Riprendiamo sul nostro sito, dall’Osservatore Romano del 2 aprile 2009, l’articolo scritto dal Direttore dei Musei Vaticani Antonio Paolucci, con il titolo Su incarico di Pio VII, fu Antonio Canova a riportare a Roma il patrimonio artistico trafugato da Napoleone. E l'identità italiana ripartì dal museo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il centro culturale Gli scritti 4/4/2009
Nel cuore dei Musei Vaticani, lungo una galleria di sculture dedicata al nome di Pio VII Chiaramonti, in
quindici lunette ad affresco commissionate nel 1816 da Antonio Canova a vari pittori fra i quali il giovane
Francesco Hayez, sfilano i fatti salienti della vita di quel grande Pontefice che la storia obbligò a
fronteggiare Napoleone e che conobbe l'esilio.
In significativa compresenza possiamo vedere l'uno accanto all'altro gli episodi che meglio rappresentano la
politica culturale di Papa Chiaramonti: Pio VII che promulga le leggi di tutela, il ritorno delle opere
recuperate a Parigi, gli scavi archeologici agli archi trionfali di Costantino e di Settimio Severo.
Nella lunetta con il Ritorno delle opere d'arte Hayez raffigurò il Tevere che, adagiato secondo la
iconografia classica della divinità fluviale, alza la testa stupito allo spettacolo che gli indicano
due angioletti felici: un lungo convoglio di carriaggi carichi di casse sta attraversando la campagna romana.
Quelle casse contenevano le 249 opere d'arte (il Laocoonte, l'Apollo del Belvedere, la Trasfigurazione di
Raffaello fra le altre) che, prelevate dai francesi quasi venti anni prima, e ora restituite al possessore
legittimo, partirono da Parigi il 25 ottobre del 1815.
Le cose di interesse archeologico e storico artistico requisite dalle truppe di occupazione napoleoniche erano
molte di più: 506 ne registrarono gli inventari. Di queste, 248 rimasero in Francia e 9 furono
dichiarate disperse. Comunque, alla primavera del 1816, quando Hayez dipingeva la sua lunetta, i tesori
più prestigiosi delle collezioni apostoliche erano tornati a casa. L'operazione di recupero che il 10
agosto 1815 il cardinale Ercole Consalvi d'intesa con Pio VII aveva affidato ad Antonio Canova, si era conclusa
con un sostanziale successo.
La premessa era necessaria per spiegare la bella mostra che, nel quadro delle celebrazioni canoviane organizzate
intorno alla grande monografica allestita nel San Domenico di Forlì, Cesena ha voluto dedicare al suo
Papa, il concittadino Pio VII Chiaramonti e, insieme, ad Antonio Canova; l'artista che per il Pontefice romagnolo
è stato direttore generale dei Musei, principe degli artisti, ministro della Cultura oltre che amico e
confidente.
La mostra cesenate, curata dallo specialista di storia della legislazione tutelare Roberto Balzani,
è ospitata nella Pinacoteca Malatestiana e si intitola "L'arte contesa. Nell'età di Napoleone,
Pio VII e Canova". Titolo più efficacemente esplicativo non si poteva trovare, anche perché il
catalogo della Silvana Editoriale riproduce in copertina una rara stampa "reazionaria" del riminese Giuseppe
Rosaspina tirata ad acquaforte dopo il 1800. Vi si vede una Italia derelitta e barcollante che viene spogliata
del suo manto dalla Francia in figura di donna nuda, lasciva e rapace. Dormono a sinistra i soldati che
dovrebbero difendere la patria, mentre uno stuolo di galli entra dalla porta che un compiacente italiano tiene
ostentatamente aperta. Il principe dei galli, a capo della torma di famelici invasori, si è già
appollaiato su un cumulo di mitrie, di pastorali e di vasi sacri stringendo nel becco le chiavi di san
Pietro.
La stampa del Rosaspina riflette il pensiero politico della parte legittimista e antinapoleonica, ma è
difficile negare che le cose andarono più o meno così. Durante l'occupazione, il direttore
generale dei Musei francesi Dominique Vivant Denon coadiuvato dai suoi efficientissimi commissari, condusse una
sistematica scientifica opera di spoliazione del patrimonio culturale italiano. A Roma come a Venezia - i
Cavalli di San Marco - come a Firenze - la Venere detta dei Medici, i Raffaello degli Uffizi e di Palazzo Pitti -
come a Parma - i Correggio e i Parmigianino più belli - come nelle altre capitali della penisola, i
capolavori assoluti, le opere meglio significative delle scuole pittoriche più apprezzate, vennero
trasferiti a Parigi per essere collocati nel museo monstre che doveva celebrare la gloria
dell'Imperatore e il primato culturale della Francia, nazione egemone d'Europa.
L'immensa rapina non risparmiò nessuno dei Paesi sconfitti e assoggettati. Dai Paesi Bassi alla Prussia,
dall'Austria alla Spagna, tutti i popoli d'Europa furono costretti a pagare il loro tributo e poche furono le
voci di contrasto da parte degli intellettuali francesi. Con la rilevante eccezione di Quatremère de
Quincy che in Lettres à Miranda deplorò il dissennato saccheggio affermando il principio
della necessità per le opere d'arte di vivere nel loro contesto storico e culturale.
L'opera Lettres à Miranda (1796) uscì in forma semiclandestina e in pochi esemplari. Antonio
Canova che era amico dell'autore ne aveva una copia e con quella in mano dovette presentarsi a Pio VII quando,
caduto Napoleone e aperto il Congresso di Vienna, si trattò di negoziare le restituzioni.
Impresa tutt'altro che facile. Non era affatto scontato che la nuova Francia di Luigi XVIII avrebbe riconsegnato
le opere d'arte requisite da Dominique Vivant Denon. Non lo voleva il ministro degli Esteri Talleyrand il
quale, dopo aver servito la Francia con l'Antico Regime, con la Rivoluzione, con Napoleone e ora con la
Restaurazione, prodigava tutte le risorse del suo proverbiale talento per impedire la riconsegna. Non lo
voleva lo zar Alessandro di Russia desideroso di crearsi amici a Parigi.
Chi decise in favore delle restituzioni fu l'Inghilterra, il vero vincitore di Napoleone. Lo fece non solo
e non tanto per le pressioni della sua opinione pubblica ma soprattutto perché, in una visione strategica
di lungo periodo in funzione di contenimento antifrancese e antirusso, aveva interesse a guadagnarsi il favore
delle minori potenze europee, dai Paesi Bassi agli staterelli italiani.
Dura e concreta politica reale da una parte, ma anche - fa bene Roberto Balzani a ricordarcelo in catalogo - la
forza di un movimento intellettuale che incomincia a vedere nel risarcimento del patrimonio violato gli albori
del Risorgimento nazionale e politico.
"Risveglia i morti poiché dormono i vivi" scrive il Leopardi nell'Ode ad Angelo Mai e questo
succede nell'Italia e nell'Europa della Restaurazione. I "morti" - i capolavori del passato - servono a svegliare
i vivi, a renderli consapevoli e orgogliosi della loro identità patriottica. La rapina del patrimonio
compiuta da Napoleone, il senso di ingiusta privazione avvertito dai popoli d'Europa, contribuì in
misura notevole a far slittare la nozione di patrimonio dal tradizionale valore mercantile-antiquario o
erudito-letterario a quello politico-nazionale.
Del resto il governo della cultura esercitato da Pio VII andava in questo senso. Lo dimostrano le leggi di
tutela del 1802, nucleo germinale di quello che sarà nel 1820 l'editto del cardinale Bartolomeo Pacca;
fondamentale punto di partenza per la legislazione tutelare italiana, dalla Rava-Rosadi del 1909 alla Bottai del
1939.
Per Pio VII Chiaramonti il patrimonio culturale è possesso morale e spirituale di tutti e per
questo lo Stato ha il diritto-dovere di intervenire sui beni ovunque distribuiti e comunque posseduti. La moderna
civiltà giuridica della tutela incomincia da qui.
Antonio Canova a Parigi nell'estate del 1815, fece un buon lavoro. Era lo scultore più famoso e
più amato del mondo e anche se Talleyrand lo chiamava con fredda ironia e malcelato disprezzo monsieur
l'emballeur - il signor imballatore - godeva dell'amicizia e dell'ammirazione di Sir William Richard Hamilton
segretario della delegazione inglese. La competenza professionale di Canova e il prestigio unanime che gli
riconoscevano i sovrani d'Europa, dal principe Clemente di Metternich allo zar di Russia, giocarono un ruolo a
evidenza decisivo.
A Cesena, nella Biblioteca Malatestiana, abbiamo voluto rievocare quella stagione eroica e tumultuosa. Lo abbiamo
fatto raccogliendo documenti e testimonianze di quegli anni e soprattutto esponendo una eletta serie di dipinti
(Girolamo Genga, Guercino, Domenichino, Francesco Albani, Simone Cantarini e così via) che oggi si
conservano in pubbliche collezioni italiane, dai Musei Vaticani a Brera, ma che furono all'epoca requisiti da
Napoleone e riportati in patria dalla provvidenziale azione congiunta di Papa Chiaramonti e di Canova.
Per chi ama il gioco misterioso delle coincidenze, una nota singolare. Pio VII salì al soglio di Pietro il
14 marzo dell'anno 1800. Per ragioni imputabili a ritardi organizzativi, e quindi per pura casualità, la
mostra a lui dedicata è stata inaugurata nella sua città sabato 14 marzo, duecentonove anni
dopo.
(© L'Osservatore Romano - 2 aprile 2009)