Riprendiamo, per gentile concessione, il testo della relazione tenuta dal prof. Andrea Grillo in occasione del Percorso di approfondimento e di formazione organizzato per i lettori dall’Ufficio liturgico della Diocesi di Tivoli nell’anno 2007/2008 e pubblicato, insieme agli altri interventi del corso stesso, nel volume La Parola di Dio nella vita della Chiesa. Percorso di approfondimento liturgico, a cura di Luca Rocchi, direttore dell’Ufficio liturgico della stessa Diocesi. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. I corsivi appartengono, invece, al testo stesso.
Il Centro culturale Gli scritti (23/12/2008)
“Inutile dare le proprie confetture
a una bocca amara”
ALDA MERINI
Io non ho confetture da darvi. Ma molte ne ha la liturgia e molte, moltissime sono in forma di parola. Eppure noi
abbiamo la bocca amara. La nostra bocca è “amareggiata” (talvolta resa amarissima) da molte
parole futili e leggere, banali e vuote che ascoltiamo e diciamo, dall’alba al tramonto, senza pudore e
senza limite. E queste parole amareggiano e ammorbano bocca e orecchie, occhi e tatto. La Bibbia e il
giornale – come già per Hegel e Barth – sono ancora la nostra necessità e il nostro
problema. Ma noi abbiamo anche radio, telegiornale, DVD, CD, internet... tutti mondi di parole su parole. Anche
la Scrittura, da questo universo di parole, risulta minacciata e stravolta.
Io, allora – in questo mondo e non altrove, senza pensare di essere dove non posso essere – vorrei
semplicemente addolcire la vostra bocca e preparare in qualche modo il gusto per quella Parola che parla
solo quando sappiamo desiderarla e gustarla.
Ora, so bene che voi non rimanete né inappetenti né insaziati di fronte alla Parola. Già ve
ne nutrite, ma forse avete difficoltà a parlarne davvero agli altri, ossia a comunicare quel centro
dell’esperienza della
Parola che non si lascia dire troppo facilmente e che si gusta e si comunica solo quando lo
“celebriamo”. Allora vale la pena studiare un poco e dedicarsi – con un minimo di fatica
– al tema
della Parola nella celebrazione.
1.1. Una buona regola è quella di non usare le “parole” senza averle in qualche modo precisate
o definite. A maggior ragione ciò vale per quella particolare parola che è
“parola”.
1.2. Una definizione di parola, tuttavia, è molto difficile nel nostro discorso, poiché dobbiamo
ammettere che “parola” significa molte cose, almeno tre. Parola nella celebrazione è
anzitutto “vero soggetto della celebrazione”, ossia la parola di Dio, il Verbo di Dio
incarnato, il Logos fatto uomo, Gesù il Cristo; è poi una parte della celebrazione, ossia la
“liturgia della parola” rispetto al resto della celebrazione; infine è una dimensione
che attraversa (insieme ad altre) l’intera celebrazione cristiana, segnando decisivamente con
“parole” l’esperienza del culto cristiano.
1.3. Terremo sullo sfondo – come è inevitabile – il senso primo e primario di Parola/Logos. Ci
occuperemo di capire bene i due sensi del termine “parola” che usiamo per parlare della liturgia
della Parola e della Parola nella liturgia. È ovvio che le due cose sono strettamente connesse ed è
difficile dividerle nettamente.
1.4. Bisogna evitare un errore di fondo: l’abbassamento della parola a semplice
“strumento”. La parola come strumento per comunicare il pensiero è una visione troppo
semplicistica e spesso del tutto falsa, che non rispetta il modo con cui facciamo ricorso al parlare. Il rapporto
tra pensiero e parola è molto più complesso che non quello tra padrone e servo: anche di questo
vuole parlarci la liturgia! Anzi, noi non entriamo neppure nella celebrazione cristiana, se pensiamo che la
parola sia solo espressione esterna di ciò che la mente pensa “dentro” e
“silenziosamente”.
1.5. Dividerò allora il mio discorso in due parti: prima la Parola nella Liturgia della Parola e poi le
parole nella Liturgia in generale. Spesso gli operatori pastorali – ai diversi livelli – isolano
la “parola” solo nella citazione della Scrittura, e non mantengono il legame necessario tra Parola e
parole. La distinzione, anche qui, non può mai essere separazione.
2.1. Il nostro sottotitolo recita: verità dimenticate ed evidenze sospette (es.: la lingua italiana
in cui la Parola viene proclamata e ascoltata: verità dimenticata ed evidenza sospetta). Questa è
la prima verità che dobbiamo riportare al ricordo. Ogni celebrazione cristiana ha a che fare con una
“parola scritta” che è autorevole, poiché media essenzialmente non un sapere su Dio,
ma Dio stesso, la sua presenza, la comunione con lui e il suo agire con noi e su di noi.
2.2. Riduciamo ai minimi termini questa esperienza: nella celebrazione si fa uso di un “testo”, di un
“libro”, di una “scrittura”. La Parola indica anzitutto un “testo scritto”,
che in quanto tale diviene autorevole, principio di identità personale e comunitaria.
2.3. Ma questa parola autorevole, scritta, aspetta che noi la leggiamo, la proclamiamo, le diamo di nuovo voce:
la parola scritta e la voce attuale stanno così in un rapporto essenziale che non possiamo scavalcare:
diremo allora che il modo in cui Dio si fa incontrare è l’ascolto e la lettura, la
proclamazione e l’acclamazione di un testo scritto. Dio parla non come “testo scritto”,
ma come “testo scritto e letto, proclamato e ascoltato, atteso e meditato”. È in questo
“evento” che la Scrittura si fa
parola di Dio.
2.4. Se consideriamo questo primo aspetto, dobbiamo anche riflettere su una sorta di
“superficialità ereditaria” che la nostra tradizione cattolica ha lungamente coltivato,
ossia di una certa leggerezza nel dare il peso che spettava alla parola di Dio. Ma questo non ha significato
altro che perdere il senso sacramentale della Parola proclamata, riducendola alla “parte didattica
della messa”, perciò gran parte delle folle entravano solo dopo l’offertorio...
2.5. Ma vi è un altro aspetto: la Parola nella liturgia della Parola sta sotto il segno della
“invocazione-evocazione”. Ossia, non è mai semplicemente documento da constatare, fatto
obiettivo, resoconto o cronaca, ma evocazione interna a una invocazione. Sta sotto il segno della preghiera e
non se ne può mai distaccare. Non si tratta di un catalogo di concetti biblici da inserire poi nella
celebrazione, ma della riscoperta nel contesto dell’incontro celebrato con Dio del senso dei testi
dell’AT e nel NT, nella correlazione che quella celebrazione propone tra il testo scritturistico e il
contesto comunitario.
2.6. Se quindi siamo solo capaci di chiederci cosa accada alla Scrittura quando entra nella Liturgia, siamo
già clamorosamente fuori strada. Vorrei farvi un esempio di questa nostra piccola e grande distorsione
mentale, che dipende da una certa moda culturale (che dura da qualche secolo), ma anche dalla ostinazione con cui
non vogliamo vedere la realtà. L’esempio sulla “istituzione della eucaristia” è
per me sempre molto istruttivo: siamo così abituati a pensare che siano le parole a fondare le azioni, che
in tal modo perdiamo ogni senso sacramentale e liturgico della vita cristiana. Il “testo” non
è autonomo dal “contesto”, e la liturgia è il contesto che più sistematicamente
si ricorda di questo principio! La “istituzione dell’eucaristia” non è semplicemente
un testo scritto che fonda il senso di una azione rituale, ma anche, reciprocamente, una azione rituale che fonda
il senso di un testo scritto!
3.1. Che cosa è una parola? È l’insieme di tre dimensioni che si chiamano in modo complicato,
ma che poi compensano della fatica che si è costretti a fare per capirli: il significante, il significato,
il referente. Noi, di solito, percepiamo la delicatezza di tutte le sfumature nel rapporto tra la
“forma” e il “contenuto”, salvo quando ci concentriamo soltanto su un aspetto e
trascuriamo l’altro. Formalismo (ossia forme corporee senza contenuti mentali) e intellettualismo
(contenuti mentali senza forme corporee) sono i due grandi abissi da cui oggi dobbiamo guardarci.
3.2. La parola “fonda” e “sfonda” la vita cristiana: ossia, dobbiamo capire che tutto
ciò che la Chiesa è nasce dal rapporto con questa parola. Ma questo non significa né che la
Chiesa dipenda anzitutto dai “significati” delle parole, né che dobbiamo trovare una parola
che spieghi ogni aspetto della Chiesa: questo sarebbe capovolgere il rapporto, sarebbe una Chiesa che
giustifica la Parola e non che si lascia giustificare da essa! In verità, questa parola è
talmente forte e alta, talmente dolce e inebriante, che rimescola sempre il tutto della Chiesa, il suo ordine e i
suoi programmi, le sue buone intenzioni e le sue prospettive. Non è una parola che inquadra e irregimenta,
ma che articola e differenzia, che fa fare una esperienza di Dio in cui l’universale è solo
attraverso il singolare, in cui a Dio si arriva sempre attraverso quel Crocifisso Risorto, che rilegge su di
sé e attraverso di sé la legge e i profeti.
3.3. Il rito è autentico solo in rapporto alla Scrittura, ma la Scrittura è parola di Dio solo se
accetta di farsi rito, incontro, proclamazione e ascolto, iniziazione e corpo ecclesiale. La parola della
Scrittura diventa vita solo se si fa corpo nelle parole del sacramento. Solo così essa sfugge alla pretesa
“gnostica” di dominare il testo. Il testo, quando non è più parola ma soltanto
“significato”, è già diventato prigioniero della testa di chi lo legge e perciò
non è più testo “ispirato”, ma nello stesso tempo ideologia e schiavitù,
fondamentalismo e relativismo.
3.4. L’ordine della Scrittura, l’ordine del testo, è molto disordinato. Così il rito,
che si compone di “ordines”, non risponde a idee chiare e distinte né a “concetti
biblici”, ma rifigura la figura biblica, come incontro sorprendente, salvezza inattesa, buio rischiarato,
promessa mantenuta. Dà coerenza a ciò che, di per sé, attende la coerenza
dall’incontro celebrativo. Per usare una metafora, la Bella Addormentata che è la Scrittura
aspetta un Principe azzurro che è anzitutto l’atto di proclamazione, lettura, ascolto, risposta
della celebrazione.
3.5. Una considerazione troppo semplicistica della Scrittura spesso ci insegna troppo una cosa e troppo poco
un’altra: se la Scrittura è ispirata, possono riconoscerlo solo una lettura ispirata, un ascolto
ispirato, una recezione ispirata. Quello Spirito che “ha parlato per mezzo dei profeti”, ora
“spira nella Chiesa”: e una cosa non sta senza l’altra. Lo Spirito, che ha scritto, si
riconosce solo se è all’opera e al lavoro anche nel lettore, nell’uditore, nel celebrante. La
Scrittura è in quanto scritta, letta, proclamata, gustata: c’è Scrittura solo in questa
pluralità di azioni e non nell’operazione degna del museo di appendere un libro al muro e guardarlo
(come si fa coi quadri). La predicazione spesso scivola inconsapevolmente in questo bel museo scritturistico,
pieno di documenti preziosi del passato, conservati sotto teca, con sistemi di sicurezza e aria condizionata, ma
senza vita, senza figli, senza esperienza.
3.6. Ricordando sempre che Parola è nella liturgia sia il soggetto sia una parte del tutto, allora
diventiamo sapienti se ricordiamo anche come la Parola si fa parola nelle nostre parole e anche in tutto
ciò che precede, accompagna e segue la parola. Il “testo” e il “contesto” sono in
rapporto di reciprocità. Il testo senza contesto è privo di senso; il contesto senza testo non
è orientato. Osserviamo allora alcuni rapporti tra la dimensione di parola (che chiamiamo il
“verbale”) e la dimensione con cui comunichiamo, ma senza parole (e lo diciamo il
“non-verbale”):
La qualità dei gesti, delle musiche, dei silenzi non solo “orna” un testo, ma fornisce il
contesto proprio o improprio di un testo!
Alcune vie per diventare più sciolti in queste differenze così importanti diventano assolutamente
preziose per poter apprendere stili di “presa di parola” adeguati al culto cristiano. Insomma,
dobbiamo imparare a vedere delle differenze:
La parola della celebrazione resta anzitutto parola d’amore. Per concludere, possiamo
fare riferimento ad una recente riflessione proposta da J.L. Marion[1]1, che ha indagato la tradizione della teologia mistica
negativa con gli strumenti della linguistica e sulla base di un’analogia con il “discorso
erotico”, che si concentra sul senso delle parole “ti amo”.
Nella relazione erotica, infatti, i livelli di linguaggio coinvolti sono almeno tre: si tratta di dire tutto, di
non dire nulla, di agire sull’altro e di lasciarlo agire su di me: lode, canto, giubilo, silenzio sono le
forme ecclesiali di tale relazione d’amore, dove la parola è immersa in un contesto d’amore.
Non solo comunica concetti d’amore ma è l’Evento, l’incontro e la comunione con questo
amore.
Proviamo a soffermarci su ognuna di queste soglie:
Queste tre figure del linguaggio dell’amore possono essere raffrontate nella via
affermativa, in quella via negativa e nella via eminentiae,
che corrisponde nel modo più chiaro al linguaggio della lode nella celebrazione. Potremmo dire,
allora, che nel celebrare non si tratta anzitutto di affermazione o di negazione, ma di istituire/riconoscere il
rapporto con la fonte dell’amore e della identità. Nella celebrazione per la parola non è
importante «né dire, né negare qualcosa di qualcosa, ma agire sull’altro e lasciarlo
agire su di me»[2].
In questa dinamica tra diversi sensi della “parola” vediamo anche apparire, sia pure da lontano,
l’antica questione della “lettera” e dello “Spirito”. La parola, nel suo tenore
letterale e isolato, è impotente a comunicare l’essenziale. Può farlo solo se ricollocata in
un contesto appropriato, in una serie di “altre” comunicazioni che permettono alla lettera, senza
nulla perdere di ciò che è, senza dover essere mutata, di trasfigurarsi al contatto con altre
comunicazioni. È il “contatto” a liberare il concetto dalla sua freddezza, così come
il concetto libera il contatto dalla sua indefinitezza. L’eccesso di caldo del contatto è
temperato dal freddo del concetto; l’eccesso di gelo del concetto è riscaldato dalla intimità
del contatto.
Qui, conclusivamente possiamo riconoscere la provocazione che avevamo assunto all’inizio: sono le pratiche
comunicative, in particolare le pratiche simbolico-rituali, a costituire uno dei grandi campi in cui un testo,
nell’essere efficace, trova strutturalmente “davanti a sé” la propria verità. La
ricchezza di una tale prassi celebrativa cristiana costituisce un punto qualificante e originario di una
ermeneutica che, per poter essere nuova, deve essere profondamente fedele a quella antica; ma che, viceversa, per
poter essere fedele alla tradizione, deve poterne mostrare una versione nuova. Proprio qui la continuità
è al prezzo di una certa discontinuità, ma la discontinuità è solo al servizio di una
profonda continuità. Lettera e Spirito non si oppongono, ma piuttosto si intrecciano. Non si
può attingere lo Spirito se non nell’umiltà della lettera, ma non si può rispettare
veramente la lettera se non lasciandola attraversare dallo Spirito che è novità. Così la
Chiesa è impegnata, nelle sue pratiche differenziate, a continuare creativamente e fedelmente quanto ha
appreso dal suo Signore.
Quella Parola che è Amore mi parla alla maniera di un amante all’amata, e io le rispondo
amorevolmente, con mie parole, abilitate dalla sua e riconoscenti e ammirate verso di essa. Ecco la logica che
mette insieme i tre sensi di “parola” da cui eravamo partiti e ai quali alla fine siamo anche
riusciti a tornare, spero con la bocca meno amara.
[1] Cfr. J.-L. MARION, Parlare
d’amore. Teologia e mistica: l’ineffabile e
i sensi, “Il Regno”, 47/8 (2002), 277-284.
[2] MARION, Parlare d’amore, 283.