(La trascrizione dalla viva voce non è stata rivista dall'autrice. I titoli sono redazionali)
Vi do il benvenuto per questo incontro e soprattutto do il benvenuto alla signora Rita Borsellino e a d.Roberto, uno dei cappellani di Rebibbia. Grazie a lui, alla signora Assunta Paolella e a tutta la sua famiglia, abbiamo l'onore di avere lei qui questa sera. Faccio solo una brevissima introduzione, per dire come tre delle persone uccise dalla mafia, proprio per la loro testimonianza di vita cristiana, sono state inserite nell'elenco dei nuovi martiri presentato al Papa nel grande anno Giubilare. Sono d.Puglisi, che sarà il primo ad essere proclamato “beato” dalla Chiesa, Rosario Livatino e appunto suo fratello Paolo Borsellino. Siamo dinanzi alla testimonianza, da un lato, di un amore grande per ciò che è la cosa pubblica, la “res publica”, lo Stato - cosa difficile oggi ma importantissima, che alcune persone vivono a rischio della loro stessa vita perché altri possano vivere in onestà, in libertà, in giustizia, secondo dei valori di rispetto – dall'altro di una esplicita scelta di questo in nome della propria fede cristiana. Diceva il magistrato Rosario Livatino, parlando dell'altissimo compito di chi è chiamato a giudicare:
“Il compito del magistrato è quello di decidere. Orbene decidere è scegliere e a volte tra numerose cose, o strade o soluzioni e scegliere è una delle cose più difficili che l'uomo sia chiamato a fare. Ed è proprio in questo scegliere per decidere, decidere per ordinare, che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio, un rapporto diretto perché il rendere giustizia è realizzazione di sé, è preghiera, è dedizione di sé a Dio, un rapporto indiretto per il tramite dell'amore verso la persona giudicata”.
Voglio riportare anche alcune espressioni in cui Paolo Borsellino raccontava di Giovanni Falcone, da poco ucciso:
“Giovanni lavorava con perfetta coscienza che la forza del Male, la Mafia lo avrebbe un giorno ucciso. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché non si è turbato? Per amore. La sua vita è stata un atto d'amore verso questa sua città. Se è morto nella carne ma è vivo nello spirito come la Fede ci insegna, le nostre coscienze, se non si sono svegliate, debbono svegliarsi. Occorre dare un senso alla sua morte, alla morte della moglie e dei valorosi uomini della scorta, testimoniando i valori in cui crediamo”.
Ecco, la ringraziamo veramente per essere qui. Ci ha raccontato che le è capitato più volte di parlare sia nelle scuole, sia nelle comunità cristiane e anche, per la prima volta, grazie a d.Roberto a Rebibbia, nelle carceri, incontrando proprio le persone che dall'altra parte, quella della malavita, hanno vissuto la sua stessa realtà. Anche noi l'accogliamo e la ringraziamo.
Grazie, grazie di questa accoglienza. In una giornata che per me è un po' particolare. Stamattina, sono arrivata da Napoli, dove mi trovo da diversi giorni, per preparare quella che con la nostra associazione, Libera, chiamiamo la “Giornata della memoria e dell'impegno”, in cui ricordiamo tutte le vittime della violenza mafiosa e anche di tutte le mafie, per prendere poi a partire da lì degli impegni concreti, impegni per operare nella vita, nella società, per fare sì che tutto questo abbia un senso, per fare che tutto questo non accada più.
Mi trovavo lì, dicevo, con tanti amici dell'associazione Libera, con d.Luigi Ciotti, in questo impegno forte di sensibilizzazione nelle scuole, presso le amministrazioni e l'altro ieri, proprio il primo giorno di lavoro in Campania, dove si svolgerà quest'anno questa giornata, a Torre Annunziata, ci ha raggiunto la notizia che una delle nostre amiche più care, una delle persone più care a noi, al nostro cuore, all'associazione tutta ci aveva lasciati, era morta lunedì mattina, Saveria Antiochia. E mi piace qui ricordarla come abbiamo fatto in questi giorni in tutti i luoghi in cui siamo andati e continueremo ad andare fino al 21 marzo. Saveria Antiochia è una donna - ne parlo al presente, perché mi riesce difficile parlarne al passato - è una donna di quasi 80 anni, avrebbe compiuto 80 anni quest'anno. E' la mamma di un agente di scorta, Roberto Antiochia, un agente della polizia di Stato, che scortava il vice-questore Ninni Cassarà. Nel 1985, anno caldissimo per i delitti mafiosi della nostra città di Palermo, era già stato ucciso il commissario Montana, era un periodo difficile anche per i rapporti tra gli uomini delle istituzioni. Ci sono questi periodi in cui il rapporto tra uomini delle istituzioni, tra pezzi delle istituzioni, diventa difficile, complicato, contraddittorio e tutto questo crea un terreno molto fertile per la mafia che quando vede qualcuno che resta isolato, specialmente se è un suo nemico giurato, ha il gioco più facile anche ad eliminarlo. Così era per Ninni Cassarà, in quel periodo, questo vice-questore, uomo intelligentissimo, uomo dal grande acume, dalla grande professionalità, che aveva collaborato in maniera forte, fattiva, determinante vorrei dire, con Giovanni Falcone in particolare e anche con Paolo. Grandi erano i risultati che era riuscito ad ottenere e quindi i contrasti, come sempre succede dopo i grandi risultati, all'interno degli organi stessi, che dovrebbero invece collaborare tra di loro. Si era creata intorno a lui una situazione di grande isolamento. C'erano grandi scontri all'interno della Questura, tra Questura e uomini delle istituzioni, tra Palermo e Roma. Era un periodo particolarmente difficile come tanti ne abbiamo vissuti. Roberto Antiochia era un uomo della polizia di Stato - mi viene difficile chiamarlo uomo, aveva solo 23 anni - era un ragazzo della Polizia di Stato, aveva una grande dedizione al suo lavoro, una grande stima, un grande affetto, un grande amore per il suo Commissario. E' in ferie, e' estate e lui sa quali sono le difficoltà all'interno della Questura di Palermo, si rende conto che il suo Commissario è isolato, è solo, che c'è difficoltà addirittura ad organizzare le scorte per tutelarlo, accompagnarlo nel suo lavoro, nei pericoli che corre e chiede di rientrare in servizio, volontariamente. Entra di nuovo nella scorta di Ninni Cassarà. Durerà poco questo suo impegno di amore straordinario, perché mentre accompagna il suo commissario a casa, un commando già organizzato, già pronto, già appostato, viene allertato da una telefonata di normalità, perché come ricordo con le parole di Paolo, certi gesti ti aiutano a vivere nella normalità. Ninni Cassarà, alle 3 del pomeriggio dopo una giornata di lavoro, telefona alla moglie e dice: “Sto arrivando”. Qualcuno ascolta quella telefonata, intercetta quella telefonata che è partita da dentro la Questura e organizza il gruppo di fuoco. Appena Ninni Cassarà e Roberto scendono dalla macchina davanti all'abitazione di Cassarà, una quantità di proiettili inverosimile li annienterà proprio davanti alla porta dell'abitazione di Ninni Cassarà. La moglie sente gli spari, capisce e si affaccia con la bimba piccola in braccio, vede questa scena terribile del marito che, ormai morente, si trascina verso il portone di casa. Avrà il tempo di scendere precipitosamente le scale, bussando a tutte le porte per potere lasciare la bimba. Nessuno le apre, perché hanno paura, hanno sentito gli spari, non sanno chi bussa. Nessuno apre la porta. E così lei arriva giù, arriva soltanto a raccogliere l'ultimo respiro del marito. Roberto è morto subito, perché con il suo corpo ha cercato di proteggere il suo commissario. La madre viene raggiunta dalla notizia attraverso la radio - stava stirando, come facciamo quando assolviamo i nostri compiti di madri di famiglia - e sente alla radio il nome di Ninni Cassarà. Sa che con lui c'è Roberto, anche se la radio dice soltanto: “Ninni Cassarà ed un agente di scorta”. Questa è la sorte di questi uomini e di queste donne straordinari che fanno questo lavoro rischiosissimo di scortare, considerando la vita di chi scortano più importante della propria - perché è questo che fanno, e lo fanno spesso almeno si faceva, per poco più di un milione al mese. Lo fanno perché ci credono - altrimenti non potrebbero farlo - lo fanno perché ci mettono dentro tutto l'amore, tutto il rispetto, tutta la voglia di collaborare perché la giustizia possa veramente avere il sopravvento. Lei sente soltanto parlare di un agente di scorta, ma sa che è Roberto quello che è morto con il suo commissario.
Non si lascia annientare da questo dolore - io so che cosa avviene, ne abbiamo parlato tante volte con Saveria. Subentra un meccanismo strano, un meccanismo che ti dà una forza straordinaria, il dolore c'è, è forte, è violento, potrebbe annientarti, ma si trasforma in una forza straordinaria. Una forza che ancora una volta è la forza dell'amore - non ho esitazioni a usare questo termine, perché di questo si tratta. Perché quello che ci spinge, che spinge tanti familiari delle vittime della violenza a mettersi in gioco, a mettersi in cammino, a partire subito dopo, anche se prima non si è fatto niente, ad entrare in questo meccanismo straordinario che è quello di incontrare gli altri per cercare di comunicare qualcosa, per cercare di costruire qualcosa, per dare un senso al sacrificio dei propri cari, è amore, è voglia di far continuare quello che i nostri cari stavano facendo. Paolo, Roberto lavoravano per la giustizia, per la legalità, subentra questo meccanismo per cui tu ti dici: “Ma è mai possibile che soltanto perché qualcuno ha pensato di poterli fermare pigiando sui tasti di un telecomando, schiacciando il grilletto di un kalashnikov, questo possa annientare tutto quello che era la loro carica vitale, la loro carica di amore, di emozioni, di valori, per cui hanno voluto sacrificare la loro vita?”. Perché Paolo, Roberto e tutti gli altri sapevano di andare incontro a questo. Paolo non diceva: “Se un giorno mi ammazzeranno”, Paolo diceva: “Quando, un giorno mi ammazzeranno”, con la consapevolezza forte che quello che faceva, così come lo faceva, lo avrebbe portato a trovare una morte violenta lungo la strada. Ma lo aveva accettato. Lo aveva accettato perché non aveva scelta, non poteva venire meno a quello che erano i suoi ideali, il suo credo, il suo amore per gli altri, il suo amore per la giustizia, non poteva scendere a compromessi, ma non solo per gli altri ma neanche con se stesso, neanche con la sua coscienza. Allora, fatta questa scelta, si accetta tutto, anche la morte. Non solo si accetta, ma tanto grande è la forza che emana da tutto questo che anche chi gli sta attorno, se gli vuole bene, condivide tutto questo. Così lo avevamo accettato tutti noi familiari, i fratelli, la madre, la moglie, i figli. Tutti sapevamo e tutti accettavamo, perché lui voleva così, perché gli avremmo reso la vita più difficile se avessimo manifestato le nostre paure, che c'erano, che ci accompagnavano sempre. Così scatta questo meccanismo per cui tu pensi proprio questo: “Ma devo dargliela vinta? Ma è possibile che dobbiamo dargli ragione, che facendo questo finisce tutto? Li hanno ammazzati e non c'è più nulla, non resta più nulla di Paolo Borsellino, di Roberto Antiochia, di tutti quelli che sono morti così. E' mai possibile che non debba restare più nulla?”. Allora ci si mette in cammino, ci si mette in gioco, per cercare di continuare, per cercare di dare un senso a quello che è accaduto, per cercare di trasmettere ancora quello che noi abbiamo vissuto, che abbiamo vissuto intensamente e dolorosamente negli anni in cui tutto questo si è preparato e nel momento in cui poi questa morte si è materializzata. E si comincia ad andare, si comincia a incontrare persone, si comincia a sentire - Paolo diceva - “la bellezza del fresco profumo di libertà”. E' proprio vero, è il silenzio che puzza, la complicità, anche soltanto la contiguità, anche soltanto il girare la testa dall'altra parte, è quello che puzza di morte. La libertà, la voglia di giustizia hanno un profumo bellissimo che ti contagia, di cui non puoi più fare a meno. Se incontri gente e senti che chi ti incontra condivide, che chi ti incontra è con te, che è solidale, che si sensibilizza probabilmente per una parola che tu non sai neanche che può ottenere questo effetto, per un sorriso, per una stretta di mano. Se tu sai che questo accade e può accadere e può accadere ancora, sai che regali momenti di vita alla persona che non c'è più, la tieni in vita, la fai palpitare ancora, fai in modo che quello per cui è morta rimanga vivo e diventi di più, si moltiplichi e si sviluppi in ogni nuova persona che incontri e questo ti dà un senso straordinario, quasi di liberazione, ti libera dalla voglia di cedere al dolore, alla disperazione, ti aiuta a sentire meno la mancanza fisica della persona a cui hai voluto bene, perché chiunque ti abbracci o ti stringa la mano o ti dica una parola di solidarietà, è come se ti restituisse un po' dell'affetto della persona che hai perso. La ritrovi nelle parole di qualcuno che ti racconta qualcosa, un episodio, qualcosa che ha vissuto. Lo rivivi nell'abbraccio, magari nelle lacrime di qualcuno che condivide quello che tu senti, quello che tu provi. Puoi ripartire - non solo - diventa per te una necessità, diventa un impegno di vita e se devi dire di no a qualcuno che ti chiede di parlare ti senti in colpa e dici: “Ma che diritto ho io, di restarmene chiusa anche nella mia stanchezza, anche nel mio dolore, nei momenti di cedimento, nei momenti di scoraggiamento, che diritto ho io se c'è qualcuno che vuole ascoltare, che vuole condividere, che vuole capire e che mi chiede di farlo insieme? Io non posso dire di no, i nostri cari non si sono mai tirati indietro mai, neanche davanti alla morte, che diritto abbiamo allora noi di tirarci indietro?” E' questa la molla che ci spinge e Saveria si era lasciata prendere completamente da questo impegno e lo aveva fatto sin dal primo momento con una forza e una dignità straordinaria.
Questa sera, a “Il Fatto” di Enzo Biagi, Saveria è stata ricordata ed è stata ricordata da Giancarlo Caselli che ha avuto un'espressione bellissima che mi ha fatto riflettere, ha detto: “La forza soave di Saveria Antiochia”. Era così Saveria, forte e serena, con una grande serenità e una grande capacità di dire chiara la verità, di pretendere la verità, di pretenderla con la forza della giustizia, dell'amore per la giustizia che Roberto le aveva lasciato, le aveva tramandato in qualche modo. Si diventa quasi depositari di un mandato, non ci si può tirare indietro, non ci si vuole anche tirare indietro. Saveria lo aveva fatto per tanti anni, Roberto è morto nel 1985, gli anni passavano certamente, la stanchezza era tanta, spesso le delusioni, a volte la rabbia quando si sentiva presa in giro da esponenti delle istituzioni che pensavano di trattarla da povera vecchia, perché quasi la blandivano, la prendevano con le buone, raccontandole qualche bugia per tenerla buona quando lei andava a pretendere che il processo andasse avanti più celermente, che la verità fosse verità e non mezza verità, che le si dicesse chiaro in faccia come stavano le cose, che non ci fossero mezze misure per nessuno. Saveria lo chiedeva. Lei era capace, con il sorriso sulle labbra, di battere il pugno sul tavolo, a chiunque appartenesse quel tavolo, dove al Capo della Polizia, dove a un Procuratore della Repubblica o a chiunque. Batteva forte il pugno sul tavolo e, davanti a quel pugno battuto con forza sul tavolo col sorriso sulle labbra, le persone riflettevano. Quante persone ha fatto riflettere Saveria, quante persone ha portato a guardarsi dentro, prima di tutto, a non dire più mezze verità. Ha fatto in tempo con la sua forza e la sua caparbietà a vedere la fine del processo. Quest'anno i colpevoli sono stati assicurati alla giustizia, come si dice. I colpevoli sono stati condannati, i processi sono finiti, è finito l'andare e venire faticoso, come un pellegrinaggio di Saveria da Roma dove abitava, a Palermo. Aveva delle difficoltà economiche, in cui si dibatteva, era vedova e viveva della sua piccola pensione, doveva fare i conti ogni giorno e non sempre si poteva permettere di prendere l'aereo per andare a Palermo. Doveva sobbarcarsi 12 ore in treno per andare e 12 per tornare, ma non è mai mancata ad un'udienza del processo - sapete - non perché voleva vendetta - non voleva vendetta Saveria - voleva la giustizia, voleva la verità e non c'è giustizia senza verità, lo diceva stamattina d.Luigi Ciotti celebrando il funerale di Saveria, un funerale dove, è vero, non c'era tanta gente, ma c'erano gli amici veri di Saveria, c'erano le persone che veramente le volevano bene, quelli che le sono stati accanto che l'hanno sostenuta e che hanno condiviso tutto questo. Non c'erano grandi personalità, c'era qualcuno del mondo istituzionale che aveva capito il valore e la forza di questa grande donna, l'aveva saputa apprezzare e aveva saputo starle vicino nella sua ricerca della verità. Ma c'erano tanti amici, c'erano soprattutto tanti ragazzi, che quando Saveria aveva cominciato a stare male, facevano a gara per starle vicino, per farle compagnia, forse per farle sentire meno la mancanza di Roberto. Roberto è rimasto giovane, è rimasto a 23 anni. Hanno questo vantaggio i nostri morti, non invecchiano più. Restano lì in quell'età in cui la loro vita è stata spezzata e si mantengono così, Paolo ha ancora oggi 52 anni. Mi trovo in una situazione strana, io sono la sorella più piccola di Paolo e mi è sempre piaciuto questo ruolo di sorella piccola che lui coccolava un po'. Oggi spesso provo la tristezza e l'amarezza di pensare che sono più grande di lui. Paolo ha ancora 52 anni, è giovane, energico, è pieno di voglia di vivere e così Roberto. Roberto ha 23 anni. Per la sua mamma era rimasto così. Allora tutti questi ragazzi che si stringevano intorno a lei, le facevano compagnia, l'aiutavano a lavorare, fino all'ultimo, perché non ha mai smesso di occuparsi di quello di cui si era occupata in tutti questi anni. Erano un po' tante immagini di Roberto che lei aveva fatto vivere. Lei con le sue parole, con il suo entusiasmo, con la sua forza, li aveva incontrati, conquistati, li aveva portati con sé in questo cammino straordinario che percorreva ormai da tanti anni. C'erano tutti questi ragazzi, più o meno giovani e quando d.Luigi ha detto: “Portiamola noi, noi di Libera, portiamola sulle spalle, accompagniamola noi”, erano in tanti che si sono fatti avanti per accompagnarla, per sostenerla, per restituirle un po' di quella forza che lei in questi anni ci ha dato.
Saveria, dicevo, voleva giustizia e cercava la verità, la ha sempre cercata con grande forza. Non ho mai sentito parole d'odio o di vendetta dalla sua bocca, mai e la conosco ormai da tanti anni. Ma sempre è in una ricerca forte e puntuale della giustizia. Guai a cercare di prenderla in giro, guai a cercare di raccontarle mezze verità. Si arrabbiava Saveria e aveva ragione e gli altri temevano queste sue arrabbiature perché lei sapeva incutere la soggezione della donna forte, della donna vera, della donna onesta. Aveva dentro di sé la forza di Roberto che la guidava.
Noi non chiediamo vendetta. Non solo non la chiediamo, non la sentiamo proprio dentro. Io ho sempre detto che ho avuto un grandissimo dono da Dio. Non ho mai provato odio nei confronti di nessuno e ho quasi paura di questo sentimento, ho quasi paura di poter provare odio nei confronti di qualcuno, perché penso che debba essere un sentimento devastante che ti debba far male dentro, che ti debba far vivere male, che ti debba far stare male. Una volta sentivo durante un dibattito la vedova di uno che era stato ucciso dalle Brigate Rosse e lei diceva: “Non posso perdonare perché sto troppo male”. Io le dissi: “Tu stai troppo male perché non riesci a perdonare”. Perché è vero, perché se tu riesci a entrare in questa ottica particolarissima del perdono di cui adesso vorrei chiarire insieme a voi i termini, se non si riesce ad entrare in questa ottica, in questo meccanismo del perdono, si sta male, si deve stare proprio male, secondo me non si trova pace neanche per un momento. Ho visto persone dichiarare proprio di volere vendetta, di odiare coloro che gli avevano fatto del male e li ho visti sempre stare male, male, male, soffrire in una maniera tormentosa davvero. Io ringrazio Dio perché non ho mai provato questo. Perché non ho mai provato odio e ho quasi paura di potere chissà, qualche volta, scivolare in questa tentazione. Non l'ho mai provato, ma non è merito mio. Credo che sia un dono di Dio perché mi ha aiutato ad accettare questa situazione con serenità, non con rassegnazione. Attenzione, perché questo è assolutamente diverso. Non mi sono mai rassegnata alla morte di mio fratello, fin dal primo momento, quando mi sono resa conto perfettamente che questa morte che veniva sbandierata quasi come una morte inevitabile, non lo era affatto. E' che nessuno aveva fatto niente per evitarla – il che è diverso, profondamente diverso. Quando un mese e mezzo prima era stato ucciso Giovanni Falcone, si sapeva chiaramente - lo sapevano tutti, lo dicevano, lo diceva anche Paolo - che la prossima vittima sarebbe stata lui, che il prossimo bersaglio sarebbe stato lui. Non è possibile che dopo un mese e mezzo Paolo Borsellino venga ucciso esattamente nello stesso modo in cui era stato ucciso Giovanni Falcone. Salta un pezzo di autostrada quando viene ucciso Falcone, salta una strada intera, 4 palazzi, 140 appartamenti in via D'Amelio, quando viene ucciso Borsellino. Erano in pochi insieme a Paolo Borsellino, i quattro uomini e una donna che lo proteggevano come aveva fatto Roberto Antiochia con il suo commissario, stringendosi attorno a lui, quasi abbracciandolo. Dei corpi di questi ragazzi non è rimasto nulla, ma ci hanno fatto il grande dono di conservare quasi intatto il corpo di Paolo, lasciando intatto sul suo viso quel sorriso che era la sua caratteristica più bella. Quel sorriso che è stato per me quasi un messaggio di resurrezione. E' stato pensando a quel sorriso sopravvissuto alla morte che ho cercato di guardare avanti, era come se Paolo mi indicasse una strada da seguire. Come se Paolo mi dicesse che oltre quella morte c'era qualcosa che valeva la pena di essere vissuto, qualche cosa che si doveva far vivere, si doveva far continuare. E questo qualcosa era prima di tutto la giustizia, quella giustizia che lui non aveva amministrato, ma aveva vissuto, aveva incarnato veramente e che era un'esigenza della sua coscienza, della sua anima, quella di cercare giustizia. E' bella anche quell'espressione che usa Rosario Livatino, sono molto simili, infatti, si volevano bene, si erano incontrati. Ricordo il dolore violento di Paolo quando gli arrivò la notizia dell'uccisione di Rosario e andò lì sulla strada per Agrigento a vedere, ritornò sconvolto e disse: “Il povero Rosario è stato ucciso come un coniglio, l'hanno inseguito per la campagna. Lui che chiedeva perché, mentre il killer gli puntava la pistola addosso, a lui arrivarono soltanto parole di oltraggio, parole di insulto, come Gesù Cristo sulla Croce”. Paolo aveva dentro tutto questo, tutti questi morti che aveva visto sul suo cammino, tutti questi amici, questi colleghi, persone cadute sulla sua stessa strada. E ogni volta per lui era un impegno ancora più forte a scoprire questa verità, a fare verità, a fare giustizia. Aveva preso lo stesso impegno forte quando Falcone gli morì fra le braccia con il corpo ormai martoriato e Paolo gli promise: “Farò giustizia”. Non gli disse: “Ti vendicherò”, non lo avrebbe mai pensato, mai voluto, tanto è vero che a 30 giorni dalla morte di Giovanni Falcone, davanti a circa 30.000 ragazzi, scout che venivano da tutta Italia, pronuncia questa splendida orazione funebre da cui è tratto questo brano che d.Andrea ha letto. E' un messaggio d'amore. E' soltanto un messaggio d'amore. Come messaggio d'amore trasmette la morte, la vita, il lavoro di Giovanni Falcone. A questi ragazzi dà un messaggio di forza, di giustizia, di amore per la verità. Io c'ero quel giorno, era la prima volta che partecipavo a una manifestazione pubblica.
E' così strana la mia storia! Ho vissuto per tanti anni accanto a Paolo, del riflesso di quello che faceva, di quello che pensava, di quello che viveva, ascoltando, assorbendo tutto quello che lui diceva e faceva, non facendo nulla. Non avevo mai fatto nulla. Mi occupavo della mia famiglia, del mio lavoro, dei miei figli. Tre figli nati nel giro di 4 anni sono una bella fatica, un bell'impegno. Mi ci ero dedicata, mi ero lasciata assorbire completamente da tutto questo. Lo facevo nella quotidianità, tutti i giorni, cercando di dare quanto più possibile a loro e cercando di prendere quanto più possibile potevano darmi e mi hanno dato tanto. Sono proprio cresciuta insieme a loro, mi sentivo brava, credevo che tutto questo bastasse. Poi mi resi conto improvvisamente che avevo fatto solo una piccola parte di quello che dovevo fare. Questi ragazzi che io avevo cresciuto, avevo educato con tanta attenzione, con tanta ansia anche, non potevano stare sotto una campana di vetro, non potevano sempre vivere nell'ambito della famiglia, dovevano entrare in questa società, prima a piccoli passi e poi a passi sempre più lunghi, fino a che si sarebbero allontanati da me e avrebbero dovuto camminare soltanto con le loro gambe. E' logico, è naturale, noi mamme e papà dobbiamo lavorare per questo, perché loro un giorno se ne vadano, perché sappiano camminare con le loro gambe. Lavoro difficile quello delle mamme e dei papà, sicuramente. Poco compreso dai ragazzi che hanno voglia di andare avanti, a volte scalpitano davanti alle attenzioni dei genitori. E' un mestiere difficile, nessuno ci ha insegnato a farlo, dobbiamo impararlo. L'importante è impararlo insieme a loro, vivere le difficoltà insieme a loro, perché imparino a loro volta. Dicevo, non avevo mai fatto niente per questo società in cui un giorno loro sarebbero entrati e avrebbero dovuto camminare da soli. Avevo fatto, diciamo, metà del mio lavoro, avevo curato un aspetto ma non avevo curato l'altro. Quando, traumaticamente, mi resi conto di quanto questa società in cui vivevano così immersi, che era così tanto vicina a noi era una società veramente terribile, fatta - per quello che io ne vedevo - soltanto di fatti negativi, di inganni, di morti, di uccisioni, di omertà, di silenzi, fatta di tutti gli stereotipi di cui un po' tutti quanti ci siamo nutriti sulla nostra gente di Sicilia. Ma io che ci vivevo dentro non riuscivo a vedere veramente com'era. Dopo la morte di Giovanni Falcone, che era caro anche a me come lo era a Paolo, e di sua moglie in particolare che era stata addirittura mia compagna di scuola, con cui c'era un rapporto così forte, dopo avere visto la sofferenza profondissima di Paolo che era cambiato quasi anche nel suo carattere, per diversi giorni non riuscì più a scoprire quel sorriso che aveva sempre, la sua caratteristica più bella. Mi trovai a riflettere ancora di più e quando il 23 giugno si fece questa commemorazione di Giovanni Falcone, arrivarono tutti questi scout, tutti questi ragazzi. Paolo inconsapevolmente mi diede un mandato perché questa fiaccolata di 30.000 scout partiva da uno dei quartieri più vecchi e degradati di Palermo, partiva dal quartiere della Calza, da piazza Maggiore dove eravamo nati sia noi sia Giovanni Falcone, partiva da questo Centro storico degradato di Palermo che veniva preso un po' come simbolo della mafia e della malavita che rovinava la nostra città. Partiva da lì e lì io ancora gestivo una farmacia che apparteneva alla mia famiglia, da 4 generazioni. Paolo e io eravamo conosciuti, avevamo frequentato la scuola della piazza. Paolo aveva giocato con i bambini della piazza - eravamo conosciuti - era un simbolo molto forte per gli abitanti di lì. Paolo mi telefonò e disse: “Sai, per motivi di sicurezza, non vogliono che io vada per la strada con i ragazzi con la fiaccola. Vi aspetterò nella Chiesa di S.Domenico dove si sono svolti i funerali di Falcone, ma noi non possiamo mancare lì; vai tu per me”. E io - quasi a malincuore, devo dire; il pensiero di andare a una manifestazione pubblica, non lo avevo mai fatto, mi turbava; non so perché, ma non sapevo dire di no a Paolo - andai. Andai e mi trova immersa in mezzo a questa sconfinata moltitudine di ragazzi, che erano arrivati da tutte le parti d'Italia, anche da altre città dell'Europa e che venivano lì anche soltanto per quelle 2-3 ore di questa manifestazione. Poi con i pullman tornavano indietro. Sentire l'intensità dell'impegno di questi ragazzi che, con le loro fiaccole in mano, percorrevano cantando le strade di quella città martoriata, buia, immersa veramente nel buio, fu per me una sensazione particolare, anche perché poco prima che la fiaccolata partisse sentimmo arrivare le macchine della polizia a sirene spiegate. Arrivò Paolo. Aveva vinto lui, c'era riuscito, era venuto anche lui. Ma questi ragazzi si erano stretti intorno a lui in un abbraccio di amore così forte, così vero, così sincero che davvero cominciai a interrogarmi: “Ma che ne sanno loro di Paolo?”. Io credevo che Paolo appartenesse soltanto a me e mi chiedevo, davvero erano queste le mie sensazioni: “Ma perché gli vogliono così bene? Ma perché senza conoscerlo si stringono intorno a lui quasi a proteggerlo?”. Quasi a voler camminare con lui su questa strada così rischiosa. Non vi nego che un po' di paura c'era. Le strade erano strade del Centro storico, erano buie, il momento era particolarmente difficile, Gli agenti di scorta - ce n'erano 2 che poi sarebbero morti con Paolo - si stringevano attorno a lui e li vedevo camminare alzando la testa, guardando i balconi, cercando di penetrare nel buio, per vedere se qualche pericolo vi si annidasse. Lui camminava, pensieroso ma sereno, e io mi trovavo a stringermi quasi alle sue spalle perché sentivo il bisogno di proteggerlo in qualche modo. Mi contagiavo di tutta questa atmosfera che stavo vivendo e poi arrivammo alla Chiesa di S.Domenico, il Pantheon di Palermo, e ci dissero che ancora il corteo continuava a defluire dalla piazza dalla quale eravamo partiti. Erano proprio tanti. Queste fiaccole avevano veramente squarciato il buio di quella città. Paolo cominciò a parlare e fece questa sorta di omelia. Bellissima, di una forza e di una serenità straordinaria, trasmetteva questa sua voglia impetuosa di verità e di giustizia. Era come se la consegnasse veramente ad ognuno di questi ragazzi e loro sentivano questa corrente che ritornava indietro. Io ero veramente in un'altra dimensione, assorbivo quasi senza capire tutto questo e alla fine proprio delle parole che d.Andrea ha detto, alla fine Paolo disse: “Perché Giovanni è vivo!”. Lo disse con una forza, con una convinzione che tutti sentirono che era vero e scoppiò un applauso che non finiva più in questo tempio grande, enorme, che tremava per gli applausi di questi ragazzi. Ricordo che anch'io battevo le mani e lo guardavo quasi come se lo vedessi per la prima volta, perché lo vedevo sotto una luce diversa. E una ragazza in piedi su un banco dietro di me che ero in fondo alla Chiesa, batteva le mani e poi disse “Ma chi è quest'uomo?”. E io, istintivamente, feci una cosa che forse a lei sembrò sciocca, ma per me era importante. Mi girai e dissi: “E' mio fratello”. Paolo quella sera, in qualche modo, mi consegnò questo testimone, perché da quel momento cominciai a guardare all'esterno in maniera diversa, cominciai a capire tante cose. Cominciai a guardare anche la gente in maniera diversa, fino a quel momento avevo avuto il silenzio di chi incontravo, di chi mi stava intorno, di chi non conoscevo, perché pensavo che fossero tutti nemici, tutti ostili. Io sapevo della solitudine di Paolo anche nel suo lavoro, anche all'interno del Palazzo di Giustizia e avevo proprio una grande ostilità nei confronti degli altri. Ma poi avevo visto questi ragazzi, ragazzi che non lo conoscevano, che non sapevano neppure chi fosse e che pure lo amavano così tanto.
E poi Paolo morì e io arrivai in quella via D'Amelio - non ero in casa quel giorno - devastata come da un bombardamento e mi venne incontro tanta gente che aveva subito la distruzione della propria casa e che non pensava a questo, che si stringeva attorno a me, attorno ai miei familiari, che ci abbracciava e piangeva con noi. E poi alla camera ardente a Palazzo di Giustizia, 2 giorni e 2 notti di fila interminabile di persone che aspettavano ore per passare soltanto davanti alla bara di Paolo e dei 5 agenti della sua scorta e poi i funerali, in cui migliaia e migliaia di persone sotto un sole cocente - era il 19 luglio e a Palermo alle 2 del pomeriggio, non è cosa agevole stare fuori - avevano aspettato delle ore perché in chiesa non si poteva entrare, solo per vederlo passare. E quando passò Paolo, piangendo lo chiamavano Paolo e ancora una volta capii - e ancora di più - che Paolo apparteneva a tutti, che Paolo non era solo mio, che Paolo era stato capace di suscitare tanto amore nella gente che neanche lo conosceva che ci doveva essere qualche cosa di speciale, qualche cosa di particolare. Mi guardavo attorno e sentivo che io dovevo dividere questo dolore con gli altri, ma non soltanto il dolore, anche la partecipazione, anche la presenza. Non potevo stare più chiusa dentro il mio guscio, anche perché il mio guscio non c'era più, la mia casa era stata distrutta insieme ad altri 140 appartamenti in quella via D'Amelio. Ecco, forse questo restare a nudo, in quel momento, senza questo guscio anche materiale, dentro il quale mi ero sempre rifugiata, in quei giorni mi ha aiutata a guardare meglio fuori e ho capito, ripeto, che Palermo non era quella che altri volevano che si credesse, che Palermo non era quella che io pensavo. Palermo era fatta di decine e decine, centinaia di migliaia di persone oneste, buone, che ci credevano, che avevano riconosciuto in Paolo qualcuno che lavorava per loro, che cercava di riscattarli in qualche modo e ne piangevano la morte. Allora, sentii il bisogno di stare con gli altri, sentii il bisogno di comunicare e di ricevere, quello che loro riversavano in qualche modo su di noi. Così cominciai a venire fuori, così cominciai a girare, ad incontrare persone e mi resi conto che c'era un movimento straordinario di gente, di opinione pubblica, di gente semplice, di gente che veramente a volte non riusciva neanche a esprimere quello che sentiva, che voleva giustizia, ma voleva giustizia come conseguenza della verità. Non era, ancora una volta, richiesta di vendetta, era richiesta di giustizia, che è molto diverso. Vedete, la vendetta è qualcosa di negativo, che deriva dall'odio. Secondo me non può generare che altro odio. E' una catena fatta di male, non fatta di bene. Io mi rendevo conto di quello che aveva generato, il bene che Paolo aveva fatto, i sentimenti positivi che Paolo aveva trasmesso agli altri, e mi rendo conto oggi che l'odio, i sentimenti di vendetta non sono altro che elementi negativi che generano altro odio, che generano altra voglia di vendetta.
Allora in questo mio girare, in questo mio andare, soprattutto in quell'incontro straordinario che d.Roberto mi ha offerto di fare a Rebibbia, ho capito che quello che Paolo aveva fatto in tutta la sua vita, nella sua vita di magistrato, era una cosa che pochi fanno e sanno fare, che era la ricerca dell'uomo. La ricerca dell'uomo all'interno di ognuno di noi. Qualsiasi persona Paolo si trovasse di fronte - che fosse Totò Riina o il rappresentante delle istituzioni - lui cercava prima di tutto l'uomo, di individuare l'uomo, con la sua coscienza, con i suoi sentimenti, con i suoi perché, anche con i suoi errori. Mai giudicando, sempre cercando di capire. Era questa la sua grande forza: lui cercava l'uomo e cercava l'uomo da amare, anche e soprattutto nei più deboli, nei più fragili, in quelli che erano caduti, in qualche modo, in quelli che avevano sbagliato strada, chiedendosi perché avevano sbagliato strada. Non solo, di più! Chiedendosi qual'era la sua, la nostra responsabilità in tutto quello che era accaduto. Perché - ne parlavamo ieri in una scuola in Campania, un'altra regione dalle situazioni terribili - secondo me ognuno di noi è corresponsabile di tutto quello che è accaduto. Perché se è stato possibile che si verificassero le stragi, le morti, le uccisioni c'è la corresponsabilità di ognuno di noi. In questo clima di illegalità diffusa, serpeggiante, di cui non si capiscono più neppure i confini, si è perso il senso del buono e del cattivo, si è perso il senso dell'ingiustizia e della giustizia, non c'è più un confine netto, non si capisce più dove finisce l'uno e comincia l'altro. E' come un sistema fatto di piccoli compromessi. Piccoli compromessi di ogni giorno, non quelli grandi, non fatti da quelli che ammazzano, da quelli che rubano, ma fatti da ognuno di noi, ogni momento con la propria coscienza, nelle proprie scelte di ogni giorno, nelle proprie decisioni, nel modo di guardare a chi ci sta vicino, nel giudicare chi ci sta vicino in maniera così netta, come se fossimo infallibili. Paolo, da cattolico convinto quale era, cercava quella scintilla di umanità, cercava quella scintilla perché era convinto che soffiandoci sopra si sarebbe ravvivata, si sarebbe potuta riaccendere. Questo mi aveva insegnato Paolo, solo che io non lo avevo capito prima. C'è voluta la sua morte per farmi rivisitare tutto questo, per farmi tornare alla memoria tante cose, per incontrare tanta gente che mi ha aiutato a scoprire tutto questo.
E allora quando io parlo di perdono, oggi ne parlo in maniera diversa da come ne parlai all'indomani della morte di Paolo. Ricordo che in mezzo alle macerie di via D'Amelio, mi si avvicinò un giornalista con il microfono in mano, me lo mise sotto il naso e mi chiese: “Ma lei perdona gli assassini di suo fratello?”. E io, per togliermelo di mezzo, per non rispondergli in maniera violenta - anche perché non ne sono capace, perché davanti ad una domanda di questo genere, davvero cascano le braccia - gli risposi istintivamente di sì. Forse me lo ha detto la mia educazione, il mio essere cattolica, quasi fosse obbligatorio perdonare chi ti ha fatto del male. Perché è un po' questa l'idea corrente, se si chiede a un familiare di qualcuno o a chi ha subito violenza di qualsiasi genere, se perdona oppure no. Tu ti aspetti che dica di sì, perché se quello ti dice di no, tu ci resti pure male, perché è quasi obbligatorio che quello li perdoni. Davvero ci si resta così. Io quando sento queste domande e ricordo quello che ho provato io, quando mi è stata posta, mi viene voglia di prenderli a schiaffi questi qui, di svegliarli, di dirgli: “Aspetta di provarlo tu e poi capirai la violenza che fa una domanda di questo genere”. Ma come fai in quei momenti in cui non ti rendi neanche conto di quello che ti è successo, in cui fai fatica veramente a prendere coscienza, a capire, in cui cerchi soltanto di rimuovere quello che ti fa male, quello che ti ha fatto del male, in cui sono tante le sensazioni che ti attanagliano, che l'ultima cosa che puoi fare è ragionare, ma come fai a rispondere? Io, ripeto, risposi istintivamente di sì, però devo dare un merito a questo giornalista - e ne abbiamo parlato in seguito, perché è anche una persona seria, lo fanno per mestiere, forse non è neanche colpa loro, è questo che gli chiede poi, l'esigenza della cronaca. Gli dissi: “Io ti ringrazio, perché mi hai fatto riflettere, perché non mi aveva neanche sfiorato quest'idea, non ne ho avuto il tempo, né la possibilità. Ma dopo che tu me lo hai chiesto, ho cominciato a pensarci su e ho seguito un percorso, un ragionamento che mi ha portato poi a rispondere in maniera consapevole a questa domanda, a rispondere a me prima di tutto, perché era questo che volevo capire io, rendermi conto io. E' un percorso, un ragionamento difficile, complicato, pieno d'insidie anche, pieno di sì e di no che ti tirano da una parte e dall'altra. Mi sono resa conto che per dare una risposta a questa domanda, devi mettere insieme la testa e il cuore. Non puoi rispondere solo con la testa, non puoi sentire solo quello che ti dice il cuore perché altrimenti, quello che tu dici poi in quel momento, resta incompleto, mutilato. E' un percorso che io credo non finisca mai, perché puoi dire un momento o pensare un momento una cosa e il momento dopo sentirti sopraffare dal dolore, dall'assenza della persona che ti era cara, dal risentimento davanti a qualcosa che vedi, che senti o che ti porta da tutt'altra parte. E' un percorso che credo non finisca mai, un percorso difficile e complicato, ma che ti fa prendere coscienza. Io ci ho ragionato sopra e mi sono resa conto che, come vi dicevo prima, che se è vero che io ho ricevuto, il dono di non odiare, il dono di non cercare vendetta, è un dono che ho ricevuto da Dio ed un dono che io devo condividere con qualcun altro. Non posso tenerlo stretto per me e se c'è qualcuno con cui devo condividerlo, è proprio con chi mi ha fatto del male. Perché altrimenti non è vero, non è sincero tutto questo. E' facile stare da una parte, isolandosi completamente da quell'altra. Tu devi metterti davvero davanti a chi ti ha fatto del male e rifare questo ragionamento, lo devi verificare in qualche modo, collaudare. E ancora una volta ho trovato un grande aiuto in questo percorso così complicato e così tormentato. Ero davanti alla televisione dove proiettavano le immagini della cattura di Totò Riina, questo ometto fotografato quasi per scherno sotto le fotografie di Paolo e Giovanni, nei locali della Questura di Palermo - non so quanti di voi lo ricordano - un ometto dimesso, piccolo, malvestito, quasi impacciato, che non sapeva dove mettere le mani, ma con uno sguardo che balenava sotto le palpebre che dava davvero i brividi. E mi chiedevo in maniera molto sofferta e quasi con paura cosa provavo nei confronti di questa persona, perché, vedete, altro è dire che non si odia, che non si prova rancore nei confronti di qualcuno che non conosci e altro è poi vederlo in faccia, materializzato. Allora è un po' diverso. Lo guardavo quasi con timore che affiorasse qualcosa che mi faceva paura. Allora ho sentito che dietro di me, piano piano, si era avvicinata mia madre. Mia madre aveva 86 anni, aveva visto morire suo figlio, perché Paolo veniva quel giorno a casa mia a trovare mia madre che non stava bene. C'era un rapporto fortissimo tra loro, aveva telefonato anche lui dicendo: “Sto venendo” e poi aveva avuto soltanto il tempo di pigiare il campanello del portone di casa. Mia madre aveva sentito il suono, sapeva che era Paolo, ed era scoppiato il finimondo. Muri che crollavano, tetti che si sbriciolavano, schegge da tutte le parti, pareti che si aprivano, sirene impazzite, fiamme dovunque. Mia madre sapeva che in tutto questo Paolo moriva. Mia madre si avvicinò a piccoli passi, non l'avevo sentita, sentii dietro di me la sua voce che diceva: “Che pena mi fa quell'uomo!”. E' stato per me un messaggio straordinario. Mia madre aveva visto l'uomo. Io ancora me lo chiedevo, non c'ero riuscita. Mamma con lo stesso sguardo di Paolo, aveva visto l'uomo dentro Totò Riina e aveva visto un uomo che le faceva pena, ma perché le faceva pena? Perché si chiedeva come quell'uomo si era potuto ridurre così, come quell'uomo aveva spento, aveva rischiato di spegnere quella scintilla umana che aveva dentro, quella scintilla divina che aveva dentro. Come aveva fatto? Erano le stesse domande che si faceva Paolo, quando chiedeva: “Chi sei, come giocavi, cosa facevano i tuoi genitori, perché non sei andato più a scuola?”. L'aveva racchiuso in una parola sola, mia madre, e io l'ho assorbito, l'ho penetrato, ho capito quello che lei istintivamente in quel momento mi aveva trasmesso.
Allora se un uomo ti fa pena, tu non puoi odiarlo. Ti devi chiedere perché. Se ti fa pena, ti devi chiedere perché si è ridotto in quel modo, qual è il cammino che ha seguito, percorso, qual'è la strada e di chi sono le responsabilità, oltre che sue - perché è certo che si tratta di una scelta. Però cosa c'è attorno? E allora ho cominciato a chiedermi anch'io e di questo ho fatto tesoro quando ho avuto il mio incontro a Rebibbia e gli incontri successivi nelle altre carceri, ancora ieri in un carcere minorile. Mi sono chiesta: “Ma come è possibile?”. Si nasce bambini tutti uguali, anche Totò Riina è nato come tutti gli altri bambini. Non nascono bambini cattivi. Sono bambini e basta. Certo possono nascere in una situazione di condizionamenti familiari, culturali, che lo porteranno poi a diventare cattivo, a fare il male, a scegliere il male come strada, come modo di esprimersi, ma il bambino non è una monade isolata. Vive sì in famiglia ma ha contatti anche con l'esterno. Sono bambini che hanno frequentato la scuola, perché almeno per un po' l'hanno frequentata, hanno frequentato gli oratori delle parrocchie, perché i mafiosi frequentano la Chiesa. E' un punto d'onore far frequentare la chiesa alle mogli e ai figli, qualche volta anche di più, abbiamo avuto mafiosi che si portavano la Chiesa in casa, forse pensando di potere mettere così Dio al loro servizio. Ricordo di un sacerdote che diceva: “Quella dei mafiosi è una religiosità senza Dio” E' un fatto sconvolgente quello della religiosità dei mafiosi, cui loro credono profondamente e allora dicevo: “Hanno frequentato le parrocchie, avranno incontrato altre persone, crescendo, sono entrati in relazione con altri, ma questi altri che influenza hanno avuto sulla loro vita? Come la maestra, il maestro, il sacerdote non si sono mai accorti che c'era qualcosa che cominciava a non funzionare più, che il linguaggio che questi bambini usavano era un linguaggio fatto di violenza, di prevaricazione, fatto di prepotenze? Come è possibile che nessuno si sia accorto e nessuno si sia fatto carico di questo, abbia cercato di fare qualcosa?”. Allora io credo che noi società civile, noi persone perbene, noi persone buone, spesso ci accorgiamo di tutto questo - non potrebbe essere diversamente - ma facciamo finta di non vederlo e giriamo la testa dall'altra parte perché è più facile e ci turiamo il naso perché è più comodo non sentire il puzzo di tutto questo, ci scarichiamo di dosso tutto questo, ce lo scrolliamo di dosso perché è troppo difficile, perché ci disturba, perché rompe i nostri equilibri. Mi ricordo quando ero piccola - oggi forse tutto questo grazie a Dio non succede più - mi ricordo che frequentavo la scuola di quel quartiere che era un quartiere povero e molto degradato e io ero la figlia della gallina bianca, perché il mio papà e la mia mamma erano i farmacisti del quartiere, come lo erano stati il nonno e la nonna. Quindi eravamo delle persone in vista, delle persone che contavano all'interno del quartiere e mi ricordo che la mia maestra che era una signorina molto perbene che abitava un piano sopra di noi, la mattina mi prendeva per mano e mi portava lei a scuola. Un giorno da quella prima elementare ritornai piangendo a casa e mia madre mi chiese: “Cosa è successo?” e io le dissi: “La maestra mi ha tolto dal banco accanto alla mia compagna e mi ha fatto sedere accanto a lei”. Mia madre mi chiese subito: “Che hai fatto?” e io: “Non ho fatto niente”. E davvero non avevo fatto niente e non capivo. Mia madre, preoccupata, volendo sapere, l'indomani mattina venne a scuola e chiese alla maestra il perché. La maestra le diede, sorridendo, una risposta sconvolgente: “No, è che la sua compagna di banco ha i pidocchi!”. Io non mi potevo contaminare. Allora non si curava la bambina che aveva dei problemi - perché a casa decisamente non era abbastanza curata - si preservava me dal contagio, dal contatto nefando che poteva farmi del male. Io credo che questo sia l'emblema di come si è comportata la società nei confronti di questi bambini, che invece avevano i pidocchi e rischiavano di contagiarsene anche nell'anima. Si tenevano i buoni isolati dai cattivi, si guardavano i cattivi con sospetto, si aspettava il momento buono per buttarli fuori, per eliminarli dalla società perché così davano meno fastidio. Peccato che poi, a un certo punto, all'interno della società questi ci stavano lo stesso e, diventati adulti, avevano anche una forma di rivalsa nei confronti di chi li aveva isolati. O se non altro non avevano più ricevuto quei messaggi positivi che invece avrebbero potuto ricevere e che magari li avrebbero aiutati, se non altro, o messi nelle condizioni di scegliere. Perché tanti di questi bambini non sono stati nelle condizioni di scegliere, hanno sentito un solo tipo di linguaggio, hanno subito soltanto un tipo di comportamento da parte degli adulti, sia da quelli che erano loro vicini, sia da quelli che li respingevano. Così si sono formati una loro cultura, che era una cultura di violenza, di rivalsa, in cui sapevano che l'unico modo per rifarsi in qualche modo era quello di essere violenti, perché era l'unico linguaggio che gli altri capivano. Se parlavano con una pistola in mano tutti gli altri davano loro ragione e se non davano loro ragione li ammazzavano. E' un ragionamento molto elementare ma in tutto questo una piccola parte di responsabilità non ce l'abbiamo anche noi, non ce l'ha quella maestra che allontana la bambina coi pidocchi per salvare quella che non ce li ha?
Io mi sono sentita colpevole, mi sono sentita molto in colpa e mi sono chiesta: “Che cosa ho fatto fino adesso?”. Non avevo fatto nulla, mi ero tenuta i miei figli sotto le mie ali protettive, cercando di proteggerli da quella città esterna che non mi piaceva perché era una città che si esprimeva con la violenza, tanto che non mi ero neanche accorta che la maggior parte della città era altro, che la maggior parte della gente era altro, che la pensava in altro modo e magari aveva soltanto la paura di esprimersi. Ognuno così si chiudeva nelle sue monadi e restavano a spadroneggiare soltanto quelli che alzavano la voce. A partire da questo, che cosa fare allora? Che cosa fare? Io mi sono messa a cercare l'uomo, mi sono messa a cercare partendo da chi mi stava accanto, proprio dai più vicini, mi sono messa a cercare di capire, di parlare, di comunicare, perché è parlando e comunicando che si capisce, altrimenti non si capisce nulla, ognuno si forma la sua idea che può essere anche altro da quella che è la realtà, da quella che è la verità, ancora una volta la verità. Ho cercato giustizia, giustizia quella vera, giustizia quella che viene dalla verità, non dalle mezze parole. E allora quando mi dicono per esempio: “Eh, ma almeno sul caso di tuo fratello si è fatta giustizia, perché sono stati celebrati tre processi, uno ormai finito in Cassazione, i killer sono ormai in galera, uno che è in Appello e che si sta per concludere e allora i mandanti materiali sono assicurati alla giustizia” io allora dico: “Aspetto il terzo, quello in cui qualcuno deve dirmi chi ha voluto la morte di Paolo Borsellino, a chi interessava la morte di Paolo Borsellino”. Certo Totò Riina usato come simbolo, perché è ormai il simbolo di tutti i mali, perché era un avversario scomodo, era uno che gli dava fastidio e che soprattutto gli aveva dato fastidio in passato, certo i suoi compagni, certo i mafiosi. Ma chi sono i mafiosi? Ecco, io cerco la verità e cerco che in base alla verità si faccia giustizia, perché altrimenti è giustizia a metà e a me la giustizia a metà non interessa. Me l'ha insegnato Saveria che la giustizia a metà non è verità e quindi non è giustizia. Me l'ha insegnato Saveria e io questa lezione l'ho maturata, perché lei aveva più esperienza di me. Lei per avere giustizia a metà, perché sono stati condannati i killer, ha aspettato dall'85 fino ad ora. Il processo su Paolo Borsellino si è fatto più in fretta, perché la società civile ha voluto, ha chiesto a gran voce giustizia. Allora io chiedo alla società civile, a tutti noi, ad ognuno di noi e a noi tutti insieme: “Cerchiamo la verità e pretendiamo giustizia, perché ancora una volta se la verità si fermerà a metà non sarà giustizia, ancora no”. Non solo. Per poter dire veramente di perdonare - anche così nel senso in cui intendo io, cioè nel senso di condividere questo dono che ho ricevuto e scegliere di accompagnare, di capire, di accompagnare nel loro cammino, coloro che hanno sbagliato e mi hanno fatto del male, perché per me oggi perdono significa questo, significa cercare di condividere, scegliere di condividere anche il percorso che queste persone possono e devono fare per ritrovare sé stessi - ma per ritrovare sé stessi ed iniziare questo percorso, prima di tutto devono rendersi conto di quello che hanno fatto. E allora perdono non può significare come comunemente si intende o si vuole intendere: “Facciamo finta che non sia successo niente, tu te ne vai per la tua strada e io me ne vado per la mia”, perché questo è un modo comodo di scaricarsi e di acquietarsi. Io non mi voglio né scaricare, né acquietare. Io voglio soffrire, anche con loro, voglio anche soffrire condividendo il loro cammino, cercando di capire insieme a loro e cercando di recuperare insieme a loro. Sapere come si può recuperare. Certo con un uomo condannato all'ergastolo, posso recuperare poco, posso aiutarlo poco. Posso magari fargli sentire che io non ho odio nei suoi confronti, magari non gliene importerà niente, ma io posso farglielo sentire lo stesso. Il vero modo che ho di condividere questo dono, che io ho ricevuto, con loro, è fare in modo che i suoi figli non diventino come lui. Il figlio di Totò Riina ha vent'anni e ha già due ergastoli sulle spalle. Io questo devo impedirlo, devo fare in modo che coloro che per situazioni sociali, per famiglia, per nome, sono condannati già prima all'ergastolo, già da bambini - perché la loro strada è segnata, è quella - io devo fare in modo che questa strada non sia segnata, devo fare in modo di cambiare, di raggiungerli, di avvicinarli e di proporgli qualcosa di nuovo. Qualcosa di cui sentano, stavo per dire il fascino, ma non è quello il termine, la convenienza, mi basta questo. Che capiscano che dall'altra parte, quella della legalità, si sta meglio, che capiscano che non rischiano di morire a 25-30 anni, ammazzati dai loro compari, che non rischiano di vedersi sequestrare quei beni per cui hanno compiuto tanti delitti e restare poveri e pazzi senza neanche poterli trasmettere ai loro figli. Che si può vivere onestamente, serenamente, tranquillamente, godendo delle gioie familiari, godendo delle piccole cose di tutti i giorni e che questo è più bello ed è più conveniente. Se io potrò dare anche un minimo contributo a ché questo succeda, io non solo potrò dire che questa sarà una vittoria, sarà la vittoria della giustizia sull'ingiustizia, della verità sulla bugia, che sarà in qualche modo la vittoria del bene sul male, ma potrò dire veramente di avere capito che cosa significa perdonare.
Domanda: In ogni sua parola traspare l'affetto che nutre per suo fratello Paolo!
Risposta: Anche questo non credo che sia merito mio, ma di Paolo, perché Paolo era - non mi piace dire
che era un uomo eccezionale, perché non era un uomo eccezionale; era un uomo normale, la vera normalità
che molti di noi non sanno vivere - era un uomo che amava la vita profondamente, era un uomo buono, un uomo di una
generosità veramente straordinaria. Era un uomo che anche in mezzo alle difficoltà più estreme
sapeva mantenere questa serenità che veniva fuori da questo suo sorriso straordinario. Io credo che chiunque
abbia visto anche soltanto una fotografia di Paolo, davvero sia rimasto colpito da questo sorriso, che non
necessariamente era sulle sue labbra - anche se c'era spesso - ma che traspariva da tutta la sua espressione. Mia
figlia dice: “Il sorriso di zio Paolo cominciava dai baffi”. Ed è vero perché aveva questa
espressione sorridente, questo sorriso che non si sapeva localizzare in nessuna parte del viso, ma esprimeva questo
sorriso, quando lo si guardava. Era un uomo che così, istintivamente, era amatissimo dai giovani. Quando
andava, come andava molto spesso, nelle scuole, a parlare di Giustizia, di legalità, a cercare di fare
innamorare i ragazzi di questa Giustizia e di questa legalità che lui amava così profondamente, si
instaurava un feeling immediato, forse perché gli piaceva scherzare, perché usava un linguaggio molto
simile a quello dei giovani. Ha vauto anche lui tre figli, tre ragazzi, che hanno la stessa età dei miei figli
e lui li seguiva molto da vicino. Questo lo aiutava a essere molto vicino ai ragazzi che lo sentivano vicino. Era
facile volergli bene, era facile restare davvero affascinati da questa sua figura. Forse per tutto quello che davvero
traspariva dalla sua persona. Era talmente tanto quello che aveva dentro, che straripava anche all'esterno. La prova
è data da tutte le persone che, dopo la sua morte, lo sentivano così vicino da piangerlo, da chiamarlo
Paolo. Tutte le persone che hanno cercato in tutti i modi di riversare tutto questo su di noi familiari. Abbiamo
avuto gente che ci ha scritto da tutte le parti del mondo - le ultime lettere addirittura, giunte successivamente
alla morte di Paolo, dall'Australia, dal Giappone. Questa figura era talmente universale, come l'amore d'altro canto,
era talmente vera ed universale che quell'esplosione l'aveva veramente moltiplicato, l'aveva trasportato in tutti i
posti, l'aveva fatto arrivare dovunque. Non solo, in questi anni ho parlato a centinaia di migliaia di ragazzi - non
so quante scuole ho visitato in questi anni. I ragazzi si innamorano di Paolo, lo riconoscono come testimone, lo
riconoscono come modello. Spesso, a partire da questa conoscenza, decidono di impegnarsi, di fare qualcosa. Non
sapete quanti ragazzi dopo la morte di Giovanni e di Paolo abbiano deciso di iscriversi a giurisprudenza! Non per uno
spirito di imitazione, perché non credo che aspirassero alla fine che avevano fato Paolo e Giovanni. Era presa
di coscienza, era voglia di dire: “Continuo io”, “Ci sono io”. Era un modo di restare
talmente affascinati da questa figura, da dire: “Ci voglio provare. Voglio provare a conoscere che cosa era
questa cosa così bella, così affascinante per cui addirittura si può dare la vita. Paolo lo
diceva, diceva: “E' bello morire per qualche cosa in cui si crede”. Quando qualcuno gli diceva: “Ma
non hai paura?”, lui diceva: “E' bello morire per quello in cui si crede. Chi ha paura muore ogni giorno,
chi non ha paura muore una sola volta”. E aggiungeva: “E poi io sono Cristiano e un Cristiano non crede
alla morte”. Lui guardava veramente alla morte come a un passaggio, tanto da parlarne con questa grande
serenità che gli permetteva di dire non “Se mi ammazzeranno”, ma “Quando mi
ammazzeranno”. Ecco, io credo che i ragazzi non abbiano bisogno di storie, di parole, che spesso li stancano e
li annoiano. Hanno bisogno di fatti e allora anche se queste sono parole, quelle che raccontano di Paolo, raccontano
i fatti, dei fatti concreti di persone vere, di persone che hanno creduto talmente in quello che facevano, non
perché eroi - perché non erano affatto degli eroi - ma perché persone normalissime che avevano
scelto di non scendere a compromessi con niente, né con sé stessi, né con la vita, né con
niente altro. La coerenza della scelta, la coerenza della vita. I ragazzi questo lo avvertono, lo avvertono e sono
delle persone concrete, vere con cui ci si può provare. L'ho detto a dei ragazzi al termine di un incontro:
“Io so che ognuno di voi può essere Paolo Borsellino soltanto che lo voglia. Ma non per imitarlo - non
serve imitare, ognuno deve essere sé stesso - ma ognuno ha dentro di sé la possibilità e la
capacità di essere Paolo Borsellino nel senso di essere uomo o donna coerente con le proprie scelte, con le
proprie idee, con i valori della vita. Un'altra cosa vi dico di Paolo. Paolo diceva una frase che nella sua
banalità è sconvolgente, perché come il Vangelo impegna in maniera radicale, diceva:
“Ognuno deve fare la sua parte, ognuno per quello che può, ognuno per quello che sa, ognuno nel suo
piccolo”. Da qui non scappa nessuno. Quante volte mi sentivo dire: “Ma io che posso fare?” Nelle
scuole elementari, i bambini giustamente mi dicevano “Ma noi piccoli, che cosa possiamo fare?”. Ognuno la
sua parte. Non c'è nessuno che possa dire: “Io non posso fare niente”. No, perché ognuno di
noi può mettere quello che è, non tanto quello che ha, ma quello che è. Ognuno di noi è,
ognuno di noi è sé stesso, soltanto che lo voglia, soltanto che decida di saperlo.
Domanda: La notizia della morte di Paolo Borsellino era così tragica che ce la
ricordiamo come se fosse ieri. Ci hanno distrutto un mito. Questo ha aumentato poi il senso di sfiducia. Ecco poi il
discorso dei ragazzi, ma penso in generale all'opinione pubblica. Il senso di sfiducia verso le istituzioni.
Risposta: Ma Paolo apparteneva alle istituzioni.
Domanda: Paolo Borsellino era nelle istituzioni. Ma, come lei accennava prima, viveva in un
isolamento dalle istituzioni considerate come Palazzo. Anche lei ha accennato a questo desiderio di giustizia non
ancora soddisfatto. Volevo chiederle qual è il percorso che lei intende fare per ottenerla questa
giustizia.
Risposta: Le può sembrare strano, ma dopo la morte di Paolo, io sono cambiata profondamente, e come
prima ero una persona molto chiusa in me stessa, adesso non lo sono più, anche se ogni volta che entro in una
sala, in una classe, in un aula e vedo le persone che aspettano, io vorrei scappare, perché ancora riaffiora
quella che è stata per tanti anni la mia personalità, di una persona comune anche timida, molto chiusa
e incapace di comunicare con l'esterno. Poi sono cambiata, perché ho voluto cambiare, perché mi sono
imposta di cambiare, perché mi sono resa conto che restare chiusa nel mio guscio significava, in poche parole,
“dargliela vinta”. Mi sono imposta in quei giorni, dopo la morte di Paolo, di non piangere, perché
non volevo dargli questa soddisfazione. Neanche ai funerali di Paolo dove c'erano, insieme, forse, mafia e
istituzioni - quando addirittura non si identificavano. Mi sono rifiutata di stringere la mano a chiunque,
perché non sapevo chi fosse, non sapevo se erano mani pulite o no. In quei giorni avevo forte questo senso di
repulsione, questa voglia di mettere le distanze, però poi piano piano mi sono riaffiorate tante cose che
Paolo mi aveva insegnato, non solo con le parole - non teneva delle lezioni - ma con la sua vita. Mi sono ricordata
che Paolo, non solo era uomo delle istituzioni, ma aveva un profondo rispetto delle istituzioni. Tanto
profondo… Credeva tanto al ruolo che ognuno doveva ricoprire nelle istituzioni, ognuno per la sua parte,
ognuno al suo posto, che quando dopo la morte di Giovanni Falcone, una volta andai a trovarlo e vidi in quella strada
dove abitava, gli autoblindati della polizia con i mitra spianati e poi davanti al portone di casa, il cassonetto
dell'immondizia, gli dissi: “Paolo ma perché non lo fai togliere? Lì dentro si può mettere
qualsiasi cosa”. Mi sembrava così banale questa cosa - sarà stata una dimenticanza, mi dicevo.
Lui si fece pensieroso e mi disse: “Non spetta a me pensare alla mia protezione, ci sono altri che devono
farlo”. Mi sono ricordata di questa cosa quando, sotto la mia casa, dove Paolo veniva tutte le settimane a
trovare mia madre, in una Palermo piena di zone rimozione, non esistevano zone rimozione, non c'era alcuna
sorveglianza, Tanto è vero che avevano potuto mettere con tutta calma una macchina piena di tritolo che poi
avevano fatto esplodere, azionando un telecomando da grandissima distanza - non si è mai neanche capito da
dove. Mi sono ricordata di queste parole di Paolo, ma mi sono anche ricordata di un'altra cosa, che lui, a chi gli
contestava che spesso le istituzioni non sono all'altezza delle situazioni, ma spesso si macchiavano anche di colpe,
quando non si scoprivano collusioni con la mafia, lui, Paolo rispondeva: “Attenzione” - lo diceva
soprattutto ai ragazzi - “Non sono le istituzioni a essere malate, non sono le istituzioni da mettere in
discussione ma gli uomini, gli uomini che in quel momento occupano, qualche volta abusivamente, il ruolo nelle
istituzioni”. Allora questo fa riflettere: non sono le istituzioni sbagliate, sono gli uomini chiamati a
ricoprire certi ruoli, uomini che tradiscono, uomini colpevoli, colpevoli come Totò Riina, peggio di
Totò Riina. Perché - ripeto - Totò Riina ha vissuto magari dei condizionamenti, ha vissuto delle
situazioni familiari per cui poi è diventato così, ma un magistrato, un prefetto, un capo della
Polizia, un presidente del Consiglio, insomma metteteci tutto quello che volete, non è un ignorante, non
è una persona che è stata trasportata dalla vita a diventare così. Ha scelto di fare certe cose.
Di questo cerco di ricordarmi sempre, ma non è facile, anche perché non è facile distinguere,
non è facile sapere veramente. Sono delle cose che rimangono sempre nebulose. Io ricordo subito dopo la morte
di Paolo, si formò un gruppo spontaneo - ne nacquero tanti in quel periodo. Si chiamava “Donne del
digiuno”. Erano delle donne che venivano dalle estrazioni sociali, politiche, culturali più diverse, che
si erano incontrate nella piazza Politeama a Palermo, dove la gente sostava ormai giorno e notte, sentendo questa
necessità di parlare, di stare insieme, di comunicare. Erano donne che avevano scelto il metodo più
antico del mondo per protestare, quello dello sciopero della fame e scrivevano “Noi digiuniamo perché
abbiamo fame di giustizia”. Per la prima volta una protesta di questo genere, veniva accompagnata da richieste
ben precise. Perché questa è la cosa straordinaria accaduta dopo la morte di Paolo, all'interno della
società civile, che la gente non solo si è indignata, non solo ha protestato, cosa che prima non aveva
quasi mai fatto, non solo è scesa in piazza, quando prima ad ogni strage ci si chiudeva in casa. Ma oltre a
protestare, oltre a fare le fiaccolate e le marce, chiedeva delle cose ben precise, proponeva. Cosa che non era mai
accaduta. Eravamo bravi a criticare tutti quanti, ma nessuno faceva poi delle proposte. “Questo è
sbagliato”, “Questo è sbagliato”, però basta lì. Queste donne facevano un
elenco delle persone di cui chiedevano la rimozione, la destituzione. Il prefetto, il questore, il capo della
polizia, il procuratore della Repubblica. Facevano nomi e cognomi, perché, giustamente dicevano: “Anche
se non sono colpevoli come normalmente si intende la colpevolezza di qualcuno, non avevano fatto tutto quello che
avrebbero potuto”. Erano colpevoli di omissioni. Ed è vero: come è possibile che Borsellino venga
ucciso 45 giorni dopo Falcone esattamente nello stesso modo? Qualcuno ci doveva pensare, qualcuno doveva mettere la
zona rimozione e sorvegliare la casa della madre che era l'unica dove Paolo aveva l'abitudine di andare. Qualcuno
doveva pensare che questo poteva succedere e doveva evitarlo. L'avrebbero ammazzato in un altro modo - perché
se avevano deciso di eliminarlo, non era questo il problema. Però si doveva fare tutto il possibile e non lo
si era fatto. Ecco quindi: uomini, persone! Non bisogna però neanche dimenticare, e anche questo me l'ha
insegnato Paolo, di vedere il positivo che c'è nelle cose. Allora quando io subisco tentazioni di questo
genere, cioè di lasciarmi andare anche al pessimismo, di dire: “Che cosa è cambiato? Ci siamo
fermati, si torna indietro, la mafia non finirà mai etc. etc.”, faccio soltanto un paragone. Dal 1992 al
2001 cosa è cambiato? Se io lo guardo così, lei dice: “E' poco tempo”. E' vero, è
poco tempo, ma è anche tanto. Tanti di questi ragazzi che stasera sono qui sono troppo giovani per ricordare
quello che è successo. Ne possono avere - se sono stati informati - un ricordo come cronaca. Ma non ricordano,
erano troppo piccoli. Mi capita di andare nelle scuole medie, dove i bambini di 11 anni avevano 3-4 anni quando
questo è successo - non possono avere memoria di tutto questo. Se si chiede loro chi era Paolo Borsellino - se
sono stati fortunati, se nelle scuole qualcuno ha cercato di mantenere la memoria - sapranno che era un magistrato
ucciso dalla mafia. Ma di tutta la vita di Paolo Borsellino, alle nuove generazioni rischia di restare solo questo,
se non si mantiene la memoria. Ecco perché è importante continuare a parlare. Ma è anche giusto!
Lo dobbiamo anche a Paolo Borsellino e lo dobbiamo a tutti gli uomini che in questi anni si sono impegnati -
perché la storia non si è fermata con Paolo Borsellino, non è che sia stato ammazzato più
nessuno, perché qualcuno è stato ancora ammazzato. Lì è cominciata una storia. Non
dimentichiamo che a Palermo, dopo queste stragi tremende, c'è stato un magistrato che ha chiesto di venire a
prendere il loro posto Ed era già successo. Dopo la strage in cui era morto il consigliere istruttore
Chinnici, che era quello che aveva cominciato il lavoro con Paolo e Giovanni, Caponnetto a 64 anni chiese di venire a
Palermo a prendere il suo posto. Non solo, non parliamo soltanto dei magistrati. Dopo la strage di Capaci, in cui
muoiono in quella maniera terribile tre uomini della scorta di Giovanni Falcone e due rimangono in pessime
condizioni, c'è la fila - lo dice Paolo - c'è la fila, dietro l'ufficio di Paolo in procura, di agenti
di scorta che chiedono di entrare nella sua scorta. Questi sono fatti straordinari. Paolo negli ultimi giorni della
sua vita dice - e lo dice con gioia, se è possibile usare questo termine - che per la prima volta c'è
tanta gente che va a raccontare quello che ha visto, quello che crede di avere visto. Anche se sono cose
insignificanti va addirittura a raccontarlo. E' il segnale di una mentalità che cambia, di qualcosa che ha
inciso così profondamente nelle coscienze, che ci sono uomini e donne capaci di reagire, non soltanto di
ricordare o di restare a guardare. E così alla Procura di Palermo si lavora e si continua a lavorare, anche se
ci saranno sempre magistrati isolati, perché ci saranno sempre magistrati che cercheranno di vivere
tranquillamente fino alla fine del mese per prendere lo stipendio e basta. Ci saranno sempre magistrati disposti a
dire che i colleghi che lavorano 18 ore al giorno lo fanno solo per manie di protagonismo, ci sarà sempre chi
è disposto a dire che lo fanno per fare carriera. Questa è purtroppo la natura umana - da certe
categorie non ci si aspetterebbe che ci fossero uomini di questo genere, ma sono uomini e ci sono. E' successo prima
e continua a succedere. L'importante è che la storia non si fermi, perché se dopo la morte di Falcone e
Borsellino non ci fosse stato nessuno disposto a chiedere di venire a Palermo - non di venire nominato, perché
era logico che un altro venisse nominato - qualcuno disposto a venire ad affrontare questa situazione tremenda, che
c'era in quei giorni al Palazzo di Giustizia di Palermo, in cui sembrava veramente che lo Stato fosse messo in
ginocchio, se non ci fosse stato nessuno, disposto a continuare come i giovani sostituti procuratori che sul momento
si erano dimessi in massa per protesta contro il loro Procuratore, che non era Paolo, perché Paolo era
Procuratore aggiunto, ma per protesta contro il Capo della Procura, e che poi sulla tomba di Paolo giurano di
continuare - perché è giusto così - di restare a Palermo, se non ci fosse tutto questo, noi
veramente potremmo dire: “Ma in fin dei conti è stato inutile, non cambierà mai niente”.
Questo è successo. La cosa grave è che, contemporaneamente, quello che le donne del digiuno avevano
chiesto in qualche modo si è realizzato, perché questi uomini sono andati via da Palermo, ma andati da
un'altra parte. E io mi chiedo che significato ha, dopo un processo disciplinare, dopo quello che volete, prendere un
magistrato e portarlo da un'altra parte. Andrà a fare danni da un'altra parte! Ma queste purtroppo sono le
leggi, sono i regolamenti, sono cose che magari non condividiamo e non vanno, però io credo che ancora qui
entra la nostra responsabilità, perché non è vero che non possiamo fare niente, che la
società civile non possa fare niente, debba soltanto stare a guardare quello che gli altri fanno. Noi dobbiamo
pretendere, quando riteniamo che un regolamento o una legge non siano giusti, che siano cambiati. E chi la cambia?
Noi abbiamo un'arma importantissima: l'arma del voto. Ed è inutile che poi ci lamentiamo che i politici sono
tutti corrotti. Chi ce li ha messi lì? In Sicilia, Lima chi lo teneva al potere? Mica ci andava da solo! Erano
i siciliani che lo votavano, e poi si diceva: “Ma tutti lo sanno che è mafioso”. Ma chi lo ha
votato, chi glielo dava questo potere? Così oggi con le cose che non vanno. E' vero, magari poi cambiano, noi
li mandiamo a rappresentarci perché li abbiamo conosciuti in un certo modo, poi arrivano lì e cambiano
strada. Va bene, ma noi ci siamo, non siamo dei pupi, abbiamo anche una capacità di interloquire, di
interferire in senso positivo. Anche nella vita politica, noi dobbiamo pretendere che chi abbiamo votato ci
rappresenti e non rappresenti qualcos'altro. Dobbiamo stare lì a pretenderlo questo e quando c'è
qualche cosa che non ci convince abbiamo il sacrosanto diritto di sapere e di chiedere delle spiegazioni. Quando oggi
dobbiamo ancora sapere chi ha causato la strage di Piazza Fontana o quella di Ustica, il cittadino deve pretendere la
verità. Come è possibile che in un Paese libero, democratico come l'Italia, dopo 25 anni, non si debba
sapere la verità sulle stragi che hanno insanguinato la nostra terra. Ma cosa abbiamo noi per lasciarci
prendere in giro in questo modo? Bisogna pretendere queste cose. Non dobbiamo aspettare che siano altri a chiederlo,
a battersi. Per prima cosa ognuno di noi deve farsi carico di queste cose. Perché se davvero ci crede e se ne
fa carico, tante voci messe insieme devono essere ascoltate. Una voce può essere messa a tacere, ma centomila,
dieci milioni, venti milioni no. La verità è che noi abbiamo una brutta abitudine. Ci sappiamo
lamentare, però poi al momento di impegnarci davvero in prima persona non lo sappiamo fare, non abbiamo il
coraggio o comunque pensiamo sempre che sia qualcun altro a doverlo fare. E questo non lo dico perché io ho
scelto di mettermi in gioco. Io mi sento profondamente colpevole del fatto che questo l'ho fatto solamente
perché è morto mio fratello. Allora io capisco che chi vive una vita normale, magari non deve aspettare
di avere uno stimolo come quello che ho avuto io. Guai se fosse così. Ecco perché a volte mi metto a
dire delle cose che possono sembrare ovvie e scontate - forse le cose ovvie e scontate sono quelle che abbiamo
bisogno di sentirci dire, in qualche modo, per prenderne coscienza, perché altrimenti è più
facile cercare di rimuoverle. Io ho avuto la disgrazia da un lato e la fortuna dall'altro che altri rimuovessero in
me la mia voglia di normalità e mi costringessero a guardare in faccia la realtà. Tutto questo deriva
da una tragedia, da un dolore profondo che non si acquieta di certo con il passare degli anni. Ma da un certo punto
di vista devo dire grazie a chi mi ha trascinato a vivere questa vita in questo modo, perché io ritengo che
oggi vivo. Fino a ieri forse ero soltanto sopravvissuta.