«Non bisogna confondere le qualità del cuore e dell’intelligenza. Spesso si ha un cuore duro
ed una intelligenza molliccia, mentre bisognerebbe avere un cuore morbido ed una intelligenza dura ed
acuta». Mi tornano alla mente queste parole udite da giovane studente che frequentava il bellissimo
corso sul corpus paolino del prof. Ugo Vanni, presso l’Università Gregoriana, nel pensare lo
straordinario intreccio di teologia e prassi presente nella Lettera ai Romani.
La lettera che, più di ogni altra, affascina per il suo impianto teorico, per la penetrante presentazione
del tema della grazia e del peccato, della salvezza donata in Cristo e della rivelazione del mistero divino,
contiene nella sua finale una serie di concretissime indicazioni sul cuore di Paolo e sui suoi
progetti.
Paolo, infatti, come se volesse presentare le sue credenziali ai romani preparando la sua futura venuta presso di
loro, non solo espone loro il suo vangelo e la sua fede, ma anche descrive i passi che lo attendono ed i
desideri che ha nel cuore.
Egli desidera recarsi in Spagna. Ben due volte il termine che indica la penisola iberica ricorre nei
versetti 15,24 e 15,28 della lettera. Paolo da tempo desidera incontrare i cristiani di Roma, ma ora questa
possibilità gli sarà concretamente offerta dal fatto che egli vi vuole passare per giungere appunto
fino in Spagna.
Paolo dichiara di aver portato a termine la predicazione del vangelo di Cristo da Gerusalemme fino
all’Illirico (cfr. Rom 15, 19) e di essersi fatto un punto di onore nel non aver annunciato il vangelo se
non dove non era ancora giunto il nome di Cristo. E cita il profeta Isaia, a fondamento della sua azione e dei
suoi spostamenti: «Lo vedranno coloro ai quali non era stato annunciato e coloro che non ne avevano udito
parlare comprenderanno» (Rom 15,21).
Ora è come se, in oriente, Paolo avesse terminato di compiere la missione che gli era stata affidata. Non
che tutto la parte orientale dell’impero romano fosse già divenuta cristiana, ma certo egli ne aveva
toccato le città più importanti attuandovi quella che il prof. Biguzzi ha chiamato la
“strategia della primizia”, quella cioè di piantare il primo seme, di annunciare il
vangelo a persone in grado di proseguire a loro volta l’annunzio, perché tutti, progressivamente,
potessero conoscere il Cristo. “Primizia” sono chiamati Epeneto (Rom 16,5) e la famiglia di Stefana
(1 Cor 16,15), ma lo stesso modo di procedere è facilmente riscontrabile negli Atti e nelle altre lettere,
si pensi solo ad Epafra ed al suo ruolo nei confronti di Colosse.
Paolo pensa allora all’occidente. Ad ovest di Roma nessuno si è ancora mai spinto per portare
il nome di Gesù ed egli comprende che questo è il passo da compiere e ne scrive ai romani. Da
loro si attende un aiuto – probabilmente dei viveri e del denaro, forse anche un compagno di viaggio ed
un traduttore – per potersi recare in quella regione (Rom 15,24).
E prosegue raccontando che, nell’immediato, sta per recarsi a Gerusalemme dove deve consegnare la
colletta raccolta dalle chiese sorte dal paganesimo a beneficio dei poveri della comunità di
Gerusalemme. Questo gesto di carità e condivisione è pensato in termini di “debito”:
avendo i pagani «partecipato ai beni spirituali [dei cristiani di origine ebraica], sono in debito di
rendere un servizio sacro nelle loro necessità materiali» (Rom 15,27. Le comunità di
Tessalonica, Corinto e delle altre città greche, hanno ricevuto dagli apostoli la ricchezza della fede,
ora debbono restituire un aiuto che è infinitamente minore, ma che è altrettanto importante, quello
materiale. La colletta si rese necessaria, probabilmente, a motivo della grande carestia che si era avuta al
tempo dell’imperatore Claudio e che ancora faceva sentire i suoi effetti a distanza di anni.
Paolo sa che, infine, giungendo a Roma, lo farà «con la pienezza della benedizione del
Signore» (Rom 15,29). La straordinaria espressione indica la consapevolezza dell’apostolo che
questi suoi progetti sono una chiamata di Dio stesso e che egli accompagna i suoi una volta che li ha scelti.
Passando da Roma per recarsi in Spagna, Paolo si fermerà nella capitale «per godere un
poco» (Rom 15,24) della presenza dei romani. Egli desidera incontrarli e quasi riposarsi, rinfrancarsi
con loro, condividere scambievolmente un po’ del tesoro di fede ricevuto, per poi riprendere il cammino
della predicazione.
Non è dato di sapere se Paolo sia mai giunto in Spagna. Gli studiosi sono divisi. Un recente convegno di
biblisti e patrologi tenutosi a Tarragona ha pensato di poter affermare che il viaggio di Paolo sia infine
divenuto realtà e che proprio la città portuale tarragonense sia stata la sua meta a motivo
degli itinerari di navigazione che la collegavano con Roma.
La conclusione, ovviamente, non è definitiva, poiché non ci sono dati certi in merito. Certo
è che la lettera ai Romani apre uno spiraglio sul cuore di Paolo, sul suo desiderio di annunciare il
vangelo e di giungere fino agli estremi confini della terra.
La Lettera ai Romani unisce così ortodossia ed ortoprassi, teologia e vita di carità. Paolo
è veramente teologo e pensatore, ma è, al contempo, uomo di bene e di azione. E nei suoi scritti,
traspare tutta la sua comprensione del mistero cristiano, ma insieme una concretezza impensabile in un filosofo
del suo tempo.
Un cuore di carne, insomma, ed una intelligenza acuta e penetrante.