelle lettere della prigionia e nel vangelo di Giovanni.
Questo processo di intensificazione, di estrema cristallizzazione del demoniaco — che
avviene nel passaggio dall'Antico al Nuovo Testamento, proprio in contrapposizione alla figura
di Gesù — e la persistenza del tema nell'intera testimonianza neotestamentaria
possiedono una notevole forza espressiva. A partire da qui si potrà dire che nella
storia iniziale della fede veterotestamentaria l'affermazione di potenze demoniache doveva
rimanere in disparte, perché si doveva far accettare, in primo luogo, contro ogni
dualità, la fede nel Dio uno ed unico. In un ambiente saturo di dei, che osservava
incerto i cambiamenti tra dei buoni e cattivi, il richiamo a Satana avrebbe tolto la sua
chiarezza alla decisiva professione religiosa. Solo quando la tesi dell'unico Dio, con tutte le
sue conseguenze, era divenuta possesso imperturbabile di Israele, fu possibile allargare lo
sguardo a delle potenze che superavano la dimensione dell'uomo, senza poter mettere in
discussione Dio, nella sua unicità. Questo processo storico rimane importante in quanto
anche oggi dà un parere vincolante sull'ordine gerarchico della conoscenza di fede. Al
primissimo posto sta l'essere Dio di Dio, la sua unicità. La fede cristiana va verso Dio
e, a partire da lui, vede il mondo; il cristiano, come dice Gregorio di Nissa a proposito del
libro di Qohelet (2,14), ha i suoi occhi nella testa, cioè in alto, non in basso. Egli
sa che colui che teme Dio non deve temere niente e nessuno e il timore di Dio è fede,
qualcosa di molto diverso da un timore servile, da una paura dei demoni. Ma esso è anche
qualcosa di molto diverso da un coraggio millantatore, che non vuol vedere la serietà
della realtà. E' proprio del vero coraggio non nascondersi le dimensioni del pericolo,
ma essere in grado di percepire la realtà nel suo insieme. E ciò chiarifica anche
il fenomeno dell'intensificazione: quanto più l'uomo sta dalla parte di Dio, tanto
più egli diventa realistico; quanto più chiari si mostrano i confini della
realtà, tanto più chiara diventa anche la contrapposizione a ciò che
è santo: le belle maschere del demonio non ingannano più colui che le osserva
partendo da Dio. Questo porta già ad un secondo criterio. Si deve indagare di volta in
volta in quale rapporto sta un'asserzione con la realizzazione interiore della fede e della
vita del credente. Delle affermazioni che rimangono soltanto modi di vedere teoretici, ma non
entrano nel vero e proprio svolgersi dell'esistenza, in via normale non potranno venir
annoverate tra ciò che è essenzialmente cristiano. Viceversa ciò che non
si presenta come un puro modo di vedere teoretico, ma sta nello spazio dell'esperienza di fede,
appare nella vita di fede come dato dell'esperienza, ha una posizione del tutto diversa. L'idea
del sorgere e del tramontare del sole, della posizione centrale della terra, poteva essere
quindi un modo di vedere naturale e variamente interpretabile della fede, non apparteneva alle
sue specifiche esperienze. La mistica, con la sua via dell'unione, portava piuttosto alla
relativizzazione di tutti gli schemi di visione del mondo. In questa questione mi sembra di
straordinaria importanza il fatto che la lotta con la potenza dei demoni appartiene allo
specifico cammino religioso di Gesù stesso. La Bibbia è a conoscenza delle sue
tentazioni (Lc. 22,28), non soltanto di quelle che vengono esplicitamente descritte; essa va
così avanti da poter affermare che Gesù è venuto nel mondo per distruggere
le opere del diavolo (1Gv 3,8). Questa formula compendia ciò che Gesù stesso dice
— nella serie di detti sull'uomo più forte e sull'uomo forte — della potenza
dei demoni, il cui regno egli, nella forza dello Spirito Santo, porta alla rovina (Mc.
3,20-30). Sorprende che egli, che non voleva lasciarsi trasformare in uomo del miracolo,
ritenesse la lotta contro i demoni la parte centrale del suo incarico (vedi ad esempio Mc
1,35-39) e che, di conseguenza, i pieni poteri su di essi costituiscano il nucleo del potere,
che egli conferisce ai suoi discepoli: essi vengono mandati «a predicare col potere di
cacciare i demoni» (Mc. 3,14s). La lotta spirituale contro le potenze che rendono
schiavi, l'esorcismo su un mondo abbacinato da demoni è una componente inseparabile
dell'iter spirituale di Gesù e sta al centro sia della sua particolare missione che di
quella dei suoi discepoli. La figura di Gesù, la sua fisionomia spirituale non cambia se
il sole gira attorno alla terra oppure se la terra si muove attorno aI sole, se il mondo si
è formato per evoluzione oppure no, ma viene decisamente cambiata, se si esclude da essa
la lotta con la sperimentata potenza del regno dei demoni. A questo secondo criterio è
strettamente collegato il terzo. Una Bibbia senza chiesa sarebbe soltanto una raccolta
letteraria. Perciò quando, al di là della necessaria ricerca scientifica di
ciò che è strettamente storico, la Bibbia viene esaminata come libro della fede,
quando viene cercata la distinzione tra fede e non fede, deve venir in ballo questa
unità di Bibbia e chiesa. Come già dicemmo, la fede può venir realizzata
soltanto nel credere insieme con tutti; essa svanisce dove viene superata dalla volontà
del singolo individuo. Come ulteriore criterio è necessario quindi ricercare in che
misura le affermazioni sono state accolte nella fede della chiesa. Ma la fede della chiesa non
è un qualcosa del tutto univoco e circoscrivibile, altrimenti la questione sarebbe
semplice. Si deve dunque discernere con più esattezza ed adoperarsi per scoprire in
quale misura qualcosa è entrato a far parte della vera ed interiore realizzazione della
fede, nella forma di base della preghiera e della vita stessa, al di là delle deviazioni
della tradizione. Così, ad esempio, la disputa sulla filiazione divina di Gesù,
sulla divinità dello Spirito Santo, sulla unità e trinità di Dio, è
stata portata avanti a motivo delle conseguenze per la liturgia battesimale, per la liturgia
eucaristica e quindi per il significato della conversione cristiana, quale si presenta nel
battesimo. Basilio, ad esempio, che portò a conclusione l'ultima disputa sulla
divinità dello Spirito Santo, ha discusso questo problema con molta rigorosità,
partendo dall'intima pretesa del battesimo e della sua forma liturgica. Lui sostenne che il
battesimo non è un trastullo liturgico, ma la solenne forma ecclesiale della decisione
esistenziale, supposta dall'essere cristiano. Si deve poter prenderla alla lettera, soprattutto
nel suo avvenimento centrale. Essa specifica cosa avviene nel divenire cristiani e cosa non
avviene. Ma, per ritornare alla nostra questione, l'esorcismo e la rinuncia a Satana fanno
parte dell'avvenimento centrale del battesimo; quest'ultima, assieme alla promessa a
Gesù Cristo, costituisce l'essenziale porta d'ingresso al sacramento. Il battesimo
introduce così l'uomo nel modello di esistenza di Gesù Cristo, nella sua lotta e
nella sua libertà. Viene a contatto con la sua esperienza spirituale e la trasferisce in
colui, che inizia ad imitare Cristo. Quando l'uomo cammina nella luce di Gesù Cristo il
demonio viene trasportato dall'altra parte e diventa così superabile. Ritorna con pieno
valore l'affermazione che se si volesse annullare la realtà della potenza demoniaca, si
cambierebbe il battesimo e con esso la realizzazione della vita cristiana. Nella ricerca sulla
chiesa, d'altronde, si dovrebbe includere l'esperienza dei santi, di coloro che credono in
forma esemplare; parlo della loro esperienza, non di tutte le loro idee. Questa esperienza
corrisponde all'esperienza di Gesù; con quanta maggior forza diventa visibile e potente
ciò che è santo, tanto meno il demonio può nascondersi. Per questo si
potrebbe dire senz'altro che lo scomparire dei demoni, il presunto divenire innocuo del mondo
vanno di pari passo con lo scomparire di ciò che è santo. Infine, come ultimo
criterio, deve venir ricordato il problema della «visione del mondo», della
conciliabilità con una conoscenza scientifica. La fede diventerà di continuo la
critica di ciò che di volta in volta ha valore di certezza in quanto moderno e nuovo;
però essa non può contraddire una conoscenza scientifica garantita, anche se
questa deve stabilire dei segni negativi così notevoli. Si sarebbe curiosi di sapere in
base a quali ragioni Haag decide «che questa concezione non è più
conciliabile col nostro mondo». E' evidente che essa si oppone al gusto medio della
gente; è altrettanto palese che essa non trova nessun appoggio in un mondo considerato
funzionalisticamente. Ma in un puro funzionalismo non c'è posto neppure per Dio
né per l'uomo come uomo, ma soltanto per l'uomo come funzione; qui dunque crolla molto
di più della sola idea del «diavolo». Rimane difficile cercar di sapere in
nome di quale filosofia Haag esprima il suo verdetto; secondo le apparenze egli parte da uno
schema personalistico fortemente semplificato. Ma le forme del personalismo più
approfondite hanno riconosciuto senz'altro che con le sole categorie di io e tu non è
possibile spiegare l'intera realtà; proprio il «rapporto» che unisce l'un
l'altro i due poli è una realtà caratteristica ed autonoma. Alcuni suggerimenti
tratti dal pensiero asiatico fanno oggi risaltare ancor di più questa coesione. Una
malattia psichica, così dicono ad esempio, non è un semplice modo di sentirsi
dell'io, ma si basa proprio su una perturbazione del «rapporto»; dal momento che il
rapporto non è in ordine, è spezzato, sviato, rovesciato, anche l'io stesso
è fuori fase. Il rapporto è una forza decisiva del destino della quale il nostro
io non può affatto disporre completamente. Il ritenere questo è un razionalismo
di una sincerità quasi fantastica. Qui il pensiero moderno mette a disposizione, mi
sembra, una categoria che ci può aiutare a comprendere di nuovo e con più
esattezza la potenza dei demoni, la cui esistenza è di certo indipendente da tali
categorie. Essi sono una potenza del «rapporto», col quale l'uomo è
confrontato ad ogni pié sospinto, senza che egli lo possa arrestare. Paolo intende
esattamente questo quando parla dei «signori di questo mondo tenebroso»; quando
dice che la nostra lotta è diretta contro di essi, contro le potenze celesti del male,
non contro la carne e il sangue (Ef 6,12).Essa si dirige contro quel
«rapporto» saldamente stabilito, che lega gli uomini l'uno all'altro e nello stesso
tempo li separa uno dall'altro, che usa loro violenza mentre fa da preludio alla loro
libertà. Qui si chiarifica una particolarità tutta specifica del demoniaco,
cioè la sua assenza di fisionomia, la sua anonimità. Quando si chiede se il
diavolo sia una persona, si dovrebbe giustamente rispondere che egli è la non-persona,
la disgregazione, la dissoluzione dell'essere persona e perciò costituisce la sua
peculiarità il fatto di presentarsi senza faccia, il fatto che l'inconoscibilità
sia la sua forza vera e propria. In ogni caso rimane vero che questo rapporto è una
potenza reale, meglio, una raccolta di potenze e non una pura somma di io umani. La categoria
dell'intermedio, che ci aiuta così a ricomprendere l'essere del demonio, si presta
inoltre per un altro servizio parallelo; rende possibile spiegare meglio la vera potenza
opposta, che diventa anch'essa sempre più estranea alla teologia occidentale, lo Spirito
Santo cioè. Noi potremmo dire, partendo da quella categoria, che egli è
quell'intermediario, nel quale Padre e Figlio costituiscono una cosa sola, l'unico Dio; nella
forza di questo intermediario il cristiano si pone di fronte a quell'intermediario demoniaco,
che sta ovunque «fra mezzo» ed ostacola un'unità.
Un teologo così «libero da pregiudizi» come H. Cox ha di recente
affermato che i mass-media, nei modelli di comportamento da loro elogiati, farebbero appello
«ai demoni non esorcizzati»; sarebbe perciò molto necessaria «una
chiara parola di esorcismo» (Stadt ohne Gott, 1967, p. 210;trad. it.: La
città secolare, Vallecchi, Firenze 1968). Forse egli lo pensa solo in termini
allegorici, non lo so. Ma chi come cristiano vede i baratri dell'era moderna, vede operare la
potenza dei sette demoni, che sono tornati nella casa pulita e vuota e mettono in moto il loro
non-essere, costui sa che il compito di esorcista del credente inizia oggi a riacquistare
quella necessità, che possedette all'inizio del cristianesimo. Egli sa che in questo
campo è debitore di un servizio al mondo e che trascura il suo incarico, se egli aiuta i
demoni ad avvilupparsi in quella anonimità, che è il loro elemento
prediletto.
Un secondo testo che vogliamo condividere è del teologo W.Kasper. Identica, rispetto alla riflessione di J.Ratzinger (e da lui dipendente, come asserito dallo stesso Kasper nelle note del testo) è la caratterizzazione del Maligno come colui che “esiste personalmente nel modo della decomposizione e dissoluzione del personale”. Proprio questo, originante dalla sua opposizione a Dio, nella volontà di fare di se stesso dio, rinunciando alla realtà di Dio e distorcendo la propria realtà creaturale, conduce il male ad essere “nulla”, nel senso che Kasper specifica ulteriormente nel seguente brano, tratto dal suo saggio Il problema teologico del male[2].
Punto di partenza delle nostre riflessioni potrà essere soltanto
il cuore della testimonianza biblica: l'atto universale ed escatologico di salvezza di Dio in
Gesù Cristo. E' attraverso esso che i principati e potestà malvagi si sono
mostrati, in ultima analisi, come un nulla. Ed è per tale motivo che la Scrittura ci
offre una vera determinazione ontologica del male qualificando i demoni come dei niente
[3] . Ora cercheremo anche noi, dunque,
d'interpretare la realtà del male come dei niente al cospetto di Dio [4] . La filosofia e teologia tradizionali ci consentono di
avvicinarci soltanto in parte a questo modo d'intendere il male. Come è noto, esse
distinguono fra il nulla assoluto, fra ciò che è semplicemente nulla, e il nulla
relativo, il nulla di qualcosa. Se con questo nulla s'intende la mancanza di qualcosa che
spetta ad una 'cosa' di per se stesso e necessariamente, avremo il concetto tradizionale del
malum concepito come una privatio boni debiti (mancanza di un bene che spetta per natura)
[5] . Ma questo concetto tradizionale di male non
basta a comprendere, nemmeno in modo approssimativo, il fenomeno del male così come
l'abbiamo individuato (...) Infatti non è possibile spiegare l'imponenza del male
richiamandoci semplicemente ad una mancanza. Rimane infatti da chiedersi in che modo risulti
giustificata la mancanza di qualcosa che spetta ad una 'cosa' di per sé, per sua stessa
natura. Entrambe le questioni c'inducono a riconoscere il carattere posizionale del male. Non
meno importante è un secondo approfondimento critico della definizione tradizionale del
male. Il bene e il male, dal punto di vista teologico, non possono venir definiti in termini
puramente ontologici come mancanza di bene ma soltanto a partire dalla relazione con Dio,
cioè come mancanza al cospetto di Dio, o pervertimento della relazione a Dio. Malvagia
è quella creatura dotata di libertà che non riconosce il senso del suo
essere-creata e vuole essere essa stessa pari a Dio. Cercando il senso del proprio essere
contro Dio, lo potrà trovare soltanto nel nulla, per cui essa stessa dovrà
diventare niente. È un niente che si distingue dal nulla: il male è niente, non
però nulla [Traduciamo das Nichts = il nulla e das Nichtige = il
niente. Das Nichtige in tedesco implica l'idea di nocività, di potenza negativa
ma attiva].
In termini positivi possiamo esprimere una triplice caratterizzazione del 'niente'.
Una simile perversione di posizione e negazione può derivare
soltanto da un essere dotato di conoscenza spirituale e di libero volere. Ed entrambi
appartengono all'essenza della persona. Questa si distingue da altri esistenti per il fatto che
l'essere le è stato affidato in coscienza e libertà. Soltanto la persona, quindi,
potrà realizzare o pervertire il senso del proprio essere. Se s'intende il concetto di
persona in questo senso formale non ancora riempito di un più preciso contenuto, non si
potrà fare a meno di caratterizzare le potenze malvagie come esseri strutturati in modo
personale, cioè come entità fornite d'intelligenza e capaci d'affermarsi
attraverso la volontà. Ovviamente, dando una simile caratterizzazione, si dovrà
tener presente anche che un simile concetto formale di persona può venir impiegato per
qualificare gli angeli e i demoni soltanto in modo alquanto analogico, tenendo conto dell'uso
ben più preciso che si fa nell'ambito umano. Il diavolo non è una figura
personale bensì una non-figura che si dissolve in qualcosa di anonimo e senza volto, un
essere che si perverte nel non-essere: è persona nel modo della non-persona
[8] . Non lo si può 'chiarire' ma
soltanto riconoscere nella sua dissociazione per essenza. Per cui non potremo né
dovremo delinearci nemmeno una qualche raffigurazione concreta del diavolo, questo
supporrebbe, infatti, una distinzione chiara, appunto quella cui il diavolo sfugge. Egli
esiste personalmente nel modo della decomposizione e dissoluzione del personale. E' la
distruzione progressiva di se stesso e al medesimo tempo la distruzione dell'intero ordine
cosmico. Egli potrà sprigionare e scatenare le possibilità escluse nella
realtà della creazione ma non potrà rimanere loro signore. Queste lo
sopraffanno, lo rendono una specie di apprendista stregone che non è più in
grado di scacciare gli spiriti che ha evocato. Si trova sotto la maledizione e il destino
della sua stessa opera. E ciò significa che non è più un lui soltanto
ma anche un esso, anzi è il sinonimo delle potenze impersonali e distruttive, del
negativo e caotico presente nel mondo. Non per nulla la Scrittura parla di 'principati e
potestà' del male7 [9] . Con
questo essa sta ad indicare che la realtà del male è un potere strutturato sia
in chiave personale, incentrato su Dio, come pure un potere che ruota attorno all'Esso e che
si manifesta in sistemi e processi anonimi ma anche in strutture di tipo apersonale.
Non è dunque possibile ricondurre il mistero del male ad un unico concetto. In
definitiva qui non ci troviamo di fronte a delle speculazioni ontologiche ma ad enunciati di
tipo soteriologico. Non si tratta di asserti che si fanno su un determinato oggetto ma di
enunciati che aprono un orizzonte al centro della fede cristiana: il messaggio della nuova
creazione in Gesù Cristo, attraverso la quale Dio ha ristabilito la pace e la
riconciliazione degli inizi non soltanto nell'uomo ma nel mondo intero. Con questo nuovo inizio
i poteri e principati del male si sono rivelati una nullità, hanno subito la derisione e
la vergogna. Per tale ragione il diavolo, di fatto, è in certo senso una figura
'ridicola'. Il vero obiettivo della demonologia neotestamentaria è quello di fondare la
libertà cristiana8 [10] . I demoni, che
presumevano di essere i signori del mondo, si sono dimostrati, alla luce di Dio, dei 'niente',
per cui il cristiano non è debitore in nulla nei loro confronti: esso è libero da
tutte le idolatrie cosmiche, libero da ogni osservanza di precetti e divieti fondati su basi
cosmiche, libero da ogni possibile tabù, libero dalla paura di fronte a tutto ciò
che di orrendo esiste al mondo. Purtroppo, nella storia, questa funzione critico-liberatoria
della demonologia cristiana si è tramutata spesso nel suo esatto contrario. Oggi abbiamo
tutte le nostre buone ragioni per riaffermare, sia all'interno che all'esterno, questi motivi
critici.
Infine vi invitiamo a seguire il ricchissimo, anche se non facile, intervento del filosofo Vittorio Possenti che, nel suo recente saggio Essere e libertà [11] , titola un capitolo: Dio e il male. Due citazioni aprono le sue riflessioni. Innanzitutto lo PseudoDionigi Areopagita che, nel Trattato sui nomi divini ha scritto:
Il male non è in Dio, né ha in sé nulla di divino, né viene da Dio.
Poi Plotino che, in Enneadi VI, 7, 23, aveva dichiarato:
La natura del Bene era già ciò che è,
prima delle altre cose, quando il male
ancora non c'era.
Queste due splendide affermazioni orientano già alla chiara
consapevolezza del fatto che il pensiero cristiano non è dualistico. Non riconosce
cioè due principi, egualmente divini ed eterni, del bene e del male. Il male ed il bene,
pur essendo ovviamente antitetici e, quindi, correlativi, non hanno eguale dignità e,
soprattutto, parità ontologica e temporale. Il cristianesimo dichiara la sua
estraneità da espressioni filosofiche e religiose come quelle del Manicheismo e del Tao
estremo-orientale ed, a maggior ragione, dalle loro banalizzazioni New Age. Il Bene, Dio,
è ontologicamente primo ed eterno. Il male è secondario e temporale, non
esistente dall'eternità.
Vittorio Possenti inizia difendendo la centralità della questione filosofica del
male.
La sfida
Un retaggio si diparte dal XX secolo, forse il più oscuro e
sanguinoso della storia umana, e sta nella lacerante domanda sul male. Se il pensiero antico
iniziò la gigantomachia sull'essere e sul divenire che dura tuttora, forse nel nostro
tempo si annuncia una gigantomachia sul male. Sono famose le parole di san Girolamo a proposito
di Giobbe, libro che vale come scrigno per la meditazione e la cui scoperta è eterna
quanto nell'uomo la sofferenza: “Spiegare Giobbe è come tentare di tenere nelle
mani un'anguilla o una piccola murena: più forte la si preme, più velocemente
sfugge di mano”, e questo nonostante lo splendore dei simboli e la profondità del
discorso. Quasi lo stesso si potrebbe dire dell'interrogativo sul male: più cerchi di
comprenderne il mistero, più questo sembra farsi fitto. Eppure abbandonare l'impresa
sarebbe vile, oltre che impossibile: se anche l'uomo volesse abbandonare il male, questo non
abbandonerà l'uomo.
Il male costituisce un'inesorabile possibilità dell'esistenza umana. Come suggerisce
la riflessione contemplativa, che sarebbe stoltezza mettere da parte, la possibilità del
male è necessaria, dal momento che la limitazione è inerente a tutte le cose
finite. Non potendo Dio fare l'assurdo, egli non potrebbe chiamare all'esistenza una creazione
che fosse ad un tempo finita e perfetta, e dunque senza male (assunto che va lontano,
implicando che, a differenza dal manicheismo, non è richiesto un Principio malvagio per
render conto dell'esistenza del male). A chi perseveri nella meditazione si farà chiaro
che la domanda più radicale tra tutte, quella che potrebbe denominarsi la “domanda
delle domande”, la più saettante e misteriosa, quella dove l'uomo lasciato solo
incontra il buio più fitto, non suona “Perché c'è il male?”,
ma “perché Dio ha creato?” A tale interrogativo non può assegnare
risposta nessuna gigantomachia sull'essere o sul male, perché occorrerebbe porsi
nell'Assoluto e nessuna ragione umana, per quanto acuta e risplendente, può farlo. La
risposta può venire dalla Trascendenza ed il suo araldo è la rivelazione, non la
ragione. Nessuna astuzia del pensiero, nessuna saggezza intramondana sembra alla misura di
quella dismisura che è il male: se l'intellectus mundi da solo è impari,
può cercare un'alleanza con l'intellectus fìdei.
Nel porre il problema dinanzi al Trascendente, è imperativo che lo scandalo del male
rimanga in tutta la sua forza. Non dalle dialettiche “speculative”, che riducono il
male ad apparenza, ci si può attendere la vittoria sul male, ma dall'unione di
contemplazione e azione, preghiera e lotta, compresa quella con Dio, in cui si inoltrarono
Giacobbe e Giobbe. Sarà sempre possibile negare la legittimità dell'atteggiamento
che sul male si colloca dinanzi a Dio. Essa rimane però dentro un paradosso ineludibile:
la negazione di Dio è nutrita dalla contestazione che l'enigma del male gli indirizza;
ma tale enigma non fa un solo passo avanti, al contrario, con la soppressione di Dio. Con
questa la sofferenza si pone come ancor più insensata, non si sgomina né il
dolore né il male. Viene anzi persa la speranza in una finale vittoria su di loro. Al di
là della infeconda risposta atea, la meditazione umana ha posto il problema del male
dinanzi a Dio secondo tre fondamentali forme:
Nel corso delle epoche la coscienza umana ha elaborato una fenomenologia
del male, tanto più intensa quanto più nasceva da un'esperienza dolorosa e
assillante. Colpa, peccato, sofferenza, infermità, morte, disarmonia e ferita
dell'esistenza, male commesso e male subito: non è qui nostro intento ripercorrere la
multiforme fenomenologia del male e della coscienza infelice, quanto interrogare sulla natura
del male morale e sulla sua produzione da parte della libertà. Ma senza nutrire una
visione esclusivamente morale del male, che lo assimili solo a quello di colpa, che anzi un
problema altrettanto complesso è costituito dal male di natura (malattia, morte,
cataclismi, dolore, miseria).
Può darsi che qualche lettore attribuisca questo capitolo al versante della
teodicea, il cui concetto tuttavia non ci attira. Oltre ad appartenere ad un'epoca storica
ormai lontana, la teodicea aveva l'aria di mettere in campo ambiguamente delle attenuanti per
Dio. Di essa Kant, che pur la riteneva votata alla sconfitta, diceva: “Per teodicea si
intende la difesa della somma saggezza del Creatore dell'universo contro le accuse che le
vengono mosse dalla ragione sull'assurdo corso del mondo. Questo si chiama sostenere la causa
di Dio” [12] . Più che di
sostenere solo la sua causa, più che di difendere o giustificare Dio, l'uomo ha bisogno
di comprendere il mistero del male e di stringere un patto con l'assoluto per lottare con lui
contro il male: in ciò si concentra forse l'esistenziale fondamentale nel dramma del
male. E possibile lottare contro qualcosa che ci attanaglia, ma di cui ignoriamo natura e
origine? Per questo ogni lotta contro il male ha bisogno di abitare nello spazio di una sempre
rinnovata meditazione su di esso, là dove intellectus mundi e intellectus fidei si danno
la mano e cercano di collaborare. Il metodo che seguiremo è ontoteologico. Ontoteologia:
parola venerabile e, nel contempo, non priva di rischi se intesa di traverso. Conosciamo la
folla d'obiezioni che da tempo le vengono elevate contro, non di rado lanciate come omaggio
alla moda dell'ora. Nel discorso sul male entrano in campo più strati, a partire dal
simbolo e dalla fenomenologia del male. E se ci sembra che non vi siano speranze di raggiungere
un po' di luce se il livello tipicamente ontoteologico viene cassato, l'approccio non si limita
a questo ambito. Cerca piuttosto di intessere un fecondo rapporto con la religione e il
“mito”. Il pensiero mitico non appartiene al passato, ma ci riguarda e ci
interpella perennemente: esso, al di là del pensiero concettuale-universale, racconta
una storia secondo idee ed immagini, ed è latore di significati che, portati e vestiti
dal simbolo, non sono agevolmente traducibili in altri linguaggi. Non possiamo intendere il
mito come un insieme di racconti e immagini privi di senso. Nell'intuizione mitica si esprime
una facoltà specifica dello spirito, su cui solo un razionalismo oltranzista può
gettare il discredito. Nella meditazione sul male e sul suo legame con l'uomo e con Dio
l'ontoteologia tocca il punto più alto e arduo. Essa, su cui ha puntato gli strali
Heidegger con dubbie ragioni, non è un pensiero sistematico, logico, astratto e
indifferente al dolore del mondo (come potrebbe forse essere la Scienza della logica di Hegel).
Essa si tiene in contatto con le grandi manifestazioni del male, e con le risposte dovunque
avanzate: quella della tragedia greca (cfr. il ciclo di Edipo), quella biblica, quella di altre
culture. L'ontoteologia sta accanto alla condizione umana, dove si esprime la dialettica
vissuta di peccato, colpa, sofferenza e morte. Essa cerca di imparare dappertutto, per poter
dire qualcosa sulle eterne domande sul male...
Qui Vittorio Possenti propone di suddividere in tre parti la sua analisi,
riflettendo in primo luogo sulla filosofia interpellata dal male, in secondo luogo sulla
risposta di L.Pareyson e di H.Jonas ed, infine giungendo ad un approccio di carattere etico e
religioso. Noi seguiremo la prima e la terza parte, lasciando da parte le suggestioni proposte
dai due autori Pareyson e Jonas, il primo cristiano ed il secondo ebreo, che indagano il tema
del male, rigettando, conformemente alla posizione dello stesso Possenti e nostra, una lettura
solamente secolarizzata e non religiosa del negativo.
La prima parte del saggio di Possenti allarga ulteriormente l'impostazione del problema, la
terza indica una proposta di lettura proprio a partire dalla rivelazione biblica
ebraico-cristiana e non solo della “pura” ragione. Ecco la prima tappa ed, a
seguire, l'ultima della sua riflessione sempre nel saggio Essere e libertà.
La filosofia dinanzi al problema del male
Il primo compito dell'uomo è di non arretrare di fronte al male,
bensì di guardarlo in faccia; non però nel senso hegeliano secondo cui la dimora
presso il negativo muti quest'ultimo in essere, in virtù di una trasformazione
dialettica in cui si esprime un punto alto del razionalismo (e forse anche per questo è
oggi necessario rinnovare il nostro requiem per la dialettica). Dimorare senza connivenza
presso il male tempra la persona, se questa è capace di separarlo dal bene, di non
confonderlo con quest'ultimo, di mantenersi libera. Secondo Berdjaev “il fatto di non
vedere il male rende l'uomo superficiale, gli impedisce di attingere alle profondità
della vita: la forza della sua coscienza è legata alla denuncia del male e, quando si
aboliscono i limiti, l'uomo si trova in uno stato di confusione o d'indifferenza, la sua
personalità comincia a disgregarsi: nella confusione e nell'indifferenza, nella perdita
della nozione del male, l'uomo è sprovvisto della libertà dello spirito”
[13] . Con ciò viene individuato un
compito estremamente impegnativo per il pensiero, di fronte al quale una larga parte della
filosofia e della teologia contemporanee si è mostrata colpevolmente timida. In modo
persuasivo L. Pareyson... ha dato voce all'estremo stupore di chi, dopo l'abisso di male e di
sofferenza della seconda guerra mondiale e dell'Olocausto, ha visto la filosofia portarsi, come
se nulla fosse accaduto, su pensieri sofisticati ed astratti, nell'oblio del senso tragico di
quegli eventi: “Mi ha sempre stupito il fatto che nell'immediato dopoguerra abbiano avuto
grande diffusione filosofie esclusivamente dedite a problemi tecnici di estrema astrattezza e
sottigliezza, mentre l'umanità stava appena uscendo dall'abisso del male e del dolore in
cui era precipitata. Com'è possibile, mi chiedevo, che la filosofia chiuda gli occhi di
fronte al trionfo del male, alla natura assolutamente diabolica di certe forme di
malvagità?”. Su sponde vicine nel rilevare lo scandalo di un'assenza si colloca O.
Höffe. Invitando la filosofia a recuperare il tema del male, egli osserva che è
davvero sorprendente che essa non rifletta più sul male e che anzi ne abbia smarrito il
tema [14] .
A ridosso di tali questioni si colloca la richiesta dell'ebraismo contemporaneo di non
dimenticare l'Olocausto. Non dimenticare, perché Auschwitz è diventato un luogo
centrale per la comprensione dell'uomo e di Dio, del bene e del male. [15] L'enigma dell'Olocausto si pone come un crocevia da investigare
religiosamente: l'abisso del male (mysterium iniquitatis) richiama quello del bene. In entrambi
i casi occorre accettare la lotta: quella lotta ingaggiata con lo Sconosciuto da Giacobbe al
calar della sera al guado dello Jabbok, e proseguita sino all'alba. Quella lotta necessaria per
intendere la natura e il dramma del male e il loro rapporto con Dio. “Lotta inuguale, il
cui esito può essere vittorioso o micidiale, o anche indeciso, con la doppia traccia di
una ferita o di una benedizione” [16]
.
Quando, dopo il primo razionalismo, la questione del negativo e del male radicale esplose
con la massima forza nel pensiero moderno, gli autori che non la lasciarono cadere, cercarono
attraverso vari cammini di riprendere il tema massimo lasciato insoluto dai greci: ossia come
osserva Hans Blumenberg, la questione dell'origine del male nel mondo [17] . I grandi tragici greci del VI e V secolo avevano messo
in opera un eccezionale lavoro di scavo sulla colpa, l'espiazione, la responsabilità, il
fato e il destino, senza ultimamente riuscire ad un esito stabile e almeno parzialmente
chiarificante. Uno dei più alti punti raggiunti dalla sapienza tragica greca è
posto da Sofocle sulla bocca del coro nell'Edipo a Colono, ed è parola dove vibra il
senso di una sconfitta, e che ha il suono di una terminale disperazione: “Non esser nati,
è condizione / che tutte supera; ma poi, una volta apparsi, / tornare al più
presto colà donde si venne, / è certo il secondo bene”. Archiloco scriveva:
“Tutto è fatica, tutto per l'uomo è travaglio di morte”.
Più innanzi giunse forse Plotino, ma per altro e assai diverso cammino, quello non
della concezione tragica ma di un sapere speculativo sull'uno e sul cosmo. Per primo egli
comprese la necessità di elaborare una scienza del male, di cui intuì
l'impossibilità se non si fosse prima scandagliata quella del bene: “Ma come si
potrebbe concepire il male come una forma se esso appare solo nell'assenza del bene? Ma siccome
dei contrari una sola la scienza e il male è contrario al bene, la scienza del bene
sarà quella del male e perciò è necessario che coloro che vogliono
conoscere il male speculino intorno al bene, poiché le specie superiori precedono quelle
inferiori e queste non sono quelle, ma privazioni di quelle. E si deve ancora ricercare in che
senso il bene sia contrario al male; se sia contrario come l'inizio alla fine, o come la forma
alla privazione” (Enneadi, I, 8, 1).
Il pensiero greco ha così lasciato in eredità, nonostante le aporie e
l'impossibilità di addivenire ad un'adeguata comprensione del male e della sua origine,
due eccezionali lasciti: l'idea plotiniana del male come privazione del bene, che comporta
l'anteriorità ontologica e gnoseologica della scienza del bene su quella del male; e la
grande parola di Eschilo nel coro dell'Agamennone: “Conoscenza attraverso dolore”,
quale valida legge fissata dagli dèi per avviare a saggezza i mortali. Ciò che
l'uomo apprende attraverso la sofferenza sono soprattutto i limiti dell'umano, l'invalicabile
distanza dal divino. Ora, risalendo all'indietro dalla filosofia contemporanea alla moderna,
sembra doversi riconoscere che il tema del male non sia stato particolarmente frequentato. La
kantiana dottrina sul male radicale, che pur rimane come termine di confronto ineludibile, le
ricerche di Schelling sull'essenza della libertà umana, le pagine di Schopenhauer e gli
scomodi aforismi di Nietzsche veicolano spunti e intuizioni grandiosi, ma anche incompleti e
manchevoli. Tanto più che insieme ad essi si incontra la sostanziale elusione del
problema in Spinoza e poi nel razionalismo moderno, che fondamentalmente hanno considerato il
male o qualcosa di apparente o il negativo dialettico necessario alla vicenda del positivo.
Oggi un ostacolo si annuncia attraverso la temperie largamente empiristica e utilitaristica
della cultura, che tende a togliere l'opposizione assoluta tra bene e male, e a stemperare
quest'ultimo in disadattamenti sociologici e psicologici. Sicché anche per le più
recenti filosofie vale, a conferma della diagnosi di Pareyson, l'assunto secondo cui esse
allontanano l'interrogativo sul male. Eppure non si potrebbe sostenere che la battaglia per non
dissipare in una piatta indifferenza nichilistica la sua tragicità o il suo enigma sia
persa. Sorel e Maritain hanno più volte espresso l'opinione che l'interrogativo sul male
sarebbe nuovamente divenuto centrale per i filosofi, e il secondo autore ha offerto un
contributo di prim'ordine in proposito [18] .
C'è inoltre la grande tragedia greca, e la straordinaria potenza dei romanzi di
Dostoevskij, e l'intera storia della salvezza come espressa nel messaggio biblico a ricordare
ad una cultura distratta e confusa lo scandalo del male. Nella nostra epoca sono stati un certo
esistenzialismo, il pensiero metafisico e quello tragico, la sensibilità ebraica e
quella cristiana a mantenere in vario modo desto il suo pungiglione senza banalizzarlo.
Tuttavia il pensiero cristiano sembra meno attento in proposito, avendo patito più
l'accusa rivoluzionaria e “laica” secondo la quale il cristianesimo è
l'oppio dei popoli, che non la protesta tragica della coscienza individuale smarrita di fronte
al male della vita. Di conseguenza l'atteggiamento in senso lato apologetico della teologia
come pure l'orientamento della prassi cristiana si sono dispiegati con ampiezza per contrastare
quell'accusa. Oggi è plausibile attendersi che la fine delle grandi ideologie
intramondane che avevano alimentato l'enfasi sull'azione sociale, comporterà un
rinnovato interrogarsi esistenziale sul male. La tradizione teologica e metafisica cristiana
potrà in proposito esprimere una nuova vitalità, se eviterà un
atteggiamento ridu ttivo consistente nel riportare la questione del male nell'ambito
della sola etica. Questa è luogo troppo ristretto per una domanda tanto immane come
quella che riguarda il peccato, la colpa, l'espiazione, la libertà, il dolore dell'uomo
e quello di Dio. Prima dell'etica sono chiamate in causa la metafisica e la religione per la
loro pretesa di determinare un senso ultimo.
In un approccio metodologicamente puristico e forse alquanto deesistenzializzato, è
possibile compiere un tratto di cammino riflettendo sul male senza collegare questo tema con
quello della Trascendenza. Possiamo elaborare una complessa fenomenologia del male su base
storica e razionale. Si tratta di un compito utile eppure insufficiente, perché da
sempre il soggetto umano domanda sul male e il dolore riportando il problema sulle spalle di
Dio: di questi con quanta ampiezza l'uomo si porrebbe il problema, se non vi fosse il male? Sin
dal più remoto passato sembra che la maggiore obiezione contro Dio scaturisca proprio
dall'esistenza del male. Si dice: se c'è tanto male nel mondo e nella vita è
perché Dio non esiste. Se egli fosse un vivente, non lo consentirebbe: altrimenti
dobbiamo pensarlo come incurante nella sua felicità delle vicende umane, oppure come un
demiurgo malvagio che si compiace del dolore dell'uomo. Né è detto che si accetti
il mondo, se accade che non si rifiuti Dio. È la condizione di Ivan Karamazov nel suo
dialogo con Alèsa: Questo mondo creato da Dio io non lo accetto... Non è che io
non accetti Dio, ma è questo mondo da Lui creato, che io non accetto e non posso
rassegnarmi ad accettare” (P II, l. V), perché è un mondo cattivo che
ospita la sofferenza innocente, specialmente quella dei bambini. Da questi angosciati
interrogativi prendono origine i tentativi di mostrare che Dio non è responsabile del
male, e che i due concetti di Dio e di male non si escludono, ma per quanto sorprendente possa
apparire a prima vista, si richiamano necessariamente. L'apporto forse più prezioso
della meditazione metafisica e religiosa sul male e su Dio è in primo luogo la loro
“indissolubiità”: solo pensando Dio si può pensare adeguatamente il
male. Questo col suo corteo di sofferenza, di colpa, di espiazione, di morte, di negazione che
sempre l'accompagna, può esser visto in tutta la sua sanguinosa realtà, se e solo
se Dio esiste; se e solo se è considerato in rapporto a Dio. Si dà infatti una
negazione più radicale di quella che cerca di inferire dall'esistenza del male
l'inesistenza o la problematicità dell'esistenza di Dio; ed è la negazione che
sopprime il problema o l'interrogativo stesso sul male. Questo è l'estremo ateismo, il
nichilismo assoluto, che non addebita a Dio il male ma ne cancella il pungolo. Il nichilista
coerente non può che minimizzare il male, pensarlo come apparenza, come qualcosa che
è storicamente toglibile. Quando si tratta di Dio e del male, o si prendono entrambi i
termini, oppure incombe il pericolo che si cancellino
entrambi. Là dove l'uomo è attanagliato dalla forza del negativo, potrà
rivoltarsi contro Dio, forse maledirlo e negarlo, ma non cancellarne il problema. A Boezio che
poneva l'eterna domanda “Si Deus est, unde malum?” (collegata all'altra: “et
si non est, unde bonum ?”), Tommaso d'Aquino con originale forza contemplativa rispondeva
ribaltando i termini della questione e stabilendo: “Si malum est, Deus est”, dove
l'esistenza di Dio è argomentata a partire dalla realtà del male [19] . Pensando il male, si può ascendere alla
conoscenza di Dio, e inversamente solo pensando Dio si può conoscere nel modo più
intimo il male.
Che si debbano assumere entrambi i poli (non perciò solo Dio senza il male, o solo
il male senza Dio), lo conferma l'esperienza di Nietzsche, che ha inteso cancellare con un
unico atto l'esistenza di Dio e quella del male, ed è difficile stabilire quale delle
due negazioni sia in lui stata la più profonda. Proprio in quanto non ci sono né
bene né male, egli può volere un “aldilà del bene e del male”,
che è la divisa propria dell'oltreuomo. Egli è oltre l'umano, perché ha
valicato il confine che separa bene e male, cancellandoli.
Qui si innesta nel saggio di Possenti la riflessione su Jonas e Pareyson che tralasciamo, pur consci della sua importanza, per giungere direttamente alla terza parte, la pars construens:
Destino della teodicea
Prima di volgerci a un'altra meditazione su Dio e il male... è saggio riconoscere che il compito di una dottrina non si esaurisce solo nella sua coerenza intelligibile e nella sua verità, poiché essa è come uno specchio in cui si riflette qualcosa dell'epoca. Sotto questo profilo le concezioni di Jonas e di Pareyson valgono come una critica della falsa coscienza utopica, che facilmente sfocia in quella totalitaria. In esse si fa avanti la massima lontananza dalla posizione che ritiene il male superabile in un nuovo ordine sociale, e possibile secondo una modalità atea o secolarizzata la costituzione del “regno di Dio” in terra. La voce ebraica di Jonas e quella cristiana di Pareyson rimangono consapevoli della limitatezza dell'uomo. Lontane da quel nichilismo che è lo sbocco coerente dell'utopia, in cui il male appare come qualcosa di esterno all'uomo e perciò di dominabile con mezzi “tecnici”, pungolano la filosofia a non rinchiudersi in angusti orizzonti e oltrepassano il quadro della teodicea, la cui vicenda può venire scandita in tre fasi:
Etica e religione
Libertà e legge morale: una dialettica interrotta. Un processo
viene interrotto quando il suo movimento risulti bloccato. Sembra che nei pensatori di cui ci
siamo occupati la domanda sulla libertà conduca ad una dialettica interrotta, nel senso
che non si inoltra sino all'estremo limite nel pensare l'abisso della libertà finita e
il suo legame col male. Nel fatto che numerose riflessioni contemporanee sul male non esplorino
sino in fondo la sfera della libertà, non potrebbe celarsi l'idea che questa sia
ritenuta incapace di produrre da sola la tragica messe di male che fluisce nella storia? E che
di conseguenza occorra in qualche modo fare appello ad altri livelli, e coinvolgere Dio stesso
nella storia del male? Se questa diagnosi fosse fondata, si comprenderebbe il rischio corso da
Pareyson e da Jonas nel concentrare l'attenzione su Dio, trovandosi poi nella necessità
di riformulare radicalmente la sua natura. Noi dobbiamo ora porre a tema l'interrogativo
sull'origine del male morale. Come si potrebbe nutrire la speranza nella liberazione dal male
morale, se la riflessione umana, applicandosi con tutta la forza di cui è capace e quasi
con disperazione dinanzi al baratro, non cercasse di comprendere la sua origine, attingendo
dove possibile indizi e tracce? Kant ha percorso un tratto di strada in tale direzione, legando
la colpa all'infrazione della legge morale per cui essa è la difformità
dell'arbitrio rispetto alla legge. Non si dà in lui peraltro un principio del male nel
senso di un'origine storica, quale sarebbe ad esempio la dottrina del peccato originale. Il
principio del male sta nella massima suprema che serve da fondamento soggettivo a tutte le
massime cattive (e perciò contrarie alla legge morale) del nostro libero arbitrio, e che
stabilisce la propensione al male nell'uomo. Egli è corrotto nel fondamento delle sue
massime, e per passare dal vizio alla virtù ha bisogno di un cambiamento di cuore che lo
conduca alla santità delle massime nel compimento del proprio dovere, nell'effettuazione
del dovere per il dovere, per cui l'uomo accoglie l'integralità della legge morale come
movente sufficiente del suo arbitrio. Questo insieme di riflessioni compongono un quadro degno
della più accurata attenzione. Tuttavia Kant non sembra aver percorso sino in fondo tale
cammino, concludendo anzi con una annotazione di grande riserbo: “Qui non v'è
dunque alcun fondamento, per noi comprensibile, da cui, per la prima volta, il male morale
possa essere venuto in noi” [21]. Alla
domanda se esista una causa comprensibile del male morale, Tommaso d'Aquino ha risposto
affermativamente. Potrebbe anzi darsi che egli sia stato l'unico a considerare l'interrogativo
in tutta la sua difficoltà e a tentarne una risposta ultima, in una dialettica non
interrotta. Il riserbo dell'Aquinate è noto: è ben raro che prorompa in
esclamazioni, altrettanto raro che impieghi le risorse di una scaltra retorica per far breccia
nell'interlocutore. Il caso di cui ci occupiamo non fa eccezione: la brevità con cui
egli svolge l'indagine sulla causa del male morale, potrebbe mascherare l'importanza della
scoperta compiuta e del colpo di sonda gettato entro l'abisso della libertà creata.
Cercando di porsi dinanzi al problema della produzione del male in tutta la sua
difficoltà, l'Aquinate ha sottoposto ad analisi il movimento che si instaura nella
libertà finita, nell'atto del volere da cui emana un'azione malvagia. Che cosa accade
quando una persona si volge verso un atto cattivo? Quale ne è la causa o l'origine?
Riassumendo la sua posizione, la causa prima e unica della produzione del male morale è
individuata nella libera non-considerazione della regola da parte della volontà nel
momento in cui essa procede all'azione: “Ciò che costituisce formalmente la colpa
o il male morale proviene dal fatto che, senza la considerazione attuale della regola, la
volontà procede all'atto della scelta” [22] . Il male dell'azione proviene da un certo difetto della
volontà dell'agente, che deve essere volontario, se deve essere all'origine di un atto
libero cattivo. Ora tale difetto, che va preconsiderato nella volontà, consiste appunto
nel passare all'azione lasciando da parte la sua regola, la legge morale: questa
possibilità esiste in generale per l'uomo in ragione della differenza tra regola della
libertà e libertà stessa (non esiste invece per la libertà divina che
è identicamente la sua propria regola). Il risultato dell'azione sarà cattivo,
quando essa sarà stata posta senza la sua regola interna, e perciò privata di un
bene che avrebbe dovuto esserci e che non c'è. Per rendere ragione di questa libera
deficienza non c'è bisogno di risalire oltre: ad hoc sufficit ipsa libertas voluntatis
[23] . Di modo che si può dire che la
volontà, distogliendo lo sguardo dalla regola, che è santa e pura, negandola, fa
il male: introduce una privazione di bene o una ferita nell'esistenza. Essa, distruggendo il
bene che avrebbe dovuto esservi, “nullifica”. Inaudita potenza della libertà
finita che, agendo da sola contro la legge e senza cooperare con la Causa prima, non può
che inserire il nulla nell'esistenza. Essa vale come causa efficiente di una privazione, ossia
come causa deficiente. Agendo da sola, è causa prima ed unica del male morale. Mentre,
in rapporto alla già segnalata dissimmetria fra linea del bene e linea del male, nella
prima la libertà divina e quella umana cooperano producendo atti buoni, che provengono
da Dio come causa prima e dall'uomo come causa seconda. Anteriorità del male e
concezione retributiva del dolore. In queste pagine che fanno riferimento all'etica e alla
religione, si è finora dato, conformemente allo scopo, il maggior rilievo alla questione
dell'etica, della legge, della sua trasgressione. E' la religione riducibile all'etica?
Piuttosto essa va oltre la concezione morale del mondo e la limitazione al solo ambito umano.
La meditazione di Tommaso sull'origine del male di colpa non ne comporta una completa
eticizzazione. Il male mostra un volto ancipite: è qualcosa che l'uomo inaugura; ed
è qualcosa che egli trova fuori di sé, che in certo modo ha già avuto
luogo, che possiede una storia, una tradizione. La caduta dell'angelo, l'Avversario, la
tentazione, la colpa originale costituiscono le fasi di una tale storia. L'uomo vi appare ad un
tempo come iniziatore ma anche come prosecutore di un male anteriore. Tra il libero arbitrio e
il servo arbitrio esiste la libertà indebolita. Nei grandi racconti sul male, su cui la
filosofia non può non meditare perché quando essa inizia quasi tutto è
già stato detto in merito, si distinguono quelli che ne riconducono l'origine a qualcosa
di anteriore all'uomo e quelli che la riportano all'uomo stesso. Il racconto della Genesi, pur
stando a cavallo tra le due tradizioni, si colloca più vicino alla seconda. Esso non
vale però come racconto esclusivamente ma solo parzialmente antropologico, poiché
l'origine del male di colpa non viene attribuita soltanto ad Adamo ed Eva: al suo centro sta
infatti la figura del serpente, che inganna e seduce l'uomo. Dunque il male c'è
già quando Adamo entra nell'esistenza: “Il serpente insomma significa che l'uomo
non dà inizio al male, ma lo trova: per lui cominciare è in realtà
continuare. Così, al di là della proiezione della nostra concupiscenza, il
serpente raffigura la tradizione di un male più antico di lui [dell'uomo]: il serpente
è l'Altro del male umano” [24]
. Per Adamo l'anteriorità del male (il suo “esservi già”) è
il serpente, mentre per ogni uomo è Adamo. Nel racconto biblico sono contemperati lo
schema dell'ereditarietà, e perciò della necessità del male, e quello
della sua contingenza, del suo esser prodotto dalla libertà umana. In proposito Ricoeur
ha parlato del male come di un involontario in seno al volontario; altrettanto bene si potrebbe
parlarne come di un volontario in seno all'involontario. Egli ha anche osservato che nella
Bibbia il racconto dell'Inizio non è adeguatamente compreso se separato dal rinvio a
quello della Fine, se il primo Adamo non rinvia al secondo Adamo e alla storia della salvezza
che in lui si compie. Con l'avvento del Verbo il dramma del male è compreso in una luce
nuova.
Col cristianesimo il problema del male si illumina nel discorso, si risolve nella vita e
nella lotta verso una soluzione. Ciò che fa la differenza cristiana in proposito
è che la vita è intesa come dramma, non come tragedia. Vi è tragedia
quando l'esistenza è rinchiusa in una “contraddizione non dialettica”, ossia
in una contraddizione senza esito, senza soluzione, senza sbocco. Edipo è l'eterno
prototipo del personaggio assolutamente tragico, Adamo invece drammatico, perché la
storia segnata dal negativo a cui egli ha dato inizio, rinviando alle cose ultime attraverso la
promessa di un salvatore, non è assediata da un buio senza fine.
La concezione morale del male, presente nella tradizione biblica, forte nel pensiero dei
grandi teologi (si pensi tra tutti ad Agostino), è fortissima in Kant, dove l'intera
radice del male è posta nella libertà, ossia nell'inversione della gerarchia
delle massime in base a cui si muove l'arbitrio. Tuttavia l'eticizzazione kantiana rischia di
offuscare la solidarietà nel male e la sua “preesistenza”, che Agostino
invece coglieva contro Pelagio. Mentre quest'ultimo si esprime a favore di una concezione
puramente etica del male, che è prodotto contingente della libertà (intesa come
libertas ad peccandum et ad non peccandum); e mentre Mani scivola verso un'idea necessitaria
del male, per cui esso s'impone all'uomo provenendogli dal principio malvagio; Agostino sceglie
una via mediana, dove la tesi della contingenza del male quale prodotto della libertà
è attenuata dalla generale compartecipazione umana ad una condizione ferita. Il
tentativo di restaurare, sia pure parzialmente, la visione manichea si scontra con l'assunto
gnostico dell'esteriorità del male, con la correlativa negazione del male morale come
catastrofe della libertà finita. La meditazione dell'Aquinate sulla volontaria
non-considerazione della regola quale causa del male di colpa va prolungata con un cenno alla
non coincidenza tra visione puramente morale e visione religiosa del male e della colpa, e al
rapporto colpa e punizione. Per gli amici di Giobbe Dio è un Signore esclusivamente
etico, che segue una rigorosa legge di equilibrio tra colpa e punizione, di modo che il male di
colpa viene retribuito col male di pena, con la sofferenza. Elifaz, Bildad, Zofar sono teologi
che adottano ad un tempo una teodicea e una “duolodicea”: mentre con la prima
intendono giustificare Dio dinanzi al male del mondo, riportato esclusivamente alla colpa,
nello stesso tempo giustificano il dolore e la sofferenza come esito necessario del male agire.
L'eticizzazione dell'uomo, di Dio e del loro rapporto muove verso una visione morale del mondo,
secondo la quale la storia è un tribunale, i piaceri e i dolori una retribuzione, Dio un
giudice. La totalità dell'esperienza umana assume carattere giuridico-penale, il cui
luogo proprio è il dibattimento, come si mostra nel lungo contendere tra gli amici e
Giobbe, tra accusa e difesa, e perfino nella chiamata in giudizio di Dio da parte di Giobbe. Si
può certo obiettare: dove sta in tutto ciò la dimensione propriamente religiosa
del perdono, della speranza, della grazia? Non è la concezione puramente
etico-retributiva messa in crisi dalla sofferenza innocente? Mentre la sofferenza vicaria,
assunta volontariamente, può rimanere entro il quadro della retribuzione riequilibrante
e manifesta la fede nel governo divino del mondo; e la sofferenza accolta come purificazione e
innalzamento sta un gradino più su del semplice schema retributivo, quella innocente ne
è al di fuori: per quale colpa dovrebbe essere chiamata a pagare l'innocenza? Ammettiamo
senza reticenze tutto ciò, contribuendo così ad allargare le strette maglie del
paradigma etico-retributivo. Ed è Giobbe stesso che, sperimentandola sulla propria pelle
e relativizzandola, rinuncia ad ogni totalizzante visione morale del mondo. L'origine del male
morale quale produzione della libertà non ne viene però scalfita: io sono
l'autore del male, esso è l'opera della mia libertà. Ammettendo che avrei potuto
agire diversamente, riconosco la mia responsabilità, l'esistenza della legge morale e di
una obbligazione nei suoi confronti. Mi riconosco reo attraverso la confessione della colpa,
evento che ricorre nella letteratura penitenziale di tutte le epoche, e di cui è vertice
il salmo di David: “Quello che è male ai tuoi occhi, io l'ho fatto” (Salmo
50). L'uomo, consapevole di incontrare in se stesso un tribunale che giudica e condanna, e
aspirando nella speranza alla liberazione dalla colpa, trova un passaggio verso la dimensione
religiosa che integra quella puramente etica. Mentre l'etica dice che il male, scaturente da
un'infrazione di un'impersonale legge morale, dipende dal mistero individuale e insondabile
dell'atto libero, la religione considera il male dinanzi a Dio, entro un rapporto personale con
lui: “Contro di te, contro te solo ho peccato”. Il limite di una concezione
esclusivamente morale del mondo non risiede nel richiamo alla responsabilità personale;
consiste nel fermarsi ad esso, nel volgere l'occhio quasi solo al divieto che proibisce e
infine schiaccia senza allargare lo sguardo alla speranza nella liberazione dal male.
L'invocazione davidica è voce del pentimento, attesa di perdono e di salvezza,
accettazione dell'espiazione. In quest'ultimo aspetto si manifesta un elemento della condizione
umana, che costituisce anche una base della concezione morale del mondo e della pena. L'uomo
non si sentirebbe in pari con se stesso e con la legge, se sfuggisse all'espiazione, ma tale
movimento è insidiato dal suo contrario. Si incontra qui una difficile dialettica della
coscienza, presa fra l'esigenza dell'espiare e il suo rifiuto. L'uomo può negare di
essere colpevole, pur essendolo; e può voler sfuggire alla pena. Ma in tutta
verità, può l'uomo sottrarsi all'espiazione? Egli non è in grado di
sottrarvisi, perché non gli è dato di sfuggire al proprio io neppure col
suicidio. L'essere un io è un fatto eterno. Sfuggire in qualsiasi modo al proprio io
è un'impossibilità metafisica. La concezione esclusivamente morale del mondo, se
assunta senza la speranza in un salvatore, è intimamente tragica: l'uomo colpevole non
puòsfuggire alla sanzione della legge morale, più di quanto possa sfuggire
al proprio io eterno. Contra malum cum Deo. L'uomo difficilmente può aspettarsi dalla
filosofia quel nutrimento di cui più di tutto ha bisogno: nutrirsi di liberazione dal
male e di redenzione dal negativo. La riflessione filosofica risulta di limitata utilità
nell'individuare la risposta all'essenziale domanda: donde la liberazione dal male? La sapienza
dei concetti non può essere alla misura di quella dismisura che è il male.
Bastano i Seneca pagani e i Pelagio cristiani dinanzi a un tale eccesso? Vale qui un celebre
detto dell'oracolo di Delfi: “Chiamato o non chiamato, Dio sarà presente”.
Che cosa significa questo se non che occorre portare l'interrogativo sul male dinanzi a Dio,
non solo dinanzi all'uomo? In tale prospettiva due posizioni appaiono in vario modo
insufficienti: quella che dall'esistenza del male argomenta contro quella di Dio; e la
posizione giustificazionista e “apologetica” della teodicea. Nell'Alleanza emerge
invece come posizione adeguata il contra malum cum Deo et in Deo, che supera sia la posizione
atea del contra malum sine Deo, sia quella antiteista del contra malum, contra Deum, sia
l'atteggiamento giustificazionistico del pro Deo, in cui ci si preoccupa più di Dio e
della sua innocenza, che dell'uomo e del suo male [25] .
La lotta contro il male richiede l'alleanza con il Trascendente in ragione dell'infinito
potere negante della libertà finita. Nella concezione 'tradizionale' il male morale
è riportato alla causalità della libertà finita, che sembra gravata di un
peso immenso, che sarebbe forse più congruo compartire con altri. Non si trascuri
però di meditare un elemento della teologia, che sembra idoneo a diradare un poco
quell'enigma. Alludo all'Angelo decaduto, un tema di alto rilievo nonostante il disinteresse da
cui appare circondato. Nel peccato dell'Angelo si è di fronte al mistero della
libertà allo stato puro e della colpa allo stato puro, almeno nel senso che la colpa
della volontà non preesige né l'errore né l'ignoranza come condizione
dell'atto cattivo del libero arbitrio. L'Angelo conosceva allo scoperto l'esistenza di Dio e la
divisione tra bene e male, eppure ha liberamente e consapevolmente voluto se stesso contro Dio,
preferendo l'amore verso la propria natura spirituale risplendente invece che l'amore per Dio.
Ha peccato, volendo peccare e sapendo di peccare: l'ha voluto con una libera opzione in cui ha
posto tutto se stesso, perché la sua volontà era intensamente volta verso se
stesso, amandosi di un amore in certo modo infinito e al di sopra di ogni altra cosa. Nella sua
radice più profonda il male (morale) sembra scaturire dalla violenza di un falso amore,
di un desiderio intimamente e tragicamente disordinato. Col peccato dell'Angelo viene a
svelamento l'erroneità dell'intellettualismo etico o del “socratismo morale”
che fa della virtù un effetto della conoscenza e del vizio un risultato dell'ignoranza.
Ma emergono pure l'innocenza di Dio nei confronti del male e la possibilità intrinseca
alla libertà creata di introdurre il male nell'essere, attraverso un atto nientificante:
il maremoto della libertà. Solo una libertà altra, divina, può rifare
quello che il soggetto finito disfa.
Col loro ottimismo storico Razionalismo e Illuminismo credevano in una progressiva vittoria
del bene sul male e nella liberazione umana, che le esperienze più salienti del XX
secolo, quali il deserto dell'ateismo e il dilagare dell'oppressione dell'uomo sull'uomo, hanno
frustrato. Vi è oggi bisogno più che dell'aria e dell'acqua di una nuova
esperienza religiosa, nel cui fuoco riprendere contatto con l'itinerario provvidenziale di
prevalenza del bene sul male. Una tale esperienza non parlerà del male di Dio, piuttosto
del suo “dolore” (per quella modestissima misura in cui possiamo avere accesso ad
un tema tanto carico di mistero) e in generale del valore redentivo del soffrire. E se è
assurdo introdurre la minima ombra di male in Dio, non è assurdo scorgervi un misterioso
riflesso del dolore, di quello che quando è accettato come riscatto e rivelazione del
senso segreto delle cose, è una perfezione umana di cui non può non cercarsi un
qualche analogo nell'Assoluto.
[Nota 1] E' il testo dal titolo Liquidazione del diavolo, ripubblicato in J.Ratzinger, Dogma e predicazione,Queriniana, Brescia, 1974, pp.189-197.
[Nota 2] W.Kasper, Il problema teologico del male, in W.Kasper-K.Lehmann (edd.), Diavolo-Demoni-Possessione. Sulla realtà del male, Queriniana, Brescia, GdT 149, pp.45-78.
[Nota 3] Ciò deriva da quanto leggiamo in Sal 96,5 e 1Cr 16.26, che cioè gli idoli dei pagani sono niente (elilim; cf. Is 44,9 ss); nei Settanta e nella Volgata si dice che gli idoli dei pagani sono demoni (cf. Dt 32,17; Sal 106,37). Che i demoni siano degli idoli inesistenti ci viene suggerito anche da 1Cor 8,4 e 10,19. Cf. l'art. éidolon, in ThWNT II, 374 s.; H.CONZELMANN, Der erste Brief an die Korinther (Krit. exeget. Kommentar), Göttingen 1969, 168 s.
[Nota 4] Riprendo così una definizione che K.BARTH ha dato, ed ampiamente evoluta, nella sua Kirchliche Dogmatik III/3, 327-425. Pur rimanendo debitore di tanti stimoli che Barth mi ha offerto, qui mi differenzio fondamentalmente dalla sua posizione. Per Barth quello del 'niente' è il terzo modo dell'essere: né come Dio, né come creatura, bensì come reale rispondenza al non volere di Dio, come opposto dell'elezione e conferma di Dio (cf. spec. 402 ss). Partendo da questo punto di vista Barth potrà dunque contestare che gli angeli e i demoni traggano la loro origine da una comune radice (cf. 608 ss). Invece di questo terzo modo d'essere, insostenibile dal punto di vista teologico, a me interessa determinare la creaturalità del male pervertita mediante la propria decisione. Mi rendo tuttavia conto che il concetto di negazione o negatività da me impiegato esige un più preciso chiarimento filosofico.
[Nota 5] Cf. TOMMASO d'AQUINO. Summa theologiae I q.48 a.l; Contra gentiles III, 7 ss.; De malo q.1 a.1. Per la storia di questa concezione, cf. F. BILLICSICH, Das Problem des Übels in der Philosophie des Abendlands, 3 vol., Wien 1952-59; critico nei confronti della definizione tradizionale del malum è L.OEING-HANHOFF, Die Philosophie und das Phänomen des Bösen , in Realität und Wirklichkeit des Bösen (Studien und Berichte d. kath. Akad. in Bayern, 34), Wurzburg 1965, 1-30.
[Nota 6] Per questa interpretazione di Mt 5,37, cf. E.JÜNGEL, Geistesgegenwart. Predigten, München 1974, 39-47.
[Nota 7] Cf. Gv 8,44.
[Nota 8] Cf. al proposito J.RATZINGER, Abschied vom Teufel? , in Id., Dogma und Verkündigung, München-Freiburg 1973, 225-234, qui 233 s. [trad. it., Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia]. Dubito comunque che la categoria del 'fra', che in tale contesto Ratzinger introduce, risulti sufficiente. Questa categoria, desunta da M.Buber, è più adatta ad interpretare la realtà qualificata con il concetto di peccato originale che a definire in modo categoriale il diavolo o i demoni.
[Nota 9] Cf. Rom 8,38; 1Cor 15,24; Ef 1,21; 3,10; 6,12; Col 1,16; 2,10-15.
[Nota 10] Ciò risulta soprattutto dalle discussioni sul problema della carne sacrificata agli idoli a Corinto (cf. 1Cor 8,1 ss.) e pure dalle polemiche sulla libertà dalla legge (cf. Gal. 4,8 ss.) e con le correnti (probabilmente) gnostiche (cf. Col 2,8 ss.).
[Nota 11] Vittorio Possenti, Essere e libertà , Rubbettino, Soveria Mannelli, 2004.
[Nota 12] Sull'insuccesso di ogni
tentativo di teodicea , trad. di A. Massolo, Studi Urbinati, n. 29, 1955. p.6
[Nota 13] Spirito e Libertà , Ed. di Comunità, Milano 1947, p.235.
[Nota 14] L.Pareyson, Pensiero ermeneutico e pensiero tragico in AA.VV., Dove va la filosofìa italiana? , a cura di J.Jacobelli, Laterza, Bari 1986, p.137s. Di Höffe si veda Recuperare un tema: Kant sul ma le, in F.W.J.Schelling, Ricerche filosofiche sull'essenza della libertà umana , commentario a cura di A.Pieper e O.Höffe, Guerini, Milano 1997. pp.113-115.
[Nota 15] Soprattutto Auschwitz, presentando l'abisso del male, chiama in causa Dio: o per negarlo e annunciarne la morte, nel senso che la creazione è un dramma in cui Dio infine è sconfitto (in Dopo Auschwitz, 1966, il rabbino americano Richard Rubinstein domanda che si accetti il fatto bruto della pura e semplice morte o fine di Dio ad Auschwitz); oppure per ripensare e alterare la natura di Dio, come propone Hans Jonas. per il quale la bontà divina si accompagna ad una sua assoluta impotenza ad intervenire nella storia del mondo; o infine attraverso una più approfondita riflessione sul male che si appoggi ai dati biblici e alle più sicure tradizioni teologico-filosofiche.
[Nota 16] A.Neher, Chiavi per l'ebraismo , Marietti, Genova 1988, p.124.
[Nota 17] H.Blumenberg, La legittimità dell'epoca moderna , Marietti, Genova 1992, p.133.
[Nota 18] Cfr. Da Bergson a Tommaso d'Aquino , Vita e Pensiero, Milano, 1980; Breve trattato dell'esistenza e dell'esistente , Morcelliana, Brescia, 1965; Dio e la permissione del male , Morcelliana, Brescia, 1973; Le péché de l'Ange , in AA.VV. Le péché de l'Ange , Beauchesne, Paris, 1961, pp.43-86.
[Nota 19] Cfr. Contra Gentiles , 1. III, c.71.
[Nota 20] G.Leibniz, Discours de métaphysique , Vrin, Paris 1975, p. 92 ; J.Maritain, Dio e la permissione del male , p.14.
[Nota 21] La religione entro i limiti della sola ragione , Laterza, Roma-Bari 1980, p.45s.
[Nota 22] De Malo , q.I, a.3.
[Nota 23] Ivi.
[Nota 24] P.Ricoeur, Il conflitto delle interpretazioni , Jaca Book, Milano 1986, p. 311.
[Nota 25] In queste riflessioni ci siamo ispirati al bel libro di A.Gesché, Le mal , Cerf, Paris, 1993. Dal canto suo Ricoeur avalla la posizione del contra malum: “Prima di accusare Dio o di speculare su un'origine demonica del male in Dio stesso. agiamo eticamente e politicamente contro il male”, Il male , Morcelliana, Brescia 1993, p.49.