Riprendiamo per il progetto Portaparola il testo di una relazione dell’allora cardinal Ratzinger,
pubblicato da Avvenire di domenica 28 dicembre 2008, con il titolo L’ecumenismo dell’economia.
Il quotidiano cattolico ha premesso all’articolo questa introduzione:
«Proponiamo, in accordo con la Libreria Editrice Vaticana, il testo integrale della conferenza
Chiesa ed economia.Responsabilità per il futuro dell’economia mondiale, tenuta dall’allora
cardinale Joseph Ratzinger ad un convegno dell’Università Urbaniana svoltosi il 23 novembre 1985,
pubblicato su Communio Usa nel 1986 e ora in uscita nell’edizione italiana di Communio nel
mese di gennaio 2009 (la traduzione dal tedesco è a cura della redazione de Il Regno).
All’intervento di Ratzinger ha fatto riferimento il ministro dell’Economia Giulio Tremonti in
occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università Cattolica nel novembre
scorso a Milano. Anche nel suo messaggio per la Giornata mondiale della Pace del prossimo 1° gennaio,
Benedetto XVI è tornato su temi economici e in particolare sulle difficoltà di una finanza giusta
ed etica su scala planetaria».
I neretti sono nostri ed hanno l’unica finalità di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (31/12/2008)
La disparità economica tra Nord e Sud dell’emisfero terrestre costituisce una minaccia sempre
più grave per la conservazione stessa della famiglia umana; alla lunga potrebbe derivarne una minaccia
alla continuità della nostra storia non inferiore a quella che deriva dagli arsenali militari con cui
l’Est e l’Ovest si contrappongono.
Pertanto, al fine di superare una simile disparità occorre adoperarsi con nuove iniziative, giacché
tutti i metodi finora seguiti si sono dimostrati insufficienti; anzi negli ultimi trent’anni la
miseria nel mondo è aumentata in misura sconcertante. Per trovare soluzioni veramente progressiste
occorrono nuove idee economiche, le quali tuttavia senza nuovi impulsi morali sono impossibili e soprattutto
appaiono essere inattuabili. Su questo punto è possibile e necessario un dialogo tra la Chiesa e
l’economia.
Permettetemi di cercare di chiarire ulteriormente il punto esatto del problema sul quale nei prossimi giorni si
dovrà trattare. Perché, se si parte da una concezione classica dell’economia, a prima
vista non si riesce a vedere che cosa abbiano a che fare tra loro Chiesa ed economia, a meno che non si consideri
il fatto che anche la Chiesa è soggetto di imprese economiche ed è quindi un fattore del
mercato. Nel nostro caso però la Chiesa non deve entrare in questione per questa specificità in
quanto Chiesa. A questo punto ci si trova di fronte all’obiezione che proprio dopo il concilio Vaticano II
occorre avere un rispetto assoluto per l’autonomia delle competenze e quindi l’economia deve agire
secondo le sue regole specifiche e non secondo considerazioni morali introdotte dall’esterno.
In base alla tradizione risalente a Adam Smith, si sostiene che il mercato è incompatibile con
l’etica, giacché i comportamenti volontaristicamente «morali» sono contrari alle regole
del mercato e non farebbero altro che tagliar fuori dal mercato gli imprenditori «moraleggianti».
Per questo l’etica economica è stata considerata per molto tempo come un «ferro di
legno», perché nell’economia si deve guardare solo all’efficienza e non alla
moralità.
La logica interna del mercato ci dispenserebbe dalla necessità di dover fare affidamento sulla
moralità più o meno grande del singolo soggetto economico, in quanto il corretto gioco delle regole
del mercato garantirebbe al massimo il progresso e pure l’equità della distribuzione.
Il grande successo che questa teoria ha goduto ha fatto trascurare per lungo tempo i suoi limiti. In una
situazione mutata appaiono molto chiaramente i suoi presupposti filosofici e quindi anche i suoi problemi.
Per quanto questa concezione si fondi sulla libertà del singolo soggetto economico e pertanto possa essere
considerata in quanto tale liberistica, tuttavia nella sua essenza essa è deterministica.
Presuppone che il libero gioco delle forze di mercato, con questi uomini e in questo modo, spinga verso una sola
direzione, cioè verso l’equilibrio tra offerta e domanda, verso l’efficienza economica e il
progresso.
Ma in questo determinismo – nel quale l’uomo, nonostante la sua apparente libertà, in
realtà opera esclusivamente secondo le costringenti regole del mercato – è insito anche un
altro forse ancor più sconcertante presupposto: che le leggi naturali del mercato – se posso
così esprimermi – sono essenzialmente buone e conducono necessariamente al bene, senza dipendere
dalla moralità della singola persona. I due presupposti non sono completamente errati, come è
dimostrato dai successi dell’economia di mercato, ma neppure applicabili senza limiti, né
assolutamente giusti, come appare evidente dai problemi dell’economia mondiale attuale.
Senza entrare specificamente nel problema – cosa del resto che non mi compete – vorrei ricordare
solamente una frase di Peter Koslowski, perché indica il punto che ci interessa:
«L’economia non è retta solo dalle leggi economiche, ma è guidata dagli
uomini». Anche se l’economia di mercato si fonda sull’azione del singolo condotta secondo
un determinato gioco di regole, tuttavia essa non può considerare l’uomo superfluo o escludere dal
settore economico la sua libertà morale.
Oggi più che mai risulta chiaro come lo sviluppo dell’economia mondiale sia collegato pure con la
crescita della comunità mondiale, dell’intera famiglia umana e come il coinvolgimento delle forze
spirituali nell’economia sia fondamentale per la crescita della comunità mondiale. Anche le energie
spirituali sono un fattore economico: le regole del mercato funzionano solo se esiste un consenso morale di
fondo che le sostiene.
Se finora ho tentato di far riferimento al contrasto che viene a crearsi tra un modello economico
assolutamente liberale e una problematica morale, affrontando così un primo nucleo di questioni, che
certamente giocherà un ruolo in questo simposio, ora conviene che io faccia riferimento anche al contrasto
opposto.
Il problema riguardante il mercato e la morale oggi non è più un problema soltanto teorico.
Poiché le disparità che esistono all’interno di ciascuna grande area economica mettono in
pericolo il gioco del mercato, a partire dagli anni ’50 si è cercato di riequilibrare la bilancia
economica con progetti di sviluppo. Ma oggi dobbiamo riconoscere che il tentativo, nella forma finora seguita,
è fallito e che le differenze sono addirittura ulteriormente cresciute. La conseguenza è che
vasti settori nel terzo mondo, i quali all’inizio avevano guardato con grandi speranze agli aiuti per lo
sviluppo, ora considerano l’economia un sistema di sfruttamento, un peccato e un’ingiustizia divenuti
strutturali.
In questa prospettiva l’economia centralizzata appare essere l’alternativa morale, alla quale ci
si rivolge con una fiducia quasi religiosa e la sua forma diviene addirittura contenuto della religione.
Infatti, mentre l’economia di mercato prende in considerazione le inevitabili conseguenze
dell’egoismo e le limita con la concorrenza tra gli egoismi, in questa sembra dominare il pensiero di una
giusta guida allo scopo di offrire gli stessi diritti per tutti e l’equa distribuzione dei beni fra
tutti.
Certamente le esperienze finora fatte non sono molto incoraggianti, tuttavia non basta per contrastare la
speranza che ciò nonostante si possa realizzare l’idea morale.
Si pensa che, se si tentasse di fondare l’intero sistema su una base morale più solida, in una
società non determinata dal massimo guadagno, ma dall’autoregolamentazione e dal servizio reciproco,
si dovrebbe riuscire a conciliare la morale con l’efficienza. In tal modo la disputa sull’economia e
sull’etica in quest’area diviene sempre più una disputa contro l’economia di mercato
e contro i suoi principi spirituali, a favore dell’economia centralizzata, alla quale si pensa di poter
ora dare pienamente il giusto fondamento morale.
Si potrà cogliere la problematica ivi implicata in tutta la sua complessità, se a questo punto si
prende in considerazione pure il terzo ambito delle questioni economiche e teoriche, che determinano il panorama
della situazione odierna: il mondo marxista. Per le sue teorie economiche e «per la sua struttura pratica,
il sistema marxista con l’economia centralizzata costituisce l’opposto assoluto all’economia
di mercato». La salvezza qui è vista nel fatto che non esista alcuna possibilità di uso
privato dei mezzi di produzione; che la domanda e l’offerta non trovino il loro equilibrio attraverso la
concorrenza sul mercato; e che in essa non ci sia spazio per la corsa al guadagno privato, ma tutte le
regolamentazioni vengano da un’autorità economica centrale. Tuttavia, nonostante questo contrasto
fondamentale sui meccanismi economici concreti, esistono dei punti in comune nei principi filosofici di
base.
Il primo sta nel fatto che anche il marxismo è un determinismo e che esso promette la totale
liberazione come frutto del determinismo.
Pertanto, considerando i suoi fondamenti, è un errore pensare che il sistema centralizzato sia un sistema
morale contrapposto al sistema meccanicistico dell’economia di mercato. Ciò risulta chiaro se si
considera ad esempio che Lenin aderiva alla tesi di Sombart, secondo cui nel marxismo non ci sarebbe
assolutamente alcuna etica, ma solo norme economiche.
Indubbiamente qui il determinismo è molto più radicale e profondo che nel liberalismo: questo
almeno riconosce la sfera soggettiva e in essa si vede anche l’ambito dell’etica; quello invece
riduce il divenire della storia unicamente all’economia e stabilire il limite della sfera soggettiva
del singolo appare come un’opposizione alle regole della storia, le uniche ad aver valore, e quindi
un’intollerabile reazione al progresso. L’etica è ridotta alla filosofia della storia e la
filosofia è sottoposta alla strategia del partito.
Ma torniamo nuovamente ai punti in comune che esistono nei fondamenti filosofici tra il marxismo e il capitalismo
nel senso stretto. Il secondo punto in comune sta – come implicitamente è già stato detto
– nel fatto che il determinismo significa una negazione dell’etica come entità autonoma e
capace di influire sull’economia. Nel marxismo ciò appare in modo particolarmente drammatico, in
quanto la religione, ricondotta all’economia, è considerata riflesso di un determinato sistema
economico, e quindi impedimento alla vera conoscenza, al retto agire e al progresso verso il quale tendono le
leggi naturali della storia.
Anche qui si è convinti che la storia – la quale si svolge nella dialettica tra il positivo e
il negativo – per sua natura intrinseca (non meglio dimostrata) alla fine termina nella
positività totale.
È chiaro che in una simile concezione la Chiesa non può dare alcun apporto positivo
all’economia mondiale; dal punto di vista economico il suo ruolo risulta essere una cosa da superare
assolutamente. Che poi essa possa venir utilizzata occasionalmente come mezzo per la sua stessa
distruzione e quindi come strumento delle «forze positive della storia», è una
considerazione che si è presentata solamente negli ultimi tempi; ma evidentemente la tesi di fondo non
muta.
Per il resto, l’intero sistema si sostiene praticamente per l’apoteosi dell’amministrazione
centralizzata, in cui, se la tesi fosse vera, dovrebbe operare nientemeno che lo spirito del mondo
(Weltgeist). Che si tratti di un mito nel senso peggiore della parola, è una semplice constatazione
empirica, che si verifica continuamente. Pertanto, il rifiuto radicale di un concreto dialogo tra la Chiesa e
l’economia che sostiene un tale pensiero, conferma la necessità di tale dialogo.
Nel mio tentativo di descrivere i vari punti del dialogo tra Chiesa ed economia, sono arrivato a considerare
anche un quarto aspetto.
Riguarda la famosa frase pronunciata da Theodore Roosevelt nel 1912: «Io sono convinto che
l’assimilazione dei Paesi latinoamericani agli Stati Uniti sarà lunga e difficile, finché
quei Paesi saranno cattolici».
Sempre sulla stessa linea, nel 1969 Rockfeller in una conferenza tenuta a Roma ha invitato a sostituire quei
cattolici con altri cristiani, proposito che – come noto – è in piena realizzazione.
Nelle due frasi la religione – in quest’ultimo caso una confessione cristiana – viene
assunta come un fattore politico-sociale e quindi pure politico-economico, che diviene fondamentale per la forma
con cui si evolvono le strutture politiche e le possibilità economiche. Viene qui in mente la tesi di
Max Weber sul profondo legame tra capitalismo e calvinismo, tra l’ordinamento economico e la concezione
religiosa che lo determina. In tal modo sembra quasi rovesciata la tesi di Marx: non è
l’economia che determina le idee religiose, ma piuttosto le concezioni religiose fondamentali sono decisive
per quale sistema economico si potrà instaurare.
La convinzione, secondo cui solo il protestantesimo può sviluppare una libera economia, mentre il
cattolicesimo non conterrebbe la necessaria formazione per la libertà e l’autodisciplina che le sta
alla base, ma sarebbe favorevole piuttosto per sistemi autoritari, è ampiamente diffusa ancor oggi; e
molti esempi della storia più recente sembrano sostenerla. D’altra parte, oggi noi non possiamo
più assumere acriticamente il sistema liberal-capitalistico, neppure con tutte le correzioni che nel
frattempo gli sono state apportate, quasi esso fosse la salvezza del mondo, così come era stato ancora
nell’era di Kennedy con l’ottimismo dei Peace Korps. Le obiezioni a un tale sistema provenienti dal
Terzo mondo, per quanto possano essere unilaterali, non sono infondate.
A questo punto occorrerebbe quindi innanzitutto un’autocritica delle confessioni cristiane sulla loro
etica politica ed economica; questa però non può avvenire solo con un dialogo intraecclesiale,
ma sarà utile solo se avviene come confronto con quanti sono cristiani e responsabili in campo
economico.
Per una lunga tradizione, spesso costoro si sentono cristiani solamente per ciò che riguarda la loro
sfera privata, mentre come economisti seguono le leggi dell’economia.
Per la divisione avvenuta nell’era moderna tra il mondo soggettivo e quello oggettivo, sembra che le due
sfere non possano toccarsi. Eppure bisognerebbe proprio arrivare a farle toccare, a far sì che tutte
due si incontrino senza mescolanza e senza divisione.
Nella storia economica appare sempre più evidente come la formazione dei sistemi economici e il loro
legame con il bene comune derivi da uno specifico atteggiamento etico, il quale a sua volta può
emergere e conservarsi solo per mezzo di forti convinzioni religiose.
Ugualmente evidente appare come la caduta di un simile atteggiamento significhi il tracollo anche delle leggi del
mercato. Una politica economica che non miri solo al benessere del gruppo o al bene comune di un singolo Stato,
ma al benessere dell’intera famiglia umana richiede un alto grado di disciplina etica e quindi un alto
grado di forza religiosa.
Giungere alla formazione di una volontà politica, pertanto unicamente dalle leggi proprie
dell’economia, oggi appare praticamente impossibile, nonostante si abbiano molte preoccupazioni
umanitarie; ciò potrà instaurarsi invece solamente se vi vengono impiegate energie morali
completamente nuove.
Una morale che ritiene di poter fare a meno di conoscere le leggi economiche non è morale, ma
moralismo, cioè l’opposto della morale. Una conoscenza della realtà che ritiene di agire
senza l’etica, misconosce la realtà dell’uomo, ed è quindi irreale.
Oggi abbiamo bisogno di un alto grado di concretezza in campo economico, ma anche di un alto grado di
etica, affinché la scienza economica si metta al servizio dei veri obiettivi e le sue conoscenze
divengano politicamente applicabili e socialmente sostenibili.