Pubblichiamo un articolo scritto da Andrea Lonardo per la rubrica “Paolo a Roma” del sito www.romasette.it
Il Centro culturale Gli scritti (4/4/2009)
«Ho scoperto che si può essere condotti ad odiare una persona, a odiarla con tutte le forze del
nostro essere e, allo stesso tempo, a trovare nell’amore il sollievo rispetto a questo odio. Non si
può amare qualcuno che vi fa del male. Ma si può trovare, e io l’ho trovato in Cristo, un
punto di appoggio, come un trampolino. Mi dicevo: “Per Te, Signore, non dico che lo detesto”. Il
fatto di non aver sulla bocca queste parole di odio era un conforto. Talvolta vedevo arrivare un guerrigliero
crudele e spaventoso. Veniva a sedersi davanti a me ed io ero capace di sorridergli. L’amore è
necessario. Ho cominciato un cammino di perdono».
Così Ingrid Betancourt ha raccontato della sua prigionia, durata ben sei anni nella giungla dove
era stata condotta dopo il suo rapimento.
Paolo visse parte del suo periodo romano in una analoga situazione di carcere. Già la sua prima
abitazione era stata una custodia militaris, cioè qualcosa di simile agli arresti domiciliari o ad
una libertà vigilata. Quella condizione doveva poi essersi trasformata in una vera e propria
detenzione
La tradizione conserva nei sotterranei della Chiesa di S. Maria in via Lata (l’antico nome
dell’odierna via del Corso) una colonna alla quale Paolo sarebbe stato legato; su di essa venne poi posta
l’iscrizione Verbum Domini non est alligatum, «la Parola di Dio non è incatenata»
(2 Tim 2,9).
Più noto ancora è il Carcere Mamertino, il luogo di detenzione dei prigionieri che sfilavano al
seguito dei cortei degli imperatori vincitori. Mentre gli Augusti salivano al Tempio della Triade Capitolina,
ad offrire sacrifici agli dèi di Roma per la vittoria ottenuta, i prigionieri venivano lì
custoditi, in attesa della loro esecuzione capitale. Vi passarono certamente le loro ultime ore di vita Giugurta,
re della Numidia, Vercingetorige, capo dei Galli, Aristobulo II, che si era opposto a Pompeo quando questi
conquistò la Siria e Gerusalemme, Simone di Ghiora, uno dei leader che guidarono e persero la I guerra
giudaica contro Roma che si concluse con la distruzione del Tempio di Gerusalemme.
Probabilmente san Paolo trascorse in quel luogo la sua ultima detenzione, così come avvenne per Pietro. La
parte inferiore del carcere, detta Tullianum, conserva la memoria del battesimo che gli apostoli
avrebbero impartito ai loro carcerieri che erano stati convertiti al Signore dalla testimonianza di fede e di
amore dei loro due prigionieri.
Certo è che l’esperienza della prigionia fu per Paolo non solo dolorosa, ma anche feconda.
Egli ben comprese che nella propria carne proseguiva l’opera di Cristo, dalla cui croce era nata la
salvezza. Le catene non erano così semplicemente da affrontare o da fuggire, ma da trasformare in
occasione di grazia.
Innanzitutto dal carcere Paolo scrisse le cosiddette “lettere dalla prigionia”, certamente
Filippesi e Filemone che sono unanimemente riconosciute di mano paolina dagli esegeti. Ma anche Efesini e
Colossesi, oltre alla seconda a Timoteo, conservano memoria del carcere di Paolo. Non è certo se tutti
questi testi siano stati scritti nel corso della prigionia romana come afferma la tradizione o se si debba
ipotizzare una prigionia efesina non esplicitamente attestata dagli Atti.
Nelle catene, comunque, egli continuava a vivere la responsabilità per tutte le chiese che lo aveva sempre
animato e dalla detenzione confortava i suoi fratelli. Ma, ancor più, la sua testimonianza restava viva
in prigione e diveniva annuncio di fede, come l’apostolo stesso racconta:
«Desidero che sappiate, fratelli, che le mie vicende si sono volte piuttosto a vantaggio del vangelo, al
punto che in tutto il pretorio - e dovunque - si sa che sono in catene per Cristo; in tal modo la maggior
parte dei fratelli, incoraggiati nel Signore dalle mie catene, ardiscono annunziare la parola di Dio con maggior
zelo e senza timore alcuno» (Fil 1,12-14). Era solo per amore di Cristo che egli veniva recluso.
Già a Filippi Paolo era stato miracolosamente liberato dal carcere ed il carceriere si era
convertito ed era stato battezzato insieme a tutti i suoi (At 16). Dal sangue e dalle catene dei martiri, in
continuità con la croce di Cristo, continuava ad erompere l’acqua del battesimo e della
salvezza.
In un famosissimo passaggio della seconda Lettera ai Corinzi, l’apostolo parla di una “spina nella
carne” (2 Cor 12,7) che Dio non aveva voluto togliergli, nonostante le ripetute preghiere in merito. Il
grande esegeta gesuita Ugo Vanni, così commenta questo termine misterioso, rifiutando quelle
interpretazioni che vi avevano voluto leggere un peccato della sensualità: la spina nella carne è
la «situazione di conti che non tornano: Paolo si sentiva inviato da Dio a portare il Vangelo, era
guidato dallo Spirito anche nei suoi piani apostolici, faceva dei progetti apostolici e a un certo punto le
circostanze esterne e poi le circostanze sue personali - la sua salute - non gli permettevano di
realizzarli».
Nella stessa lettera Paolo enumera, in maniera impressionante, tutte le vessazioni che ha dovuto subire:
«Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una
volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle
onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai
pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi
fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E
oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese» (2 Cor
11,24-28).
Era questa la “spina nella carne” che Paolo doveva accogliere; il Cristo lo invitava a non
fuggire l’incomprensione, l’ostilità ed addirittura l’odio che incontrava, ma a trarne
motivo ed occasione di annuncio e di testimonianza. Paolo dichiara così, nella stessa lettera, la
fecondità del suo essere esposto alla morte in favore della vita di coloro che accoglievano la fede:
«Noi abbiamo questo tesoro in vasi di creta, perché appaia che questa potenza straordinaria viene da
Dio e non da noi. Siamo infatti tribolati da ogni parte, ma non schiacciati; siamo sconvolti, ma non disperati;
perseguitati, ma non abbandonati; colpiti, ma non uccisi, portando sempre e dovunque nel nostro corpo la morte di
Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo. Sempre infatti, noi che
siamo vivi, veniamo esposti alla morte a causa di Gesù, perché anche la vita di Gesù sia
manifesta nella nostra carne mortale. Di modo che in noi opera la morte, ma in voi la vita» (2 Cor
4,7-12).
Da quelle catene, dalla morte di Paolo e Pietro, è giunta a noi la fede.
N.B. Questo il testo integrale della Betancourt da cui è presa la citazione che compare all’inizio dell’articolo:
(N.d.R. Il testo è stato raccolto per il settimanale francese «La Vie» da Elisabeth
Marshall e pubblicato in italiano da Avvenire del 21 gennaio 2009, con il titolo Ingrid, la fede e il perdono.
Ingrid Betancourt, candidata alle presidenziali in Colombia, viene rapita nel 2002 tre mesi prima delle lezioni,
dalle Farc, sigla che designa le Forze Armate Rivoluzionarie. È stata liberata il 2 luglio 2008, dopo 6
anni di prigionia)
«Ho scoperto la fede in Dio durante la mia prigionia. Fino ad allora, la mia fede era basata sul
ritualismo: come molti cattolici, andavo a messa, pregavo, ma la mia conoscenza di Dio era molto limitata. Quando
mi sono ritrovata nella giungla, ho avuto molto tempo e per unica lettura la Bibbia. Ho avuto il piacere,
in sei anni, di leggerla, di meditarla. Se avessi avuto altre cose da fare, avrei fatto altro, perché
si è sempre pigri per riflettere sull’essenziale.
Forse era una prigionia necessaria. Essa mi ha permesso di capire chi è Dio, di stabilire una relazione
con lui, con molta ammirazione, molto amore ma – soprattutto – comprendendo chi è, attraverso
la sua parola. Per me non si tratta di parole vuote ma di una realtà: leggendo la Bibbia, ho compreso il
carattere di Dio; non è solo una luce, un’energia o soltanto una forza, ma è una Parola,
qualcuno che vuole comunicare con me. Non ho avuto illuminazioni, no! Ho semplicemente letto la Bibbia,
razionalmente. Sono stata colpita da tutti i brani che mi hanno connesso emozionalmente e interiormente con la
parola di Dio. Ho sentito la voce di Dio in un modo assai umano e molto concreto.
Leggevo e rileggevo alcuni passaggi dicendomi: «Questo è stato scritto per me!». Avevo sentito
a lungo senza capire e, di colpo, è stato come se mi fossi collegata alla presa di corrente giusta. In un
momento, la luce si accende e si capiscono tutte le cose che erano rimaste oscure. Ancora una volta, non si
tratta di un’esperienza mistica ma razionale, che ha profondamente trasformato la mia vita.
Come sono cambiata! Oggi il mio tempo non è il tempo di prima. Avevo sempre voglia che le cose andassero
in fretta. Oggi non mi preoccupo più: so che tutto capita al tempo giusto. La mia speranza dunque è
più forte. Il passaggio attraverso la prigionia non ha ucciso la mia volontà, anzi ha cambiato
la natura della mia speranza.
La sola risposta alla violenza è una risposta d’amore. Questa risposta d’amore, questo
atteggiamento non violento, per me, ha avuto origine dalla fede cristiana. Ho scoperto che si può
essere condotti ad odiare una persona, a odiarla con tutte le forze del nostro essere e, allo stesso tempo, a
trovare nell’amore il sollievo rispetto a questo odio. Non si può amare qualcuno che vi fa del male.
Ma si può trovare, e io l’ho trovato in Cristo, un punto di appoggio, come un trampolino.
Mi dicevo: «Per Te, Signore, non dico che lo detesto». Il fatto di non aver sulla bocca queste parole
di odio era un conforto. Talvolta vedevo arrivare un guerrigliero crudele e spaventoso. Veniva a sedersi
davanti a me ed io ero capace di sorridergli. L’amore è necessario. Ho cominciato un cammino di
perdono. Sono riuscita a perdonare, e non solo ai miei sequestratori. Ho perdonato anche quelli che erano
prigionieri con me, con i quali talvolta ci sono stati momenti molto difficili.
Ho perdonato quei miei amici che non si sono ricordati di noi, quelle persone sulle quali si fa affidamento e che
sono mancate; quelle persone che amavo e che hanno detto delle cose orribili, come, ad esempio, che la prigionia
me l’ero cercata. Oggi credo più profondamente che possiamo cambiare il mondo perché io
stessa sono stata trasformata. Ma, in questo mondo di dominio e di possesso, so come è nel cuore che
si generano i cambiamenti essenziali. La pace, che sogniamo, sarà possibile il giorno in cui ci
sarà un atteggiamento diverso nei cuori».