Mettiamo a disposizione sul nostro sito due testi complementari di S. Em. il cardinal Walter Kasper sulla
Gaudium et spes. Il primo è tratto dal sito dell’arcidiocesi di Chieti-Vasto, che lo ha
pubblicato il 23/05/2005, come trascrizione della relazione pronunciata dal teologo tedesco in occasione di una
serie di incontri diocesani celebrativi del quarantennale del Vaticano II.
Il secondo è tratto dalla rivista del Pontificio Consiglio per i laici, Laici oggi, 39 (1996),
pp. 44-54. Il numero era dedicato al tema Gaudium et spes. Bilancio di un trentennio e proponeva gli atti
dell’incontro mondiale tenutosi a Loreto dal 9 all’11/11/1995. In quest’ultimo testo, che
è evidentemente una traduzione dal tedesco, abbiamo apportato alcune correzioni di natura puramente
linguistica, per rendere più scorrevole l’italiano.
Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza on-line di questi testi sul nostro sito
non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
Il Centro culturale Gli scritti (31/1/2009)
Il Concilio Vaticano II ha prodotto sedici documenti in tutto, alcuni dei quali molto ampi: quattro costituzioni,
nove decreti e tre dichiarazioni. Tra questi spicca, come un “unicum”, la costituzione pastorale
sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, Gaudium et spes. Un unicum, non solo perché,
all’interno del Concilio, essa ha avuto una storia molto complicata, che ha reso necessarie otto stesure
prima di arrivare al testo definitivo. Si tratta di un “unicum” soprattutto perché
rappresenta un’assoluta novità nel corso dei duemila anni di storia dei Concili.
Nei Concili precedenti ci sono stati costituzioni, decreti, dichiarazioni ed i teologi ben sanno quale ordine e
peso attribuire loro. Ma una costituzione pastorale? Già la dicitura è nuova. Così nuova,
che il Concilio ha dovuto introdurre prima del testo una lunga nota, in cui si spiega cos’è una
costituzione pastorale e quale può essere il suo carattere vincolante.
La novità del titolo annuncia la novità del contenuto. Questa costituzione, infatti, non espone
soltanto principi generali di fede, ma si esprime anche in merito a questioni concrete del mondo contemporaneo,
esamina i “segni dei tempi”, parla della scienza e della cultura, del matrimonio e della famiglia,
dell’ordine sociale, del lavoro, dell’economia, della pace e della guerra, evocando persino quella
nucleare. Per la varietà dei temi affrontati, la costituzione pastorale è già stata
paragonata, in modo ironico, ad un’arca di Noè, in cui si è stipato tutto ciò che non
ha trovato posto in altri documenti.
Con questo documento sulla “Chiesa nel mondo contemporaneo”, il Concilio non si rivolge soltanto
ai propri fedeli, ma a tutta la famiglia umana. Non si occupa soltanto di problemi interni di fede e di
disciplina, ma tratta anche delle questioni del mondo, delle questioni degli uomini d’oggi.
All’origine non era stato previsto tale orientamento. Soltanto nel corso della prima sessione di
discussioni, il Cardinale Suenens e il Cardinale Montini avanzarono la proposta di indirizzare il Concilio verso
una doppia finalità: affrontare la tematica della Ecclesia ad intra e della
Ecclesia ad extra.
Se vogliamo essere esatti, però, la costituzione pastorale non si rivolge “ad extra”.
Nel titolo non si legge “messaggio della Chiesa al mondo contemporaneo”, ma
“la Chiesa nel mondo contemporaneo”. La Chiesa non si pone davanti al mondo
come Mater et Magistra, ma comprende se stessa come una realtà facente parte del mondo, solidale
con il mondo. Per illustrare questa nuova concezione, basti citare la nota frase con cui inizia il documento:
“Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d'oggi, dei poveri soprattutto e di tutti
coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo”
(n. 1).
Ciò significa che non solo il titolo e non solo molti dei temi trattati da questa costituzione sono nuovi,
ma è nuovo anche il modo in cui il documento li affronta: un atteggiamento dialogale. Il dialogo
è uno dei concetti fondamentali del Concilio Vaticano II e delle discussioni post-conciliari (cf. n. 3,
19, 21, 25, 40, 43, 56, 85, 90, 92). Come indicato da Papa Paolo VI nella sua prima Enciclica Ecclesiam
suam (1964), si parla del dialogo nella Chiesa, con le altre Chiese e Comunità ecclesiali, con le
religioni non cristiane e con il mondo d’oggi.
La costituzione pastorale non rivolge agli uomini d’oggi ammonimenti cattedratici, ma si dimostra attenta
alle loro aspettative e alle loro necessità e ne condivide gioie e sofferenze. Essa getta uno sguardo
molto realistico sugli aspetti critici del mondo moderno, ma non afferma più con toni apocalittici che
tutto nel mondo è male, quasi opera del maligno; piuttosto, sa riconoscere anche ciò che
esiste di positivo. Parlando degli aspetti negativi, la costituzione dà prova di autocritica,
elemento necessario ad ogni dialogo. Essa non vede la colpa soltanto negli altri, ma riconosce la
corresponsabilità dei cristiani, per esempio nel fenomeno dell’ateismo moderno (cf. n. 19).
Così il Concilio ha già anticipato coraggiosamente il “mea culpa” ovvero il
“nostra culpa” di Papa Giovanni Paolo II.
Il Concilio non schiva, ma affronta apertamente tematiche concrete. È proprio questo, cioè la
traduzione e l’attuazione della fede nella vita vissuta concreta, che si intende con l’aggettivo
“pastorale”. Il termine “pastorale” non costituisce un’alternativa al termine
“dottrinale”. Piuttosto, l’atteggiamento pastorale presuppone un fondamento dottrinale. La
pastorale non può né vuole sostituirsi alla dottrina o aggirarla; essa vuole impiegarla nelle
situazioni concrete ed in esse valorizzarla.
Con la costituzione pastorale il Concilio si oppone a tutti i tentativi laicistici di limitare il campo
d’azione e d’interesse della Chiesa a faccende meramente interne, relegandola per così dire
alla “sacrestia”. La Chiesa, infatti, non si lascia ghettizzare e ridurre ad una dimensione
puramente intima e personale; essa rivendica una voce pubblica. E la rivendica non nel proprio interesse, ma
nell’interesse degli uomini. Dice infatti: “È l'uomo dunque, l'uomo considerato nella sua
unità e nella sua totalità, corpo e anima, l'uomo cuore e coscienza, pensiero e volontà, che
sarà il cardine di tutta la nostra esposizione” (n. 3). Il Concilio si interroga sulle questioni
fondamentali dell’esistenza: “Cos'è l'uomo? Qual è il significato del dolore, del male,
della morte, che continuano a sussistere malgrado ogni progresso? Cosa valgono quelle conquiste pagate a
così caro prezzo? Che apporta l'uomo alla società, e cosa può attendersi da essa? Cosa ci
sarà dopo questa vita?” (n. 10).
La costituzione vuole cancellare la dicotomia tra fede e vita quotidiana, dicotomia che, a suo parere,
rappresenta una delle interpretazione più erronee e più dannose dei tempi moderni (cf. n. 42).
Più tardi Papa Paolo VI nella sua Lettera apostolica Evangelium nuntiandi (1975) ha costatato che
“La rottura tra vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca” (n. 20).
Nell’intento di affrontare la questione essenziale della nostra epoca siamo giunti al problema fondamentale
della costituzione pastorale: Come può la Chiesa, con il suo messaggio di fede, prendere posizione davanti
alle concrete questioni del mondo? È possibile trarre automaticamente dai principi della fede la risposta
alle questioni concrete del mondo? Se così fosse, ogni individuo ed ogni situazione specifica sarebbero
solamente un “caso” di un principio generale. Ciò è contrario al pensiero cristiano,
che afferma l’unicità di ogni persona e l’unicità della coscienza di ognuno. Anche
per questo, la costituzione pastorale sostiene che, eccezione fatta per le questioni etiche fondamentali,
è legittimo che i cattolici prendano con coscienziosità posizioni diverse davanti a tematiche
concrete, come quelle relative alla politica (cf. n. 42).
La Chiesa non ha nessuna competenza dottrinale che le permetta di formulare un giudizio definitivo su situazioni
concrete. Le situazioni concrete possono cambiare rapidamente; come vedremo in seguito, le analisi stesse
contenute nella costituzione pastorale sono divenute oggi in parte obsolete. Quando la costituzione fu
pubblicata, nel 1965, la guerra fredda era al suo culmine. Da allora il mondo e la nostra società sono
mutati profondamente sotto molti aspetti. Ma come comportarsi quando non è possibile trarre risposte
concrete univoche? Proprio questo è il problema fondamentale che si pone la costituzione pastorale.
Il modo in cui il Concilio affronta tali tematiche basilari è sorprendentemente nuovo. Di fatto, esso non
ricorre al fondamento della legge naturale, che, stando alla teoria tradizionale, è in principio
riconosciuta da tutti gli uomini e costituisce di conseguenza un ponte d’intesa tra i credenti e i non
credenti, come anche tra i fedeli di religioni diverse. Il Concilio sceglie un’altra strada. Non mette
in primo piano i cosiddetti preambula fidei, i presupposti naturali della fede, ma il
centrum fidei, il messaggio di Gesù Cristo. La sua risposta deriva dunque da una
cristologia universalistica, che trova il suo fondamento principalmente in Col 1,15-20: “…per
mezzo di lui sono state create tutte le cose… Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista
di lui” (cf. Gv 1,3; Ef 1,3-10; Eb 1,2).
Alla fine dell’introduzione, la costituzione afferma in modo programmatico: “la Chiesa crede che
Cristo, per tutti morto e risorto, dà sempre all'uomo, mediante il suo Spirito, luce e forza per
rispondere alla sua altissima vocazione… Essa crede anche di trovare nel suo Signore e Maestro la chiave,
il centro e il fine di tutta la storia umana… Così nella luce di Cristo… il Concilio intende
rivolgersi a tutti per illustrare il mistero dell'uomo e per cooperare nella ricerca di una soluzione ai
principali problemi del nostro tempo” (n. 10). Tali affermazioni cristocentriche si ritrovano in molti
altri paragrafi (cf. n. 22, 32, 39, 45, 93). Esse sono state più volte ribadite da Papa Giovanni Paolo
II, sin dalla sua prima Enciclica Redemptoris hominis (1979), che incomincia con la frase: “Il
redentore dell’uomo, Gesù Cristo, è il centro del cosmo e della storia” (n. 1).
Sulla base di tale convinzione fondamentale il Concilio intraprende una doppia riflessione. Da una parte vuole
leggere i “segni dei tempi” alla luce del Vangelo (cf. n. 3 s, 10 s, 22, 40, 42 s, ecc.);
dall’altra vuole accettare la sfida che essi rappresentano e interrogarsi su di essi, per giungere ad una
comprensione più approfondita del proprio messaggio evangelico (cf. n. 40, 44, 62). Si tratta dunque di
un’interpretazione del mondo, dell’uomo, ma anche del Vangelo che si realizza man mano nella storia
grazie ad un atteggiamento dialogante. Potremmo addirittura parlare di un discorso ecclesiale di tipo
profetico.
Per illustrare concretamente cosa significhi tale discorso dialogante e profetico, rifletteremo adesso su due
punti specifici, trattati dettagliatamente in Gaudium et spes: la visione del mondo moderno e la
situazione dell’uomo nel mondo moderno. Ci limitiamo a questi due temi, perché un esame completo dei
numerosi temi della costituzione sarebbe impossibile, anche per ovvi limiti di tempo.
Come vede la costituzione pastorale il mondo odierno? Come giudica i “segni dei tempi”? Il Concilio
costata: “L'umanità vive oggi un periodo nuovo della sua storia, caratterizzato da profondi e rapidi
mutamenti che progressivamente si estendono all'insieme del globo” (n. 4). In modo più concreto
afferma: “Così il genere umano passa da una concezione piuttosto statica dell'ordine delle cose,
a una concezione più dinamica ed evolutiva” (n. 5). Ne deriva una crisi di crescita, che rende
più complessa la situazione odierna e comporta un turbamento dell’equilibrio finora conosciuto.
Il Concilio prende atto dell’esistenza di vari fattori: da una parte, una ricchezza assai superiore al
passato e, dall’altra, fame e miseria, una crescente esigenza di libertà accanto ad un asservimento
sociale e fisico, una dipendenza reciproca accanto a forze in conflitto, tensioni tra razze e gruppi sociali, una
crescente socializzazione non accompagnata da una crescente personalizzazione, l’erosione dei valori
tradizionali, l’indifferenza religiosa, la crisi latente della famiglia, le rivendicazioni di pari
opportunità da parte delle donne (su questo aspetto cf. anche n. 29, 52 s.) ed infine, altrettanto
importante, la scissione interna dell’uomo a causa del peccato (cf. n. 4, 7-10). Così la stesura
finale e definitiva della costituzione pastorale, sebbene non cada in una visione negativa e apocalittica della
situazione, non rappresenta neppure una visione unilateralmente ottimista.
La costituzione parla del problema fondamentale del tempo moderno in modo nuovo e coraggioso in due punti.
Innanzitutto riconosce l’autonomia legittima delle realtà terrene (cf. n. 36, 41, 56, 76),
affermando che “le cose create e le stesse società hanno leggi e valori propri, che l'uomo
gradatamente deve scoprire, usare e ordinare”. Per il Concilio, tale riconoscimento non solo rappresenta
una sfida per l’uomo del nostro tempo, ma rispecchia anche la realtà di tutte le cose create, che
hanno “la loro propria consistenza, verità, bontà, le loro leggi proprie e il loro
ordine” (n. 36). Da ciò deriva il riconoscimento dell’autonomia legittima della scienza,
della cultura e della politica; quest’autonomia legittima deve essere distinta da un falso autonomismo e
da un falso umanesimo, meramente contingente e materialista, se non addirittura antireligioso.
Con tali affermazioni, la costituzione riconosce l’importante rivendicazione dell’Illuminismo ed uno
dei desideri legittimi della secolarizzazione moderna. Il Concilio mette fine così ad un triste capitolo
della più recente storia della Chiesa. Esso respinge l’integralismo che, volendo trarre una
risposta uniforme ed automatica dai principi della fede per le questioni del mondo, ha spesso causato conflitti
totalmente inutili e nella maggior parte dei casi insensati con le scienze, la cultura e la politica moderne.
Vorrei soltanto accennare, come esempio, al conflitto con Galileo, con Darwin e, in altro modo, sullo Stato
Pontificio.
Il riconoscimento della legittima autonomia delle diverse realtà in cui vive l’uomo in questo mondo
è fondamentale per la libertà dei laici nella Chiesa; perché sono loro gli esperti in
questi vari campi e che dispongono delle competenze necessarie per il cui impiego il Vangelo è fonte di
“luci e forze”, anche se non direttamente fonte di conoscenza (n. 42). I pastori debbono dunque
riconoscere con rispetto la giusta libertà dei laici nella Chiesa (Lumen gentium, 37).
Un secondo orientamento si muove in questa stessa direzione: la promozione dei diritti umani e la condanna di
ogni forma di discriminazione (cf. n. 21, 26, 29, 41 s, 59, 73, 76). Anche questo è uno dei postulati
di base dei nuovi tempi. La decisione del Concilio di compiere tale passo trova il suo fondamento ancora una
volta nella creazione, ovvero nel fatto che Dio abbia creato l’uomo a sua immagine e somiglianza (cf. Gen
1,27) (cf. n.12). In conformità con la sua concezione cristocentrica, la costituzione aggiunge a questo
argomento tradizionale, che solamente in Gesù Cristo il mistero dell’uomo trova la vera luce.
“Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo amore svela anche
pienamente l’uomo all’uomo e gli fa nota la sua altissima vocazione” (n. 22).
La più importante conseguenza tratta dal Concilio in proposito è rispecchiata nella
dichiarazione sulla libertà religiosa, Dignitatis humanae, intorno alla quale si sono accese le
più vive discussioni nell’aula conciliare. Di fatti, la libertà di coscienza e di religione
erano state condannate espressamente dai pontefici del XIX secolo, secondo una concezione liberale che non
riconosceva il nesso tra libertà e verità, nesso che invece il Concilio ritiene essenziale. Con
Dignitatis humanae il Concilio mette fine a tali dibattiti perniciosi, sottolineando la positività
della crescente importanza attribuita alla libertà nei tempi moderni ed ammettendo che non esiste
soltanto un diritto della verità, ma anche un diritto della persona e che la verità può
essere riconosciuta soltanto nella libertà. Con ciò, il Concilio congeda la dottrina del
cosiddetto ‘stato cattolico’ e getta le basi per il riconoscimento della democrazia pluralistica
moderna.
La posizione storica assunta dal Concilio in merito ai due aspetti sopracitati è un punto di riferimento
fondamentale che permette alla Chiesa ed al singolo cristiano di dirsi e di sentirsi “a casa”
nella realtà moderna. Finita è la nostalgia romantica del medioevo e della sua cultura
unitaria; finita è la mentalità restauratrice impostasi dopo la rivoluzione francese; finito
è anche il tristemente zelante antimodernismo della fine del XIX e dell’inizio del XX secolo.
Purtroppo, dopo il Concilio alcuni circoli sono caduti nella trappola opposta ed hanno trasformato
l’apertura del Concilio in un’ingenua apertura e disponibilità verso il mondo. Tale
ingenuità non aveva caratterizzato il Concilio stesso, che era in grado di distinguere la legittima
autonomia dalle false idee di autonomia totale e di un umanesimo puramente terrestre, anzi avverso alla
religione (n. 56), vedendo l’ateismo come uno dei tratti più preoccupanti del nostro tempo (cf. n.
19-22).
Conseguenze concrete giuste sono state tratte da questa apertura conciliare già da Papa Paolo VI,
soprattutto con le modifiche apportate a specifiche disposizioni del concordato italiano e spagnolo. Papa
Giovanni Paolo II ha assunto pienamente, in modo dinamico ed energico, queste posizioni e ne ha fatto il
fondamento di una chiara politica di difesa dei diritti umani, che ha dimostrato la sua validità ed
efficacia nei confronti dei sistemi totalitari del XX secolo, soprattutto l’ex-blocco sovietico (cf.
Redemptor hominis, n. 17).
Tuttavia, ben presto è stato necessario difendere questi nuovi orientamenti da un fronte ben diverso.
Nel 1965, l’anno della promulgazione della costituzione pastorale, si era ancora influenzati
dall’attrito tra il mondo liberale ed il comunismo totalitario, anche se la Chiesa non ha mai
condannato quest’ultimo esplicitamente, per riguardo ai cristiani che vivevano dietro la cortina di ferro.
All’epoca nessuno avrebbe previsto che il blocco comunista sarebbe crollato e che, a seguito di tale
evento, dopo l’anno 1989 il mondo avrebbe sperimentato una crescente emancipazione ed una profonda perdita
di orientamento.
Nel processo di secolarizzazione, i frutti positivi del tempo moderno si sono staccati dalle loro radici
cristiane; come frutti caduti dall’albero del cristianesimo, rischiano ora di marcire e diventare
velenosi. Questo, d’altronde, si è già verificato. I grandi ideali della modernità
hanno reciso le loro radici trascendenti, perdendo così il loro stabile fondamento. Con la sua
emancipazione dalla Chiesa, lo stato ha dovuto rinunciare al forte tessuto connettivo che nel passato era
permeato dalla coscienza dei rapporti di trascendenza. Allo stesso tempo, abbiamo sperimentato che la tolleranza
e la libertà possono ribaltarsi e trasformarsi in tendenze totalitarie contro chi difende valori
fondamentali. Sarebbe dunque ingenuo non osservare la “Tragedia dell’umanesimo senza
Dio” (H. de Lubac) e la “Dialettica dell’Illuminismo”
(Th. W. Adorno).
Tutto ciò non deve spingerci a barricarci dietro un nuovo integralismo, pericolo alquanto reale al
giorno d’oggi. Piuttosto, dobbiamo continuare a difendere i principi del Concilio ed impedire al mondo
moderno che si autodistrugga. La Chiesa deve dunque riproporsi, in modo nuovo, come un fermento di libertà
nel mezzo di un continuo e rapido mutare di eventi. Come segno e salvaguardia del carattere trascendente della
persona umana (n. 76) deve promuovere un nuovo umanesimo e la vera libertà dell’uomo. Detto questo,
veniamo ora alla seconda tematica di Gaudium et spes, ovvero la vocazione dell’uomo.
Come abbiamo visto, la riflessione della costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo moderno si concentra
sull’uomo e ne fa il suo cardine, dicendo espressamente: “tutto quanto esiste sulla terra deve essere
riferito all'uomo, come a suo centro e a suo vertice “ (n. 12). In tal modo, la costituzione dimostra di
assumere una posizione esplicitamente moderna e di aderire alla moderna svolta antropologica. Anche Papa
Giovanni Paolo II ha chiamato l’uomo “la prima e fondamentale via della chiesa” (Redemptor
hominis, 14).
Naturalmente, la costituzione pastorale non riprende questa posizione semplicemente per adattarsi alla situazione
che si è venuta a creare, ma la fa sua in base a fondamenti teologici. L’autonomia non viene intesa
come autonomismo; l’uomo non è considerato come massimo criterio di ogni cosa. La dignità
dell’uomo è vista piuttosto come derivante da Dio e fondata in Gesù Cristo.
Partendo da questo presupposto, la costituzione sviluppa per la prima volta in modo dottrinale
un’antropologia coerente e strutturata. Nel passato, naturalmente, erano già state elaborate
affermazioni antropologiche dottrinali, ma non ne era ancora stato fatto dottrinalmente un discorso unitario e
sistematico. Dobbiamo ricordare che anche dal punto di vista filosofico l’antropologia è una
disciplina relativamente recente, sviluppatasi per la prima volta nel XX secolo. Anche sotto questo aspetto, il
Concilio è, per così dire, un pioniere dei tempi moderni.
Non mi è possibile entrare qui nel merito di tutte le affermazioni antropologiche della costituzione e
commentarle nel dettaglio. Mi limiterò soltanto ad alcuni punti caratteristici, invitandovi però ad
una lettura personale dei paragrafi che vanno dall’undicesimo al ventiduesimo, brani a cui, a mio parere,
vale la pena rivolgere una rinnovata attenzione.
Vediamo il primo aspetto. Originariamente il testo della costituzione era abbastanza ottimista; soltanto in
una seconda fase del dibattito sono state aggiunte delle prospettive critiche. Così il testo
definitivo non parla soltanto della dignità della persona, ma anche della sua miseria. L’uomo, a
causa del peccato per il quale si ribella contro Dio, sperimenta una scissione interna: “Per questo tutta
la vita umana, sia individuale che collettiva, presenta i caratteri di una lotta drammatica tra il bene e il
male, tra la luce e le tenebre” (n. 13). Con tale visione realistica e drammatica, il Concilio si
discosta dalla visione parziale ed ottimistica dell’Illuminismo, che crede nella bontà naturale
dell’uomo, guastata solo dall’educazione e dai rapporti sociali.
La costituzione getta anche uno sguardo realistico sulla caducità della natura umana e guarda, per
così dire, la morte negli occhi, la morte che rappresenta il più grande mistero dell’uomo
(cf. n. 18). Vi è un’acuta coscienza del dramma dell’esistenza umana. Con Blaise Pascal
potremmo dire che grandeur et misère dell’uomo vanno di pari passo e che la
grandezza dell’uomo consiste proprio nella consapevolezza della sua miseria.
Vi è poi un secondo aspetto: la visione unitaria dell’uomo come unione di anima e corpo e come
essere sociale e relazionale. Il Concilio difende espressamente la dignità del corpo, opponendosi ad
interpretazioni spiritualistiche riduttive che danno origine a forme difettose di pietà ed ascesi. Ma si
oppone ancora di più ad un’antropologia materialistica. Ritiene infatti che il primato
dell’uomo sul resto del creato dipenda dalla sua natura spirituale: l’uomo trascende
l’universo delle cose grazie alla sua ragione (cf. n.14 s). In modo significativo la costituzione afferma:
“L'epoca nostra, più ancora che i secoli passati, ha bisogno di questa sapienza per umanizzare tutte
le sue nuove scoperte. È in pericolo, di fatto, il futuro del mondo, a meno che non vengano suscitati
uomini più saggi” (n. 15).
Della natura spirituale dell’essere umano fa parte anche la sua libertà. La dignità
dell’uomo richiede “che egli agisca secondo scelte consapevoli e libere, mosso cioè e
determinato da convinzioni personali, e non per un cieco impulso istintivo o per mera coazione esterna” (n.
17). Tale affermazione contrasta chiaramente con ogni tipo di antropologia che ritiene l’uomo animato
soltanto da anonime pulsioni, da funzioni celebrali o da meccanismi biochimici. In questo contesto, vi sono stati
grandi cambiamenti nel corso degli ultimi sessant’anni; l’ingegneria genetica e la moderna ricerca
sugli embrioni ci pongono oggi davanti a sfide inimmaginabili nel passato.
L’antropologia unitaria del Concilio è inoltre un’antropologia che vede l’uomo non
come una monade, ma come un essere dialogico, in relazione con Dio e con i suoi simili. La costituzione
aggiunge all’affermazione che Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza che, in questa
somiglianza, Dio creò uomo e donna (cf. n. 12). Tale antropologia unitaria e dialogale, tra le altre cose,
ha condotto ad un nuovo concetto personale di sessualità e di coppia e ad una approfondita concezione del
matrimonio come comunità personale e patto coniugale (cf. nn. 47-52), sollevando perfino, insieme
all’Enciclica Humanae vitae (1968), alcuni conflitti interni alla Chiesa che non sono ancora stati
risolti.
La costituzione vuole preservare e difendere la dignità del corpo e la dignità della persona umana
e ribadire la sua responsabilità davanti alla banalizzazione dell’uomo e della sua
sessualità. Anche sotto questo aspetto vuole impedire che la soggettività del tempo moderno
arrivi ad un’autodistruzione. Ciò dimostra che le affermazioni fondamentali della costituzione
pastorale sono tuttora di grande attualità.
Il terzo aspetto che desidero menzionare è la questione della coscienza personale, che la costituzione
definisce come “il nucleo più segreto e il sacrario dell'uomo, dove egli è solo con Dio, la
cui voce risuona nell'intimità” (n. 16). La coscienza è una voce nell’intimo
dell’uomo, che lo chiama a fare il bene e a fuggire il male. In queste affermazioni ritroviamo il pensiero
del grande teologo moderno John Henry Newman: Dio e l’anima, cor ad cor loquitur, solus cum solo.
Per il suo rapporto diretto con Dio, l’uomo può sottrarsi ad ogni rivendicazione totalitaria ed
esclusivista che proviene dall’esterno. In questo punto troviamo anche un limite interno per un mal
interpretato atteggiamento d’ubbidienza nella Chiesa.
Ma la coscienza, pur essendo una voce percepibile solo nell’interiorità, non deve essere confusa
con il soggettivismo, con un’etica ad hoc circostanziata, o addirittura con una cieca
arbitrarietà. Nella voce della coscienza, l’uomo incontra piuttosto quella “legge scritta da
Dio dentro al cuore” (Rom 2,14-16) alla quale “obbedire è la dignità stessa
dell'uomo”. Nella sua soggettività, l’uomo sente qualcosa di oggettivo, una legge
morale che, in ultima analisi, si identifica con il messaggio centrale dell’etica biblica: amore verso Dio
e verso il prossimo.
Capiamo allora perché per il Concilio la questione della coscienza personale costituisca il punto di
contatto fondamentale nel dialogo con i non cristiani. Ciò che unisce cristiani e non cristiani non
è il possesso della verità, ma la ricerca della verità. Il termine “ricerca”
indica che la coscienza non è una realtà infallibile. Il Concilio afferma secondo la tradizione
tomista: la coscienza che commette un errore a causa di un’ “invincibile ignoranza” non perde
la sua dignità. Nondimeno subito aggiunge: “Ma ciò non si può dire quando l'uomo poco
si cura di cercare la verità e il bene, e quando la coscienza diventa quasi cieca in seguito all'abitudine
del peccato” (n. 16). Può dunque esistere una peccaminosa cecità davanti ai veri valori ed un
offuscamento del cuore dell’uomo.
Le affermazioni relative alla coscienza personale rappresentano in un certo senso il culmine della costituzione
pastorale, ma continuano a muoversi sulla linea tradizionale della dottrina ecclesiale. Con queste
affermazioni il Concilio tocca il punto centrale del pensiero moderno sulla soggettività, ma non
arriva allo stesso livello raggiunto da questo concetto moderno di soggettività e nemmeno riflette fino in
fondo la situazione dell’oscuramento e di un accecamento totale dell’orizzonte, che può
emergere quando l’uomo perde la luce della verità. La coscienza non può soltanto errare,
può anche smarrirsi ed essere accecata, cosicché l’uomo si trova nelle tenebre.
Il capitolo sulla coscienza è come se si muovesse sul filo del rasoio e cercasse di mantenere
l’equilibrio per evitare la caduta da una parte o dall’altra. Per questo, le affermazioni del
Concilio sono già state oggetto di malintesi e di abusi dall’una e dall’altra parte. Papa
Giovanni Paolo II si è sforzato di svilupparle ulteriormente nella sua Enciclica Veritatis
splendor (1993). Rimangono tuttavia punti da chiarire e da approfondire, come, ad esempio, il
rapporto tra ordine oggettivo e ordine soggettivo, tra norma oggettiva e situazione concreta e soprattutto cosa
significhi concretamente questa legge naturale in una situazione di enormi mutamenti culturali e sociali, di
confusione e di manipolazione esteriore, come la sperimentiamo oggi.
A quest’ultimo problema vuole rispondere il quarto aspetto sul fondamento cristologico
dell’antropologia del Concilio. Esso si riferisce al fatto che, conformemente a quanto dice la Scrittura,
l’immagine di Dio impressa nell’uomo al momento della creazione (cf. Gen 1,27) non è
distrutta, ma offuscata dal peccato e viene rinnovata e portata a compimento da Gesù Cristo, che è
l’immagine di Dio (cf. 2 Cor 4,4; Col 1,15; Eb 1,2). Il Concilio afferma infatti: “solamente
nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell'uomo” (n. 22). In Gesù Cristo
trova piena e completa realizzazione la somiglianza dell’uomo con Dio. Pertanto, Gesù Cristo non
è solo la rivelazione del Padre; egli rivela anche “l’uomo a sé stesso”. Il
Concilio precisa: “Con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo”
(n. 22).
In modo ricapitolativo si afferma: “Tale e così grande è il mistero dell'uomo, questo mistero
che la Rivelazione cristiana fa brillare agli occhi dei credenti. Per Cristo e in Cristo riceve luce quell'enigma
del dolore e della morte, che al di fuori del suo Vangelo ci opprime”. E altrove si legge: “Soltanto
Dio, che ha creato l'uomo a sua immagine e che lo ha redento dal peccato, può offrire a tali problemi una
risposta pienamente adeguata; cose che egli fa per mezzo della rivelazione compiuta nel Cristo, Figlio suo, che
si è fatto uomo. Chiunque segue Cristo, l'uomo perfetto, diventa anch'egli più uomo”
(n. 41).
Questo concetto cristologico universale è stato più volte ripreso ed ampliato da Papa Giovanni
Paolo II. Esso rispecchia la discussione condotta nei decenni precedenti al Concilio sul rapporto tra ordine
della natura e ordine della grazia. Grazie ai teologi della théologie nouvelle,
quali M. D. Chenu, H. de Lubac e altri, è stato così superato lo schema a due piani di natura e
grazia sviluppatosi nel XVII e XVIII secolo. Questi teologi si sono riferiti alla concezione anteriore a cui
era pervenuto il pensiero altomedioevale, ed in particolar modo a quello di Tommaso d’Aquino; le loro
posizioni sono state ulteriormente sviluppate all’interno di un cristocentrismo universale sotto
l’influenza della nuova teologia biblica e della teologia evangelica, soprattutto di Karl Barth, forse
il teologo protestante più importante del XX secolo.
L’attuale importanza della visione cristocentrica diventa evidente alla luce del pluralismo delle
culture di cui siamo oggi molto più consapevoli rispetto al passato. In tale situazione è
divenuto alquanto difficile determinare concretamente un ordinamento morale naturale che sia universalmente
valido. Ciò che nel passato era considerato come legge naturale si rivela oggi in molti casi espressione
della cultura occidentale, in parte borghese; nella misura in cui la civiltà occidentale si disgrega nel
processo di secolarizzazione e di pluralizzazione, la legge morale naturale non può più essere data
per scontata neppure in Occidente. Questo pone la Chiesa di fronte ad un grave dilemma: come trasmettere il
proprio messaggio in maniera comprensibile ed accettabile?
Il Concilio ha dunque fatto scivolare in secondo piano la questione della legge morale naturale, senza
comunque abbandonarla (cf. n. 64; 74); anzi, il Concilio ha cercato un nuovo approccio per salvaguardarla.
Perché se non esistono più valori umani universali, è impossibile instaurare un dialogo
interreligioso e un’intesa pacifica tra uomini di diverse epoche e di diverse culture. Lo
“scontro delle culture” (S. P. Huntington) è allora inevitabile. Anche ai fini di una pacifica
convivenza, è indispensabile affrontare nuovamente la questione della legge morale e tentare di rispondere
alla domanda presentataci già dalla Bibbia e ripetuta da Gaudium et spes: che cos’è
l’uomo? Non possiamo dunque prescindere dalla domanda che la metafisica ha posto nel passato.
Il Concilio ha potuto dare la sua risposta solamente per allusione Ha intrapreso un nuovo orientamento affermando
due volte, che dal vangelo scaturiscono delle luci e delle forze che possono contribuire a costruire e
consolidare la comunità umana secondo la legge divina (n. 42 s). Ciò vuole dire, che solo nella
luce e nella forza di Cristo, l’uomo nuovo, possiamo riscoprire, guarire e rinnovare la vera umanità
dell’uomo e costruire un nuovo umanesimo. In questo senso si può capire ciò che significa
pensiero dialogico e linguaggio profetico. Il Concilio ha potuto soltanto accennare a questo nuovo metodo e a
questa nuova sintesi; esso è solamente l’inizio di un cammino ma non ne rappresenta già
la fine. Gaudium et spes ci impegna ad andare avanti.
Nonostante i suoi limiti, la costituzione pastorale ha fornito un nuovo e importante orientamento per la Chiesa
nel suo cammino verso il XXI secolo ed il terzo Millennio. È vero, il magistero si era già espresso
su tematiche specifiche e su questioni sociali come il matrimonio e la famiglia, la guerra e la pace. Però
con il Concilio Vaticano II è stato abbandonato l’atteggiamento difensivo e restauratore assunto
dalla Chiesa a partire dalla rivoluzione francese. Il Concilio si è sforzato di superare, nei confronti
della società, visioni ormai obsolete, che erano il risultato di specifiche condizioni storiche, e ha
cercato di gettare i fondamenti di una nuova inculturazione del cristianesimo nel mondo moderno. Questo
nuovo approccio costruttivo e dialogico non era acritico e ingenuo; si potrebbe piuttosto parlare di una
posizione profetica alla luce del vangelo di Gesù Cristo.
In questo senso la costituzione ha aderito ad una realtà post-illuminista, libera e democratica,
riconoscendo concretamente la legittima autonomia della cultura, i diritti umani, la libertà di
coscienza e di religione. Ma non lo ha fatto tanto per adeguarsi alla situazione. I passi che ha intrapreso, non
li ha compiuti per forza, dovendo accettare e approvare sviluppi che avevano già avuto luogo, ma li ha
compiuti in modo indipendente a partire dai propri principi, mantenendo uno sguardo critico. Essa ci ha mostrato
che noi cristiani non abbiamo nessun motivo di giudicare gli sviluppi moderni soltanto in
modo negativo, secondo un’ottica parziale e generalizzante. È bene allora seguire l’invito
dell’Apostolo Paolo: “Esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono” (1 Tess
5,21).
Il nuovo orientamento del contenuto rispecchia un nuovo orientamento di metodo ed una nuova forma di documenti
magisteriali. Lo “stile pontificale” delle precedenti Encicliche è stato abbandonato e se ne
è adottato un altro, non più astratto e deduttivo ma empirico e concreto nell’argomentazione,
uno stile dialogico basato su un linguaggio più profetico. Papa Giovanni Paolo II nelle sue numerose
Encicliche ha fatto suo questo stile, conferendogli il proprio carattere. Anche da questo punto di vista, non
è possibile invertire la marcia e ritornare indietro, al passato.
Naturalmente, la costituzione pastorale non poteva prevedere il passaggio dal periodo moderno all’attuale
situazione post-moderna con le sue nuove sfide ed i suoi nuovi problemi. Tale sviluppo ha rimesso in discussione
non solo l’eredità cristiana ma anche i grandi ideali del modernismo stesso. L’attuale
periodo post-moderno ha perso il legame intimo fra libertà e verità. Soprattutto in Occidente,
ha avuto luogo un processo di sfaldamento dei valori tradizionali ed un’ampia perdita di orientamento. Il
Concilio non poteva certo prevedere tutte le conseguenze della decolonizzazione e dell’emancipazione del
terzo mondo. La tesi dell’indipendenza della Chiesa da una cultura concreta o da un sistema politico
specifico (cf. n. 42) avrebbe avuto in tali paesi un fortissimo impatto e avrebbe condotto all’abbandono
dell’eurocentrismo tradizionale. La costituzione pastorale ha pertanto contribuito a dare una nuova forma
per così dire cattolica alla Chiesa universale; grazie ad essa, la Chiesa è diventata per la prima
volta in modo concreto una Chiesa mondiale.
Dopo i grandissimi cambiamenti nel corso degli ultimi sessant’anni ci dobbiamo chiedere quale sia oggi il
significato della costituzione pastorale. Certamente non possiamo invertire la rotta e tornare
all’atteggiamento puramente difensivo del passato. D’altro canto, non è neppure possibile
rimanere fermi. I metodi ed i principi fondamentali della costituzione sono ancora validi, ma devono essere
riferiti alla situazione attuale e applicati ad essa nuovamente in modo profetico. Non si tratta più
solamente di dare spazio alle legittime intenzioni dell’epoca moderna, ma piuttosto di difenderne e
salvaguardarne i valori dalla loro autodistruzione. In questo senso la Chiesa di oggi non è
l’avversario ma l’alleato della libertà, sorella gemella della verità. In questo
senso siamo oggi non solo – come il Concilio disse – testimoni della nascita d’un nuovo
umanesimo (n. 55) ma anche combattenti per un nuovo umanesimo e una nuova cultura della vita, della
solidarietà e dell’amore.
Siamo confrontati da questioni che vanno ben oltre la costituzione pastorale ed il cui chiarimento necessita
un’ulteriore, approfondita riflessione, una riflessione che Gaudium et spes non ha potuto
naturalmente fornire. Importanti ulteriori spunti si trovano nell’Enciclica Fides et
ratio (1998). Essa riprende alcune idee che hanno caratterizzato il passaggio dall’idealismo
moderno al post-idealismo nella tarda filosofia di Schelling e, in modo simile, in quella del geniale Antonio
Rosmini - accanto a Möhler e a Newman - uno dei grandi spiriti profetici del XIX secolo, che fortunatamente
è stato nel frattempo riabilitato e che merita d’essere riscoperto e reso fruttifero per la
soluzione dei nostri problemi. Tuttavia, soffermarci su tali aspetti esulerebbe dal quadro della nostra odierna
riflessione.
Gli sviluppi futuri, che sono ancora impossibili da prevedere oggi, non devono diventare un viaggio fantasma
nell’universo, in cui la Chiesa è come un razzo proiettato nello spazio infinito mentre non
c’è più nessuno a terra ad assicurarne il controllo. È necessario saper rileggere
la costituzione pastorale Gaudium et spes in modo nuovo, riferendosi ai principi che essa ha indicato o
almeno suggerito; tali principi devono essere ulteriormente sviluppati con pazienza e con determinazione tramite
un lavoro teologico approfondito, affinché possano essere applicati coraggiosamente alla nuova situazione,
in modo sia costruttivo che critico.
Gaudium et spes, insieme a Dignitatis humanae e ad altri documenti, ha aperto una nuova epoca nella
storia della Chiesa nel mezzo di un mondo in rapido mutamento. La costituzione pastorale ha preparato per il
vangelo la via verso il XXI secolo ricordando e attualizzando la frase di uno dei miei preferiti padri della
Chiesa, Ireneo di Lione: “La gloria di Dio è l’uomo vivente” (Adv. haer. IV, 20, 7).
La Costituzione Pastorale, Gaudium et spes, fu ed è – e per vari aspetti – un quid
novi. Ha infatti per destinatari non i soli fedeli cattolici, e nemmeno soltanto i cristiani tutti, ma si
rivolge bensì «a tutti indistintamente gli uomini, desiderando di esporre loro come esso [il
Concilio] intende la presenza e l’azione della Chiesa nel mondo contemporaneo» (GS, n. 2).
Dal desiderio d’avviare in modo nuovo un dialogo con il mondo si è originato un testo conciliare di
cui – per quanto riguarda la sua struttura – la storia dei concili non offre modello né
precedente di sorta.
Ma la Costituzione Pastorale è qualcosa di nuovo anche per un altro aspetto: nella Gaudium et spes
per la prima volta un concilio compie il tentativo di proporre – con intento sistematico e in un
autonomo contesto asseverativo – un’antropologia cristiana. Certo, anche in testi conciliari
precedenti si leggono asserti d’indole antropologica; ma vi figurano sempre in un contesto che tratta di
singole questioni attinenti alla cristologia, alla teologia della creazione o della grazia. Un
“compendio integrale” di antropologia cristiana non si è avuto, da parte d’un concilio,
prima del Vaticano II. Lo si è esperito per la prima volta con la Costituzione Pastorale.
Per valutare correttamente la portata di questo evento è necessario anzitutto tenere ben presente il
più ampio contesto nel quale esso va considerato.
La questione dell’uomo è il problema fondamentale dell’Occidente. Nessun’altra
cultura ha fatto dell’uomo in egual modo il perno, il cardine della sua riflessione su Dio e sul mondo.
Eppure lo sviluppo dell’antropologia, intesa come scienza o disciplina a sé stante o, se si vuole,
quale configurazione complessiva della filosofia, è un fenomeno proprio dell’evo moderno.
Il termine “antropologia”, lo s’incontra per la prima volta in Germania, in talune opere
scolastiche di filosofia dei secoli XVI-XVII. All’origine della parola, e della realtà che essa
significa, stanno la cosiddetta “svolta antropologica” e il conseguente distacco del problema
“uomo” dalla problematica teologico-metafisica. A tale distacco venne ad aggiungersi la nuova
interpretazione cartesiana dell’uomo[1]. Descartes intese quest’ultimo come unità di “sostanza
pensante” (res cogitans) e “sostanza estesa” (res extensa). L’una e
l’altra sono di per sé conoscibili scientificamente. Della loro unità, tuttavia, si
può venire a conoscenza solo nell’esperienza prescientifica dell’attività d’ogni
giorno.
Con la bipartizione formulata da Cartesio era predelineato l’ulteriore sviluppo dell’antropologia
scientifica. In seguito si fece antropologia indagando col metodo delle scienze della natura il corpo umano e
considerando l’uomo – col metodo delle scienze dello spirito – come soggetto conoscente e
operante. Col netto differenziarsi dell’ottica propria delle scienze naturali e col dissolversi della
filosofia della storia in una scienza della storia positivisticamente perseguita, il discorso sull’uomo
andò perdendo sempre di più il suo fondamento. A ciò si aggiunga che col crescente consenso
riscosso dalla teoria evoluzionistica la sostanziale differenza fra uomo e animale si fece sempre più
fluttuante, e divenne perciò sempre più discutibile la posizione privilegiata dell’uomo.
Nella prima metà del nostro secolo questi sviluppi portarono a vari tentativi di creare ex novo
un’“antropologia filosofica”. Con essi si evidenziò che il problema della natura
dell’uomo ritiene la sua imprescindibilità, che dev’essere postulata una unità
trascendente la soggettività e l’oggettività dell’uomo, e che la questione etica del
dovere umano include e presuppone necessariamente la questione dell’essere e della
natura umani.
Tuttavia le nuove impostazioni non furono in grado di fornire una sintesi sostanziale né di promuovere la
riconduzione delle disparate antropologie ad un’unica antropologia comune. Ecco quindi che cosa appare alla
fine dell’evoluzione avutasi finora: l’antropologia si erige in disciplina scientifica a sé
stante, e ciò non è solo il risultato d’un crescente autonomizzarsi del soggetto umano.
È, al tempo stesso, il sintomo d’una montante insicurezza profonda dell’uomo nei confronti
della sua propria natura.
È in tale contesto che va considerato il fatto cui si accennava: nel Vaticano II, per la prima volta in un
concilio, la Chiesa fa propria, come tema a sé stante, la questione antropologica. Con le argomentazioni
antropologiche della Gaudium et spes il Concilio affronta un ambito problematico tipicamente moderno.
L’affronta e vi s’impegna con tutte le chance e i pericoli che esso comporta. La chance decisiva:
il dialogo con il mondo contemporaneo; il gran pericolo: un’assunzione, insufficientemente ponderata,
d’impostazioni mentali e categorie che finiscano poi per rivelarsi inadeguate a dare una risposta
davvero orientativa alla crisi antropologica del momento storico coevo.
Nelle riflessioni che seguono proverò ad accertare fino a che punto i padri conciliari siano riusciti a
sfruttare le chances e ad evitare i pericoli. In questo tentativo la mia attenzione si concentrerà
soprattutto sul rapporto fra cristologia e antropologia. Prima, però, di dedicarmi a descrivere questo
rapporto, vorrei esaminare brevemente da quali idee dominanti i padri conciliari si siano fatti guidare nella
stesura dei loro asserti antropologici. A ciò è particolarmente connesso anche il problema della
funzione che gli asserti antropologici detengono nell’insieme della Costituzione Pastorale. Per trovare una
risposta a tali questioni è istruttiva un’occhiata alla storia testuale della Gaudium et
spes.
Com’è noto, in origine non era previsto un documento conciliare del tipo di quello che alla fine
fu promulgato con la Costituzione Pastorale. «Prima che si diffondesse la consapevolezza della
necessità d’uno schema su Chiesa e Mondo, dovette aversi la prima sessione»[2]. Solo alla fine di quest’ultima
venne a profilarsi l’opportunità che il tema “Chiesa” fosse trattato in due parti:
ecclesia ad intra ed ecclesia ad extra, vale a dire la Chiesa nell’intelligenza che essa ha
di se medesima, e la Chiesa rispetto al suo rapporto con la situazione mondiale contemporanea. Il punto di
vista dominante, dunque, fu fin dall’inizio la Chiesa.
I quattro schemi preparati, come pure il nono paragrafo dell’abbozzo “De ecclesia”, verterono
per vari aspetti sul rapporto Chiesa-Mondo e costituirono i punti di esordio per il primo progetto di testo. Fin
dall’inizio le sollecitudini per uno schema a sé stante furono improntate da un interrogativo: se
il rapporto Chiesa-Mondo fosse da tratteggiarsi teologicamente o, piuttosto, pragmaticamente. Stando alle
schema sulla Chiesa, si offrivano scaglionati su piani diversi tre temi, in base ai quali era possibile
descrivere il rapporto della Chiesa con il mondo[3]: su di un piano prevalentemente teologico, il dovere e il diritto di evangelizzare
i popoli; su quello filosofico, la dottrina e la difesa della legge morale naturale; su quello giuridico, la
trattazione del rapporto Chiesa-Stato.
Solo il rinnovamento dell’ecclesiologia che si ebbe durante il Vaticano II, e quindi un’approfondita
intelligenza della Chiesa come universale sacramento di salvezza, poterono fornire le categorie necessarie
per prospettare teologicamente il rapporto Chiesa-Mondo in modo tale che si stabilisse uno stretto nesso fra
il piano soprannaturale e il naturale. Sulle prime il discorso rimase ancora drasticamente contrassegnato dal
pensiero filosofico-giusnaturalistico. Negli abbozzi successivi, invece, si fecero sempre più determinanti
prospettive e categorie di stampo soteriologico. Di conseguenza, accanto a considerazioni teologiche sulla
creazione andarono acquisendo sempre maggior peso linee di argomentazione cristologica.
I padri conciliari, però, non intendevano limitarsi a una descrizione puramente teologica del rapporto fra
Chiesa e mondo. Ad essi premeva parlare nel vivo della realtà dell’epoca. Era necessario
trattare del mondo di allora. E ciò non era possibile senza un riferimento concreto alla situazione coeva.
In un primo tempo la tensione fra l’istanza teologica e la pragmatica fu depotenziata col relegare in un
allegato la tematizzazione delle questioni pratiche; ma ciò nocque alla chiarezza del nesso fra le
riflessioni teologiche e i pronunciamenti concreti sulle questioni del presente. Quanto più s’andava
affermando come non meno giustificata delle soluzioni precedenti la definitiva bipartizione dello schema, tanto
più si palesava la necessità di trovare una comune prospettiva grazie a cui apparisse evidente
che le due parti sono intrinsecamente interconnesse.
Con il prospettarsi di questa problematica andò acquisendo importanza anche la questione del
destinatario dello schema progettato. Dalla risposta che le si fosse data dipendeva se parlare piuttosto il
linguaggio della fede o invece muoversi in modo argomentativo su di un piano in cui trovano posto insieme
cristiani e non cristiani. Incoraggiati dalle encicliche del papa Giovanni XXIII, nel corso dei dibattiti
i padri conciliari si decisero per un dialogo con il mondo. Si sarebbe dovuto parlare non solo
del mondo, ma anche e piuttosto col mondo.
Occorreva quindi trovare un linguaggio che da una parte fosse compreso da tutti, ma dall’altra esprimesse
efficacemente la prospettiva specificamente cristiana: un linguaggio, quindi, che non si lasciasse
imprigionare nell’alternativa fra identità cristiana e rilevanza universale. Anche rispetto a
questa sfida parve sulle prime raccomandabile un’argomentazione di tipo “giusnaturalistico”,
che di fatto figurò nel Testo 1. Ma così ci si sarebbe preclusa a priori la probabilità
d’un consenso ecumenico.
Quel che si esigeva, sullo sfondo di tutta questa evoluzione e delle riflessioni che la punteggiarono, era
un’argomentazione teologica di stampo storico-salvifico, che non rinunciasse a descrivere la situazione in
atto; era un linguaggio che esprimesse quanto è specificamente cattolico, ma potesse al medesimo tempo
esser fatto proprio anche da non cattolici e non cristiani; era un’ottica che tenesse conto della
mutata autocomprensione degli uomini, ma senza limitarsi a una mera descrizione di ciò che era
deficitario. Si trattava dunque di trovare il punto archimedeo su cui far leva per conciliare al meglio tanto le
disparate istanze quanto la tematica da affrontare.
Perché i padri del Concilio potessero venire a capo di queste difficili sfide, due erano le
possibilità che si offrivano loro: o sistematizzare lo schema in base a una visuale antropologica, o a
questa preferire, allo stesso fine, un’ottica ecclesiologica. La prima fu tentata nel Testo 2. Vi si
espone infatti una dottrina sull’uomo incentrata attorno alla nozione di “immagine (o icona) di
Dio”. Ma in tal modo si ebbe niente di più d’un avvio dell’auspicata sintesi; ciò
indusse a tentare una sistematizzazione da punti di vista ecclesiologici, come avvenne a Malines, sotto la
direzione del cardinal Suenens. Ne risultò un cosiddetto “Testo intermedio a”, che presentava
bensì una buona descrizione del rapporto della Chiesa col mondo, ma con un linguaggio che fu giudicato
eccessivamente ed astrattamente teologico e perciò poco idoneo ad avviare un dialogo universale.
Solo quando si ebbe il Testo 3 – tralascio l’abbozzo zurighese (Testo intermedio b) – si
dischiuse una via d’uscita dalla situazione evidentemente deteriorata. Ci si risolse di nuovo per
l’impostazione antropologica e si cercò di mettere in risalto l’unità fra vocazione
terrena e vocazione soprannaturale dell’uomo. In questo tentativo erano in gioco non semplicemente
l’uomo in generale, bensì l’uomo moderno e l’intelligenza che egli ha di sé.
Scrive in proposito R. A. Sigmond, uno dei decisivi coautori del testo: «In questa diagnosi
dell’uomo moderno uno degli aspetti più singolari è il seguente: a misura che egli compie le
sue mirabili conquiste nella sfera della natura e del lavoro, sempre minor chiarezza acquisisce su se stesso, la
sua vocazione e il senso della sua vita. È un grosso problema. È qui, secondo il Concilio, il
punto in cui deve iniziare il dialogo»[4].
Sembrava quindi identificato il punto archimedeo su cui far leva per conciliare le varie istanze, e nei
testi successivi in linea di principio restò salvaguardato. Esso è l’antropologia.
L’aver impostato il discorso sulla crisi antropologica assicurava il terreno comune per un dialogo della
Chiesa, sia fra i suoi membri, sia con cristiani di altre confessioni sia con i non cristiani. Al tempo stesso
portava il discorso su di un problema fondamentale della situazione in atto. Muovendo dall’impostazione
della problematica antropologica si poteva prender di mira un duplice obiettivo: “all’esterno”,
metter sotto gli occhi degli uomini la loro vocazione soprannaturale; “all’interno”,
incoraggiare i credenti all’impegno attivo per la trasformazione del mondo.
Ecco quindi che il tema precipuo dell’ecclesia ad extra rimase determinante anche per la redazione
definitiva della Costituzione Pastorale. Ma fu svolto in base a un’antropologia che affronta la situazione
dell’uomo moderno. L’antropologia costituisce il punto archimedeo della Costituzione
Pastorale, la base per un dialogo con il mondo contemporaneo.
Una volta trovata la base, si pose con sempre più pressante urgenza la questione del come poter parlare,
in quel dialogo, dell’identità del messaggio cristiano. Con l’irrompere della prospettiva
storico-salvifica era evidente che il discorso su questa identità andava fatto per mezzo di una
argomentazione cristologica. Ma come precisare ulteriormente il rapporto fra antropologia e cristologia? Come
parlare cristologicamente senza abbandonare subito la base comune appena trovata? Come restare in dialogo senza
render debole e impreciso il profilo del messaggio cristiano? Sono tutti interrogativi nei quali è in
gioco la risposta positiva che il Concilio vuol dare agli uomini d’oggi circa la loro crisi di
autocomprensione. È a tale questione che ora ci dedichiamo lumeggiando il rapporto fra cristologia e
antropologia, così come viene presentato dal Concilio.
In quanto verrò dicendo, data la scarsità di tempo, preferisco limitarmi a questa sola
questione. A mio parere essa investe il punto nodale della problematica antropologica moderna. È in
essa che si decide in che misura sia possibile un confronto dialogico con antropologie ateologiche e acristiane.
Chiedo la vostra comprensione per la mia impossibilità – negli esigui limiti del tempo concessomi
– di addentrarmi nei singoli aspetti e asserti della Costituzione Pastorale in fatto di antropologia.
Il rapporto fra antropologia e cristologia è un problema di fondo della teologia contemporanea. Un
problema che in certo qual modo si pone tanto come formale e fondamentale, quanto come materiale e categoriale.
In senso formale e fondamentale si tratta del rapporto di precondizione e condizionamento reciproci fra
cristologia e antropologia. L’interrogativo che si pone a questo proposito è il seguente: la via
giusta è quella che va dall’antropologia alla cristologia? L’antropologia è quindi
premessa (praeambula) di asserti cristologici? Oppure non c’è che un percorso,
quello che dalla cristologia va all’antropologia?
Nella questione espressa da questi interrogativi si rispecchia il noto dilemma che emerge allorché si
determina il rapporto fra una “cristologia dal basso” e una “cristologia
dall’alto”. Una “cristologia dal basso”, vale a dire una cristologia che muove da
asserti antropologici, sembra più facilmente accessibile agli uomini d’oggi, ma corre il rischio
di derivare se stessa dall’antropologia, e perciò, in ultima analisi, di risolvere gli asserti
cristologici in antropologia.
La “cristologia dall’alto”, invece, è in grado di significare inequivocabilmente il
nuovo, il peculiarmente incomparabile dell’evento Cristo. C’è tuttavia da chiedersi come possa
darsi una teologia del genere senza il ricorso a premesse concettuali umane e all’autocomprensione
dell’uomo, come dire: a categorie antropologiche.
Con questi interrogativi formali e fondamentali è intimamente connesso il problema materiale e
categoriale. Un problema, questo, che si pone col seguente interrogativo: fino a che punto i concetti
cristologici di “natura” e “persona”, le basilari categorie soteriologiche di
“sacrificio”, “soddisfazione”, “espiazione” ecc. sono suscettibili
d’esser adoperati in modo tale da dire all’uomo d’oggi qualcosa che abbia a che fare con le
sue esperienze e i suoi problemi e tocchi concretamente la sua esistenza?
Nella determinazione del rapporto fra asserti cristologici e antropologici si concentra dunque il dilemma con il
quale, nell’elaborare la Costituzione Pastorale, ebbero a misurarsi – come con un punto cruciale
– i padri conciliari: il dilemma fra identità e rilevanza di quanto è cristiano.
È evidente: per il Concilio la svolta antropologica e le questioni e i problemi che essa solleva non sono
soltanto l’avvio idoneo a un dialogo col mondo odierno, ma ancor più si palesano, al tempo stesso
come il punto nevralgico della problematica del proprio discorso.
Che i padri conciliari non l’abbiano avuta facile con questo problema, ce ne persuade, ancor una volta, una
rapida scorsa alla storia del testo. Dopo aver esposto lo stato della questione desumendolo dalla contemporanea
situazione mondiale, il Testo 3 ne prende l’abbrivo per i suoi asserti antropologici in sede di
cristologia. Pertanto dovrebbe farsi evidente, anche sul piano metodologico, che la cristologia è
presupposto e criterio dell’antropologia.
Nei testi successivi, però, si batte la via opposta: si risale metodicamente
dall’antropologia alla cristologia, e il problema del rapporto fra l’una e l’altra, si cerca di
risolverlo nel senso d’una “cristologia dal basso”. Decisivo fu in proposito il desiderio che
– come si legge nella relatio al Testo di Ariccia – si muovesse «da fatti e
verità che sono accettati dai più, anche dai non credenti, ma in modo tale da pervenire
gradualmente all’esposizione dell’intera verità rivelata», e che, ciò facendo,
quelle verità «naturali fossero viste con occhi evangelici, senza la solita riprovevole separazione
fra ciò che è all’ordine della redenzione, poiché la creazione stessa è
indubbiamente immersa anch’essa nell’ordine della redenzione»[5].
Sullo sfondo della Gaudium et spes, dunque, sta una concezione teologica che muove dall’unità
storico-salvifica di ordine creazionale e ordine redentivo. Nonostante che l’abbrivio sia preso
dall’antropologia la cristologia costituisce il criterio e il permanente orizzonte intellettivo di tutti
gli asserti antropologici. Gesù Cristo viene proclamato origine e traguardo del vero esser uomo. E
infatti si legge nel testo definitivo: «In realtà solamente nel mistero del Verbo incarnato trova
vera luce il mistero dell’uomo» (GS, n. 22). In questa frase l’antropologia della
Costituzione Pastorale ha, per così dire, la sua falsariga e la sua formula. È una frase che
autorizza a definire quella del Vaticano II un’antropologia non solo cristiana, ma altresì
cristologica[6].
La grappa sistematica, che tiene insieme antropologia e cristologia, consiste nel concetto di “immagine
(icona) di Dio”. La teologia teoiconica è il legame con il cui aiuto i padri conciliari tentano
di mettere la personalità dell’uomo, la sua costituiva comunitarietà, come pure la sua
creatività trasformatrice del mondo, in relazione col mistero di Cristo. In quanto immagine di Dio,
infatti, l’uomo trova il suo ultimo compimento, la sua perfezione definitiva solo nella più intima
comunione con Dio, quella che in modo unico e insuperabile è apparsa in Gesù Cristo, il
Dio-Uomo.
Permane tuttavia nel testo conciliare una certa quale indeterminatezza riguardo al rapporto fra la
teoiconicità dell’uomo secondo Gen 1, 26 e la teoiconicità di
Gesù Cristo secondo Col 1, 15[7]. In Gs 12 ci si appella a Gen 1, 26 senza rimandare al Nuovo
Testamento. Di fatto, però, è solo alla luce di Col 1, 15 che si fa chiaro, nella
teoiconicità umana, il dinamismo del suo esemplare e finalizzarsi a Cristo, diremmo quasi la sua
dimensione escatologica.
Piuttosto statico e scialbo, quindi, suona nel paragrafo 12 il richiamo a Gen 1, 26, mentre nel paragrafo
22 sopravviene alquanto bruscamente il rinvio a Col 1, 15. Realmente comprensibile il nesso fra la
teoiconicità dell’uomo e quella di Gesù Cristo si fa solo alla luce del discorso amartologico
del paragrafo 13. In quanto icona di Dio (Col 1, 15) Gesù Cristo è l’uomo perfetto, il
quale ha restituito ai figli di Adamo la teoiconicità che s’era andata deturpando dall’istante
del peccato.
È Gesù Cristo, e nessun altro, a liberare l’uomo da ciò che gli preclude il ritorno
alla sua vera dignità. La determinazione del rapporto fra la teoiconicità dell’uomo e
quella di Dio resta quindi sul piano soteriologico. Rimane oscuro il nesso teologico-creazionale. La ragione
di tale debolezza sta nell’intento d’imbarcarsi in un discorso teologico-creazionale senza anticipare
in qualche modo quello cristologico del paragrafo 22.
Da questa parte si palesano un po’ i limiti della concezione antropologica su cui poggia la Gaudium et
spes. Ma, in fin dei conti, da un concilio non si può pretendere una determinazione sistematica del
rapporto in questione; essa è compito, piuttosto, della teologia che gli terrà dietro. Per non
dire, poi, che, ad onta di codesti limiti, rimane spazio sufficiente per un approfondimento e una chiarificazione
ulteriori del rapporto fra antropologia e cristologia. È quindi lecito affermare, in complesso, che il
Concilio è riuscito a darci un’antropologia veramente teologica, anzi cristologica. Il Concilio
ha scelto un’impostazione di tipo induttivo, “dal basso”, senza per questo cadere in un erroneo
antropocentrismo.
Concludendo, vorrei provarvi per via di enunciati a desumere ancora qualcos’altro dalla Gaudium et
spes, proponendo tre tesi riepilogative[8].
1. La Gaudium et spes fa capire manifestamente che l’antropologia è il
presupposto necessario d’una cristologia nel contesto del pensiero moderno. La cristologia presuppone
l’uomo in quanto soggetto libero, capace di ascolto e di risposta. Essa non vuol convincere altrimenti
che in forza della verità, la quale vincola e muove l’uomo nella coscienza. La determinazione
cristologica dell’esser uomo, quindi, non è qualcosa d’estraneo all’uomo. La teologia
può e deve riconoscere l’autonomia dell’uomo rettamente intesa, e pertanto difende la
libertà dell’uomo. La fede cristiana si palesa come tutela della trascendenza della persona
umana.
2. All’uomo in quanto essere dotato di libertà, aperto e suscettibile di elevazione, appartiene
essenzialmente il nuovo in assoluto. La determinazione cristologica dell’uomo è non
l’ideologia del già esistente né la pia sopraelevazione retorica del risaputo, bensì
l’inderivabile e insuperabile compimento della speranza dell’uomo. In essa l’indeterminata
apertura dell’uomo riceve una sua concreta inderivabile determinazione. L’uomo è, certo,
soggetto della fede, ma non ne è oggetto, né materiale né formale. La fede, piuttosto,
apre l’uomo a Dio, che per l’in(de)finita apertura dell’uomo è l’unica possibile
determinazione, l’unico possibile compimento (oggetto materiale), e al tempo stesso illumina (col
lumen fidei) l’orizzonte dell’uomo in modo tale da rendergli possibile conoscere e accettare
Dio in quanto Dio (oggetto formale). Pertanto l’uomo viene preservato dall’avvilire Dio – in
forza dell’umana finitezza delle facoltà conoscitive – a un dio finito, un idolo che abbia
unicamente la funzione ideologica di soddisfare le umane necessità. Nella fede, dunque, la posta in gioco
è questa: che Dio, comunicatosi interamente all’uomo in Gesù Cristo sia riconosciuto come
Dio.
3. La determinazione e il compimento cristologici dell’uomo segnano, al tempo stesso, la crisi
dell’autodeterminazione che l’uomo si è data in quanto peccatore. Nel messaggio cristiano
l’annuncio della grazia è quindi inscindibile da quello della giustizia, l’evangelo non va
separato dalla legge.
Nel testo di Ariccia questo aspetto figurava ancora in termini troppo esigui. Grazie all’intervento di
tutti i vescovi e teologi germanofoni, se ne discorre chiaramente, invece, nella redazione definitiva. La
cristologia dell’incarnazione è stata integrata dalla teologia della Croce e dalla cristologia
pasquale. La Croce, che forza e ara la natura intimamente distorta dal peccato, è quindi non
crocifissione, ma liberazione dell’uomo. L’esodo e la metanoia sventrano il peccato, nel quale
l’uomo si è intimamente deformato (il peccato è incurvatio hominis); riportano alla
luce l’originaria estasi dell’uomo e la conducono a piena attuazione. Il rivivere la Pascha
Domini è quindi la via al compimento, alla perfezione dell’uomo.
Coerentemente a queste tre tesi, si può dire che il Vaticano II ha fatto sua la svolta antropologica
moderna. Ma – tramite la motivazione e la finalizzazione teologiche dell’antropologia,
l’esposizione delle quali ha il suo acme nel paragrafo 22 – la Costituzione Pastorale si distanzia
altresì criticamente sia da concreti progetti antropologici, sia da vissute attuazioni d’istanze
antropologiche. La cristologia rimanda alla problematica fondamentale a cui conduce l’impostazione
antropologica. L’antropologia viene dunque trascesa dalla cristologia. Questa addita quale meta degna
dell’uomo l’umanizzazione dell’uomo attraverso la divinizzazione dell’uomo, che non
è certo realizzabile dall’uomo stesso.
Per più d’un aspetto lo sviluppo sistematico d’una siffatta antropologia fondata e
caratterizzata cristologicamente, come pure la compiuta formulazione di un’etica individuale e sociale,
fondata anch’essa su basi cristologiche, sono ancora tutt’oggi, a trent’anni dalla Gaudium
et spes, degli urgenti desiderata. Per dirla in altri termini, la ricezione del Concilio Vaticano II
è ben lungi dall’esserci alle spalle, ma per molti aspetti l’abbiamo ancora davanti a noi. I
testi del Concilio Vaticano II sono e rimangono la magna charta per il cammino della Chiesa nel terzo
millennio.
[1] Su questo e su quanto segue, cfr. L. Honnefelder, Anthropologie.Allgemeine Wissenschaftsgeschichte, in: LThK3 I, pp. 721-724.
[2] Ch. Moeller, in LThK.E III (1968), pp. 242-279, 245.
[3] In proposito, cfr. Th. Gertler, Jesus Christus – Die Antwort der Kirche auf die Frage nach dem Menschsein. Eine Untersuchung zu Funktion und Inhalt der Christologie im ersten Teil der Pastoralkonstitution Gaudium et spes des Zweiten Vatikanischen Konzils, Leipzig, 1986, pp. 16ss. Sull’intera problematica si veda inoltre: P. Eyt, L’avenir de l’homme.La Constitution pastorale “Gaudium et spes” (1ère partie), Paris, 1986.
[4] R. A. Sigmond, Unterlagen zur Geschichte der pastoralen Konstitution über die Kirche in der Welt von Heute, in: Ido-c, 66-2 e 66-3, Rom, 1966, II, 3.
[5] T 4, Relatio generalis I, AS IV/1, 523.
[6] Al riguardo cfr. T 5, Relatio particularis ad n. 41 (F), (G), (H), AS IV/6, 470; si veda inoltre: Th. Gertler, op. cit., 63, 313.
[7] Si veda in proposito: J. Ratzinger, Kommentar zum ersten Kapitel des ersten Teils der Pastoralkonstitution, in: LThK.E III, 313-354, 316ss.; 350.
[8] Rimando, in proposito, a un mio contributo: W. Kasper, Theologie und Kirche, Mainz, 1987, pp. 194-216 (“Christologie und Anthropoligie”), traduz. italiana Teologia e Chiesa, Brescia, 1989.