La mia sposa Michela Ceccon è morta di tumore al seno il 3 novembre
1990. La malattia era durata tre anni: per tutto quel tempo lei ha avuto la forza - e l'ha
trasmessa a me - di parlare del male, di preparare me e i figli al distacco, di chiedere due
volte l'Unzione degli infermi in una celebrazione comunitaria e in una familiare, di
vivere ininterrottamente con me le ultime tre settimane del ricovero in clinica, in vista di
una morte sponsale, aiutandomi a fare memoria dei doni ricevuti e a guardare al dopo,
indicandomi come avrei dovuto assisterla negli ultimi momenti, dicendomi come voleva il
funerale e la tomba.
Ora, in questa sede mi limito a raccontare la nostra conversazione nella malattia, scegliendo
le parti che ebbero esplicito riferimento alla morte e alla speranza cristiana. Precisando che
l'idea di tendere a una morte celebrata nella comunità ecclesiale ci era venuta da un
corso di esercizi spirituali di don Giuseppe Dossetti, era cresciuta con l'esperienza della
malattia e della morte vissute nella comunicazione ecclesiale dai vescovi Franceschi e Agresti
ed era venuta alimentandosi con l'esempio contemporaneo del padre David M. Turoldo e don Luigi
Della Torre, la cui avventura dura tuttora.
Dall'esperienza vissuta mi è venuto il convincimento che la ricollocazione ecclesiale
dell'Unzione degli infermi e del Rito delle esequie - quanto mai urgente, in
un'epoca di censura della morte - non potrà avere il giusto compimento se non si
realizza un recupero globale dell'accompagnamento ecclesiale del morente, visto come luogo
privilegiato della carità verso i fratelli più bisognosi - tali sono i morenti e
i morti - e di annuncio della fede nella resurrezione e nel ritorno del Signore. Il Rito
delle esequie non è che l'ultimo atto di quell'accompagnamento, agito dalla
comunità in nome del fratello che viene affidato alla misericordia del Signore.
Scopriamo il tumore un giovedì grasso, anniversario del nostro
fidanzamento. Era nata da poco la nostra ultima figlia, Matilde. «Non ho più il
latte!», mi disse sorridendo strana: «Ora puoi farmi quella carezza che ti piace
tanto!». Poi di colpo: «Fermo! Così mi fai male!». Fu operata il
giorno dopo: era il febbraio del 1988.
Una sua sorella più giovane, Letizia, era morta nel febbraio 1986 per un linfogranuloma
maligno. Ci eravamo appena ripresi, avevamo voluto un altro figlio ed ecco la nuova tragedia.
Il tumore di Michela l'abbiamo scoperto esattamente due anni dopo la morte della sorella: e
l'avremmo scoperto sette mesi prima - disse il ginecologo - se non ci fosse stata la gravidanza
da cui nacque Matilde.
Per un patto di cui era gelosissima, io non sono mai andato dai medici senza di lei. Non
voleva che io soffrissi da solo, perché - diceva - quella sofferenza ci avrebbe divisi.
La sua idea era che ci dovessimo amare nella verità, lei ed io, e la malattia adesso era
la nostra verità. Anche dei figli diceva che dovevano sapere, perché la prova li
avrebbe aiutati a crescere e senza la mamma avrebbero dovuto crescere più in fretta.
La mancanza di speranza nella guarigione non le toglieva la gioia di vivere. Al mattino, se
aveva dormito serenamente, diceva: «Che bello, siamo ancora qua!» Una volta
sentimmo p. David Turoldo in televisione parlare così della sua malattia: scopri -
diceva - che nulla ti è dovuto, che ogni nuovo giorno è un dono, ogni ora che ti
viene data una sorpresa. Michela mi abbracciò e disse: bravo, p. Davide, è
proprio così che bisogna fare.
C'erano anche i momento oscuri. Ad ogni aggravamento del male, recidive, passaggio all'altra
mammella, blocco delle braccia, piangevamo su noi e sui nostri figli. E' una strada in discesa,
diceva, ogni giorno più in basso, con meno forza: cerchiamo almeno di non perdere il
buon umore.
Scoprendo che avevamo poco tempo per amarci, ci siamo amati di più. Ogni momento
è divenuto prezioso, ogni gesto più intenso. A ogni ecografia, tac o lastra
negativa, io la baciavo con l'emozione di quando l'avevo baciata la prima volta. Ogni tempo
strappato alla morte è stato un nuovo fidanzamento.
Pur piangendo tanto dentro e anche fuori, abbiamo fatto in modo che la vita ci piacesse.
Michela non ha rinunciato a nulla di sua iniziativa. «Ogni lasciata è persa»
diceva quando le chiedevo se voleva venire con me in un viaggio. Neanche alla felicità
dei ricordi ha mai rinunciato: la rievocazione del tempo felice dava corpo al nostro amore,
fino agli ultimissimi giorni.
Fino al luglio del 1990 - morirà a novembre - ha condotto la vita di sempre, come non
fosse malata, esigendo che io e i figli svolgessimo per intero le nostre attività. Pur
gravissima, volle fare la vacanza in montagna che aveva programmato: considerava importanti le
vacanze con gli amici e non voleva che quella festa fosse turbata dalla sua sofferenza.
Sorrideva a tutti e tutti pensavano che la malattia non fosse così grave. Ad agosto
è iniziata l'infermità totale; 50 giorni al Gemelli, 15 a casa, 23 nella clinica
dove è morta. Quest'ultima fase l'ha vissuta in una straordinaria concentrazione
spirituale, in preparazione al passaggio. Volle che io restassi sempre accanto a lei, dormendo
tutte le notti in clinica e affidando i figli alla generosità degli amici. Perché
- diceva - siamo due in uno, non possiamo vincere la bestia che una volta fu più forte
dell'Agnello, ma possiamo tentare di resistergli finché ci sarà permesso. Diceva
che era un'avventura - questo modo di affrontare la morte - che voleva vivere insieme a me.
Abbiamo pregato e pianto. Non eravamo stati tanto tempo insieme in nessun altro periodo del
nostro matrimonio. Era il secondo tempo delle nostre nozze, diceva: quello della cattiva sorte.
Perduta la speranza di guarire, si era concentrata su quella di conservare la fede. Che
spogliò di ogni scoria, fino a renderla terribile - secondo il consiglio di un amico
morente, il vescovo di Lucca Giuliano Agresti - perché potesse resistere alla prova
terribile che ci attendeva. Si staccò da tutto e si attraccò anima e corpo alla
promessa della resurrezione.
Abbiamo intuito che morire da sposati è diverso che morire da soli. La tua morte
coinvolge l'altro, cessa un'unione che faceva di due uno. E abbiamo anche immaginato che la
vocazione cristiana alla morte consapevole ha come un doppio valore per gli sposati: se l'atto
più importante della vita, quello che la riassume davanti a Dio, è la morte, come
può essere che uno sposato l'affronti senza 1'accompagnamento del proprio coniuge?
Prima di lasciare questa terra, volle vedere il territorio dove visse
Gesù.
Tra le intenzioni del pellegrinaggio ci fu presto quella di ricevere l'Unzione degli infermi
nella Basilica del Getsemani. Avevamo chiesto in parrocchia l'Unzione, ma la volevamo celebrata
in chiesa e i nostri sacerdoti non l'avevano mai fatta. Si impegnarono a prepararla per il
Venerdì santo del 1990, l'ultimo di Michela, ma non ci riuscirono; temevano che la gente
non la capisse. E Michela: «Se non sarà possibile in parrocchia, la faremo a
Gerusalemme, magari al Getsemani: che ne dici?». Neanche qui fu possibile, perché
quella Basilica non è parrocchia e i francescani non avevano né l'Olio né
il Rituale. L'Unzione fu ricevuta a Nazareth.
Qui giungiamo domenica 13 maggio. Ci confessiamo insieme alla Basilica dell'Annunciazione,
come il giorno del matrimonio. E il p. Arturo, francescano napoletano, all'omelia invita in
arabo i parrocchiani a pregare per noi, poi traduce in italiano: «Michela; che sei venuta
qui per chiedere l'aiuto del Signore, nella tua grave malattia, sappi che noi oggi abbiamo
pregato per la tua guarigione e per te, e lo faremo ancora; ti ringraziamo per essere venuta a
ricevere l'Unzione degli infermi nella nostra chiesa».
Non ci aspettavamo questo saluto. Siamo appoggiati a una balaustra. Michela piange un poco. Le
dico - per distrarla - che è gran cosa, nel mia dialetto marchigiano, essere
«andita dal prete sull'altare». Immagine di lei, che tiene le mani doloranti sulla
balaustra1 aperte come a mostrare le palme, mentre tutti le alziamo al Padre
nostro. Già non solleva le braccia per spogliarsi.
L'Unzione avviene nella cripta della Chiesa di San Giuseppe. Struggente lettura di Gv 4,46-54,
dove c'è un funzionario del re che incontra Gesù in Cana di Galilea e lo prega di
andare con lui a Cafarnao «prima che il mio bambino muoia» e Gesù che subito
lo soccorre: «Va', tuo figlio vive!». A Cana andremo tra un'ora, eppoi scenderemo a
Cafarnao, sulla riva del lago. Mi trovo a dire a Gesù che noi siamo venuti qui, sulla
sua terra - a rincorrerlo tra Nazareth, Cana e Cafarnao - perché egli guardi la
Michelina mia, prima che muoia. Michela da sempre rifiuta di pregare per la guarigione, con
atteggiamento simile a quello di p. Turoldo. Ma ieri, a una mia nuova insistenza, ha detto:
«La Chiesa lo dà, questo segno dell'Unzione, per la salute dell'anima e del corpo
e noi così lo riceveremo». Ne parliamo al plurale, perché siamo due in uno
e anch'io sarò unto con lei.
Dopo il racconto di quel «secondo miracolo che Gesù fece a Cana di
Galilea», p. Alfio Filippi - direttore delle Edizioni Dehoniane di Bologna e amico di
famiglia, che guida il nostro pellegrinaggio - ci fa leggere alcuni versetti del libro della
Sapienza: «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi»
(1,13-14; 2,23-24; 11,26).
Alfio ha scelto queste letture, ha unto Michela, le ha imposto le mani:
«Quindi il sacerdote impone le mani sul capo dell' infermo senza nulla
dire», così prescrive il rituale romano. Questo gesto silenzioso è
nello spirito della preghiera muta di Michela, che non ha voluto mai chiedere la guarigione,
«perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare», mi ha sempre
ripetuto citando la lettera di Paolo ai Romani, cap. 8,26. Anch'io ho steso le mani sul mio
amore, che mi ha guardato per un secondo biricchina.
A metà agosto, le porto al Gemelli, dov'è ricoverata, una
cartolina che una coppia di amici ci ha mandato dalla Provenza, con l'abbazia di Senang. Dice:
«Mi viene in mente la cattedrale di Tolosa e il “giro dei Corpi santi”,
Compostela e Avignone. Ieri con questa signora qui, che è sempre andata ai santuari,
ricordavamo Monte Sant'Angelo. Ci siamo stati quando portavo Matilde: ricordi come soffiavo su
per la scala con i graffiti dei crociati? L'anno prima eravamo stati a Compostela. L'anno dopo
siamo andati a Lourdes e passammo agli Aliscamps di Arles. Quest'anno Gerusalemme. Quante cose
belle abbiamo fatto insieme!”.
A «Radioterapia 1», nel camerone di Michela, ci sono cinque donne, tutte malate di
tumore, tutte più anziane di lei. E ce n'è una di Perugia, un po' intellettuale,
che oggi diceva: “A sapere che finiva così, non era meglio non essere
nati?». «Non sta a noi deciderlo - diceva un'altra - ma quando hai visto di che si
tratta, bisognerebbe avere il coraggio di farla finita al più presto». «Mi
avessero detto che nessuno dei figli sarebbe venuto a vedermi per tanti giorni - diceva una di
83 anni - non mi sarei sposata». A questo punto Michela decisa, con la sua voce a
metà, dice: «Io rifarei subito tutto quello che ho fatto». Ed era la
più giovane, che poteva essere un altro motivo di ribellione e la peggio messa; c'ero io
a imboccarla, mentre le altre mangiavano da sole.
Lunedì 3 settembre, Matilde compie tre anni. Benché sia in ospedale, Michela
vuole che festeggiamo il compleanno. Prima della festa sono andato a sorpresa al Gemelli, per
raccontarle i preparativi. L'ho baciata sugli occhi e le guance e le ho chiesto: «Ora
vado a casa, che vuoi che dico a tutta quella gente?». «Non dire niente. Ma io dico
a te che quando è nata Matilde ero così felice, che sono felice anche
adesso».
è domenica. A San Martino, la nostra parrocchia, si sposano Stefano e Barbara. Racconto
a Michela la cerimonia e le ripeto le parole della formula:
«Prometto di amarti e di esserti fedele nella gioia e nel dolore, nella salute e nella
malattia tutti i giorni della mia vita». Michela dice: «Mica le capiscono, i
ragazzi che si sposano, queste parole. Chissà cosa pensano! Le capisci quando sei
all'ospedale, se davvero l'amore e la fedeltà sono durati, anzi se sono cresciuti.
“Tutti i giorni della mia vita”: ora ne restano pochi di giorni e io ti prometto di
nuovo che saranno tutti per te».
Giovedì 4 ottobre, festa di Francesco d'Assisi. Ieri Michela ha ripreso il Tengesic,
dopo quasi due mesi che non l'usava. Senza, non riusciva più a dormire. Oggi abbiamo
chiesto in farmacia la bombola dell'ossigeno. Nel pomeriggio ha avuto per la seconda volta
l'Olio degli infermi. Io ho fatto la comunione con lei, mentre la sostenevo perché
riuscisse a stare seduta. Le tenevo il libro per le risposte durante l'unzione. Beniamino ha
acceso e tenuto la candela, la sua della Prima comunione, che Michela mi aveva detto di tirare
fuori dall'armadio. Matilde stava buona appoggiata al letto, con le manine sotto la faccia.
Agnese e Valentino in piedi.
Domenica 7 ottobre. Rosa, una dottoressa nostra amica, tenta tre volte di infilare la flebo,
ma non riesce e va a piangere in un'altra stanza, perché Michela ha detto: «Non mi
tormentate, vi prego, lasciatemi in pace». Resto solo con lei. Sistemo i flaconi sul
comò. Mi fa cenno con la mano di avvicinarmi, perché parla sottile. Dice:
«Ma il Signore non vede? Non c'è misericordia per noi? Perché tutta questa
sofferenza? Gigi, perché?». Io piango. Mi inginocchio accanto al letto, con la
testa vicina alla sua, le mani sulle due spalle. «Gigi, che dici? Non è giusto che
tu soffra così, poveretto. Sono tre anni che piangiamo. Hai diritto ad una vita normale,
a un po' di serenità». Continuo a piangere quieto. Muove un poco la testa per
accarezzarmi la guancia. «Non importa che piangi; non è il pianto che fa
male». E poi riprende:
«Ho tante cose da dirti. Quando non ci sarò più, voglio che tu sia felice, come hai sempre saputo esserlo. Ma subito. Hai già sofferto abbastanza. Non ti far condizionare dal ricordo, non ti abbattere. Al funerale, voglio che ci sia Paola Masucci e che faccia un canto per me, uno di quelli che fece per Marco, il giugno scorso. Falla venire che glielo dico io. Voglio che il funerale sia semplice. Non voglio scegliere le letture; non le scegliemmo neanche per il matrimonio, ricordi? Fai fare la liturgia dei defunti, quella normale. Solo vedi se come prima lettura si può mettere quella dell'Apocalisse che abbiamo letto al Gemelli, dove il Signore dice che fa nuove tutte le cose e non ci sarà più la morte, perché le cose di prima sono passate... Non fate niente di speciale, manifesti, annunci, libri per le firme, niente. Niente dichiarazioni. Non fate fare o dire niente ai ragazzi».
«Vuoi che dica qualcosa io?». «No. E non voglio
fiori». «Ma noi, i fiori, te li abbiamo sempre portati...». «Solo i
vostri allora. Ma non fiori da morto. Andatemi a comprare delle rose, come per la mia festa. E
non ci debbono essere altre cose. E fatelo - il funerale - in parrocchia, con l'altare e la
bara in basso, in mezzo alla chiesa, come nella messa dei ragazzi, la domenica. L'omelia mi
piacerebbe che la facesse don Farias, come al matrimonio. La sua parola aprì la nostra
vita a due e sarebbe bello se la sua parola là concludesse. Se però non gli costa
troppo, perché al funerale dì Letizia piangeva, e mi dispiacerebbe se dovesse
piangere un'altra volta. Portatemi a Latina, o a Recanati, ma non nei cimiteri di Roma, che mi
fanno paura. Fai tutto il resto come pare meglio a te. Voletevi bene, come abbiamo fatto
sempre».
«Michela, amore mio, io ti voglio bene». «Io troppo te ne voglio, Gigi. E'
l'unico motivo per cui mi dispiace morire. Non sono preoccupata dei figli: loro cresceranno,
sono forti. La preoccupazione che ho è di lasciarti solo. Io ho voluto tutto questo, ho
voluto i figli, ti ricordi? E ora me ne vado e ti lascio nei pasticci. Sono proprio una
bestia». «Tu non mi lasci solo. Se eravamo tu ed io appena, sarei davvero restato
solo, ma così siamo in tanti». «E io vi guarderò sempre. Dal
matrimonio ho avuto tanto di più di quanto sono riuscita a dare. Tu avresti meritato di
più. Forse solo ora, con questa malattia, sto pareggiando il conto. Non ho rimpianti.
Solo mi dispiace lasciarvi, ma so che non vi perdo. Se il Regno è già
iniziato, voi siete per me l'inizio del Regno; vi ritroverò».
«Sono felice di sentire che la sofferenza non ti ha fatto perdere la speranza».
«Non ho perso la speranza e non ho rimpianti. Spero, Gigi, e prego con te. ma ora voglio
andarmene perché sono stanca...». «Non sarai però tu a
decidere...». «Sento che me ne vado. Non so quando, ma presto. I prossimi giorni
saranno terribili, non vi abbattete». «Chissà, il Signore che non ci ha
ascoltato per la guarigione, forse ci ascolterà per i giorni della fine».
«Michela, vuoi che avverta della gente?». «Fa' venire, se possono, i padrini
e le madrine del battesimo e di cresima dei figli. Voglio che al funerale siano con voi, prima
dei parenti. Continuate ad aiutare quelli che aiutavo io, con le beneficenze e il resto. Vedrei
volentieri tua madre, ma non voglio farla piangere». «Mia madre ha 83 anni e si
muove male. Se non facesse in tempo a venire, che le debbo dire?». «La saluti e le
dici che mi dispiace di andarmene prima di lei, perché questo la farà soffrire.
Ti aveva affidato a me e ora io ti lascio solo».
Paola Masucci — che era stata baby sitter dei nostri figli
più grandi —venne a trovarci la sera dell'8 ottobre. «Paola. voglio che tu
canti al mio funerale il canto che hai fatto per Marco. Se non ti costa troppo ripeterlo, si
capisce». «Ma che dici? Sono felice di fare a nome tuo il canto che ho fatto a nome
del mio ragazzo. Ma qual è? “Vieni, sposa dal Libano?”». «No,
quello è.troppo tuo. Vorrei l'altro che dice: “Chi ci separerà dall'amore
di Cristo?”. Mi dispiace di chiederti questa ripetizione, che forse ti pesa. Ma eri bella
in quel canto, che esprime bene la mia fede in questo momento».
«Mia madre mi ha dato mezzo milione perché ti faccia un vestito da sposa, bianco.
Ha detto che sei giovane e che questo deve essere il tuo vestito». «No, mi coprirai
con un lenzuolo bianco e basta». «Sono contento di questa decisione. Ho sempre
pensato che il vestito sia una messinscena fuori luogo. A quel punto non abbiamo più
bisogno di vestiti, ma solo di un panno, che ci copra, come ti vedevo all'uscita dalla sala
operatoria». «Se fossi morta sana, mi avresti vestito con il poncho
messicano. Me lo regalasti tu ed è pieno di colori, ma ora io non porto vestiti da mesi
la mia casa è il letto e il mio vestito è il lenzuolo». «Ti ricordi
la “veste bianca” che nell'Apocalisse viene data a coloro che sopportano ogni
sofferenza per restare fedeli a Dio?». «Dunque mi vestirai con il lenzuolo. Il
poncho è sempre tanto piaciuto a Enza, vorrei che glielo dessi come un mio
regalo, se Agnese sarà d'accordo».
L'ultimo ricovero avviene l'11 ottobre. La sera, in clinica, le dico che ho preparato - come
avevamo sempre fatto per gli altri ricoveri - una lista delle amiche che faranno la notte.
Inizierà Serena Risica. Io andrò a casa per cenare con i figli, tornerò a
salutarla più tardi e andrò a dormire a casa. Ma non approva. Toglie la maschera
dell'ossigeno e dice: «Resta tu con me». «Certo che resto. Non avere paura.
Pensavo fosse giusto tornare a casa per Matilde che ha già dormito una notte senza mamma
e papà. E tu avevi voluto che facessimo sempre così, le altre volte».
«Gigi, stavolta è diverso. Ci resta poco tempo da vivere insieme. Resta con me.
Non preoccuparti dei figli, sono bravi. Ci sono gli amici».
Oggi le hanno dato per la prima volta albumina e plasma. Pare abbia ritrovato un po' di forze.
Prima di dormire chiede che io legga il rito del matrimonio: «Restando fedeli nella
malattia, è come se noi avessimo rinnovato le promesse del matrimonio. Leggi piano
piano. E vediamo cosa abbiamo fatto di quelle parole».
«Carissimi Michela e Luigi, siete venuti insieme nella casa del Padre perché
il vostro amore riceva il suo sigillo e la sua consacrazione (...) perché vi
amiate l'un l'altro con amore fedele e inesauribile... Michela, come lo intendi questo
inesauribile? Fedele sì, ma come può essere inesauribile se è amore
umano?».
«Lo vedremo presto se è un amore che finisce o se è davvero inesauribile.
Se ci ameremo fino alla fine, senza cedere allo spavento del male destinato alle nostre forze,
ma lievitato dallo Spirito che abbiamo invocato all'inizio. Ti ricordi che ci siamo sposati con
la messa di Pentecoste? Va' avanti».
«Siete venuti a contrarre matrimonio (...) pienamente consapevoli del significato della
vostra decisione?».
«Non lo eravamo, ma oggi lo siamo».
«Siete disposti ad accogliere responsabilmente e con amore i figli che Dio vorrà
donarvi?»
«Questo l'abbiamo fatto. E se fosse dipeso da noi, sarebbero stati di più.
R itroveremo anche i due che non abbiamo conosciuto. Pensa, Gigi, che straordinario! Tutto
ritroveremo, ogni seme d'amore con i suoi frutti»
«Michela, prometto di esserti fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e
nella malattia, e di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita».
«Questo diventa vero adesso».
«Non osi separare l'uomo ciò che Dio unisce». Però è
terribile anche la separazione della morte.
«Gigi, è terribile quello che ci succede. Ma sarebbe stato peggio se la nostra
unione fosse finita per colpa nostra. Noi siamo innocenti. Ci viene fatta violenza, ma noi ci
amiamo come avevamo promesso».
«Dopo una vita lunga e serena siano accolti nella tua casa». Per la verità
la nostra vita a due non è stata lunga.
«Ma è stata serena, fino alla malattia. E piena, anche adesso neanche se fossimo
vissuti altri diciassette anni insieme, saremmo riusciti ad amarci e a dirci tutto l'amore che
ci stiamo dicendo in questi giorni. Non chiamare il prete, quando sarà il momento. Mi
assisterai tu. Mi dirai le preghiere che abbiamo sempre fatto e mi terrai la mano».
«Le tue mani sono gonfie, non hanno più sensibilità».
«E vero. Dovrai tenermi un piede».
Lunedì 29 ottobre vengono p. Antonio e p. Riccardo, carmelitani, della parrocchia di
San Martino ai Monti: la nostra, dove Michela vuole il funerale. La invitano ad avere pazienza
per poco, in vista di una interminabile felicità.
«Ma per poco quanto? Stamattina, quando sono stata sicura che ero ancora viva, che avrei
detto e fatto! Non ho il coraggio di pensare ad un altro pomeriggio, un'altra serata, un'altra
nottata».
«Lei ha mantenuto la speranza, questo è un grande dono».
«Ma fino a quando potrò resistere, se diventa sempre più
difficile?».
«Gigi, ho ancora due o tre giorni». «Vuoi che avverta qualcuno?».
«No, mi assisterai tu». «Farò di tutto per esserci. Non mi muovo
più da qui». «Ci sarai, ci sarai. Mi basti tu. L'Olio degli infermi l'ho
avuto e anche la confessione. Basterà la comunione, che faremo ancora insieme, alla
stessa ostia. E me la darai tu con il cucchiaino. Mi raccomando, un pezzo piccolo, ché
non inghiottisco più nulla».
Mercoledì 31 ottobre. Avvicino al letto la rosa che le ho portato la sera prima. Le
faccio notare che nella notte si è aperta. Mi sorride: «Taglia il gambo e cambia
l'acqua. Trattala bene, è la nostra ultima rosa».
Giovedì 1 novembre, Solennità di Tutti i Santi. Viene don Sante Di Giorgi.
«Con questo corpo martoriato vedrai il Signore», le dice. Ora
è.perfettamente lucida. Si fa leggere e commentare Rm 8,32 ss. Il brano che vuole
scritto sulla tomba: «Nulla potrà separarci dall'amore di Cristo», dice don
Sante, che è un biblista. «Vuol dire che se non siamo noi a chiuderci all'amore
del Signore, questo amore ci cerca, non ci abbandona». È contenta della
spiegazione e si fa leggere il salmo che dice: «Quale gioia quando mi dissero: andiamo
alla casa del Signore», salmo che chiede sempre da quando siamo stati a Gerusalemme.
Vuole anche il brano di Elia che sente il Signore nella brezza. E il De profundis. Gli
dice: «Don Sante, mi benedica».
Viene p. Alfio, che è padrino di Matilde e le fa un segno di croce sulla fronte. Le
dico che vado ad accompagnare Alfio a mangiare un boccone. Lei mi dice: «No, tu resta
qui». Nel pomeriggio mi dice di fare entrare tutti e di leggere le “Litanie
maggiori” di Bose, che saranno cantate al funerale. Rifiuta l'iniezione di morfina
perché non vuole perdere il controllo della situazione. Dice a me: «Voglio
sentirti e salutarti».
A metà del 2 novembre aumenta l'affanno della respirazione, ma
è tutta presente. Da questo momento vorrà che io l'aiuti a pregare e a salutare
le persone che vengono a vederla, ricordando tutti, congedandosi da ognuno. Non vuole che io
esca dalla camera. Andrà avanti così per 9-10 ore, passando metà del tempo
a riprendere forza con la mascherina dell'ossigeno, mezzo assopita e concentrata nello sforzo
di respirare e l'altra metà a rispondere con gli occhi, con un sorriso, con qualche
parola breve ai saluti e alle preghiere. Già da tre giorni ringrazia tutti «per
averci accompagnato in questa avventura».
Ora vuole il salmo 21, quello che dice: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?» e che fu gridato da Gesù sulla croce. Quando arrivo al versetto
«è arido come un coccio il mio palato, la mia lingua si è incollata alla
gola», mi interrompe e dice: «La mia lingua è proprio così».
Chiede acqua e beve tanto, come avesse a dissetare non solo se stessa, ma Gesù e tutti i
tribolati.
è felice di questa continuità di preghiera e di saluti. Ogni tanto mi dice
«ravo!». Io le faccio il segno di croce, come si fa ai bambini, prima e dopo ogni
salmo, o altro testo. Ha ripreso il movimento della mano sinistra. Stringe la mia quando
vengono parole che eravamo abituati a commentare. Per esempio: «Venga il tuo
Regno». Dice ogni volta «Amen» e «Alleluia», magari dopo una
pausa più lunga, per trovare la forza.
Il secondo pomeriggio e la serata sono terribili. Ha sempre l'ossigeno.
Ansima, rantola, non inghiotte più nulla. Non ha pause per parlare. Chiama in
continuità me e la suora. Vuole che le tenga i piedi, o la mano sinistra. A un tratto
grida: «Suora, faccia qualcosa. Basta, non ne posso più!». «Non spetta
a noi dire basta» le risponde la suora «però possiamo dire al Signore che
siamo stanchi».
«Ora lascia, Signore, che il tuo servo vada in pace, secondo la tua
parola», dice lei con forza, oltre il gorgoglio della maschera, scandendo le parole.
E' questa la sua ultima preghiera gridata con la voce. Sono circa le 21,30.
Dopo le 23 io le ripeto più volte quell'invocazione di Simeone al femminile e con il
suo nome: «Ora lascia, Signore, che la tua serva Michela vada in pace secondo la tua
parola». Lei ogni volta muove la mano, o i piedi, in segno di risposta. Le dico anche la
preghiera di Gesù nell'orto degli ulivi: «Padre, togli da me questo calice,
tuttavia non la mia, ma la tua volontà si faccia». Lei fa
«sì» con il capo.
Le parlo per quietarla. mi stringe la mano. le dico amore e tesoro, piccola mia, Michelina
mia. La bacio in fronte. Mi guarda in una pausa dell'affanno, con occhi amanti e mi dice
rapida: «Gigi, me ne vado». Si addormenta a mezzanotte e un quarto. Le faccio
l'ultimo segno di croce. Muore nel sonno, quietamente, all'una e cinque del 3 novembre, giorno
di sabato.