Gesù Cristo e la storia, secondo l'Apocalisse di San Giovanni di Heinrich Schlier (tpfs*)

Presentiamo on-line la stupenda sintesi del libro dell'Apocalisse, scritta dal grande esegeta H.Schlier. Il tema del campo estivo degli adulti della parrocchia di S.Melania, a Pian Paradiso, vicino Civita Castellana, nel giugno 2003, ha avuto appunto per tema l'ultimo libro del Nuovo Testamento e della Bibbia. Possa questo testo completare tutto ciò su cui già abbiamo riflettuto insieme. Il testo compare nella raccolta di scritti dal titolo: H.Schlier, Riflessioni sul Nuovo Testamento, Paideia, Brescia, 1976, pp. 463-482. Il testo è, al momento, esaurito presso la casa editrice. Restiamo a disposizione, per l'immediata rimozione da Internet, se la messa a disposizione on-line non fosse gradita agli aventi diritto. Sarà, appena possibile, a disposizione sul nostro sito la trascrizione delle riflessioni sull'Apocalisse del campo del giugno 2003, con il commento iconografico agli affreschi dell'Apocalisse della cattedrale di Anagni e della Basilica romanica di S.Elia a Castel Sant'Elia, visitata durante lo stesso campo.

L'Areopago


Per l'uomo del nostro tempo è indispensabile riflettere continuamente sull'essenza della storia. Poiché è la sua storia, e sembra sfuggirgli. Lo sguardo dello storico, rivolto all'indietro, penetra per un raggio sempre più vasto in sempre maggiori profondità dei millenni sepolti, ma non riesce con tutto questo a scoprire quale sia l'essenza della storia. Nemmeno le sempre più violente esperienze della nostra storia più recente ci sono di aiuto. Anche i problemi di cui essa ci grava vengono già intercettati dalle affascinanti scoperte della natura, delle sue energie e dei suoi spazi. Già denominiamo la nostra epoca secondo tali scoperte e non più secondo personaggi e avvenimenti storici. Ma se non ci lasciamo più porre problemi dalla storia, diventiamo noi stessi senza storia e perdiamo così la nostra umanità. Poiché l'uomo è un essere storico.
Volendo esaminare ciò che è la storia, possiamo consultare diverse tradizioni della storia. Questa consultazione non è inutile. Un dialogo tra uomini chiarisce sempre molte cose che riguardano l'uomo. Resta solo dubbio se per tale via non abbiamo a ricevere suggerimenti che ci siamo già dati da noi stessi per principio. La storia che noi in tal caso interroghiamo non si comprende da se stessa. Essa non sta mai al di fuori del suo divenire e sente così sempre solo la propria parola. Sia che l'ascoltiamo da vicino seriamente partecipi di essa, sia che la consideriamo da distanza storica, nel qual caso, come dice Musil, «di cento fatti novantacinque sono andati perduti, per cui quelli rimasti si lasciano ordinare come si vuole», la storia dice, come storiografia, questo o quel fatto 'accaduto', ma ci tace la sua essenza.
Rivolgiamoci pertanto ad un libro ampiamente dimenticato, che non solo ha per argomento la storia, ma il cui autore avanza anche la pretesa di averne penetrato e conosciuto la natura intima, essendo stato 'rapito' fuori di essa. E' la cosiddetta Apocalisse di Giovanni, che si può chiamare, come ci indicano le sue prime parole, «Rivelazione di Gesù Cristo». Possiamo avere di fronte al messaggio di questo libro la posizione che vogliamo: in ogni caso però possiamo apprendervi una concezione assai particolare e certamente non comune della storia, concezione che la Chiesa ha comunque accettato canonizzando questo scritto profetico.
Non è facile leggere il libro. E se anche non vorremmo dire quanto affermava il vescovo Dionisio di Alessandria, cioè di ammirare tanto questo scritto perché non l'aveva capito (Eusebio, Hist. eccl VII, 25,5), tuttavia confessiamo anche noi subito di non comprenderlo in molte cose.

I

Che cosa dice della storia il nostro libro? La sua tesi è che essa ha cominciato solo con Cristo a diventare palese nel suo svolgimento. Naturalmente anche prima di Cristo si sono svolti infiniti fatti. Ma solo per mezzo di Cristo la storia si svolge in modo tale da rivelare la sua essenza. Il nostro profeta ne giunge a conoscenza con la grande visione che ci descrive nel quinto capitolo del suo libro. Il veggente, rapito in ispirito alle porte del cielo, dopo aver visto il trono di Dio eterno e onnipotente e su di esso, avvolto nella sua luce inaccessibile, il pantocratore, scorge «nella mano destra di colui che sedeva sul trono, un libro, scritto di dentro e di fuori, sigillato con sette sigilli» (5,1). E', come apparirà subito, il libro della storia nella mano di Dio.
Un angelo potente - così continua la visione - dice 'a gran voce': «Chi è degno di aprire il libro e di spezzarne i sigilli?» (5,2). Nessuno risponde. E il profeta scoppia in lacrime. L'ermeticità della storia, che sembra impenetrabile, lo rattrista. Egli teme che resti muta per sempre. Ma viene consolato. “E uno dei vegliardi mi disse: Non piangere, ecco, il leone della tribù di Giuda, il germoglio di Davide, ha vinto, per aprire il libro e i suoi sette sigilli” (5,5). Nessun uomo, nessun eroe, nessun demone, nessun angelo può far sì che la storia si manifesti nella sua corsa attraverso i secoli. Ma “il leone della tribù di Giuda”, che è l''agnello', Gesù Cristo, è degno, e questo significa anche capace, di dissigillarla e costringerla a palesare la sua essenza. E realmente appare agli occhi del veggente “un agnello... come immolato”, con tutti gli attributi dell'onnipotenza e dell'onniscienza, che riceve il libro tra le acclamazioni del cielo. La sua 'vittoria', come si legge, lo mette in grado di rompere un sigillo della storia dopo l'altro.
Come sia stata conquistata questa vittoria e che cosa sia è solo accennato. Per l'autore è cosa ovvia. Egli parla dell' “agnello che è stato immolato” (5,6-12; 13,8), dice che “l'hanno trafitto” (1,7), parla del suo 'sangue' (1,5; 5,9, 7,14; 12,11), della “grande città... dove anche il loro Signore è stato crocifisso” (11,8), della sua 'pazienza' e del suo 'amore' (1,5; 3,9-10), di lui come del 'fedele testimone' (1,5; 3,14), tutte espressioni, in parte in uso nel linguaggio della comunità, con le quali indica la morte ubbidiente di Gesù Cristo, in croce come l'opera del suo amore per noi. Questa morte è 'la vittoria' – la vittoria dell'amore. Non ne è la sconfitta. Poiché questo morto è stato risuscitato da Dio ed elevato alla destra dl Padre. L'amore di Gesù Cristo, che sostiene tutti e tutto, ha dimostrato di essere superiore alla morte e di essere l'amore onnipotente di Dio. “Non temere”, dice il Cristo glorificato al veggente, “io sono il primo e l'ultimo e il vivente. Io ero morto ed ecco, sono vivo per tutta l'eternità e ho in mano le chiavi della morte e dell'inferno” (1,17 ss.; cfr. 2,8). Questa è 'la vittoria': il Cristo risuscitato dai morti ha tolto, come si dice con un'antica immagine mitica, la chiave alla morte e all'inferno, la chiave della loro sovranità, per mezzo dei patimenti del suo amore in croce. La vittoria, potremmo anche dire, è questa: il sacrificio di Gesù Cristo è diventato ora la chiave di ogni sovranità e della vita.
Il nostro libro precisa ancora di più quanto è accaduto con questa vittoria. Se l'amore di Cristo è la chiave di tutto, la forza apparente dell'autoaffermazione egoistica della storia è spezzata. Nella visione del cap. 12 del nostro scritto, il veggente vede che viene strappato alla bocca del 'drago' – l'ideogramma di Satana – il 'figlio', cioè Gesù Cristo. Al tempo stesso Satana viene cacciato dal posto occupato sinora presso il trono di Dio e gettato con le sue schiere sulla terra. “Ora è venuta la salvezza e la potenza e il regno del nostro Dio e la sovranità del suo Cristo. Poiché è stato precipitato l'accusatore dei nostri fratelli, che li accusava davanti al nostro Dio giorno e notte... Perciò siate lieti, o cieli e voi che avete dimora in essi. Guai alla terra e al mare! Poiché il diavolo è sceso a voi con ira grande e sa di avere più poco tempo” (12, 10-12). Nel momento in cui Gesù Cristo per mezzo della croce del suo amore s'è impadronito della sovranità, è crollata davanti a Dio la sovranità dell'indipendenza arbitraria. Così ora la storia non compare più come oggetto di accusa, ma compare nella parola di giustificazione ad opera dell'amore di Cristo. Non che la terra non sia più percorsa dallo spirito dell'egoismo e perciò non più in potere delle sue tenebre e della sua morte. Anzi, cacciato dall'eternità, questo spirito si getta ora su di essa. Ma in fondo non può più nulla. Infatti che cos'è ora la terra? Un breve periodo di tempo. E che cos'è perciò la sovranità di questo spirito sulla terra? Un breve periodo di tempo, abbreviato ulteriormente dall'esserne segretamente a conoscenza e dalla paura. “E sa di avere più poco tempo”. Lo spirito dell'egoismo non ha più futuro. Il futuro e l'eternità, che del resto non solo sono prossimi, ma sono già giunti, appartengono a Gesù Cristo. Sono la sovranità, superiore alla morte, dell'amore di Cristo sulla croce e la parola di quest'amore. “Il sovrano dei re della terra” (1,5). “Il signore dei signori e il re dei re” (17,14; 19,16). “E regnerà per tutta l'eternità” (11,15). Di tali esclamazioni la nostra profezia è piena, e le vuole imprimere nel cuore a tutti gli ascoltatori con sempre nuove immagini e voci. Spogliando il più possibile delle espressioni convenzionali mitiche caratteristiche delle visioni il dato di fatto, possiamo dire: la vittoria di Cristo consiste in questo, che non è più la potenza arbitraria propria dominante la storia dall'interno e definitivo, ma l'amore di Dio giunto alla sovranità in Gesù Cristo.
Ma la vittoria di Cristo ha anche un altro aspetto. Non è solo, se così si può dire, il nuovo 'principio' della storia, il principio da cui, in cui e verso cui la storia si compie. Ha già anche, nella storia, un pegno storico. E' la comunità degli uomini che la rappresentano. Ne parla tra l'altro quel 'cantico nuovo' del cap. 5: “Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli. Poiché fosti immolato e hai riacquistati a Dio col tuo sangue uomini di ogni tribù e lingua e popolo e nazione, ed hai fatto di loro un regno e dei sacerdoti per il nostro Dio, e regneranno sopra la terra” (5,9 ss.). Qui vi sarebbe molto da dire. Si dovrebbe indicare in che maniera gli uomini, per mezzo del sangue di Cristo versato sulla croce, sono diventati sua proprietà e perciò proprietà di Dio. In maniera tale cioè che ora non possono ritrovare la loro vita se non in lui che pone la sua a loro disposizione. Si dovrebbe anche chiarire per quale fatto gli uomini fanno esperienza del loro legame con colui che tiene in mano tutti i tempi. Per il fatto cioè che egli, il Signore glorificato, si rivela, anticipando il suo futuro in virtù del suo Spirito che è lo Spirito di Dio, come il Signore, incalzando continuamente con la parola e i segni dello Spirito gli abitanti della terra. Allo zenit del cielo il veggente vede volare un angelo “che aveva un vangelo eterno, da annunciare agli abitanti della terra..., e diceva a gran voce: Temete Iddio e lodatelo. Poiché è giunta l'ora del suo giudizio...” (14,6 ss.). Questo vangelo dello Spirito, aleggiante sul mondo che si trova con esso sotto il grido del triplice 'guai', è il vangelo che annuncia profeticamente la vittoria di Gesù Cristo. “Poiché la testimonianza di Gesù è lo spirito della profezia” (19,10), anche della profezia del nostro libro. Dovremmo infine chiarire in che modo, secondo il nostro scritto, coloro che ascoltano la chiamata celeste del vangelo, si raccolgono dalla folla degli abitanti della terra e si consolidano in popolo di Dio. In questo modo cioè: 'convertendosi', con tutto quello che tale conversione implica. Ma l'esporre tutto questo porterebbe troppo lontano. Per il nostro problema è solo importante vedere una cosa: la vittoria di Gesù Cristo, con la quale è spezzato l'arbitrio della storia generatore di tenebre e distruzione, incalza la storia stessa anche col popolo che vive di tale vittoria e per la tale vittoria dandone così testimonianza.
E' rimarchevole che nelle visioni del veggente la Chiesa sia presentata in definitiva più soltanto come una Chiesa di testimoni e il suo agire come un rendere testimonianza. Là dove si considera l'ultimo compito storico della Chiesa, la testimonianza risulta essere la sua opera decisiva. I suoi membri, 'primizie' degli uomini “per Dio e l'Agnello”, promessa e alba dell'umanità (14,4), 'servi' di Dio e di Gesù Cristo (1,1; 2,20; 6,11; 7,3 e a.), 'fratelli' però tra di loro (1,9; 6,11; 12,10 e a.), sono coloro che “hanno la testimonianza di Gesù”, “i testimoni di Gesù” (1,2; 6,9; 12,17; 17,6; 19,10; 20,4; cfr. 2,13). Certamente non sono nell'insieme testimoni senza macchia. Anche nelle sette comunità dell'Asia, che rappresentano tutta la Chiesa, sono penetrate eresie gnostiche (2,14 ss. 20 ss.). Anche i loro membri sono diventati ricchi, sazi, tiepidi, sonnacchiosi, membri 'morti' in parte, e si è spento l'amore dei primi tempi (2,4 ss.; 3,1 ss. 15 ss.). Ma visti nel complesso sono coloro che custodiscono la 'parola' di Gesù (3,8), osservano “i comandamenti di Dio e la fede in Gesù” (14,12), che dimostrano come 'giusti' e 'vergini' (14,4; 22,11) fede, amore, aiuto reciproco (2,4-13-19; 14-12), 'fatica e pazienza' (1,9; 2,2-3-19; 3,10; 14,12 ss.). Si convertono anche quando sono caduti e hanno fallito (2,5-16; 3,19). E così sono testimoni della vittoria di Gesù. Seguono “l'agnello ovunque vada” (14,4) come suoi 'compagni' e “compagni della sua tribolazione” (1,9; cfr. 7,14). La loro 'povertà' e la loro 'tribolazione' sono grandi (2,9). Le loro prove e i loro dolori sono duri (2,10; cfr. 3,10). Molti di loro vengono giustiziati a causa della 'testimonianza di Gesù' (20,4; cfr. 2,13). Il loro sangue viene abbondantemente versato (6,9; 12,11-17; 16,6; 17,6; 18,24; 19,2). Così, fedeli alla 'testimonianza fedele' di Gesù (1,5; 3,14), sono testimoni anche con il loro sangue (2,13; cfr. 7,14). Essendo la sua vittoria il fondamento della loro vita, la testimoniano infine con la loro morte. In tal modo essi vincono confessando e morendo con lui (12,11; 15,2), e tutte le promesse della vittoria sono aperte loro in quanto 'vincitori' (2,7-11-17-26; 3,5-12,21; 21,7). Come tali e in questo modo, singolarmente e pur in comunione coi fratelli, invitano ineluttabilmente gli abitanti della terra a fare anche da parte loro i conti con la vittoria che Cristo ha conseguito e a basare la loro vita su di essa. Con la loro testimonianza e la loro esistenza incalzano così la storia, che, sconfitta, ha perso ormai la sua forza dominatrice. La incalzano affinché riconosca la realtà di questa vittoria che deve e può essere anche la sua e si consideri superata, ma anche eternamente recuperata da essa. Vogliono ricevere, in nome del vincitore, una risposta alla vittoria di lui. Ancora implicati nella storia, ma già sciolti da essa, pongono la domanda che non fu mai posta né poté essere posta loro in tal modo: se, essa, la storia, di fronte alla vittoria di Gesù Cristo sull'autoaffermazione egoistica non voglia rinunciare allo spirito dell'indipendenza arbitraria ormai in sostanza impotente e arrendersi nel pensiero e nell'azione allo Spirito Santo dell'amore. La domanda dei testimoni viene udita dalla storia. La storia dà una risposta. Con la sua risposta diventa manifesta. Il vincitore ne spezza i sigilli.

II

La manifestazione della storia è, secondo il nostro libro, terrificante. Il veggente vede che la storia nel suo complesso si oppone con tutte le sue forze, fin nel suo intimo, a che Cristo, e in lui l'amore di Dio, sia vincitore. Egli vede una storia che, se così ci si può esprimere, non vuole ammettere il suo crollo metafisico e con terribili destini e catastrofi costruisce sul suo abisso un regno politico e spirituale opposto al regno di Dio e di Cristo.
Dalle profondità incommensurabili - il 'mare' - emergono all'orizzonte della storia - tale è la visione descritta al cap. 13 del libro - due 'bestie'. La prima, si legge, riceve “forza, trono e grande potenza” (13,2) ed anche la parola dal 'drago', immagine convenzionale dello spirito satanico. Le 'bestie' sono simboli mitici della potenza politica e spirituale che dominerà la terra. Ad essa si riallaccia una terza figura che compare più avanti in un'altra visione, quella della grande cortigiana, della cosmopoli, che rappresenta al tempo stesso la Fortuna o Tyche di quella potenza politica. Con queste tre figure, nelle quali si rispecchiano chiaramente l'impero romano e Roma, non come tali però, ma come paradigma profetico della potenza mondiale, la storia dà la sua risposta alla domanda postale da Cristo e dal suo popolo. Diventa evidente in esse l'aspetto che assumerà la storia. E' l'aspetto dell'estrema autoaffermazione, autosalvaguardia e autoesaltazione politica e spirituale.
Se esaminiamo le peculiarità fondamentali della storia, vediamo che essa, secondo il nostro libro, tende ad una strutturazione politica che si potrebbe definire stato mondiale totalitario. Non è più uno stato nel senso solito. Riunisce in sé le caratteristiche di tutti gli stati precedenti (cfr. 13,2). Questo gli conferisce una nuovo qualità, quella del mostruoso e del pauroso. Nelle sue smisurate proporzioni è un'unica fantastica personificazione della volontà di potenza che vuole eliminare Dio dalla terra. Vuole riempire la terra di sé. Il conflitto con il pluralismo politico anteriore, simboleggiato dalla pluralità dei 're', è relativamente facile. I re vengono assorbiti nell'unità politica della bestia. L'unità è uno dei principi fondamentali della potenza mondiale. “... Ricevono potenza come re per un'ora, con la bestia. Essi hanno un'unica opinione e danno la loro potenza e la loro autorità alla bestia”, si legge, 17,12 ss. In questa fusione del pluralismo politico la città mondiale ha una parte importante. Essa appare come prostituta. In questo si esprime la sua mancanza di orientamento politico assunto a principio. Non è legata a nessuno e si dà a tutti. “E i re della terra hanno fornicato con lei” (18,3). I loro provvedimenti politici sono immortali. Lo stato mondiale si serve dei re che odiano e amano al tempo stesso la sua Tyche (cfr. 17,16; 18,3-9).
Questa tendenza dello stato mondiale alla totalità sul piano dell'estensione e all'uniformità di tute le forze politiche è già qualcosa come una risposta alla domanda della sovranità di Dio sul mondo nel suo unico cosmo e popolo, la Chiesa. La grande cortigiana è opposta alla sposa, la Chiesa, che è legata all'unico Signore e si dà unicamente a lui (19,7; 21,2-9; 22,1-7).
Secondo le nostre visioni è propria dello stato mondiale anche una specie di immortalità. Non è invulnerabile, ma si rigenera continuamente. Persino la 'ferita mortale' della bestia guarisce, “e tutta la terra stupita seguiva con lo sguardo la bestia” (13,3 e a.). E' una specie di parodia politica della resurrezione di Cristo dai morti e una controazione diretta contro la Chiesa perenne in terra. Questo stato mostruoso sembra riempire di sé il mondo in eterno. Diffonde un'atmosfera di continua presenza.
Naturalmente, allo splendore politico si accompagna anche una fioritura economica della comunità mondiale. Solo lontano da ogni povertà o anche necessità la cosmopoli splende adorna di gioielli scintillanti. Si parla della “potenza della sua sontuosità” (18,3). I mercanti della terra l'hanno resa ricca arricchendosi in tal modo essi stessi. Essi sono, dice il veggente, “i nobili della terra” (18,23). L'economia e la politica sono del resto strettamente intrecciate. L'economia è pure uno strumento politico. Anche l'artigianato e l'arte fioriscono nella cosmopoli (18,22). Molto significativo è il fatto che la grande Babilonia - un'alta eloquente immagine convenzionale - dice in cuor suo l'antico detto di Babele: “Io siedo regina e non sono vedova, e non vedrò mai lutto” (18,7). La cosmopoli evoca con parole magiche la sua fortuna. Non sono leciti né il dolore né il lutto. Regna ufficialmente la parola d'ordine della giovinezza immortale. La morte è negata.
E' quindi solo una logica conseguenza se la bestia esige per sé adorazione e la riceve dagli abitanti della terra. Anche e proprio la realtà politica è falsata. Riceve attributi religiosi. I simboli politici diventano simboli di culto, le festa politiche feste di culto. Questa religione politica è intollerante. Lo stato mondiale che si qualifica religioso estorce l'adorazione degli abitanti della terra costringendoli a documentare la loro fedeltà con un marchio statale visibile. Occupa la coscienza ed esige inoltre che questa si palesi e si dichiari a suo favore. In caso contrario minaccia il boicottaggio economico o la morte. “Ed essa (l'altra bestia) fa sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e servi, si facciano un marchio sulla mano destra o sulla fronte, affinché nessuno che sia sprovvisto del marchio con il nome della bestia o con il numero del suo nome possa comprare o vendere” (13,16 ss.).
In questa pretesa dello stato mondiale di darsi una consacrazione religiosa si manifesta da un lato, in modo distorto, il fondamento religioso della realtà politica (cfr. 13,4). D'altro lato diventa ancora una volta evidente il carattere di contrasto della storia, che in tal modo rivela se stesa, rispetto alla storia di Dio in Gesù Cristo e alla sua Chiesa. Il fatto che il nome di Dio venga pubblicamente lodato nel nome di Gesù Cristo da tutto il mondo, dalla sua creazione e dai suoi salvati, dal suo popolo e dalle sue schiere celesti, fa sì che l'autoadorazione e l'autotrasfigurazione del mondo diventino la meta di una storia invasata di sé, autoglorificazione che appare tanto più sinistra in quanto non ha più alcun fondamento, essendo la potenza della storia ormai spezzata e conoscendo essa in qualche modo questa sua situazione. Si rivela in tutto questo una specie di autocoscienza disperata della storia. Accanto alla prima bestia ne compare una seconda. Rappresenta nel linguaggio mitico convenzionale il profeta della prima bestia. Viene chiamata 'falso profeta' (16,13; 19,20; 20,10). Simboleggia la potenza spirituale e intellettuale che, coordinata a quella politica, contribuisce a determinare la storia. Si deve notare che è una funzione della potenza politica. La seconda bestia “parla come un drago” ed “esegue tutti i comandi della prima bestia alla sua presenza” (13,11 ss.). In questo stato mondiale la vita spirituale pubblica esiste solo come ideologia. Questa potenza spirituale affascina gli uomini, nell'interesse della potenza politica, con stupefacente ingegnosità. “E fa dei grandi segni. Fa discendere persino fuoco dal cielo sulla terra in presenza degli uomini” (13,13). L'intelligenza del mondo però serve soprattutto a far sì che gli uomini si costruiscano una 'statua' della potenza politica. “E induce gli abitanti della terra, ... ad erigere alla bestia una statua...” (13,14). Il compito principale dell'intelligenza è quello di ideare e di propagare una concezione corrispondente dello stato. In tal modo diventa anch'essa rilevante sul piano politico. E' essa a far sì che la statua della bestia 'parli' e faccia “mettere a morte coloro che non adorano la statua della bestia” (13,15). E' pure l'intelligenza a far sì che gli uomini siano timbrati, cosa necessaria per poter esistere, che livella ogni differenza tra gli uomini e conosce più soltanto - unica distinzione - amici e nemici del sistema politico. L'intelletto non può scagionarsi dall'avere responsabilità nella configurazione della storia. La storia si manifesta anche per mezzo suo. Esso è in tutto l'antagonista dello Spirito Santo e completa con la bestia e il drago l'infausta trinità. E' la scimmiottatura dello Spirito Santo: carismatico, taumaturgico, dogmatico, cherigmatico e critico. Manifestandosi così la storia, che è stata sradicata totalmente nella sua arbitraria indipendenza da Gesù Cristo e in cui è stato piantato dallo stesso Cristo il segno efficace della sua sovranità con la Chiesa testimoniante, nella forma dello stato mondiale e dell'intelletto mondiale che concepiscono se stessi in senso assoluto, è chiaro che non vi è ostacolo maggiore all'autorealizzazione della totale padronanza di sé dell'uomo se non il popolo che afferma il fallimento di questa tendenza arbitraria del mondo e che vive in base a quanto afferma. Quanto più testimonia tale fallimento, tanto più frena lo sviluppo politico-intellettuale della storia nel senso suddetto, sviluppo che è basato, nonostante ogni amara realtà, sull'apparenza o sulla menzogna. Perciò tutta l'attenzione, tutta la violenza e l'ira della bestia si dirigono contro coloro che si oppongono al suo spirito e al suo potere per amore del nome di Cristo. Visto dall'esterno, ad esempio per la storiografia, questo è molto strano. Spesso perciò non viene riconosciuto o viene falsamente interpretato. La concreta situazione terrena di potenza del drago, della bestia e del suo profeta da un lato, e dall'altro della 'donna', ideogramma del popolo, e del suo 'seme', i credenti, è quasi incommensurabile. C'è qualcosa di grottesco nel fatto che il drago, che con la sua coda spazza via dal cielo un terzo delle stelle, insegua la donna che “è in procinto di partorire” e fugge poi nel deserto, e nel fatto che esso emetta “acqua come un fiume” dalle sue fauci, per cui ella sarebbe annegata se la terra benigna non avesse inghiottito il fiume (12). E una frase come quella che chiude il cap. 12: “E il drago si adirò contro la donna e andò a far guerra a quelli che restano della progenie di lei, che osservano i comandamenti di Dio e hanno la testimonianza di Gesù” (12,17) rende il drago quasi ridicolo. Ma per il drago è una cosa ben seria e non è meno seria per le due bestie. E' cosa di una gravità assoluta. Sentono che questi piccoli uomini oppressi conoscono le loro intenzioni, e continuamente si fa loro incontro da questo misero popolo lo spirito di una potenza sostanzialmente superiore che li sconfiggerà in un prossimo futuro. Lo stato mondiale vede che questi strani uomini non si lasciano indurre dalla sua perfezione e dalla sua intelligenza ad ammirarlo come gli abitanti della terra, né si lasciano costringere dalla fame e dalla morte ad adorare in lui il dio umano, anche se severo. Sanno troppe cose di Dio e, nonostante ogni ingenuità, sanno anche parecchio dell'imitazione di Dio. Questo li rende, uomini strani derisi dall'intelligenza dello stato mondiale, avversari pericolosi che è meglio eliminare.
Così la storia si rivela essere, in fondo, una lotta dello stato mondiale e del suo spirito contro Dio e il suo popolo, la Chiesa. In questa lotta vengono usati tutti i mezzi, la propaganda e la violenza, la guerra fredda e calda. Alla prima bestia è data la 'bocca' - che immagine espressiva! - “per millantarsi e bestemmiare” (13,5). “Ed aprì la bocca a bestemmiare contro Dio, a bestemmiare il suo nome e la sua dimora e coloro che abitano in cielo” (13,6). Questa bestemmia è l'aspetto per così dire intellettuale del conflitto. L'altro aspetto è la 'guerra'. “E le fu dato di far guerra ai santi e di vincerli; e le fu dato potere su tutte le tribù, i popoli, le lingue e le nazioni” (13,7). Questa guerra può essere talvolta così sotterranea e recondita che l'affermazione del veggente sembra una deformazione della prospettiva storica. Ma riempie veramente tutta la storia, da quando Gesù Cristo l'ha svelata. Con essa la storia si sfoga per l'ultima volta. La vittoria in terra tocca sempre approssimativamente, ma non completamente, alla bestia. Ed è proprio questo vincere sempre approssimativamente, il modo caratteristico della storia di nascondere la sua sconfitta ormai avvenuta e di differire il più possibile e il meglio possibile la rivelazione della vittoria di Gesù Cristo. Ma in questa storia si muore per vincere e si vince per morire. Le nostre visioni presentano anche un'altra cosa. Pure in questo si configura e si manifesta la storia. E' anzi quello che salta subito all'occhio, provocando in generale le più immediate e drastiche esperienze degli uomini. Mi riferisco ai destini e alle catastrofi che accompagnano la storia, descritti nel nostro libro con antichissimi schemi e segni convenzionali di terrore apocalittico. Quando Gesù Cristo dissigilla il libro della storia rivelandola, essa appare dapprima come una catena di guerre, ribellione, carestia, epidemie, terremoti e crolli di astri, incendi, sangue, tenebre, rovina della terra, devastazione di acque e altre disgrazie a stento concepibili. Anche questi spaventi generali, che coinvolgono tutti gli uomini, sono un segno della storia. Presi a sé, non indicano altro, se non danneggiamento, tormento e uccisione. Ma sono qualcosa di più, ed anche in essi si manifesta qualcosa dell'essenza della storia (cfr. 6,8-9.16). Il nostro autore fa intendere tre cose. Anzitutto questi destini e catastrofi si rivelano come segni della fine di tutte le cose, che proprio anche come fine fisica non è mai solo imminente, ma è sempre già operante nella storia. Essi continuano a porre l'uomo provvisoriamente davanti alla fine e richiamano così l'attenzione sulla realtà definitiva del tutto. Alludono alla crisi incalcolabile e inevitabile del cosmo. La fine si presenta come segno anticipatore della sovrana onnipotenza di Dio in questi avvenimenti.
Si tocca così già un secondo punto. Con tali avvenimenti oscuri e irresistibili, in cui sono implicate tutte le potenze e le forze del cosmo, nel corso dei quali si apre anche il pozzo dell'abisso del mondo, per lasciare uscire eserciti demoniaci (9,1 ss.), Dio esorta gli uomini a convertirsi. Poiché la storia viene a conoscenza e sente nelle sue catastrofi che in fondo Dio solo dispone di essa, le sue distruzioni e i suoi spaventi sono quasi ammonimenti insistenti ad arrendersi a colui che è signore della vita e della morte e che si è dimostrato in Gesù Cristo il vincitore della morte. In tal senso anche queste rovine e questi lutti dolorosi vogliono condurre sulla strada della salvezza. Certamente però la nuda esperienza non serve a nulla. “Non si convertirono dalle loro opere” compare come un ritornello nei contesti inerenti tali visioni (9,20-21; 16,11).
Così i travagli e gli spaventi della storia sono sempre, in terzo luogo, anche giudizi di Dio. Nelle crisi dolorose di sangue e lacrime, di malattie e tormenti, di distruzioni e disperazioni che si abbattono sugli uomini in sempre nuove ondate, si rivela provvisoriamente la crisi che Dio manda al cosmo e ad ogni singolo. In esse si riversa come segno qualcosa dell'ira di Dio contro l'umanità che respinge la verità del suo amore. Questi colpi, che marcano come accenti il processo storico, ricordano agli uomini, da tempo immemorabile, quanto sia reale e inesorabile il giudizio di Dio. Ora che, come si legge, Gesù Cristo regna sul trono di Dio e Dio è deciso ad offrire nuovamente agli uomini, per mezzo di lui, la sua salvezza, queste rovine della storia e della natura sono da intendersi come anticipazioni della sentenza distruggitrice che sarà pronunciata contro un cosmo che si rifiuta ancora a Dio.
Tutto è strettamente intrecciato. E tutto ha il suo significato. Ma quale? In tutto e in tutti i modi la storia si trova posta, da Cristo in poi, di fronte alla propria fine e di fronte all'inizio di Dio. Essa si ribella a questa situazione. Non vuole finire. Vuole almeno sempre ricominciare. Resistendo si configura in quel mostro di stato mondiale che esige di essere adorato, permeato dallo spirito del totalitarismo, della totale sovranità autonoma, e che conosce solo un nemico: il popolo di Dio, che crede non in lui, ma in Gesù Cristo come vincitore. Questa rivelazione della storia nel suo svolgimento, questa rottura dei suoi sigilli da parte di Gesù Cristo avviene con la comparsa di sempre nuove catastrofi che Dio, ammonendo, esortando e giudicando, manda innanzi dal futuro a segno della sua onnipotenza critica.

III

Oltre alla rivelazione della storia per mezzo della vittoria di Cristo, il veggente presenta alla nostra considerazione anche l'inevitabilità di tale rivelazione. Questa 'avverrà' e 'deve' avvenire per necessità divina (1,1-19; 3,10; 4,1; 22,6; cfr. 13,10; 17,10; 20,3). Deve avvenire a partire da Gesù Cristo, dopo che vi erano stati già tipici avvenimenti anticipatori in Israele (11,1-13). E deve avvenire da ora sino alla fine, che giungerà 'presto' e il cui kairos è 'vicino' (1,1; 2,16; 3,11; 11,14; 22,6-12.20; 1,3; 22,10), vicino di una vicinanza incalcolabile ed esprimibile solo con numeri simbolici apocalittici, di una vicinanza che, al di fuori di ogni tempo parametrico, è tale perché la fine è già cominciata e il futuro non solo è a portata di voce, ma gli si può già aprire la porta (cfr. 3,20). Deve avvenire in una storia che da Gesù Cristo in poi è percorsa dalla vicinanza del richiamo ad essa rivolto.
Questa storia che si svolge per volontà di Dio al richiamo di Dio stesso è per il veggente irreversibile. Si compie in modo da rivelare, restando sempre la medesima, profondità sempre maggiori di sciagura. Si può anche dire: è sempre la medesima storia, ma non è sempre la stessa. E' la medesima in quanto una cosa procede dall'altra su un piano più profondo e più svelato. In tutta l'Apocalisse non accade effettivamente mai nulla di nuovo, tranne la comparsa definitiva della fine e dell'arrivo del futuro. Ma d'altro lato accade continuamente qualcosa di nuovo, in quanto si scoprono strati sempre più profondi e aspetti sempre diversi dell'insieme. Satana opera sin dall'inizio di questa storia che si svela alla luce del Cristo, anzi opera nel suo preludio in Israele. Però è solo la situazione descritta al cap. 13 che attira su di lui tutta l'attenzione. Sin dall'inizio vi sono tentazione e dolore. Ma la presenza del veggente risveglia solo la visione di un rigurgitare futuro. Eppure anche nella comparsa di una vita sempre più paurosa non è dato un procedere rettilineo, a prescindere dal fatto che, secondo il veggente, vi sono anche tregue nella situazione funesta in cui si trovano i redenti e l'umanità in generale (cfr. 7,3; 9,4; 12,16). Tutto questo è difficile da riconoscere, in quanto resta celato anche nella rivelazione. A noi basta ora la constatazione che la storia, quale si svolge in seguito alla vittoria di Cristo, è posta da Dio in mano a Gesù Cristo, affinché essa percorra il cammino inviolabile e irreversibile della volontà di Dio.
Ma sorge ancora il problema, che cosa debba e possa fare in questa storia il popolo di Dio che crede nella vittoria conseguita da Cristo e che si propone di vivere in base ad essa. Evidentemente non può mutare e invertire il corso delle cose nel loro insieme. Sotto questo aspetto la libertà dei credenti e degli uomini è limitata, come la libertà del singolo ha i suoi limiti nella corsa verso la morte e nella indisponibilità del destino. Ma i membri del popolo di Dio e potenzialmente gli uomini in generale possono e debbono fare un'altra cosa: possono e debbono sostenere in libertà il corso degli avvenimenti ed essere già, molto al di là e al di sopra di esso, accanto alla vittoria di Cristo con la fede, la perspicacia, la vigilanza, la pazienza, la speranza e il rendimento di lode.
In questo mondo della storia gli uomini debbono 'cambiare vita', ci fa sapere di continuo il veggente. Tutto, afferma, incita inesorabilmente a non più aspettare, ché arriverà il momento in cui gli uomini saranno coinvolti in un giudizio in cui desidereranno la morte senza trovarla. Tutto incita a non essere conformisti, certamente non in un senso insignificante interno al mondo, ma in modo da interrompere il cammino percorso con le spalle rivolte a Dio e da volgere a lui il nostro volto, sì da invertire direzione. Questo mutamento di vita, che si realizza affidandosi con la fede alla vittoria di Cristo, ha come caratteristica una nuova visione delle cose. L'essenziale è come si intende la propria esistenza. E per la sua giusta comprensione occorre anche una giusta comprensione della storia. Questa tocca le nostre decisioni più profonde e la nostra libertà, unitamente alla libertà del nostro prossimo vicino e lontano. Non per nulla quindi il nostro veggente, che afferma di aver visto la storia nella sua verità, mette in guardia tutti i lettori dal togliere od aggiungere qualcosa al suo libro (22,18 ss.). Perciò dice all'inizio del libro ed analogamente alla fine: “Beato chi legge e coloro che ascoltano la voce della profezia e ritengono ciò che vi sta scritto. Poiché il tempo è vicino” (1,3; 22,7). Certamente, ciò che si ascolta deve essere 'ritenuto', e non solo nella memoria, ma in modo tale che dalla memoria scenda a determinare la vita nella storia. E' a questo che mirano tutti i diversi richiami del veggente e per mezzo del veggente dello Spirito e per mezzo dello Spirito di Gesù Cristo stesso, richiami che solcano tutto il nostro libro. Non possiamo citarli specificatamente, né far menzione di tutti. Ma non sono in sostanza se non alcune caratteristiche che contraddistinguono l'esistenza cristiana in questa storia.
La prima è il 'restar fedeli' al nome di Cristo. “E tu resti fedele al mio nome e non hai rinnegato la tua fede” (2,13). “Solo rimanete fedeli a ciò che avete finché io venga” (2,25). Che cos'hanno? Con la fede, la testimonianza del Signore e il suo Spirito e la sua profezia. In questa storia è di decisiva importanza la fedeltà, la fedeltà irremovibile a Dio e al suo Signore. Una seconda caratteristica è il 'vegliare'. “Beato chi veglia” (16,15). “Sii vigilante e consolida le rimanenti cose...” (3,2 ss.). Vegliare è inteso qui nel senso di essere pronti interiormente ed esteriormente per il futuro del Signore vicino, prontezza che comprende una sobria attenzione e un'osservazione decisa della situazione attuale. Anch'essa presuppone una visione incorruttibile e aperta della storia, e la volontà e il dono di distinguere gli spiriti. Nulla è così difficile in questa storia come distinguere ogni giorno Gesù Cristo dall'anticristo. I cristiani non debbono correre dietro, privi di istinto come gli abitanti della terra, a tutto ciò che “ha l'aspetto dell'agnello” ma “parla come un drago” (13,11). E non debbono correre dietro alla bestia apparentemente invulnerabile, come tutta la terra (13,3). Debbono acquistare ed esercitare l'istinto spirituale che permetta loro di esaminare e fare differenze in questa storia che tutto imita (cfr. 2,2). Devono però al momento giusto avere anche il coraggio di ubbidire all'indicazione del cielo e di uscire dalla grande Babilonia, cioè concretamente di non condividere i suoi peccati e il suo giudizio (18,4). Questo non esclude la terza caratteristica: la pazienza. “E hai pazienza e hai sopportato per amore del mio nome e non ti sei stancato” dice lo spirito alla Chiesa di Efeso (2,3). Questa pazienza è l'osservanza della “parola della pazienza” di Gesù (3,10; cfr. 2,19). Sopportazione indefessa di ciò che di dolore e tentazione la storia causa al cristiano, calma riservata di fronte ai suoi incessanti avvenimenti spettacolari, prudenza di fronte ad ogni avventatezza, ma anche la sopportazione caritatevole dell'altro ed infine in un certo senso anche di me stesso, semplice fermezza nella resistenza contro l'adorazione dello stato mondiale totalitario, cammino rapido e attesa nei confronti della vittoria di Gesù Cristo, questo e altro ancora indica la 'pazienza' in questo tempo storico.
Eccoci così alla speranza. Ma è singolare che questo concetto non compaia nel nostro libro profetico nemmeno una volta. E' un libro senza speranza? Al contrario, è tutto una speranza. E' pervaso di speranza, e le sue visioni sono tutte visioni di speranza. Poiché vedono già l'oggetto della speranza e i segni possenti di Dio che ne mettono allo scoperto il futuro. Questa storia è orientata verso la speranza. La speranza soffia già su di essa. Non è la speranza che essa trae da se stessa. Non è la speranza assurda, perché inutile, nell'uomo superiore e nel suo mondo sempre più umano. E', come nella vita del singolo, speranza contro la speranza e infine speranza contro la morte. Ciò che la speranza unicamente spera e ciò che le viene dato in compenso è la rivelazione della vittoria di Gesù Cristo, nascosta, ma reale ed annunciata con segni non univoci, conquistata con la croce del risorto. In questo senso la speranza non è una delle voci del nostro scritto, ma ne è la voce fondamentale. Il suo frutto e la sua prova sono la lode a Dio che pervade tutto il libro. Essa risuona in cielo e in terra e deve anche riempire il cuore e la bocca dei fedeli. Notiamo: in mezzo alle visioni del danneggiamento e della rovina della terra e del suo cielo s'innalzano continuamente la lode e il rendimento di grazie della creazione al creatore e l'ammonimento a adorare “il creatore del cielo e della terra, del mare e delle sorgenti” (14,7; cfr. 4,11; 5,13). Egli non è dimenticato, così come la creazione non è ammutolita. Soprattutto però risuona la lode al salvatore della storia, che è con questo anche il salvatore della sua creazione. Citiamo uno solo di questi canti di lode: il “canto di Mosè, il servo di Dio, e il canto dell'agnello”, che sono tutt'uno, cantato da coloro “che riportarono vittoria sulla bestia e la sua statua”. “Grandi e meravigliose sono le tue opere, Signore Dio onnipotente, giuste e vere sono le tue vie, re dei popoli. Poiché tu solo sei santo. Poiché tutti i popoli verranno e ti adoreranno. Poiché le tue azioni di giustizia sono diventate manifeste” (15,3 ss.). Nella lode al salvatore della storia è contenuta anche la lode al giudice. La storia è anche giudizio (cfr. 14,7; 16,7; 19,2). Per mezzo dell'opera di giustizia di Gesù Cristo essa manifesta, contro la propria volontà, ciò che è giusto.
La fedeltà, la vigilanza, la pazienza, la speranza e la lode sono nel nostro libro oggetto di richiesta senza che venga detto qualcosa sul loro significato nello svolgersi quotidiano della storia. E' certo però che con esse non solo è superata in libertà questa storia, ma vengono anche preparati spazi storici di ordine e refrigerio e periodi di sollievo e di salvezza. Ma non è compito del nostro profeta dire questo. Egli vede lo svolgersi decisivo della storia dissigillata da Gesù Cristo. E' svolgimento tale per cui essa ha termine dove comincia Dio e Dio comincia dove essa ha termine.


Per altri articoli e studi sul libro dell'Apocalisse presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici


[Approfondimenti]