«Il giorno della nascita del divinissimo Cesare (Augusto) lo equipariamo all’inizio di tutte le
cose, inizio della vita e dell’esistenza, che segna il limite e il termine del pentimento di essere
nati. Egli una volta apparso superò le speranze dei suoi predecessori e i buoni annunci di tutti
(nell’originale greco euangélia pántōn) e il giorno genetliaco del dio fu per il
mondo l’inizio dei buoni annunci a lui collegati (in greco tôn di’autòn
euaggelíōn)».
Una iscrizione rinvenuta nella Stoà sacra di Priene, città ellenistica nei pressi di Mileto,
edificata secondo il preciso schema urbanistico elaborato dal famoso architetto Ippodamo, mostra così come
l’imperatore Augusto volesse essere venerato con attributi divini: con la sua nascita, cessava il
“pentimento di essere nati”! Il testo utilizza per ben due volte il termine
vangelo: la nascita di Augusto è il vangelo che porta la gioia al
mondo.
Paolo giunge a Roma, capitale imperiale, in un periodo che vede crescere il culto del sovrano. Nerone, che
condannerà a morte l’Apostolo, riceve in un’iscrizione il titolo di “Signore di tutto il
mondo” e Domiziano, l’imperatore che l’Apocalisse prende di mira, sarà chiamato
addirittura “Dominus ac Deus noster”. Gli studiosi vedono in questa progressiva divinizzazione
dell’imperatore non solo la manifestazione di una volontà di potere, ma anche un segnale della
crescente sfiducia della popolazione negli dèi della tradizione, come ha affermato lo studioso E. R.
Dodds: «Quando crollano gli dèi di un tempo, i troni spogli reclamano qualcuno che li
occupi».
La Lettera ai Romani, però, conformemente a tutto il pensiero paolino e in perfetta coerenza con
l’insegnamento evangelico del dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio,
ammonisce: «Ciascuno stia sottomesso alle autorità costituite; poiché non
c’è autorità se non da Dio e quelle che esistono sono stabilite da Dio» (Rm
13,1-2).
Paolo, sulla scia di Gesù, manifesta l’allergia che il cristianesimo nutre verso l’utopia e
l’anarchia ed, invece, la sua difesa delle istituzioni. Esse, però, non vengono assolutamente
divinizzate con queste parole, ma, piuttosto, se ne afferma la necessità per il buon andamento della
res publica. Provengono “da Dio”, non perché l’imperatore debba essere ritenuto
come inviato personalmente da Dio o perché ogni sua azione sia da considerarsi come buona, ma piuttosto
perché è Dio stesso, per il bene degli uomini, ad insegnare l’importanza
dell’autorità nella vita civile.
L’autorità è legittimamente costituita perché «è al servizio di Dio per
il bene.... e per la giusta condanna di chi opera il male» (Rm 13,4). L’utopia di una
rigenerazione in terra dell’umanità che renda superfluo il ruolo delle istituzioni non trova
accoglienza presso la fede cristiana. Saranno i secoli successivi a mostrare che, anzi, dove si
cercherà di “render nuovo” il cuore dell’uomo per una via politica, nasceranno le
peggiori fra le dittature.
Lo schierarsi a favore delle istituzioni nasce, in Paolo, piuttosto dal suo realismo, da quella comprensione
carica di concretezza che la fede ha dell’uomo stesso, con le sue ombre e le sue luci.
Ma, per ciò stesso, la politica è spogliata delle sue pretese divine. Essa non deve mai
sostituirsi a Dio e deve piuttosto obbedire a principi morali dei quali è servitrice e non
creatrice. Come i cittadini «debbono fare il bene» (cfr. Rm 13,3), così anche ai
governanti è richiesto lo stesso. Le posizioni di Paolo si incontrano qui con la filosofia più
diffusa nel suo tempo, quello stoicismo che riconosceva l’esistenza di principi morali a cui tutti,
compresi i governati, erano tenuti a conformarsi.
Paolo insegna ai Romani che non deve essere la paura della punizione a guidare il cristiano nella sua consapevole
adesione al bene comune, quanto piuttosto le “ragioni della coscienza” (cfr. Rm 13,5). Ecco
comparire l’elemento della dignità personale che lo stato non può violare e che caratterizza
ulteriormente la visione cristiana della politica. La coscienza difende, da un lato, la persona da una politica
che si volesse divinizzare e sostituire all’uomo e, d’altro canto, impegna l’uomo alla
responsabilità nei confronti degli altri cittadini nel conseguimento del bene.
Il rifiuto, nel corso delle persecuzioni, di adorare gli dèi pagani e di adorare l’imperatore
manifesterà come questa lezione sarà penetrata nelle menti e nei cuori. I cristiani
continueranno a pregare per lo stato e per l’imperatore, testimonieranno di essere profondamente impegnati
per il bene della res publica, ma al contempo rifiuteranno ogni divinizzazione dello stato ed ogni
profanazione della dignità della coscienza.
In un altro testo paolino appare evidente come la via educativa, la via della maturazione del cuore, sia il
punto di forza a partire dal quale avverrà nei secoli il profondo rinnovamento delle istituzioni
stesse. Nella lettera a Filemone, Paolo invita l’amico a riaccogliere lo schiavo Onesimo «non
più come schiavo, ma molto più che schiavo, come un fratello carissimo in primo luogo a me, ma
quanto più a te, sia come uomo, sia come fratello nel Signore» (Fm 16): è la prima tappa del
cammino che porterà un giorno all’abolizione della schiavitù.