Riprendiamo da L’Osservatore Romano del 28 marzo 2008 un testo del biblista Romano Penna, che il
quotidiano ha introdotto con le seguenti parole: «"San Paolo: Apocalisse e Rivelazione" è il tema
del convegno internazionale di studi che si tiene a Roma il 27 e il 28 marzo promosso dalla Accademia di Francia
e dal Centro culturale San Luigi dei Francesi con il sostegno dell'Ambasciata di Francia presso la Santa Sede.
Pubblichiamo alcuni stralci di una delle relazioni».
Il testo aiuta a puntualizzare il rapporto fra cristologia ed escatologia, nella prospettiva paolina. Restiamo
a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli
aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il centro culturale Gli scritti 4/4/2009
Nella Lettera ai Romani Paolo impiega quattro volte lo specifico lessico di rivelazione, e lo fa di volta
in volta con tutti e tre i verbi tipici di questo campo semantico: apokalýpto/"disvelo" (impiegato
due volte), faneròo/"manifesto", en-deìknymi/"mostro".
In 1,17 si legge che nell'evangelo "si rivela", apokalýptetai, la giustizia di Dio.
Successivamente, in 3,21, Paolo scrive che questa stessa giustizia di Dio "si è manifestata",
pefanèrotai, nel sangue di Cristo (cfr. 3,25). Più avanti in 8,18 leggiamo che nel futuro
escatologico si rivelerà (apokalyfthènai) la gloria dei figli di Dio (cfr. 8,23) assieme al
rinnovamento del cosmo. Infine in 9,17, utilizzando un riporto da Esodo 9,16 LXX, è scritto che Dio aveva
suscitato il Faraone con lo scopo di "mostrare" (endeìxomai) in lui la propria potenza
perché venisse annunciato il suo nome in tutta la terra.
Come si vede, la cadenza cronologica considerata sul piano grammaticale consiste nell'uso, innanzitutto,
di un verbo al presente, poi di un verbo al perfetto, di un infinito aoristo passivo, e infine di un congiuntivo
aoristo attivo, sicché nel primo caso si richiama un fatto continuamente posto in essere, nel secondo si
rimanda a un evento del passato che perdura tuttora nei suoi effetti, nel terzo si allude a un avvenimento
futuro, e nel quarto si formula una intenzionalità di principio posta all'origine di un progetto
divino.
È ben chiaro che questa successione e variazione lessicale tocca quattro momenti storico-salvifici
diversi. In effetti, Paolo parte dal presente dell'annuncio evangelico, passa per l'evento della morte di Cristo,
prospetta una consumazione finale, e infine risale indietro fino alla elezione di Israele connessa con l'esodo.
Secondo la logica temporale, però, bisognerebbe risistemare e in buona parte addirittura invertire la
successione dei momenti, e partire dalle antiche circostanze dell'esodo per arrivare alla morte di Cristo
("nel kairòs presente": 3,26) e sfociare infine nell'attuale impegno evangelizzatore proprio
della Chiesa, per culminare poi nell'orizzonte escatologico. Tuttavia, l'impostazione argomentativa di Paolo
è assai originale e sintomatica, poiché non è di tipo trattatistico-didascalico ma
storico-esistenziale. E qui vogliamo onorarla per se stessa, esaminandone le componenti strutturali.
Paolo in Romani 1,17 formula quella che in retorica è qualificabile come propositio, cioè
enunciazione tematica, dell'intera lettera. Egli parte dal fatto che c'è una prima rivelazione divina, a
cui l'uomo è subito confrontato. Essa non appartiene a un passato che sfugge alla nostra percezione
immediata e soprattutto non a un passato consegnato solo alla memoria, o peggio ancora a una mera sedimentazione
scritta. Al contrario, a lui interessa partire da una esperienza sempre possibile e verificabile, basata sul
continuo annuncio dell'euagghèlion.
È in esso che appunto "si rivela", apokalýptetai, un particolare tipo di giustizia di Dio,
che nel contesto va intesa come sinonimo di misericordia. L'annuncio di Cristo, perciò, rappresenta una
vera, anzi la vera "apocalisse" di Dio. La scelta del verbo lascia intendere che Paolo non pensa a una
rivelazione qualunque; ogni volta che vi ricorre nelle sue lettere è per affermare qualcosa di
escatologico o comunque di origine divina, quindi di assolutamente incisivo.
L'idea di rivelazione viene ripresa in 3,21. Paolo ne precisa maggiormente i contorni, cominciando col dire che
della giustizia salvifica di Dio non bisogna attendere una rivelazione futura, poiché la sua
manifestazione è già avvenuta: "si è manifestata" (pefanèrôtai). Per
la verità, il tempo verbale impiegato da Paolo ha una semantica complessa; in greco, infatti, esso ha due
connotazioni: una che riguarda il passato, con rimando a un evento già verificatosi, e un'altra che
concerne il presente, in quanto l'evento già compiutosi precedentemente viene ricordato nelle sue ricadute
attuali tuttora vive - in questo caso: la giustizia di Dio "è manifesta".
La traduzione nelle nostre lingue comporta inevitabilmente di sacrificare una delle due componenti. Se qui
scegliamo di tradurre con il passato è per due ragioni ben precise. La prima è che nel successivo
verso 25, venendo concretamente al dunque, Paolo collocherà esplicitamente questa manifestazione in un
atto di Dio compiuto nel passato (proètheto, "ha presentato"). La seconda è che il presente
era già stato inequivocabilmente impiegato in 1,17 - sia pur con l'utilizzo di un altro verbo:
apokalýptetai - per connotare una rivelazione attuale della stessa giustizia di Dio, in quanto essa
avviene oggi nell'annuncio evangelico.
Proprio questo confronto con 1,17 arricchisce enormemente il tema paolino della giustizia di Dio. Essa infatti
conosce due momenti distinti e insieme complementari della sua dimostrazione: uno nell'effusione storica del
sangue di Cristo, l'altro quando quell'evento si fa semplice parola nell'annuncio.
Questa manifestazione, secondo Paolo, avviene storicamente nel sangue di Cristo, proposto da Dio come
hilastèrion, cioè come strumento o luogo di espiazione per i peccati degli uomini, e quindi
come luogo di redenzione. Proprio i concetti di redenzione (in 3,24) e di espiazione (in 3,25), pur di diversa
provenienza semantica, costituiscono la materia della manifestazione-rivelazione della iustitia salutifera
di Dio, la quale ormai non è più reperibile nella Leggeetantomenonellasuaosservanza.
Passiamo ora a Romani 8,18 dove si legge: "Penso infatti che le sofferenze del tempo presente non hanno peso in
confronto con la gloria futura che sarà rivelata per noi (pròs tèn mèllousan
dòxan apokalyfthènai eis hèmas)". Questa dichiarazione è suggerita e richiesta
dalla conclusione del precedente verso 17, concernente l'idea di una eredità futura che andrà
ben oltre l'attuale situazione storica.
Avviene così ciò che si era già verificato con la propositio generale di 1,16-17 sul
concetto di evangelo, che si agganciava all'idea di evangelizzazione enunciata nella conclusione del precedente
1,15 (cfr. commento). Ma ora l'apertura della frase con "Penso infatti" (logìzomai gàr)
è più solenne (cfr. l'assioma enunciato in 3,28: logizòmetha gàr), cioè
corrisponde alla formulazione di un principio assiomatico, che esprime una convinzione forte e importante (cfr.
anche 2 Corinzi 11,5). L'assioma è incentrato sulla contrapposizione tra le sofferenze attuali e la gloria
futura. Viene perciò stabilito un paragone tra due esperienze contrastanti, che caratterizzano
rispettivamente due diversi momenti successivi, per negarne ogni equivalenza. Ed è ben possibile che
dietro la frase di Paolo ci sia una obiezione, la quale, facendo prevalere l'attuale esperienza di sofferenza dei
cristiani, metta in discussione la possibilità stessa di una gloria futura.
La formulazione circa i due stadi temporali successivi e contrapposti evoca la dottrina dei due eoni, propria
dell'apocalittica giudaica (cfr. anche 1 Corinzi, 7, 31). Per Paolo, dunque, da una parte c'è "il
momento presente", che sta a indicare non soltanto il periodo compreso tra la prima e la seconda venuta di
Cristo quanto anche in senso più generale l'attuale esperienza storica dell'uomo e del cristiano nel mondo
presente in quanto contrasta con quello futuro.
Dall'altra, poi, c'è "la gloria futura", che rimanda oltre l'attuale periodo di sofferenze a un
orizzonte di splendore, e che giustifica l'attuale esperienza di afflizione. Lo stesso schema si ritrova in 2
Corinzi 4,17-19: "Il temporaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata
ed eterna di gloria, poiché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili; le
cose visibili infatti sono momentanee, quelle invisibili invece sono eterne".
Ovviamente, ai due momenti si accompagnano due situazioni contrarie: rispettivamente, le sofferenze e la
gloria. Il primo termine, pathèmata, è tipico del lessico paolino, visto che nel Nuovo
Testamento è attestato preferibilmente nel suo epistolario (nove volte su sedici), e indica sia le
sofferenze apostoliche sia quelle comuni a tutti. Il secondo, dòxa, che nel Nuovo Testamento
è preferibilmente impiegato per designare la gloria propria di Dio, assume qui una interessante
connotazione antropologica come sinonimo di splendore, dignità, onore, piena riuscita di sé in
quanto acquisizione umana. Il fatto che Paolo non parli solo di felicità o di beatitudine (cfr. 4,6) dice
che la sua prospettiva riguarda l'uomo tutto intero, compresa la sua trasformazione fisica. Perciò il
verbo "rivelare" viene a significare una affermazione o manifestazione in pienezza di questa dimensione, che il
passivo suggerisce prodotta da Dio.
Abbiamo infine la presenza del concetto di rivelazione/manifestazione in Romani 9,14-23 con la presenza del verbo
en-deìknymi nel verso 17. Bisogna riconoscere che abbiamo qui delle affermazioni piuttosto dure per
quanto riguarda la libertà umana, come si vede nei versi 15-18 e poi nella metafora di Dio come vasaio con
la corrispondente distinzione tra "vasi d'ira" e "vasi di misericordia".
Il tema della libertà umana viene sostanzialmente taciuto; ma non bisogna perdere di vista la spiegazione
di questo silenzio, derivante dall'insieme dell'argomentazione paolina e consistente nel fatto che l'Apostolo
intende piuttosto rispondere al problema concernente la libertà di Dio e delle sue scelte, per dire che
egli nel suo agire è del tutto indipendente e non condizionato.
È dunque quanto mai evidente la forte sottolineatura di un radicale "teo-archismo" nei rapporti Dio-uomo;
ma, in ogni caso e ancora una volta, ci si riferisce a Dio in quanto indulgente e non in quanto punitore.
Il verso 17 offre una nuova risposta al problema della libera elezione di Dio, mediante il riporto di un altro
passo biblico: "Dice infatti la Scrittura al Faraone: "Proprio per questo ti ho suscitato, perché (Io)
possa mostrare in te la mia potenza (hòpos endeìxomai en soì tèn
dýnamìn mou) e perché il mio nome possa essere divulgato su tutta la terra"".
Nonostante alcune variazioni, il testo biblico corrisponde sostanzialmente a quello greco di Esodo 9,16 LXX.
Il senso proprio è che il Faraone, nonostante la sua opposizione a Israele e al piano divino di
sottrarlo alla schiavitù, funziona comunque nelle mani di Dio come uno strumento positivo che serve ai
suoi disegni. Infatti, nella misura in cui la sua ostinata resistenza venne finalmente vinta (cfr. il
racconto in Esodo 5-14, che comprende anche le dieci piaghe scatenate sull'Egitto), il nome di Dio risultò
ancora più glorioso (vedi il canto di Mosè in Esodo 15,1-21).
Lo scontro infatti è direttamente tra Dio e il Faraone, tanto che il nome di Mosè viene addirittura
taciuto; il complemento "in te" evidenzia bene il ruolo svolto dal Faraone in persona. Qualcosa di analogo
avverrà per un altro devastatore di Israele, Nabucodonosor, che Geremia qualificherà addirittura
come "servo" di Dio in senso positivo, cioè in quanto servì comunque per portare a termine i suoi
disegni. Si delinea così un abbozzo di teologia della storia, secondo cui in ultima analisi
è Dio che guida gli avvenimenti umani; e ancora una volta egli viene preposto a ogni decisione presa
dall'uomo, persino a quelle apparentemente negative.
Infatti il congiuntivo aoristo endeìxòmai esprime un proposito personale di Dio (infatti
è Lui che parla) consistente appunto nell'intento di "mostrare", quasi di far toccare con mano, comunque
ancora una volta di manifestare/rivelare apertamente, la sua irresistibile conduzione degli avvenimenti.
In questo caso è evidente che il riferimento viene fatto al passato dell'esodo di Israele dall'Egitto,
quando appunto Dio rivelò la sua grandezza. I cristiani vengono così ricondotti al mistero di
Israele come popolo dell'alleanza, sul quale i Gentili vengono innestati per grazia.
In conclusione possiamo almeno rilevare il fatto che Paolo non utilizza il lessico di rivelazione per
applicarlo al futuro. La frase "La notte è avanzata, il giorno si è avvicinato", anche se
riprende la metafora del risvegliarsi dal sonno di fatto non impiega alcun linguaggio "apocalittico". Il
parallelo più eloquente lo leggiamo nello stesso Paolo: "Voi, fratelli, non siete al buio, cosicché
il giorno vi sorprenda come un ladro; tutti voi infatti siete figli della luce e figli del giorno. Non siamo
della notte né del buio. Perciò non dormiamo come gli altri, ma stiamo svegli e sobri. Quelli che
dormono infatti dormono di notte e quelli che si ubriacano si ubriacano di notte. Ma noi, essendo del giorno,
restiamo sobri" (1 Tes 5,4-7).
Là però manca il dinamismo del passaggio dalla notte al giorno, che invece caratterizza il nostro
testo. Evidentemente qui la prospettiva è diversa: Paolo sottolinea, non un passaggio già avvenuto,
ma un passaggio ancora a venire. La notte, inserendosi sulla precedente immagine del sonno, diventa figura del
presente tempo storico, non solo in quanto transeunte, ma soprattutto in quanto imperfetto e insidioso:
non in se stesso, ma in quanto orientato a un ulteriore superamento di ogni imperfezione (cfr. 1 Cor 13,12).
È di questo decorso temporale che si attende la fine, peraltro con la certezza che esso è
già in fase quanto mai avanzata. L'affermazione perciò ha il tono rassicurante di una buona
notizia. Proprio la dinamica della successione dei due momenti, dove la certezza di una prossima uscita dalla
notte equivale a quella di una prossima irruzione del giorno, occasiona l'esortazione a trarne le conseguenze sul
piano etico.
Resta il fatto che Paolo predilige sostanzialmente il tempo storico, sia del passato sia del presente, come
luogo privilegiato per l'affermarsi della rivelazione di Dio e della manifestazione di ciò in cui
consiste l'identità cristiana.
(© L'Osservatore Romano - 28 marzo 2009)