Presentiamo on-line sul nostro sito un secondo gruppo di
testi di Madeleine Delbrêl, dopo quelli già disponibili sempre
al Frame “Approfondimenti”, insieme ad una biografia della Delbrêl,
scritta da p.Antonio Maria Sicari.
Noi delle strade è il famoso testo programmatico Nous autres gens de la rue,
pubblicato in Etudes carmélitaines, XXIII, 1938, vol. I, p.32 ss.
Il ballo dell'obbedienza è stato pubblicato la prima volta in Vie spiritelle, 1946,
novembre, pp. 195 ss.
Il brano su Marxismo e “Mission de France” è tratto da Madeleine
Delbrêl, E' stato il mondo a farci così timidi? Editrice Berti, Piacenza, 1999,
pp. 55-59. Questo ultimo testo, scritto nel 1953, è una prima riflessione della
Delbrêl, quando cominciano a manifestarsi le prime perplessità della Santa Sede
sulla Mission de France (le radicali proibizioni arriveranno nel 1959). La Mission de France
era nata in pieno periodo bellico, fra il 1939 ed il 1945, a partire dalla fondazione a Lisieux
di uno speciale seminario per la formazione di giovani sacerdoti da inviare “in
missione” presso i non credenti di Francia.
L'Areopago
Ci sono luoghi in cui soffia lo Spirito, ma c'è uno
Spirito che soffia in tutti i luoghi.
C'è gente che Dio prende e mette da parte. Ma ce n'è altra che egli lascia nella
moltitudine, che non «ritira dal mondo». E' gente che fa un lavoro
ordinario, che ha una famiglia ordinaria o che vive un'ordinaria vita da celibe. Gente che ha
malattie ordinarie, e lutti ordinari. Gente che ha una casa ordinaria, e vestiti ordinari. E'
la gente della vita ordinaria. Gente che s'incontra in una qualsiasi strada. Costoro amano il
loro uscio che si apre sulla via, come i loro fratelli invisibili al mondo amano la porta che
si è rinchiusa definitivamente sopra di essi.
Noialtri, gente della strada, crediamo con tutte le nostre forze che questa strada, che questo
mondo dove Dio ci ha messi è per noi il luogo della nostra santità.
Noi crediamo che niente di necessario ci manca. Perché se questo necessario ci mancasse
Dio ce lo avrebbe già dato.
Il silenzio
Il silenzio non ci manca, perché lo abbiamo. Il giorno in cui ci mancasse,
significherebbe che non abbiamo saputo prendercelo. Tutti i rumori che ci circondano fanno
molto meno strepito di noi stessi. Il vero rumore è l'eco che le cose hanno in noi. Non
è il parlare che rompe inevitabilmente il silenzio. Il silenzio è la sede della
Parola di Dio, e se, quando parliamo, ci limitiamo a ripetere quella parola, non cessiamo di
tacere.
I monasteri appaiono come i luoghi della lode e come i luoghi del silenzio necessario alla
lode. Nella strada, stretti dalla folla, noi disponiamo le nostre anime come altrettante
cavità di silenzio dove la Parola di Dio può riposare e risuonare. In certi
ammassi umani dove l'odio, la cupidigia, l'alcool segnano il peccato, conosciamo un silenzio di
deserto e il nostro cuore si raccoglie con una facilità estrema perché Dio vi
faccia squillare il suo nome: «Vox clamans in deserto».
Solitudine
A noi gente della strada sembra che la solitudine non sia l'assenza del mondo ma la presenza
di Dio. E' l'incontrarlo dovunque che fa la nostra solitudine. Essere veramente soli è,
per noi, partecipare alla solitudine di Dio. Egli è così grande che non lascia
posto a nessun altro, se non in lui. Il mondo intero è come un faccia a faccia con lui
dal quale non possiamo evadere.
Incontro della sua causalità viva dove le strade si intersecano accese di
movimento.
Incontro con la sua orma sulla terra.
Incontro della sua Provvidenza nelle leggi scientifiche.
Incontro del Cristo in tutti questi «piccoli che sono suoi»: quelli che soffrono
nel corpo, quelli che sono presi dal tedio, quelli che si preoccupano, quelli che mancano di
qualcosa. Incontro con il Cristo respinto, nel peccato dai mille volti. Come avremmo cuore di
deriderli o di odiarli, questi infiniti peccatori ai quali passiamo accanto?
Solitudine di Dio nella carità fraterna: il Cristo che serve il Cristo; il Cristo in
colui che serve, il Cristo in colui che è servito.
L'apostolato come potrebbe essere per noi una dissipazione o uno strepito?
L'obbedienza
Noialtri, gente della strada, sappiamo benissimo che sino a quando la nostra volontà
sarà viva non potremo amare davvero il Cristo.
Noi sappiamo che solo l'obbedienza potrà fondarci in questa morte.
E invidieremmo i nostri fratelli religiosi se non riuscissimo anche noi a morire, ogni
istante, un po' di più. Le piccole circostanze della vita sono dei « superiori
» fedeli. Non ci lasciano un attimo, ed i «sì» che dobbiamo dir loro
si succedono gli uni agli altri.
Quando ci si abbandona ad esse senza resistenza, ci si ritrova meravigliosamente liberati da
se stessi. Si galleggia nella Provvidenza come un turacciolo di sughero nell'acqua. E non
facciamo gli orgogliosi: Dio non affida nulla al caso; le pulsazioni della nostra vita sono
sconfinate, perché egli le ha volute tutte. Ci afferrano dall'attimo del risveglio. Il
trillo del telefono. La chiave che gira male nella toppa. L'autobus che non arriva, che
è zeppo, o che se ne va senza aspettarci. Il nostro vicino di sedile che occupa tutto il
posto, il vetro che vibra fino a stordirci. E', ancora, l'ingranaggio della giornata: una
pratica che ne chiama un'altra, un certo lavoro che non abbiamo scelto.
E' il tempo con le sue variazioni raffinate perché assolutamente pure da ogni
volontà umana. E' l'avere freddo o avere caldo, l'emicrania o il mal di denti. La gente
che si incontra. e conversazioni che i nostri interlocutori scelgono. Il signore maleducato che
ci urta sul marciapiede. Le persone che hanno voglia di perdere tempo e che ci acchiappano.
L'obbedienza, per noi, gente della strada, è piegarci alle manie della nostra epoca
quando sono senza malizia.
È avere i vestiti di tutti, le abitudini di tutti, il linguaggio di tutti. È,
quando si vive in parecchi, dimenticare di avere un gusto e lasciar le cose al posto che gli
altri han dato loro. L'esistenza diventa così una specie di grande film al rallentatore.
Non ci dà la vertigine. Non ci fa ansimare. Corrode a poco a poco, fibra per fibra, la
trama dell'uomo vecchio, una trama non più raccomandabile e che bisogna rinnovare
totalmente. Quando ci saremo abituati a consegnare la nostra volontà all'arbitrio di
tante piccole cose, non troveremo più difficile, all'occasione, fare la volontà
del nostro caposervizio, di nostro marito, dei nostri genitori.
Allora possiamo sperare che ci sia facile anche la morte. Non sarà una cosa grande, ma
una successione di piccole sofferenze ordinarie accettate una dopo l'altra.
L'amore
Noi delle strade siamo certissimi di poter amare Dio sin quando avrà voglia di essere
amato da noi.
Non pensiamo che l'amore sia una cosa che brilla, ma una cosa che consuma; pensiamo che fare
tutte le piccole cose per Dio ce lo fa amare altrettanto che il compiere grandi azioni. D'altra
parte pensiamo di essere molto male informati sulla misura dei nostri atti. Non sappiamo che
due cose: la prima, che tutto quello che facciamo non può essere che piccolo; la
seconda, che tutto ciò che fa Dio è grande. Questo ci rende tranquilli di fronte
all'azione.
Sappiamo che ogni nostro lavoro consiste nel non gesticolare sotto la grazia, nel non
scegliere le cose da fare, e che Dio agirà per nostro mezzo. Non c'è niente di
difficile per Dio, e chi teme la difficoltà si crede capace di agire. Poiché
troviamo nell'amore un'occupazione sufficiente, non abbiamo cercato il tempo per classificare
gli atti in preghiere e in azioni. Troviamo che la preghiera è un'azione e l'azione una
preghiera; ci sembra che l'azione veramente amorosa è tutta piena di luce.
Ci sembra che di fronte ad essa l'anima è come una notte tutta protesa verso la luce
che sta per venire. E quando la luce si fa - il volere di Dio chiaramente compreso - ecco
l'anima viverla con dolcezza piena, con pacatezza piena, guardando Dio animarsi e agire in
essa. Ci sembra che l'azione sia anche una preghiera d'implorazione. Non ci sembra che l'azione
c'inchiodi nel nostro terreno di lavoro, di apostolato o di vita.
Al contrario, ci sembra che l'azione perfettamente compiuta là dove ci viene reclamata
innesta noi in tutta la Chiesa, ci diffonde in tutto il suo corpo, ci fa disponibili in
essa.
I nostri passi camminano in una strada, ma il nostro cuore batte nel mondo intero. E' per
questo che i nostri piccoli atti, nei quali non sappiamo distinguere fra azione e preghiera,
uniscono così perfettamente l'amore di Dio e l'amore dei nostri fratelli.
Il fatto di abbandonarci alla volontà di Dio ci consegna nello stesso istante alla
Chiesa che da questa volontà medesima è resa costantemente salvatrice e madre di
grazia. Ciascun atto docile ci fa ricevere pienamente Dio e dare pienamente Dio in una grande
libertà di spirito.
Allora la vita è una festa. Ogni piccola azione è un avvenimento immenso nel
quale ci viene dato il paradiso, nel quale possiamo dare il paradiso.
Non importa che cosa dobbiamo fare: tenere in mano una scopa o una penna stilografica. Parlare
o tacere, rammendare o fare una conferenza, curare un malato o battere a macchina. Tutto
ciò non è che la scorza della realtà splendida, l'incontro dell'anima con
Dio rinnovata ad ogni minuto, che ad ogni minuto si accresce in grazia, sempre più bella
per il suo Dio. Suonano? Presto, andiamo ad aprire: è Dio che viene ad amarci.
Un'informazione? ...eccola: è Dio che viene ad amarci. E' l'ora di metterci a tavola?
Andiamoci: è Dio che viene ad amarci.
Lasciamolo fare.
“Noi abbiamo suonato il flauto e voi non avete danzato”
E' il 14 luglio.
Tutti si apprestano a danzare.
Dappertutto il mondo, dopo anni dopo mesi, danza.
Ondate di guerra, ondate di ballo.
C'è proprio molto rumore.
La gente seria è a letto.
I religiosi dicono il mattutino di sant'Enrico, re.
Ed io, penso
all'altro re.
Al re David che danzava davanti all'Arca.
Perché se ci sono molti santi che non amano danzare,
ce ne sono molti altri che hanno avuto bisogno di danzare,
tanto erano felici di vivere:
Santa Teresa con le sue nacchere,
San Giovanni della Croce con un Bambino Gesù tra le braccia,
e san Francesco, davanti al papa.
Se noi fossimo contenti di te, Signore,
non potremmo resistere
a questo bisogno di danzare che irrompe nel mondo,
e indovineremmo facilmente
quale danza ti piace farci danzare
facendo i passi che la tua Provvidenza ha segnato.
Perché io penso che tu forse ne abbia abbastanza
della gente che, sempre, parla di servirti col piglio da
condottiero,
di conoscerti con aria da professore,
di raggiungerti con regole sportive,
di amarti come si ama in un matrimonio invecchiato.
Un giorno in cui avevi un po' voglia d'altro
hai inventato san Francesco,
e ne hai fatto il tuo giullare.
Lascia che noi inventiamo qualcosa
per essere gente allegra che danza la propria vita con te.
Per essere un buon danzatore, con te come con tutti,
non occorre sapere dove la danza conduce.
Basta seguire,
essere gioioso,
essere leggero,
e soprattutto non essere rigido.
Non occorre chiederti spiegazioni
sui passi che ti piace di segnare.
Bisogna essere come un prolungamento,
vivo ed agile, di te.
E ricevere da te la trasmissione del ritmo che l'orchestra
scandisce.
Non bisogna volere avanzare a tutti i costi,
ma accettare di tornare indietro, di andare di fianco.
Bisogna saper fermarsi e saper scivolare invece di
camminare.
Ma non sarebbero che passi da stupidi
se la musica non ne facesse un'armonia.
Ma noi dimentichiamo la musica del tuo Spirito,
e facciamo della nostra vita un esercizio di ginnastica:
dimentichiamo che fra le tue braccia la vita è danza,
che la tua Santa Volontà
è di una inconcepibile fantasia,
e che non c'è monotonia e noia
se non per le anime vecchie,
tappezzeria
nel ballo di gioia che è il tuo amore.
Signore, vieni ad invitarci.
Siamo pronti a danzarti questa corsa che dobbiamo fare,
questi conti, il pranzo da preparare, questa veglia in
cui avremo sonno.
Siamo pronti a danzarti la danza del lavoro,
quella del caldo, e quella del freddo, più tardi.
Se certe melodie sono spesso in minore, non ti diremo
che sono tristi;
Se altre ci fanno un poco ansimare, non ti diremo
che sono logoranti.
E se qualcuno per strada ci urta, gli sorrideremo:
anche questo è danza.
Signore, insegnaci il posto che tiene, nel romanzo eterno
avviato fra te e noi,
il ballo della nostra obbedienza.
Rivelaci la grande orchestra dei tuoi disegni:
in essa, quel che tu permetti
dà suoni strani
nella serenità di quel che tu vuoi.
Insegnaci a indossare ogni giorno
la nostra condizione umana
come un vestito da ballo, che ci farà amare di te
tutti i particolari. Come indispensabili gioielli.
Facci vivere la nostra vita,
non come un giuoco di scacchi dove tutto è calcolato,
non come una partita dove tutto è difficile,
non come un teorema che ci rompa il capo,
ma come una festa senza fine dove il tuo incontro si
rinnovella,
come un ballo,
come una danza,
fra le braccia della tua grazia,
nella musica che riempie l'universo d'amore.
Signore, vieni ad invitarci.
Che si faccia indossare ai preti la talare oppure la tuta, che si lascino in
fabbrica o che li si richiami, che vengano saldati strettamente a una parrocchia o legati a un
quartiere, che ci si spinga magari fino a sacrificare alle misure disciplinari un completo e
dettagliato progetto di evangelizzazione, il pericolo incomberà sempre tutto intero
finché ci saranno dei cristiani che guarderanno al marxismo come a una condizione di
buona salute sociale e che si rivolgeranno ai marxisti non tanto per ciò che i marxisti
non hanno, ma proprio per ciò che hanno.
E, viceversa, si potrà anche “salvare” la Mission de France” nella
sua struttura esteriore, si potrà lasciarla ripartire senza cambiare nulla; ma, se non
verrà individuato quel punto preciso dello “scambio deviatore”, la
Mission” resterà internamente minata, non porterà Gesù ai marxisti;
e non farà che ripetere con loro, fornendo per giunta i relativi riferimenti evangelici,
ciò che essi già stavano dicendo senza di lei.
Il marxismo non è affatto un passaggio del proletariato dalla malattia alla buona
salute, ma è il peccato sociale di cui la miseria proletaria ha favorito l'insorgere.
Quanto poi alla coscienza o all'incoscienza di quelli che aderiscono al marxismo, ci troviamo
davanti a una gamma variabile all'infinito.
Col marxismo noi diventiamo solidali nel momento in cui smettiamo di definirlo un male. In
quel preciso momento, noi veniamo traditi da false forme di pazienza, con la prospettiva di
“battezzare” un processo di civilizzazione. Dimentichiamo gli uomini d'oggi in nome
di una civiltà del domani. Confondiamo la civiltà proletaria - che, questa
sì, può anche essere battezzata - con un ateismo di forma quasi religiosa. Un
ateismo che, una civiltà, può magari anche trascinarsela dietro, ma che, rispetto
a questa civiltà, rimarrà sempre tutt'altra cosa.
È assolutamente necessario mettersi saldamente nella giusta prospettiva, ben più
necessario del lavoro in comune coi marxisti o dei dosati equilibri negli impegni sindacali. Se
infatti è vero che da questa netta presa di posizione dipende la fedeltà della
“Mission de France” alla sua vocazione specifica, ne dipende anche la nostra
fede.
Quando, faccia a faccia coi nostri “compagni” dal cuore magnifico, noi ripetiamo
loro che l'anima della Chiesa supera i confini della sua corporeità visibile, non
dovremmo dimenticare che c'è un corollario: la corporeità del marxismo supera i
confini dello spirito che lo anima. Per corporeità del marxismo io intendo l'azione
marxista, quella che sboccia dalle sue due opzioni di fondo. Due opzioni congiunte da una
logica talmente “evangelica”, che c'è voluto S.Giovanni a farci capire
quanto siano strettamente legate fra di loro: la lotta contro Dio e la lotta fra gli
uomini.
Sostanzialmente, l'azione programmatica dei marxisti non è che questo. Ma ciò
che noi come cristiani dobbiamo guardare in faccia è che praticare l'azione marxista
significa introdurre di fatto dentro di noi qualcosa che è anti-Dio, qualcosa che scalza
nel nostro intimo la vita di Dio e che ci espone allo sgretolamento di interi settori della
nostra vita soprannaturale. Se ci restasse in proposito qualche dubbio, alcuni passi
assolutamente espliciti di Lenin ce lo possono confermare: vi potremmo anche leggere, scritta
in anticipo, la “cartella clinica” delle catastrofi, di cui noi abbiamo potuto
vedere la preparazione e la realizzazione.
Davanti a catastrofi di questa portata ci si dovrebbe pur persuadere che, invece di fermarsi a
questioni di circostanze e di temperamenti, sarebbe forse più utile verificare se per
caso non vi sia stata in noi un'infiltrazione di quell'elemento “pratico” del
marxismo, ossia la “pratica” abituale dell'azione marxista. Senza riferirmi a
questo o a quel movimento in particolare, qui intendo proprio la lotta fra uomo e uomo
così come il marxismo la definisce.
La “tendenza di alleanza” nei confronti del marxismo mi sembra
dunque l'unico vero pericolo per la “Mission de France”. E penso che se fosse lei
stessa a riconoscerlo, avrebbe trovato la sua tavola di salvezza. Ed ecco che invece (cosa per
me quanto mai dolorosa) il biasimo per gli scivoloni reali o possibili è venuto da
fuori; e da parte di chi, collocato in una prospettiva totalmente diversa, ha finito per
incappare in un pericolo analogo, e per giunta senza uscirne indenne.
Ma qui mi devo spiegare.
Il proletariato si trova come in croce in mezzo a due peccati del mondo:
«Mio Dio, se tu sei dappertutto, come mai io sono così spesso altrove?»