Presentiamo on-line tre meditazioni della prof.ssa Bruna Costacurta tenute agli incontri dei sacerdoti del Settore Est di Roma nei primi anni '90. Ringraziamo Luca Pasquale del Vicariato di Roma per averci fornito le trascrizioni. I testi non sono stati rivisti dall'autrice.
L'Areopago
In questi incontri vorrei esaminare con voi alcuni testi biblici
che ci aiuteranno ad avere una nostra comprensione dell'evento del matrimonio
e di tutto ciò che questo comporta, quindi di tutta la realtà
familiare.
Iniziamo leggendo Genesi 2, il racconto della creazione dell'uomo e della donna.
Si tratta di un testo "classico" che dà delle indicazioni antropologiche
di base su chi è l'uomo, cosa è l'umanità, cosa è
il rapporto di coppia. Il discorso è fondamentalmente antropologico, come
la Bibbia ce lo insegna.
Poi leggeremo un testo diverso, di tutt'altra problematica:
il capitolo 2 del libro di Osea, la famosa requisitoria contro la moglie adultera
e prostituta. Alla luce di tutta la Rivelazione Biblica si vede bene che l'amore
dell'uomo e della donna, della coppia, diventa segno dell'amore di Dio. Al capitolo
2 del libro di Osea abbiamo l'amore di Dio messo alla prova e quindi in grado
di esprimersi fino alle ultime conseguenze.
Nell'ultimo incontro poi, passeremo ad un altro testo classico: il capitolo 2
del Cantico dei Cantici, testo matrimoniale per eccellenza che vedremo però
alla luce di un aspetto particolare: l'Alleanza. Il rapporto matrimoniale, ancora
una volta come il segno del rapporto di Alleanza di Dio con gli uomini.
E' il racconto della Creazione dell'uomo e della donna, quello che viene subito
dopo l'altro racconto di Creazione di Gen 1. Il sapore letterario è di
tipo mitologico, ed attraverso questo testo la Parola di Dio vuol dare delle indicazioni
molto precise su quale è la verità dell'uomo. Questo si situa infatti
come "racconto di origine", il che vuol dire ovviamente che non si vuole
raccontare come è avvenuta l'origine dell'uomo; ma piuttosto che qui si
vuole indicare, raccontando l'uomo nella sua origine, chi è veramente l'uomo.
Dunque, fare un racconto "di Creazione" è un modo con cui la
Bibbia non spiega come è nato l'uomo, ma spiega chi è l'uomo e la
donna, qual è il rapporto tra loro e qual è il loro rapporto con
Dio.
Questo è il tema del capitolo 2 della Genesi, che si
presenta all'inizio con un evento: la Creazione dell'uomo fatta dalla polvere
del suolo, dopo aver detto che non c'era nessuno che lavorasse la terra: "allora
Dio plasmò l'uomo con la polvere del suolo e soffiò nelle sue
narici un alito di vita e l'uomo divenne un essere vivente. Poi il Signore Dio
piantò un giardino in Eden a Oriente e vi collocò l'uomo che aveva
plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi
alla vista e buoni da mangiare: l'albero della vita in mezzo al giardino e l'albero
della conoscenza del bene e del male." (Gen 2,7-9) Poi il testo continua
descrivendo il giardino con i famosi quattro fiumi, un giardino che viene presentato
come ricco, con minerali preziosi; e l'uomo, dice il testo, vi viene messo da
Dio: "Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden perché
lo coltivasse e lo custodisse". (Gen 2,15).
Abbiamo qui il primo elemento: l'uomo è fatto dalla terra e viene messo
nel giardino, giardino che è stato fatto apposta per l'uomo. Dunque si
comincia subito con il precisare nel testo che l'uomo è il centro di tutta
la Creazione, in vista del quale si fa tutto il resto: il giardino è per
lui, gli animali sono per lui, il mondo è per lui. Lui, l'uomo, è
al centro. E' al centro e perciò signore di questa realtà. L'uomo
viene presentato come un re, un sovrano di un regno molto opulento, che esercita
il suo dominio non solo sul mondo, ma anche sugli animali, ai quali dà
il nome. Nel mondo biblico, dare il nome ad una cosa vuol dire esercitare su di
essa il massimo potere, perché il nome rappresenta la verità più
profonda della cosa o dell'individuo chiamato. Già conoscere il nome è
segno di potere e, addirittura, essere quello che dà il nome ad un altro
è esercizio di potere totale. Dunque l'uomo è signore e esercita
il suo potere sul mondo. Viene detto qui in altro modo quanto era già stato
detto in Gen 1, quando si dice che l'uomo è creato a immagine di Dio e
che riceve da Dio il mandato di dominare la terra e di coltivarla. E' signore.
Però è un signore fatto di polvere del suolo.
Qui il testo biblico gioca sui nomi.
Uomo, infatti, in ebraico, si dice Adam e terra si dice Adama;
anche se forse le radici sono diverse, il suono è lo stesso, tranne che
per la finale. Adam viene da Adama. Tra uomo e terra c'è una vicinanza
che li rende praticamente simili, hanno lo stesso nome, sono uguali. Addirittura,
se si guarda bene il testo scritto nella sua lingua originale, si potrebbe persino
dire che il testo sta dicendo, non solo che l'uomo viene dalla polvere del suolo,
ma anche che l'uomo è quella polvere. Perché il testo come suona
qui nella traduzione è: "Dio plasmò l'uomo con la polvere
del suolo". Però, questo "con" fa riferimento a un accusativo
che può sì essere un accusativo di mezzo, ma può essere
anche un'apposizione. Se uno legge il testo ebraico legge: "Dio plasmò
l'uomo polvere del suolo". Allora, cos'è questo "polvere"?
Un accusativo di mezzo (con polvere del suolo), oppure una spiegazione di cosa
è l'uomo (Dio plasmò l'uomo polvere)? In ogni caso, la polvere
del suolo è punto di riferimento per l'uomo. Esso, poiché è
polvere, ridiventa polvere. E da quella sua stessa polvere vengono fatti anche
gli animali. L'uomo, signore del giardino, è contemporaneamente polvere
e fatto della stessa pasta degli animali. Sono tutti e due fatti di terra.
La stessa cosa è detta in Gen 1 quando si dice che
l'uomo è ad immagine di Dio, però viene creato nello stesso giorno
in cui vengono fatti gli animali. Non c'è un giorno particolare per l'uomo
in Gn 1. E' strano. C'è un giorno particolare per i rettili, per i pesci,
e non c'è per l'uomo. L'uomo è fatto nello stesso giorno in cui
vengono fatti gli animali terrestri e condivide con essi la stessa benedizione
di Dio (crescete e moltiplicatevi), però è immagine di Dio.
In Gen 2 è la stessa cosa: l'uomo è signore
del creato, però è polvere e animale. Come dire che il racconto
di origine rivela il senso profondo dell'uomo che è questo incredibile
e difficilissimo mistero, un mistero molto difficile da vivere: tenere insieme
due realtà che sono invece contraddittorie. Il compito dell'uomo è
vivere questo mistero senza mai illudersi di essere uguale a Dio, ma chiamato
ad esserne immagine; senza mai ingannarsi di essere come gli animali e solo
terra, ma sapendo invece di avere un destino eterno che è quello di vedere
Dio e diventare come Lui. Questo è ciò che l'uomo deve fare.
E non si può neppure capire il rapporto di coppia se
non si capisce questo mistero costitutivo dell'uomo che è anche la sua
vocazione, è il progetto che Dio ha su di lui.
Questo elemento fondamentale dell'uomo, questo mistero che lo costituisce, trova
poi la sua sintesi nel comando che Dio dà all'uomo. Dopo averlo messo nel
giardino, Dio dice: "Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino,
ma dell'albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché,
quando tu ne mangiassi, certamente moriresti". (Gen 2,15-17). Questo comando
continua la linea di quanto abbiamo detto prima. E'ovvio che non è un ordine
arbitrario che Dio dà all'uomo solo per metterlo alla prova, tanto per
vedere se obbedisce, e per dare una limitazione perché non si insuperbisca.
Questo comando è innanzitutto il dono che Dio fa all'uomo della sua verità,
perciò un dono di comunione. Che vuol dire che l'uomo non può mangiare
dell'albero della conoscenza del bene e del male?
Sapete tutti che "conoscenza del bene e del male"
è un'espressione tipica della Bibbia con cui si vuole indicare la totalità.
Quando la Bibbia vuol dare un'indicazione di una totalità intera, lo
dice nominando i suoi due estremi. Così, per dire la totalità
dell'esistenza, dice: "vita e morte"; per dire la totalità
del vivere umano dice: "entrare e uscire". Il "bene e male"
è la stessa cosa, si indica la totalità, non sul piano semplicemente
morale, etico, ma sul piano esistenziale, metafisico. "Bene e male"
vuol dire la realtà intera, nella sua dimensione di bene e male, buono
e cattivo, bello e brutto, sofferenza e felicità. E conoscere questa
totalità vorrebbe dire esserne principio, perché conoscere non
è semplicemente avere intelligenza intellettuale, ma vuol dire possedere
il segreto di ciò che si conosce.
Quando perciò il nostro testo dice che l'uomo non può
mangiare di quell'albero, intende che egli non può assimilare quella
conoscenza del bene e del male che vorrebbe dire che l'uomo ormai possiede le
chiavi di tutto l'esistere. Questo compete a Dio, non all'uomo.
Questo è il comando; dunque - diciamo così -
qualche cosa che ricorda all'uomo che è terra.
Però, attenzione. Questo comando viene dato proprio
perché egli, accogliendo la propria verità, possa essere in comunione
con Dio. La grande insistenza della Bibbia è che l'uomo deve capire di
essere diverso da Dio perché questo è l'unico modo per poter vivere
in comunione con Lui. Questo credo che sia un discorso importante che la Bibbia
fa per noi, anche a livello di coppia. La comunione è possibile quando
i due rimangono, diciamo, differenziati, ognuno con la propria consistenza personale.
Solo così è possibile una comunione di persone. Altrimenti c'è
la confusione, c'è il plagio, la dipendenza che annulla la persona. E'
invece nel riconoscersi ognuno per ciò che è, diverso dall'altro,
è lì che si gioca la comunione nella coppia.
Abbiamo visto così il senso del comando. Ma bisogna
anche aggiungere che esso riguarda solo l'albero della conoscenza del bene e
del male, e non anche l'altro albero di cui parla il testo, cioè quello
della vita. Di questo l'uomo può mangiarne.
Dobbiamo essere consapevoli che qui c'è un problema
di composizione del testo e che probabilmente ci troviamo davanti al confluire
di tradizioni diverse che portano alla menzione dei due alberi. Rimane però
il fatto che il testo ultimo si esprima in questo modo, ed è questo testo
così come lo abbiamo oggi che è normativo per la nostra fede.
Ebbene, questo testo non pone per l'uomo la proibizione di mangiare dell'albero
della vita. Ad esso l'uomo ha accesso, gli appartiene, può da lui essere
assimilato.
Cosa vuol dire questo? Non che l'uomo possiede in sé
la vita, ne è origine e può farne ciò che vuole: il comando
riguardante la conoscenza del bene e del male ha già chiarito questo.
Piuttosto, il senso sembra essere che, se l'uomo accetta la propria verità
di uomo, diverso da Dio, che riceve da Dio tutto e che riconosce in Dio l'origine
di tutto, allora egli può accedere alla vita e mangiare della vita in
piena libertà. La vita è sua nella misura in cui egli si ricorda
che è sua solo perché Dio gliela dona. E che è sua e può
gestirla solo continuando a riceverla come dono da Dio e, quindi, continuando
ad obbedire a quel Dio che viene riconosciuto come l'origine di tutto. Questo
è il rapporto che l'uomo è chiamato ad avere con la vita, con
il mondo.
Però, dice il nostro testo, il rapporto con la vita non è pieno
finché l'uomo è solo. Non è bene che l'uomo sia solo, manca
la vera alterità, manca quell'essere due che possa essere riconosciuto
come essere due della stessa specie. Un essere due nella unicità. Per questo
gli animali non vanno bene. Dio porta gli animali ad Adamo e Adamo gli dà
il nome, ma quelli non sono ciò che può far uscire Adamo, l'uomo,
dalla sua solitudine che non è buona. Perché gli animali sono ciascuno
secondo la propria specie, come dice Gen 1, e poi c'è l'uomo secondo la
sua specie. La comunione è possibile solo all'interno di questa unicità
di specie.
Se si legge Gen 1, si vede bene come il testo insiste molto
sul fatto che Dio crea gli animali secondo la loro specie, quindi c'è
la specie di un tipo, poi un altro, un altro; c'è la molteplicità
per gli animali. Invece, quando arriva all'uomo, crea l'uomo uno: maschio e
femmina lo crea. Lì la specie è una sola, c'è un'unicità
che rispecchia l'unicità di Dio. Perciò gli animali non possono
entrare in vero rapporto con l'uomo, e invece serve la comunione perché
l'essere uomo possa essere completo, possa essere definitivo. Il nostro racconto
dice che questo essere uomo, creato dalla terra, signore del giardino, raggiunge
il suo senso definitivo e completo solo quando si riconosce uomo e donna.
Il testo dice: "Allora il Signore Dio fece scendere un
torpore sull'uomo che si addormentò, gli tolse una delle costole. Mise
la carne al suo posto, il Signore Dio plasmò con la costola che aveva
tolto all'uomo la donna e la condusse all'uomo. Allora l'uomo disse: "Questa
volta è carne della mia carne e ossa delle mie ossa. La si chiamerà
donna perché dall'uomo è stata tolta". Per questo l'uomo
abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i
due diventeranno una sola carne. Ora, tutti e due erano nudi, l'uomo e la donna
e non provavano vergogna." (Gen 2,22-25)
Dunque Dio crea la donna, e con ciò porta a compimento
la creazione dell'uomo rivelandolo nel suo senso completo che è quello
di essere uomo e donna. Nel testo, c'è una certa ambiguità, forse
voluta, nell'uso della parola "uomo". Tra i vari modi in cui questo
si può dire in ebraico (come ad es. anche in italiano possiamo dire uomo,
oppure maschio, o anche umanità), qui si sceglie il termine "adam",
che è la parola che serve normalmente per indicare l'uomo nel suo senso
più generico, cioè l'uomo come umanità; ma, oltre a questo,
può voler significare anche l'uomo maschio, oppure essere il nome proprio
Adamo. Il nostro testo usa dunque una parola dal senso molteplice, e la usa
con l'articolo determinativo, il che complica la possibilità di capire
il termine come nome proprio.
Si rimane così ad un livello ambiguo e si può
intendere che Dio ha creato Adamo, oppure l'uomo (maschio contrapposto alla
donna), oppure, come mi sembra più probabile, l'umanità. Questa
apparente imprecisione terminologica ci permette così un'interpretazione
particolare del testo. Dio crea l'uomo (nel senso generico di umanità)
dalla terra, e lo pone nel giardino, e gli dà il comando; poi questa
realtà ancora indistinta si precisa e giunge a compimento in tutto il
suo senso e la sua verità, distinguendosi e rivelandosi come uomo e donna.
Bisogna fare attenzione e continuare a ricordare che non si sta qui ricostruendo
una storia dell'origine dell'uomo, ma se ne sta rivelando il senso profondo, con
strumenti letterari particolari, legati al mondo e all'ambiente culturale dell'epoca.
Perciò, non bisogna interpretare il testo nella piccolezza dei suoi elementi,
ma in una visione molto più ampia, simbolica, che parla dell'uomo non per
dire come è stato fatto, ma per dire come bisogna capirlo. Bisogna capirlo
come l'uomo che viene dalla terra, che è signore, che deve riconoscere
Dio come creatore non mangiando dell'albero. Egli ha accesso alla vita, ma tutto
questo si compie quando questa umanità si riconosce nell'alterità
e quindi nell'accoglienza reciproca. La realizzazione dell'umanità è
nel rapporto uomo-donna. La realizzazione dell'essere umano è nell'essere
due, non necessariamente nel vivere in due, cioè non necessariamente solo
nel rapporto matrimoniale, ma nel riconoscimento dell'alterità dell'altro,
nel riconoscimento che l'essere umano non è completo finché non
si apre all'alterità.
L'umanità diventa tale solo quando c'è riconoscimento
reciproco tra l'uomo e la donna. Quando cioè l'uomo si riconosce come
un essere incompleto. Nel fatto che l'uomo sia uomo e donna viene iscritta nella
realtà dell'uomo una sua fondamentale verità di essere nel bisogno,
di essere incompleto, di non poter vivere senza l'altro. E dunque il problema
dell'uomo e della donna, il problema dell'umanità, è quello di
riconoscere la fondamentale uguaglianza nella diversità, di entrare in
comunione e diventare uno, ma continuando a riconoscersi incompleti, mancanti
di ciò che consente di realizzarsi come esseri umani.
Si potrebbe anche dire che il fatto che l'uomo sia uomo e
donna, è ancora un altro modo con cui si rivela che l'uomo non è
Dio e solo Dio è unico, è assoluto, non ha bisogno degli altri.
Invece, l'essere umano, proprio perché è uomo e donna, non potrà
mai illudersi di essere assoluto, di poter bastare a se stesso perché
in se stesso non realizza l'essere umano, ha bisogno dell'altro sesso, in termini
di alterità, di riconoscimento del bisogno.
Questo uomo così, allora, che riconosce questa alterità,
questo è il vero essere umano, è perciò la vera immagine
di Dio.
Tutto quanto detto fin qui trova la sua espressione anche nel grido di esultanza
dell'uomo che riconosce la donna come parte di sé. La separazione, la diversità,
sono per la comunione che è basata sul fatto che i due sono due, ma ognuno
riconosce l'altro come parte di sé. Non è così per gli animali.
Non si vede nell'altro qualcosa di diverso da sé, ma qualcosa di identico,
la stessa carne, le stesse ossa.
Tra l'altro, l'espressione "Carne della mia carne e osso
delle mie ossa" echeggia una delle espressioni tipiche dei rapporti di
alleanza. Così, ad esempio, quando Davide viene consacrato re di Israele
e poi quando torna in patria dopo la rivolta di Assalonne e c'è il problema
della riunificazione, troviamo ancora questa espressione. Israele dice a Davide:
"Noi ci consideriamo tue ossa e tua carne" e allora il re Davide fa
alleanza con loro (2 Sam 5,1-3). E Davide dice a Giuda: "Voi siete mio
osso e mia carne" (2 Sam 19,13). Questa espressione non vuol dire semplicemente:
"Siamo parenti", ma è un riconoscimento di un coinvolgimento
totale uno con l'altro per cui ormai i due sono una carne sola, inseparabili.
Questo è proprio il rapporto di alleanza che fonde
i due in una sola carne; questo è vero rapporto di coppia, del rapporto
tra gli uomini ed è soprattutto definitivo nel rapporto tra uomo e Dio.
Dio vive questa dimensione dell'alleanza in termini matrimoniali.
Dunque, appartenenza reciproca totale, indissolubile, che
si apre perciò alla fecondità. Allora ecco, questi due che si
riconoscono parte l'uno dell'altro e realizzano l'uomo, lasceranno il padre
e la madre, si uniranno e diventeranno una carne sola. E' il raggiungimento
nell'essere umano che, poiché riconosce questa appartenenza radicale
dell'uno all'altro, non può che essere definitivo e per questo diventa
fecondo. Diventare una sola carne è la riunificazione di cui l'atto sessuale
è espressione simbolica massima, segno di una unione più radicale
e profonda che si realizza in quella sola carne che è il figlio. Questi
due che diventano una carne sola generano il figlio. Il figlio porta iscritti
in sé tutti i geni, i cromosomi del corpo paterno e materno, assomiglia
al padre e alla madre, ne riporta i segni nella carne. E' carne della madre
ed è carne del padre. Una, perché il figlio non si può
dividere, altrimenti muore.
Ecco quindi che il fatto antropologico così importante
dell'unione sessuale, proprio perché è questo riconoscimento reciproco,
si apre a questa fecondità che fa vivere nella carne del figlio la totalità
e la perennità del dono reciproco che gli sposi si sono fatti quando
hanno abbandonato il padre e la madre e si sono uniti.
Tutto questo va vissuto nella consapevolezza del problema dell'accettazione del
"diverso" nella sua parità. E' assolutamente necessario che l'uomo
e la donna, nella coppia o fuori, si riconoscano diversi. Appunto perché
se non c'è diversità non c'è più differenziazione,
non c'è più comunione.
Se mi identifico totalmente nell'altro da sparire in lui,
non posso essere in comunione in lui e lui non può esserlo con me. E
se l'altro mi ingloba, mi fagocita, rimane solo, nella solitudine tremenda di
chi non riconosce l'alterità dell'altro e che, pretendendo di assimilarlo
totalmente a sé, in realtà rimane solo.
Questo è il problema detto in Genesi 4: Caino che rifiuta
la diversità di Abele e lo uccide. E' un tentativo di assimilazione a
sé rifiutando il diverso. Caino rimane solo, non è più
il fratello di nessuno.
L'accettazione della diversità è unica condizione
di comunione, ma è una diversità che è parità (non
parlo di parità di diritti, mi sto muovendo su un altro livello) che
dice "questa è carne della mia carne e osso delle mie ossa".
Allora diventa possibile la vera comunione, la vera realizzazione dell'essere
umano. E, infatti, andando avanti nella lettura del testo, si scopre che proprio
questo diventa il peccato: il rifiuto della diversità da Dio, che implica
poi il rifiuto della differenziazione dell'altro (cfr. Genesi 3).
Quando l'uomo e la donna non sono più in comunione
con Dio, non sono e non possono essere più in comunione gli uni con gli
altri. Prendono il frutto della conoscenza del bene e del male perché
vogliono diventare come Dio, così che i loro occhi si aprano. Allora
scoprono di essere nudi e hanno bisogno di coprirsi. Non è nato il pudore,
non c'entra il fatto sessuale; ci si muove ad un livello simbolico estremamente
importante: nudità come segno di totale esposizione all'altro. Nella
Bibbia quando si è nudi non ci sono più diaframmi, difese, nulla
che copre; questa è l'esperienza antropologica.
Sappiamo bene che non sono i vestiti a difenderci, perché
se uno vuole farci del male, lo fa comunque, sia se siamo vestiti che se siamo
nudi. Però, se ci mettiamo nudi davanti ad un altro vestito, abbiamo
più paura perché ci sentiamo molto più indifesi, ci sentiamo
immediatamente in stato di inferiorità. Non a caso, questo è uno
dei sistemi preliminari necessari quando si vuole usare violenza non solo fisica,
ma anche psicologica, per esempio su un prigioniero. Il vestito forse lo salva?
No, ma l'esperienza antropologica della nudità è precedente alla
nostra abitudine all'abito, è profonda, è strutturale ed è
percezione della nudità come esposizione totale che viene vissuto nella
coppia in modo stupendo. Nel matrimonio l'uomo e la donna possono essere nudi
e si donano nudi; questa è un'esperienza antropologica importantissima
che dice che io mi fido totalmente dell'altro, non ho più paura.
Allora, tutto quello che scoprono l'uomo e la donna dopo il peccato, è
che hanno bisogno di difendersi, che hanno paura l'uno dell'altro. Il loro è
il rifiuto di essere uomini, cioè diversi da Dio, che ricevono da Lui la
vita e che possono gestirla come qualche cosa che è donato e che ha la
sua origine non nell'uomo e nella donna, né dal padre e dalla madre, ma
da Dio. Se è vero che il figlio è prolungamento della carne del
padre e della madre, è anche vero che non sono loro l'origine di quel figlio;
poiché essi, a loro volta, sono il prolungamento della carne del loro padre
e della loro madre. Invece, entrare nella dimensione di coppia, è un modo
con cui l'uomo partecipa al divino, ne diventa segno, perché Dio è
diverso, è altro, eppure il suo amore è tale che egli dà
origine e pone in essere proprio perché diventi come Lui e perché
Lui possa riconoscere in ogni uomo suo Figlio.
Nel Mistero Pasquale questo diventa definitivo, perché
in esso diventiamo figli e se accettiamo di morire, di dare la vita, di vivere
e risorgere come Gesù, noi diventiamo figli, il Padre riconosce in noi
il Volto del Figlio che è il suo stesso Volto, come un padre vede il
figlio che gli assomiglia.
Dunque noi, totalmente diversi da Dio, siamo creati per diventare
simili a Lui. Di questo divino che si manifesta nel mondo, diventano segno e
partecipazione quegli uomini e quelle donne che, nella diversità, si
riconoscono uguali, parte l'uno dell'altro, per giungere a quella unificazione
che è la carne che realizza l'immagine di Dio.
Il progetto di Dio sulla coppia viene disatteso dall'uomo e la coppia conosce
l'elemento dell'infedeltà. Non faccio questo discorso soltanto per convincerci
di una cosa ovvia, cioè che l'uomo non è poi così capace
di amare per sempre come sembra; ma per vederlo da un altro punto di vista, come
una specie di appello provocatorio su quello che deve essere l'amore che si rivela
proprio nel momento in cui viene messo in crisi. Il Nuovo Testamento, nel discorso
che porta a compimento la Rivelazione sull'uomo, dice che la coppia, lo sposo
e la sposa, diventano segni dell'amore che Cristo ha per la sua Chiesa, segno
dell'amore che Dio ha per gli uomini. La coppia dovrebbe amare come Dio ama, perché
deve essere segno dell'amore di Dio.
Ora, in che modo Dio ama lo si vede soprattutto nel momento
in cui il suo amore viene rifiutato. Osea 2 tratta appunto di questo: è
il grande testo di accusa contro il popolo infedele, fatto attraverso la figura
del profeta che accusa la propria moglie di infedeltà.
Leggendo il testo di Osea 2 ci troviamo davanti ad un amore che, da parte dell'uomo,
non è segno di nulla, anzi è segno di infedeltà, e da parte
di Dio manifesta, nel momento della crisi, la vera capacità dell'amore.
L'amore si misura proprio dalla sua capacità di arrivare fino in fondo.
E' nel momento della crisi che si rivela fino a dove l'amore riesce a resistere.
Dunque, è proprio davanti alla donna infedele che si rivela fin dove Dio
è capace di amare.
Osea è chiamato, nella sua vicenda personale, a rivelare,
presso il popolo, il volto di Dio. La vicenda personale di Osea è quella
di essere sposato ad una donna "di prostituzione". Non si sa bene
in che modo questo debba essere interpretato: si può andare da un'interpretazione
letterale fino alla posizione più tenue che vi vede solo una finzione
profetica.
Forse la verità sta nel mezzo, e si può pensare
che davvero Osea abbia vissuto una vicenda matrimoniale difficile con una donna
che non necessariamente era una prostituta, ma che semplicemente era una donna
di Israele, cioè una che faceva parte di un popolo infedele a Dio, incapace
di rimanere nell'amore. Osea sposa una donna di quel Popolo che dovrebbe essere
"sposa" del Signore e che invece si sta prostituendo con gli idoli.
La situazione è perciò quella di un profeta
chiamato ad entrare nella realtà del popolo così come è.
Il profeta, mediatore della verità di Dio presso il popolo, è
chiamato ad entrare nella realtà in mezzo a cui deve essere segno. Non
si deve separare, ma deve compromettersi al punto tale da sposarla.
Questo è importante per capire il modo con cui noi
ci si deve rapportare alla realtà. Questo fa capire meglio cosa faceva
Gesù portando a compimento questa rivelazione d'amore. Ciò che
viene chiesto al mediatore di Dio è l'impegno "per sempre",
è la capacità di rispondere con la fedeltà all'infedeltà,
di rispondere con l'amore al tradimento entrando nella situazione di tradimento.
E' l'amore che entra nel peccato, non per diventare tradimento
anch'esso, ma per trasformare quel tradimento in amore. Questo è ciò
che è chiamato a fare Osea. E come lui, ogni coniuge, ogni uomo.
Osea, a nome di Dio, rivolgendosi alla sua donna, si rivolge a tutto il popolo.
Inizialmente accusa questo popolo. Il popolo sta peccando perché si è
allontanato da Dio. Cosa deve fare il profeta? Accusare, rendere esplicito, verbalizzare,
portare alla luce il peccato dell'altro: "Accusate vostra madre, accusatela
perché non è più mia moglie e io non sono più suo
marito" (Os 2,4).
Nella Bibbia, l'accusa è sempre presentata come "mediazione
di perdono", perché ha come unico scopo di aiutare il peccatore
a capire che quello che sta facendo è sbagliato, non ha senso, gli fa
male. L'accusa non è il modo con cui si inchioda l'altro alle sue responsabilità.
Non è un modo con cui si rovescia sull'altro il peso del suo male ma,
anzi, è un modo con cui, per amore, con l'amore, si aiuta l'altro a capire
che ciò che sta facendo è male, così che possa smettere
di farlo e tornare ad essere in comunione. L'accusa biblica e poi, in modo più
esplicito, l'accusa cristiana, è la parola che viene da colui che ha
già perdonato; non avviene che prima si accusa e poi, se l'altro accetta,
si perdona. Prima si perdona e poi, mossi dall'amore per l'altro, da questo
perdono già dato, da questo desiderio di vita e felicità per l'altro,
si va ad aiutarlo a capire quello che sta facendo perché smetta di farlo.
L'unico interesse dell'accusa non è togliersi una soddisfazione, né
l'amore astratto per la giustizia. L'unico scopo è che l'altro sia di
nuovo felice, sia salvo: questa è l'accusa di Dio, a questa siamo chiamati.
Il profeta Osea deve perciò accusare la donna perché
capisca il male che sta facendo, e prenda coscienza di ciò che ha provocato:
"Essa non è più mia moglie e io non sono più suo marito".
Non è questa una rivendicazione dello sposo, ma un modo con cui lo sposo
dice ciò che la sposa ha già creato con il suo comportamento.
Perciò: "Accusatela e lei - ecco lo scopo dell'accusa - si tolga
i segni delle sue prostituzioni." Scopo dell'accusa è la salvezza.
"Altrimenti - dice il testo - la spoglierò tutta nuda, la renderò
come nacque, come terra arida, la ridurrò a un deserto e la farò
morire di sete" (Os 2,5).
Si comincia a vedere come è l'amore di Dio e come è
l'amore che deve muovere l'uomo. L'amore di Dio è tale che, volendo portare
l'altro alla salvezza, lo accusa perché si converta e quando anche l'altro
non fosse capace o non volesse, interviene con qualche cosa che apparentemente
è punizione, ma in realtà è offerta di salvezza. Infatti,
la minaccia di denudare la sposa fa riferimento alla punizione infamante che
si riserva in Israele alle adultere, e che faceva seguito alla condanna. Ma
nell'amore di Dio questa punizione è salvezza, perché è
con essa che Dio di fatto toglie di dosso alla donna quei segni di prostituzione
che lei non è capace di togliersi e che la condannano. L'intervento di
Dio è sempre di purificazione; è per salvare l'uomo, non per condannarlo.
Il vero amore e il vero perdono - dice la Bibbia - si preoccupa
che l'altro sia salvo, buono, felice. Se io semplicemente dico: "Lasciamo
perdere...", non mi sto più interessando della salvezza dell'altro.
Sto mentendo sul peccato, perché sto facendo come se non fosse una cosa
orrenda, inaccettabile, che provoca l'ira di Dio. Il perdono non è la
menzogna che dice che il peccato non è grave. Il perdono invece manifesta
fin in fondo l'orrore del male, perché anche l'altro, provandone orrore,
possa smettere di farlo.
Il perdono è portatore di verità. Senza verità
non c'è salvezza. La punizione è necessaria perché si manifesti
fino a che punto di capacità di morte arriva il peccato. Serve a dire
che il peccato uccide. Solo che nel momento in cui dice che il peccato uccide
- questo è il miracolo del perdono di Dio di cui l'uomo deve farsi portatore
- pone le premesse perché l 'altro invece possa vivere. Non inchioda
l'altro a quella morte, ma gli apre la strada perché da quella morte
possa uscire.
"La renderò un deserto, la spoglierò nuda".
Questo è un modo con cui la sposa fa esperienza di una morte che lei
stessa si è provocata. Tutto questo perché per lei possa essere
possibile aprirsi a quel dono di vita che è il perdono dello sposo. "E
la farò morire di sete". La punizione è la manifestazione
del peccato stesso dell'uomo: questa donna, questo Israele, si prostituiva,
andando dietro a Baal, dio della pioggia, della fertilità. La sete serve
così a smascherare l'inganno: la donna andava dietro a Baal per averne
pioggia e fertilità, ma è invece Dio l'unico Signore della vita.
E la sete rivela che la vita non può venire da Baal. Con la punizione,
l'altro si libera dal peccato capendo l'inganno.
Il testo procede poi affermando che i figli di questa donna non possono essere
amati e che essa va dietro ai suoi amanti per averne delle cose: "Seguirò
i miei amanti che mi danno il mio pane, la mia acqua, il mio vino, il mio olio,
le mie bevande." (Os 2,7). E poi: "Ecco il dono che mi hanno dato i
miei amanti" (Os 2,14). Cos'è questo discorso del dono? Dio dice:
"Allora ecco, io mi riprendo i miei doni". Proviamo a pensare un momento:
cos'è la prostituzione? Cos'è l'adulterio?
E' un modo con cui un rapporto, che dovrebbe essere unico,
si spezza per diventare molteplice. La donna di Osea, invece di avere Osea per
marito, ha gli amanti. Quindi, il suo rapporto entra in una dimensione di molteplicità.
E' quasi una specie di "imitazione perversa dell'amore". Nel rapporto
coniugale, l'unione dei due corpi significa l'unione delle persone, dei cuori,
delle vite: "I due diventeranno una sola carne" (Gen 2,24). C'è
questo dono talmente totale che io ormai non mi possiedo più, sono diventato
uno con l'altro, indissolubile; ormai siamo una cosa sola. Il rapporto sessuale
è manifestazione e segno di questo. Quando invece si entra in una dimensione
di adulterio e prostituzione, il rapporto corporeo non può più
essere segno dell'unione del cuore, perché l'unione suppone che i due
siano uniti e che non ci sia più possibilità di staccarsi, riprendersi
il dono e darsi a un altro. La molteplicità, di sua natura, nega il dono.
Il dono di sé non può essere altro che totale. Se la donna è
di tutti, vuol dire che non è più di nessuno.
Questa molteplice che nega l'unicità tipica del matrimonio,
fa sì che il rapporto di unione perda anche la sua dimensione di fecondità.
Perché quando anche i figli nascessero, non sono più il prolungamento
di quell'unica carne che sono i due che si sono uniti, perché dove c'è
molteplicità di padri, non c'è paternità possibile.
Inoltre, nel rapporto d'amore i doni esprimono quell'amore,
diventano manifestazioni di quel dono di sé che è il vero dono
che conta. I doni materiali sono solo un segno, una memoria; per questo noi
diciamo che tanto più sono piccoli, tanto più sono importanti.
Non sostituiscono il dono di sé, ma lo segnalano. Nel rapporto di prostituzione,
invece, quando ciò che si cerca sono i doni, succede che questo segno,
tipico della relazione matrimoniale, si perverte perché i doni non esprimono
più amore, offerta di sé, ma diventano invece merce di scambio.
Comprano il corpo, diventano luogo di possesso. Si dà se stessi in cambio
del dono, invece di dare se stessi dando il dono.
Nel nostro testo, il fatto di avere gli amanti, è un segno del fatto religioso
di entrare in una dimensione idolatrica. L'idolatria è entrare in un rapporto
religioso e cultuale con Dio nel quale si cercano i doni invece di cercare solo
il donatore.
L'idolo è tutto ciò che si sostituisce a Dio:
l'ideologia, i nostri bisogni, ciò che noi identifichiamo con la nostra
felicità o con la nostra vita, il denaro, la salute, una persona, la
carriera, tutto ciò che da relativo viene trasformato in assoluto.
Siamo idolatri ogni volta che pensiamo che la vita nostra
si realizza non nel rapporto con Dio, ma con ciò che non è Dio.
Addirittura l'idolo può essere la nostra stessa idea di Dio. Ogni volta
che chiudiamo Dio nei nostri schemi e diciamo che dovrebbe agire in un certo
modo, ogni volta che gli diamo contorni fatti a nostra misura, stiamo facendo
un idolo, siamo quegli stupidi che si fanno statuette e dicono: "Tu sei
mio padre!"
Ognuno di noi ha degli idoli personali da smantellare. Addirittura
la vita spirituale può diventare idolatria. Se crediamo di essere noi
a costruire, meritare, ad acquistare la salvezza con il nostro essere buoni,
con le nostre opere, con i nostri meriti, sforzi, fatiche, fedeltà...
Ogni volta che facciamo così, siamo come la prostituta di Osea che va
dietro agli idoli perché vuole il suo vino, la sua lana, il suo olio.
Che cos'è l'idolo? E' Dio fatto a mia misura che mi
dà ciò che chiedo. Questa è la comodità dell'idolo:
faccio il sacrificio e poi sono sicuro che lui mi dà quello che chiedo.
Ebbene, ogni volta che noi, per il nostro bisogno di rassicurarci, costruiamo
da noi la nostra salvezza, invece di accoglierla come dono totalmente gratuito,
noi entriamo in una dimensione idolatrica.
Cercare rassicurazione, certezze, è tipico dell'uomo.
Il problema, con Dio, è che la certezza sta in Lui e non in noi. La vita
eterna è già stata donata, e noi siamo certi che Lui ci salva,
però questa certezza si basa sul fatto che ci fidiamo di Lui. E' la gratuità
che spiazza, non abbiamo delle cose nostre su cui appoggiarci e dire: "Ho
accumulato questo numero di meriti e adesso sto tranquillo!" Ma bisogna
appoggiarsi sull'invisibile Dio della cui bontà siamo certi, ma la cui
fedeltà si appoggia solo su Lui e su niente che noi possediamo. Allora
cerchiamo gli idoli.
Che cosa dice il testo di Osea? Quando è così, Dio interviene e
rende tutto un deserto. E' il vero donatore che si rivela. Dio prende tutti i
doni di Baal perché la donna capisca che l'unico dono viene da Lui e che
ciò che conta è il rapporto con il Donatore e non con i doni.
Quando c'è il rapporto con il donatore, i doni vengono,
ma non viceversa. Allora il donatore si rivela: "Riprenderò il mio
grano", e ritorna l'immagine della desolazione: "La ridurrò
ad una sterpaglia, le farò scontare i giorni dei Baal, quando bruciava
i profumi" (Os 2,5). Torna l'idea della spogliazione. L'intervento punitivo
di Dio mette l'uomo in una situazione di totale nudità, cosicché
possa finalmente capire quali sono i doni davvero importanti che fanno vivere
e, soprattutto, da chi vengono. Il cammino dell'assenza di Dio, il cammino della
morte, è una riscoperta del Dio della vita. Infatti, a questo punto del
testo, Dio si rivela come Dio della vita: "Lei seguiva i suoi amanti e
dimenticava me, perciò - ecco la conseguenza sorprendente! - io l'attirerò
a me e la sposerò".
Questa è la logica di Dio. Questo è il modo
con cui l'amore di Dio giunge fino alla fine. La grande novità dell'operare
di Dio che riporta alla vita la donna facendola passare per una morte che è
riscoperta della vita.
"La condurrò nel deserto e parlerò al suo
cuore". L'immagine del deserto nella Bibbia è ambivalente, perché,
da una parte, è il luogo in cui Israele ha imparato a vivere di fede,
è un momento privilegiato per capire chi è Dio. D'altra parte,
tutto questo è avvenuto nella tentazione costante di abbandonare Dio,
in un'esperienza dura e faticosa. Il deserto è il luogo idilliaco dove
Israele ha scoperto chi è Dio, ma è anche il luogo tremendo dove
Israele continuava a dire che Dio non c'era perché si guardava intorno
e c'era il nulla. E' difficile scoprire che Dio è buono quando intorno
a sé si ha solo la morte. Eppure, questa è l'esperienza del deserto:
entrare in questo luogo di morte, dove c'è il nulla, per scoprire veramente
tutto, scoprire che il tutto di cui si ha bisogno è Dio e non le sue
cose.
E' il luogo dell'assenza, per scoprire la vera presenza. E'
il luogo della mancanza delle cose, per capire invece il rapporto vero della
persona.
Quando è così, la morte si trasforma in vita,
il deserto diventa vigna; la sposa, da prostituta che era, diventa vergine.
La donna che seguiva i suoi amanti diventa colei di cui Dio dice: "Ti farò
mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto,
nella benevolenza e nell'amore. Ti fidanzerò con me nella fedeltà
e tu conoscerai il Signore" (Os 2,21-22). Lì dove il perdono di
Dio si offre all'uomo, in cui l'uomo semplicemente accetta questo perdono, l'uomo
è ricreato nuovo, rifatto santo.
Girolamo commenta così il nostro testo: "Ecco
l'unione tra Dio e gli uomini: l'uomo, quando prende una donna, da vergine che
era, la rende donna (cioè non più vergine). Invece, quando Dio
si unisce anche a delle meretrici, le trasforma in vergini".
Questo è l'amore. Questo è il miracolo dell'amore
di Dio che gli uomini sono chiamati a vivere e a riprodurre nella loro relazione
coniugale e anche con i propri fratelli. Agli uomini è chiesto un amore
che sia segno di questo modo con cui Dio ama. Alla coppia è chiesto un
amore capace di entrare anche dentro l'infedeltà per trasformarla in
fedeltà di vergine. Alla coppia è chiesto un tale dono di sé
da poter portare la pazienza del proprio amore fino alla fine, fino al segno
che Osea rivela con la sua sposa e che nel Signore Gesù viene definitivamente
portato a compimento: un amore capace di dare la propria vita per coloro che
vogliono ucciderlo.
Il Cantico dei Cantici è un testo classico per riflettere su cosa è
il matrimonio alla luce del rapporto tipico tra Dio e l'uomo, cioè l'alleanza,
di cui il rapporto matrimoniale è segno.
Partiamo da Ct 2,8-17.
Con una poeticità notevole abbiamo qui un canto d'amore
dove l'elemento fondamentale, alla base dell'amore, è l'incontro tra
i due.
Lei sente venire lui. Lui le parla, la chiama, l'invita ad
andare insieme a scoprire la primavera; lei proclama la sua appartenenza a lui
nella reciprocità. Poi tutto termina con l'invito che lei fa a lui di
correre e non si sa bene se è un correre per venire da lei o per andarsene.
Il testo rimane ambiguo, all'inizio lei sente l'amato che corre per venire:
"Ecco il mio amato che viene saltando sui monti" (2,8) e alla fine
dice: "Affrettati, corri, diventa una gazzella!" (2,17). Lui è
venuto, ora forse se ne va.
L'amore è questo rincorrersi, incontrarsi per poi ritrovarsi
sempre di nuovo. Questo è il testo nella sua dimensione primaria, tipicamente
antropologica dell'amore umano. Chiunque abbia fatto un po' d'esperienza di
affetti sa perfettamente di cosa si parli.
Il testo del Cantico è stato interpretato a livelli
diversi. L'esperienza antropologica dell'amore tra l'uomo e la donna viene riletta
spiritualmente. Si capisce che questo è un segno del rapporto di amore
tra Dio e la Chiesa, tra l'uomo e Dio, tra il Signore Gesù e colui che
gli appartiene. Il Cantico esprime l'amore dell'uomo e della donna, ma anche
l'amore di Dio per l'uomo, di questi sposi che sono il Signore Gesù e
la sua Chiesa. Questa umanità che dice: "Vieni Signore Gesù"
(Ap 22,20) è la Chiesa che scende preparata come una sposa, la Gerusalemme
celeste in attesa del Signore che viene: "Vieni, amato mio, vieni... sento
il mio amato, eccolo che viene". E' la pagina finale della Bibbia, la Chiesa
chiede a Gesù di venire e Lui dice: "Ecco, io vengo".
La voce dello sposo che sta arrivando sulla porta dà
colore a tutte le cose; la primavera è primavera dell'amore, possibilità
di riscoprire la vita in rapporto con Dio; le volpi sono ciò che minaccia
l'amore... Le interpretazioni a livello metaforico diventano possibili su diversi
piani e in diverse direzioni.
Proprio questa sovrapposizione interpretativa ci consente
di fare esperienza direttamente sul testo: l'amore umano è segno di quello
divino e l'amore divino insegna come deve essere l'amore umano. Vedere questo
amore che i due sposi cantano è capire il mistero dell'amore di Dio.
E così, accedere al mistero dell'amore di Dio, ci fa capire in che modo
questi due sposi possano davvero amarsi e cantare il loro amore. C'è
illuminazione reciproca.
Vediamo brevemente alcuni elementi che ci servono per capire
cos'è l'amore.
Tutto si gioca sul fatto che lei sente venire lui, riconosce la voce, lo vede,
ma sa già che viene, anticipando il fatto di sentirlo o vederlo.
L'amore chiede questa situazione di attesa costante, di desiderio
continuo per cui si è sempre pronti ad accogliere l'altro, anzi, si precede
persino il suo venire perché il desiderio anticipa la venuta dell'altro.
L'amore quindi, tiene sempre "svegli". L'amore mette in una situazione
di continua novità.
Ogni volta che ci si ritrova è come trovarsi per la
prima volta. Potremmo dire che l'amore è dire: "Eccolo, eccolo che
viene!" anche quando già c'è. E' una sorpresa continua per
la presenza dell'altro, continua meraviglia davanti al dono che non è
mai dato per scontato.
Il problema dell'amore umano e delle relazioni dell'uomo con
Dio è quello di non meravigliarsi più del dono, non rimanere sorpresi
dal fatto che l'altro ci ami. Questo può anche essere un segno bello,
positivo, perché vuol dire che ci si fida, che si sa che l'altro ci vuole
bene, che c'è fiducia, c'è consuetudine diventata quotidianità,
tutte cose positive, purché però non diventino mai possesso acquisito,
idea che l'altro ormai "è mio e basta". Invece, bisogna scoprire
che l'altro è sempre e continuamente dono, dono immeritato, dono che
dà meraviglia, sorpresa, gioia nel ritrovarlo ogni volta.
Lei riconosce la voce; lui allora la chiama e le chiede di
farsi vedere. Lei lo aspetta; ma quando lui viene si scopre che nonostante sia
lui che sta venendo, anche lui sta aspettando. Lui viene ma aspetta che lei
gli si mostri, in una specie di sovrapposizione di voci.
Comincia lei a parlare dicendo che lui viene, poi dice quello
che lui le dice: "Fatti vedere e fammi sentire la tua voce" (Ct 2,14).
Non si sa più chi parla, lei parla ma sta dicendo quello che dice lui.
Questa sovrapposizione di voci dice la realtà dell'amore. Lui vuole sentire
lei, lei dice quel che vuole sentire lui: tutto passa attraverso la parola,
elemento fondamentale della comunione.
La prima volta che nella Bibbia si sente la voce dell'uomo,
è quando Adamo dice: "Questa è carne della mia carne ed osso
delle mie ossa" (Gen 2,23). La prima parola che l'uomo pronuncia è
di meraviglia, di stupore, di sorpresa, di gioia nello scoprire l'altro con
cui essere in relazione; questo fa parlare l'uomo, e non c'è parola sensata
tra gli uomini e tra l'uomo e Dio se non è mediazione di questa scoperta
ed accoglienza del dono dell'altro, non delle cose dell'altro, ma dell'altro
in un rapporto interpersonale totale.
Quando in Genesi 2 Adamo parla, questa gioia nello scoprire
l'altro c'è perché l'uomo è finalmente differenziato. Non
poteva parlare finche non c'era anche la donna; fino ad allora era muto, non
c'era parola possibile perché la parola dice comunione, quindi diversità,
separazione che permette l'accoglienza dell'altro (alterità). La parola
compare e diventa sensata. Compare anche la gioia perché si riconosce
il dono. C'è gioia nel Cantico: lei è contenta perché lui
viene. C'è gioia in Genesi 2: l'uomo esulta perché ha trovato
qualcuno come lui (e non gli animali che non possono aiutarlo). La gioia è
sempre connessa all'idea che lo sposo e la sposa parlino.
Nel Cantico, nei Profeti, si dice che quando c'è voce
di sposo e sposa si è nella festa.
Questo si trova in tantissimi testi. Vediamo in due di questi,
l'esperienza che propone la Bibbia.
a) Geremia 33,10-11
"Dice il Signore: In questo luogo, di cui voi dite: Esso è desolato,
senza uomini e senza bestiame, nelle città di Giuda e nelle strade di Gerusalemme,
che sono desolate, senza uomini, senza abitanti e senza bestiame, si udranno ancora
grida di gioia e grida di allegria, la voce dello sposo e della sposa e il canto
di coloro che dicono: Lodate il Signore degli eserciti, perché è
buono, perché la sua grazia dura sempre, portando sacrifici di ringraziamento
nel tempio del Signore, perché ristabilirò la sorte di questo paese
come era prima, dice il Signore".
Siamo nel "libretto della consolazione". Il popolo
d'Israele è in esilio, il tempio è distrutto. E' impossibile sentire
ancora la voce di Dio perché non c'è più culto. L'esilio
è il "grande silenzio", è esperienza reale di morte.
In questo silenzio la voce del profeta consola il popolo,
annunciando il ritorno dall'esilio e quindi alla comunione con Dio.
Quando Dio interviene per redimere dove non ci sono più
uomini, bestiame, dove regna la morte, ritorna il segno della vita: la voce
dello sposo e della sposa uniti alla voce di chi loda. Ecco la gioia della vita
che ritorna, sperimentata nella sua pienezza. E' gioia di vita che nella lode
ritrova la comunione con Dio.
E' l'"orizzontale" (sposo e sposa) e il "verticale"
(la lode). Questo dà la totalità della gioia, indica la totalità
della redenzione, della salvezza: la ricostruzione delle due dimensioni fondamentali
dell'uomo, il rapporto con gli altri e il rapporto con Dio. Questa redenzione
si esprime nel fatto che la relazione ridiventa possibile. Lo sposo e la sposa
diventano il segno tipico della vita che viene ridonata; segno della incredibile
fiducia nella vita che ha chi gioca la propria esistenza nel rapporto con un
altro.
La scelta del matrimonio è un incredibile atto di fiducia,
un coraggio incredibile di scommettere sulla vita, perché lo sposo e
la sposa dicono innanzitutto continuità di vita con i figli, dicono che
non solo vale la pena di vivere, ma che la vita è talmente bella da poter
essere donata ad altri. Lo sposarsi è ciò che contraddice ogni
forma di disperazione, quella disperazione sorda che dice: "Se è
così, non vale la pena!" Invece essi contraddicono questo e con
coraggio impegnano la loro vita nel rapporto con un altro che si impegna con
lui allo stesso modo.
Ricordiamo che sposo e sposa impegnano la loro vita con qualcuno
segnato dalla morte e generano figli anch'essi segnati dalla morte. Eppure,
fare questo vuol dire credere che, nonostante tutto, la vita è comunque
più forte della morte, qualunque cosa succeda. E' il coraggio di entrare
in una dimensione di morte sicura (perché è sicuro che lo sposo
e i figli moriranno), riponendo lì la propria fiducia nella vita, vita
più forte, più bella, più grande della morte, perché
viene da Dio.
Questo allora diventa segno che la redenzione è arrivata
perché si entra in una dimensione di rapporto alla vita che capisce che
questa va oltre la morte. Questo, unito alla possibilità di lodare il
Signore, origine di questa vita su cui si può scommettere, perché
non solo vale più della morte, ma è capace di distruggerla, perché
nel Signore Gesù la morte è vinta e nella lode si può accedere
a vita risorta.
Questo è l'ambito in cui si sentono parlare lo sposo
e la sposa, la loro è una voce di gioia che dice "fiducia nella
vita", ma fiducia "sensata", cioè con il senso profondo
di essere unita alla lode. Senza lode nel Signore non c'è vita vera,
perché non c'è vita nella pienezza del suo senso. Dove non c'è
lode e voce di sposo e sposa c'è la morte.
b) Geremia 25,10
"Farò cessare in mezzo a loro le grida di gioia e le voci di allegria,
la voce dello sposo e quella della sposa, il rumore della mola e il lume della
lampada". C'è l'immagine dello sposo e della sposa ma è al
contrario. Siamo nel "grande oracolo di distruzione".
Le due grandi pietre della mola vengono fatte girare per macinare
il grano, poi nessuno più le gira e si fermano piano piano. La luce della
lampada si spegne perché nessuno più la alimenta: è la
morte perché non ci sono più sposo e sposa che garantiscono la
vita.
E' la fine della casa (luce che si spegne) e la fine della
vita (il mulino si ferma e non c'è più pane): fine della famiglia
e fine del dono di ciò che fa vivere.
Nel Cantico abbiamo la presentazione dell'uomo nella sua dimensione di relazione
totale, la relazione è tra lei e lui, tra loro e gli altri ("Prendeteci
le volpi piccoline...") e poi la relazione di lei e lui al mondo ("Vieni
amata mia...") e la riscoperta della primavera nei campi.
La relazione che nasce dalla voce si apre, quando è
vera relazione interpersonale, a tutte le altre dimensioni relazionali con gli
altri, ma anche con il mondo, in una situazione di riscoperta della natura,
rivisitata come segno, rivelazione di armonia.
Quando lo sposo e la sposa si parlano, il mondo diventa più
buono. Il loro mondo è quello bello, fatato di Genesi 1, quello di cui
Dio dice "E' buono!". E' il mondo delle gemme che fioriscono, del
canto degli uccelli, della vita che trionfa, dove il male c'è (le volpi
mangiano le vigne che stanno per germogliare), c'è consapevolezza della
frattura. Ma nella relazione che ricongiunge i due in uno solo, diventa possibile
ricongiungere la frattura del male, ridiventa possibile fare esperienza di bontà
e allora i due possono scoprire il mondo come buono perché si amano.
D'altra parte, questo scoprire il mondo come buono, li aiuta
ad amarsi di più. E' un'esperienza di vita nella sua dimensione di riconciliazione
possibile lì dove si ricompone la frattura fondamentale che è
quella della diversità fra l'uomo e la donna.
"L'amato mio è mio e io sono sua" (Ct 6,3).
La mutua appartenenza è la relazione fondamentale del
rapporto coniugale che mette i due in alleanza così come Dio entra in
alleanza con gli uomini.
Il matrimonio, infatti, è segno dell'alleanza tra Dio
e gli uomini: è fatto su quel modello, ha quegli elementi. Capire l'alleanza
di Dio con gli uomini, vuol dire capire meglio cos'è la relazione coniugale.
Seguiamo allora gli elementi tipici del formulario di alleanza
che la Bibbia presenta nelle situazioni di patto tra Dio e l'uomo. La Bibbia,
per far capire l'alleanza, usa elementi dell'alleanza tra sovrani.
1° elemento dell'alleanza: "Titolatura"
Si dicono i nomi dei due partner che fanno alleanza e si indica che tipo di relazione
c'è tra loro. I nomi e i titoli consentono di capire chi è la persona
nominata.
Nella relazione tra Dio e gli uomini, quando vengono dati
i nomi e i titoli, si scopre che per poter dire i titoli dell'uno, bisogna nominare
l'altro e viceversa. Perché il titolo di Dio è "Dio di Israele"
e quello di Israele è "popolo di Dio". Si indica così
una situazione di appartenenza reciproca talmente radicale e indissolubile che
per poter parlare di uno si deve parlare dell'altro.
Non a caso, nella Bibbia, la metafora tipica usata per parlare
di alleanza è quella sponsale. Per poter parlare di alleanza tra Dio
e popolo, la Bibbia ricorre alla metafora sponsale e dice che Dio è lo
sposo e Israele la sposa. Questo vuol dire che tra i due c'è una tale
comunione, appartenenza, che, per restare nella metafora, i due sono diventati
una sola carne.
Quando l'alleanza viene stipulata, il gesto simbolico che
fa Mosè è prendere il sangue del sacrificio e aspergere lo stesso
sangue sia sul popolo (un contraente) che sull'altare (che simboleggia Dio,
altro contraente). Il segno simbolico è quello di uno stesso sangue che
appartiene a tutti e due, di una stessa vita. Dio, con l'alleanza, vuole dire
che dona all'uomo la possibilità di vivere la sua stessa vita.
2° elemento dell'alleanza: "Paragrafo storico"
Si dice la storia che ha legato i due, ciò che ha preceduto la stipulazione
dell'alleanza.
Per l'alleanza tra Dio e l'uomo, nel "paragrafo storico"
è fondamentale l'uscita dall'Egitto: "Io sono il Signore, Dio di
Israele che ti ha fatto uscire dall'Egitto". Tra i due quindi non c'è
parità. Nella metafora dello sposo e della sposa i titoli dicono che
i due sono uniti, uguali pur nella diversità; il paragrafo storico corregge
questo e fa capire che, pur in questa relazione di adesione libera, paritaria,
c'è una dissimmetria fondamentale: Dio è origine di Israele, mentre
Israele non è l'origine di Dio perché nasce nel momento in cui
Dio lo fa uscire dall'Egitto.
Quando fanno alleanza, sono come lo sposo e la sposa; ma bisogna
dire che sono anche come il padre e il figlio, ecco la seconda metafora. Dio
deve essere riconosciuto come origine di Israele.
Come l'alleanza, il matrimonio è un rapporto paritario,
scelta libera, ma pur nella parità è sempre necessaria la consapevolezza
di essere stati scelti mentre si sceglieva. Si riceve un dono mentre ci si dà
all'altro; non siamo noi i primi, ma, anche mentre diamo, sappiamo che in realtà
stiamo molto più ricevendo che dando nella consapevolezza che il nostro
amore è insieme appello e risposta.
3° elemento dell'alleanza: “Dichiarazione di alleanza e clausole” (cioè:
legge, decalogo)
Nell'alleanza tra Dio e il popolo, la legge ha un posto centrale. Nelle relazioni
matrimoniali, è importante riflettere sul fatto che se il matrimonio è
alleanza, vuol dire che c'è centralità della legge, cioè
necessità di riconoscimento dell'alterità con tutti i suoi diritti.
La legge non è altro che un modo con cui ci viene detto che noi non siamo
soli e che esistono anche gli altri, portatori di diritti; per cui la vita deve
essere regolata in modo tale che ci sia composizione di diritti.
La legge è fondamentale nella crescita dell'individuo,
perché è la scoperta di non essere unici al mondo. La legge è
il grande momento di uscita dall'egocentrismo, dal mondo narcisistico, solipsistico
della primissima infanzia per entrare finalmente in relazione scoprendo l'alterità.
Il bambino, finché è piccolo, crede di essere solo, o meglio crede
di essere lui il centro nel quale tutti gli altri vengono inglobati. Addirittura
il bambino, all'inizio, non ha neppure capacità reale di differenziarsi
da sua madre. Nel periodo dell'allattamento non c'è ancora vera differenziazione
e neanche vera relazione, perché non c'è ancora alterità
da parte del bambino. L'alterità comincia quando si scopre che l'altro
esiste ed è diverso da me e come tale occupa uno spazio che devo rispettare.
Questa è la saggezza matrimoniale, una composizione di diritti ed esigenze
diverse, dove si è uno, ma si continua ad essere due: due sposi diversi
con esigenze diverse, prospettive diverse, personalità diverse. Ecco
l'elemento della legge: l'altro come qualcuno che, poiché è "altro",
regola la mia vita e la condiziona. Accettare di lasciarsi condizionare dall'altro
è indispensabile per uscire dalla solitudine.
4° elemento dell'alleanza: “I Testimoni”
E' necessario che ci siano persone garanti del fatto che l'alleanza è stata
veramente compiuta. Questi diventeranno testimoni nel caso in cui il patto si
dovesse rompere, perché allora sarebbero loro a dire che quel patto veramente
c'è stato e, con la loro stessa presenza, diventeranno accusa verso la
parte che si sottrae all'alleanza.
Quindi, nel rapporto di alleanza, sia quello tra Dio e gli
uomini, sia in quello matrimoniale, c'è una fragilità costitutiva,
altrimenti non servirebbero i testimoni. Il fatto che essi ci siano è
un fatto cruciale, che confessa una fragilità perché l'alleanza
è unione di libertà e, come tale, è necessaria una decisione
continua, sempre rinnovata, che può venir meno. Così, coloro che
entrano in alleanza contraendo matrimonio, sono consapevoli di questa fragilità,
fa parte del loro impegno. Eppure, mentre sono consapevoli di questo, pongono
un atto che è "per sempre".
5° elemento dell'alleanza: “Benedizioni e maledizioni”
"Se sei nell'alleanza, sei benedetto. Se ti sottrai, sei maledetto."
Nel momento in cui si entra nell'oggi della stipulazione dell'alleanza,
si impegna tutto il domani, si è condizionati per sempre perché
anche se si volesse uscire dall'alleanza e cancellarla, questo vorrà
dire che si entrerà nella maledizione.
Ecco l'elemento importante dell'alleanza matrimoniale che,
pur nella consapevolezza della fragilità costitutiva, sa di impegnare
tutta la propria esistenza perché sa di entrare in una dimensione di
dono che, poiché è totale, non può più essere ripreso.
Non ci sono "ultime spiagge" in cui ripararsi per riprendersi ciò
che si è dato, perché dove il dono è totale, non c'è
più nulla da riprendere. Questo dono di oggi, continuamente rinnovato,
diventa un impegno per sempre perché ciò che viene totalmente
dato in quel momento, non può che essere dato per sempre.
Questa struttura di alleanza, dicevamo, rivela il senso del
rapporto tra Dio e gli uomini e tra gli sposi. Ma il suo vero senso si manifesta
nel momento del suo compimento, in quella "nuova alleanza" che Gesù
consuma entrando nella morte. Il mistero della morte trasformata in vita - e
vita risorta - è l'ultima e definitiva luce che viene gettata sulla relazione
matrimoniale e sull'amore che in essa si esprime: un amore che va al di là
della morte perché la trasforma in dono di vita.
Giuseppe e i suoi fratelli
Genesi 1-4: creazione, peccato
e redenzione
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