Ripresentiamo sul nostro sito l’articolo scritto dal prof. Giancarlo Biguzzi, con il titolo originario La bellezza della carità in 1Cor 13, per il volume Il bello della Bibbia. Visione poliedrica del ‘Bello Ideale’, L’Aquila, ed. ISSRA, 2005. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza di questo testo sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
Il Centro culturale Gli scritti 21/3/2009
Un commentatore edificante inglese del XIX secolo immagina la reazione dello scriba efesino quando Paolo
cominciò a dettargli il capitolo 13 della prima lettera ai Corinzi: «Lo scriba ha dovuto arrestarsi
e alzare gli occhi sul volto del suo maestro per l’improvviso cambio di stile nella dettatura, e
l’avrà visto come il volto d’un angelo, perché gli passava davanti questa visione di
perfezione divina». Quel commentatore, colpito dalla sublimità di 1Cor 13, è A.P. Stanley ed
è citato da E.-B. Allo il quale, a sua volta, dice la sublimità del testo di Paolo sull’agape
definendolo «il Cantico dei cantici dell’amore cristiano».[1]
Sulla scia di A.P. Stanley, di E.-B Allo e di molti commentatori di Paolo proviamo ad aprire gli occhi sulle
bellezze di dettaglio e d’insieme di 1 Corinzi 13.
Inno (o cantico) è il titolo di solito dato a 1Cor 13,[2] ma quella definizione è sempre più evitata. J.T. Sanders la
esclude aprendo un suo articolo del 1966 con l’affermazione: «1Cor 13 non è un inno», e
R. Kieffer dice che la struttura ritmica di 1Cor 13 è retorica più che metrica. C. Spicq preferisce
parlare di «esortazione parenetica» piuttosto che di un inno propriamente detto ma, con molti altri,
R. Penna trova inadeguata anche questa definizione dal momento che il modo verbale di 1Cor 13 è
l’indicativo, non l’imperativo, che non vi ricorre mai.[3]
La definizione verso la quale sempre più ci si orienta è quella di «encomio» o
«elogio», genere di cui non solo la letteratura greco-latina, ma anche quella veterotestamentaria e
giudaica offrono molti esempi.[4] R. Penna fa notare per esempio che in 1Cor 13 l’agape viene celebrata come
valore massimamente prezioso, come grandezza unica e addirittura personificata, e lo stesso C. Spicq, che pur
parlava di «esortazione», scrive: «Per mettere in luce l’eccellenza della carità,
San Paolo si è conformato all’uso della retorica classica redigendo la sua composizione sul tipo
tradizionale degli elogi delle virtù».[5] Dedicando un intero articolo al genere letterario-retorico di 1Cor 13, J. Smit poi
mostra come tutto contribuisca a inscrivere 1Cor 13 nel genere dell’encomio: termini e metafore,
parallelismi e antitesi, ripetizioni e ritmi, gli oggetti di elogio o di biasimo, le circostanze e le
caratterizzazioni, i procedimenti messi in atto per convincere, e lo scopo che Paolo persegue.[6] Poiché tuttavia gli imperativi
che mancano nel testo di 1Cor 13 sono nel v. 12,31 che lo precede («Aspirate ai carismi più
grandi[7] e io vi mostro la
via per eccellenza»)[8]
e nel v. 14,1 che lo segue («Ricercate la carità!»), con M. Sewodo si potrebbe definire 1Cor
13 «éloge à intention parénetique - elogio a intenzione
esortativa»,[9] tanto
più che spesso gli encomi hanno lo scopo di esortare.[10]
Quanto alla suddivisione di 1Cor 13, H. Desroches scrive: «1Cor 13 se divise de lui-même - si divide
da sé», e E.-B. Allo dice che la divisione di 1Cor 13 è riconosciuta da tutti.[11] Si può aggiungere che
già San Tommaso d’Aquino l’aveva individuata con lucidità. Per l’Aquinate 1Cor 13
descrive l’eccellenza della carità in tre «strofe»: nella prima l’agape eccelle
«quantum ad necessitatem», nella seconda «quantum ad utilitatem», nella terza
«quantum ad permanentiam».
In effetti le tre strofe si contraddistinguono nettamente per la loro forma grammaticale e
sintattica.[12] La prima
strofa è costituita da una sequenza di tre frasi ipotetiche abbastanza complesse, nelle quali alla protasi
o alle protasi iniziali se ne contrappone un’ultima sempre uguale a sé stessa la quale, insieme con
l’apodosi, svolge la funzione di ritornello tematico, affermando l’indispensabilità
dell’agape (vv. 1-3). La seconda strofa è invece descrittiva: elencando 15 azioni di cui
l’agape è costantemente soggetto, espresso o implicito, dice quello che l’agape positivamente
fa o che si astiene dal fare (vv. 4-7).[13] La terza strofa mette l’agape a confronto prima con i carismi di profezia,
«lingue» e «conoscenza», e poi con le altre due virtù che noi chiamiamo teologali,
giungendo alla conclusione che l’agape è perenne e che è superiore anche a fede e speranza,
benché anch’esse siano perenni (vv. 8-13).[14]
L’articolazione di tutto il testo dunque può essere così rappresentata:
Riservando un breve commento agli imperativi per la conclusione, illustriamo ora le tre strofe.
Nelle tre serie di ipotesi della prima strofa Paolo propone:
i. Una o due protasi che si potrebbero chiamare «protasi di pretesa grandezza» perché evocano
alcuni dei carismi più ricercati dai corinzi, o gesti che sono o sembrano ispirati da sublime eroismo. Nel
proporre le sue ipotesi, Paolo parla in prima persona («Se avessi…») per evidenti esigenze
retoriche:[16] non solo per
rendere più vivace il discorso personalizzandolo, ma soprattutto per potersi permettere un linguaggio
netto e tagliente il più possibile.
ii. Un’ulteriore ipotesi che, giustapposta a quelle di pretesa grandezza, si ripete sempre uguale e si
contrappone alle protasi precedenti come ipotesi di contrasto e come criterio dirimente circa il valore delle
grandezze precedentemente evocate («… ma se non ho l’agape»). La fissità della
formula e il ripetersi a modo di refrain dicono l’importante funzione retorica della piccola
contro-ipotesi.
iii. L’apodosi che ogni volta dichiara il risultato fallimentare di chi si gloriasse di questa o quella
pretesa grandezza senza avere l’agape («… sarei un bronzo rumoroso e un cembalo
squillante», «… sarei nulla», «… sarei totalmente inutile»).
Nella prima serie di ipotesi la protasi di pretesa grandezza è quella del parlare in lingue. A differenza
che in 1Cor 12 e 1Cor 14, qui si precisa che le lingue possono essere sia quelle degli uomini che quelle degli
angeli. Le interpretazioni che si possono qui ricordare sono quella «cultuale» e quella
«carismatica».[17] Per i rabbini, dice la prima interpretazione, solo angeli e uomini hanno la
parola per lodare Dio: gli angeli lo fanno con il trisagion di Is 6,3, e gli uomini con lo
šema‘. In questo caso, il bronzo rumoroso (chalkos ēchōn) sarebbe il gong di
rame che talvolta si appendeva ai templi o agli alberi sacri[18] per convocare i fedeli alle celebrazioni o alle feste,
mentre il cembalo squillante (kymbalonalalazon) rimanderebbe allo strumento a percussione che nei templi
di Cibele e Dioniso doveva attirare l’attenzione degli dèi e cacciare i demoni, o provocare stati
estatici.[19]
L’interpretazione carismatica, molto più in continuità con il contesto che è
interamente dedicato ai doni dello Spirito, intende invece le «lingue degli angeli» come glossolalia
da mettere in crescendo accanto alle lingue parlate dagli uomini.[20] Più che delle speculazioni rabbiniche e pagane,
dunque, Paolo era preoccupato della ricerca corinzia dei carismi, qui come nei capitoli precedente e
seguente.[21] E allora, a
ragione C.K. Barrett scrive che è mero paganesimo quello di una Chiesa che parla in lingue e non ha
l’agape.[22]
Nella seconda serie di ipotesi le protasi di pretesa grandezza riguardano del tutto esplicitamente i carismi,
anche se gli interpreti differiscono nel conteggiarli: per alcuni si parla della sola profezia, per altri si
parlerebbe di due carismi (profezia e fede), per altri di tre (profezia, conoscenza, fede) o quattro carismi
(profezia, conoscenza dei misteri, scienza /conoscenza, fede).[23] Di fatto, i carismi chiamati in causa sembrano essere
più di uno se non altro perché profezia, misteri e conoscenza sono separati dalla fede carismatica
che trasporta le montagne con un nuovo «se /ean» («… e se avessi tutta la fede
così da spostare le montagne»). Quest’ultima protasi ha anzi il sapore di una protasi
culminante, di apice, come fanno pensare non solo il nuovo «ean /se», ma anche il
«tutta» di «tutta /pasan la fede», l’attenzione riservata agli effetti di
quella fede e soprattutto il loro carattere iperbolico (lo spostare delle montagne).[24]
In ogni caso la profezia è la parola ispirata in vista dell’edificazione della comunità (cf.
14,4). La conoscenza dei misteri significa probabilmente una comprensione particolarmente penetrante della
condizione cristiana nella sua dimensione più misteriosa, quella escatologica. La scienza o conoscenza
sarebbe la capacità di dedurre le implicazioni morali per il presente. La fede, infine, non è la
fede che giustifica o fede teologica, perché essa è di tutti i credenti, ma è la fede
carismatica che opera cose impossibili alle sole forze umane. Se Paolo segue qui lo schema di 1Cor 14 (la
glossolalia nel v. 1 come in 14,2 ecc., e la profezia nel v. 2 come in 14,3 ecc.), significa che egli mette le
seconde ipotesi in crescendo rispetto alle prime. In tal modo, l’agape è necessaria a tutti i
carismi, dal più piccolo al più grande. E se il glossolalo senza agape è uno che strepita a
vuoto, il profeta senza agape è addirittura nulla (outhen).[25]
Dal «dire» della prima serie (parlare in lingue) e dal «conoscere» della seconda serie
(conoscere i misteri), nella terza serie di ipotesi di grandezza Paolo passa al «fare»: a ciò
che si può fare con i propri beni e con la propria stessa vita.[26] Lo psōmisō della prima protasi significa
«nutrire a piccoli bocconi (psōmos, briciola, boccone)» un bimbo o un
invalido,[27] e
l’affermazione potrebbe essere così parafrasata: «Se dividessi in frammenti le mie
proprietà [per poi beneficare il prossimo]…». La grandezza che si ipotizza è un
auto-spogliamento dei propri averi e dunque un distacco e una generosità come quella che Gesù
chiedeva («… vendi tutto quello che hai e dàllo ai poveri», Lc 18,22). La seconda
ipotesi di grandezza è quella di un sacrificio ancora più generoso perché sarebbe il
sacrificio della propria persona: «Se dessi il mio corpo [alle fiamme][28] per essere bruciato…».[29] Anche qui l’ultima protasi di
pretesa grandezza si colloca al vertice di un crescendo, dopo di che viene la protasi di contrasto con il suo
«ma se non avessi l’agape», e l’apodosi: «sarei totalmente inutile».
Dare le proprie sostanze in beneficenza è oggettivamente di sollievo a chi è nel bisogno, e
tuttavia Paolo non ha dubbi: senza l’agape, ogni carisma e ogni gesto d’eroismo finisce su di un
binario morto.[30] Non
ispirati dall’agape, carismatici ed «eroi» possono essere ispirati dalla vanagloria e
dall’ipocrisia, e allora il primo vangelo direbbe che hanno già ricevuto la loro ricompensa (Mt
6,1ss). La mancanza di agape, lasciando il campo a secondi fini di ogni genere, svuota e corrompe
dall’interno i doni più grandi e i gesti più generosi, tanto è vero che R. Kieffer
può parlare di eroismo «malsano» e H. Schlier può scrivere: «L’uomo a volte
si dona per sfuggire all’amore».[31]
La seconda strofa è caratterizzata da due interessanti fenomeni di linguaggio. Il primo è la
personificazione dell’agape.[32] Il fenomeno non è nuovo. Basti pensare alla personificazione delle Leggi
nel dialogo platonico del Critone (50.A-54.D), alle due personificazioni della Patria nelle Catilinarie di
Cicerone (1, 17-19; 1, 27-29), alla personificazione della Sapienza o della Parola di Dio nell’AT, alla
personificazione di Legge-Nomos, Peccato-Hamartia, Morte-Thanatos nelle lettere paoline o,
infine, alla personificazione della Continenza nelle Confessioni di Agostino (8, 11). Lo scopo di questa e
di ogni personificazione è di dare la massima enfasi possibile a un principio astratto e impersonale. Nel
nostro caso l’agape, a motivo del genere femminile del termine, prende la forma di una signora
esemplarmente operosa, perché possano essere meglio detti l’ispirazione profonda e il dinamismo
segreto di cui non possono fare a meno i carismi.
Questo primo espediente retorico della personificazione è in tal modo finalizzato ad un secondo, quello
per cui l’agape è soggetto non di verbi-copula con il proprio nome del predicato, ma di ben 15 verbi
di azione. Lo notano tutti i commentatori: «Aucun adjectif - neanche un aggettivo», scrive C. Spicq,
e G. Friedrich: «[Paolo] non descrive l’essenza dell’amore ma il suo agire», e R.
Kieffer: «L’agape è dunque in piena azione».[33] Nelle traduzioni correnti sembra che gli aggettivi siano
inevitabili: «La carità è paziente, la carità è benigna», «La
charité est longanime, la charité est serviable…», «Love is patient and
kind»,[34] ma
l’uso di essi allontana la traduzione dal testo greco, perché trasforma l’agire
dell’agape del quale parla il testo, nelle qualità dell’agape, le quali nel testo sono fuori
campo. Poiché a volte nelle nostre lingue mancano verbi che possano tradurre quelli greci, per restare
più fedeli al testo si potrebbe introdurre il verbo «agisce» facendolo seguire da complementi
di modo: «L’agape agisce con magnanimità, con benignità ecc.».
I 15 verbi di cui l’agape è soggetto si possono raggruppare in base alle loro caratteristiche
morfologiche. La serie è aperta da 2 azioni positive, ed è poi proseguita da 9 verbi che sono
costruiti con la negazione ou o ouk, all’infuori dell’ultimo che però è
legato all’ottavo con un «invece /de» di contrapposizione. La serie si conclude infine
con 4 altre azioni che hanno «tutto /panta» come complemento oggetto. L’elenco è
ovviamente esemplificativo e non esaustivo, e deve dire come l’azione dell’agape si volga in tutte le
direzioni.
Le prime due azioni dicono come la carità agisca con animo grande (makrothymei) e con
benignità (chrēsteuetai). Nel suo animo (-thymos) grande (makro-) e benigno
(chrēstos), chi ha l’agape non può convivere con almeno 7 forme di meschinità: la
gelosia o l’invidia (ou zēloi), la frivolezza e l’ostentazione (ou perpereuteai),
il gonfiarsi di sufficienza e d’orgoglio (ou physioutai), la mancanza di proprietà e di tatto
(ouch aschēmonei), la ricerca di sé stessi e del proprio interesse (ou zētei ta
heautēs), l’eccitazione fanatica e scomposta (ou paroxynetai), il rancore e la rappresaglia
(ou logizetai to kakon) e, infine, il godere dell’ingiustizia (ou chairei epi
tēi adikiai). A diretto contrasto con il godere di ciò
che è ingiusto, viene come nona azione dell’agape il farsi invece coinvolgere (syn-) nella
gioia per la verità (sygkairei de tēi
alētheiai). Poi, a chiusura, vengono le affermazioni del «panta
/tutto»: l’agape è così forte che tutto porta e sopporta (panta stegei -
panta hypomenei), e tutto crede non perdendo mai la fiducia né la speranza (panta pisteuei -
panta elpizei).
La terza strofa è senza dubbio la più difficile e le difficoltà, già presenti nei vv.
8-12, versetti in qualche modo introduttivi, hanno il loro vertice nel v. 13.[35] La strofa si articola in quattro segmenti (qui esposti
mettendo il primo al terzo posto, perché simile al quarto):
ii. una prima illustrazione riguardante la caducità di profezia e scienza (vv. 8-11), introdotta da un
primo «infatti /gar» (v. 8). – I carismi di profezia, lingue e gnōsis
cesseranno e saranno dismessi (v. 8b), perché (gar) scienza e profezia sono parziali (v. 9), e
ciò che è parziale viene dismesso quando sopraggiunge ciò che è perfetto (v. 10). Nel
v. 11 l’imperfezione è poi esemplificata con ciò che si fa quando si è bambini
(«… parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino»), mentre quando si diviene
adulti, si dismette ciò che si faceva da piccoli («… ho dismesso ciò che era
puerile»).[36]
iii. una seconda illustrazione (v. 12), introdotta da un secondo «infatti /gar». Essa riguarda
la visione imperfetta («come in uno specchio»)[37] e oscura («in enigma»)[38] e la conoscenza parziale, del tempo presente («Noi
infatti ora vediamo…, noi ora conosciamo»). Anche qui si parla del perfezionamento che
renderà immediato ciò che ora è mediato (di’esoptrou, v. 12a) e perfetto
ciò che ora è parziale (ek merous). La visione mediata e difettosa che si ha ora
diverrà visione faccia a faccia, e la conoscenza parziale del presente diventerà perfetta come
quella con cui siamo conosciuti (v. 12b), ovviamente da Dio.[39]
i. un’affermazione iniziale circa la perennità dell’agape e la caducità di tre carismi
(v. 8). – Prima si dice che l’agape mai non cade (oudepote piptei), poi che invece i carismi
tramonteranno. I carismi portati a titolo di esempio sono: le profezie, le lingue (e cioè il parlare in
lingue), la gnōsis o scienza /conoscenza, mentre i verbi sinonimi del «cadere
/piptein» sono «cessare /pauein» e «katargeisthai /essere reso
inoperoso,[40] abrogato o
dismesso».
iv. una battuta finale, secondo cui tutte e tre le virtù teologali (fede, speranza, carità)
rimangono (menei), e secondo cui però di tutte e tre quelle virtù l’agape resta la
più grande (meizōn) (v. 13).
La difficoltà maggiore di tutta la strofa è quella di determinare qual è il tempo in cui i
carismi vengono dismessi, in cui invece le tre virtù teologali permangono, e in cui infine l’agape
è tuttavia superiore a fede e speranza. In secondo luogo è difficile precisare che cosa assimili le
tre virtù per essere tutte ugualmente perenni, e che cosa invece contraddistingua l’agape
così che essa è più grande di fede e speranza.
Le interpretazioni che si possono dare circa i tempi della cessazione dei carismi e del «permanere
/menein» di fede, speranza e agape, sono due.
La prima ambienta sia il superamento dei carismi sia la permanenza delle virtù teologali nella vita del
cristiano. Per E. Miguens, ad esempio, 1Cor 13 parlerebbe dell’immaturità e della maturità
che si succedono nel processo di crescita del credente. Finché è alla ricerca dei carismi il
cristiano è immaturo, quando invece giunge a trovare il suo appagamento nelle sole tre virtù
teologali egli è allora maturo e «perfetto /teleios».[41] Similmente per F. Dreyfus i carismi sono transitori,
mentre le virtù teologali «realizzano la presenza del mondo a venire, che rimane, in questo mondo,
che passa». Secondo questa interpretazione il verbo menein non esclude modificazioni alla fine dei
tempi ma principalmente deve esprimere l’attuale anticipazione del mondo futuro: «1Cor 13,13 riflette
una concezione vicina alla “escatologia realizzata”. (…) La vita eterna non sarà altro
che la vita teologale arrivata al suo termine, alla sua piena realizzazione».[42] Il lato debole di questa interpretazione è che
le virtù teologali danno di Dio una conoscenza mediata e non «faccia a faccia», né
danno una conoscenza analoga a quella con cui Dio ci conosce.[43]
La seconda interpretazione è quella secondo cui il tempo dell’imperfezione è il tempo
presente, mentre il tempo della perfezione è quello dell’escatologia. Nel tempo presente i carismi
che sono transitori si accompagnano con le virtù teologali che invece sono perenni e, mentre
nell’escatologia i carismi non entreranno a motivo della loro parzialità e imperfezione, in essa
entrerà invece l’agape. Come rappresentante di questa interpretazione si può prendere Tommaso
d’Aquino che scrive: «L’Apostolo intende dire che l’agape mai cade perché, come
è in statu viae, così essa rimarrà in statu patriae». Tommaso poi
precisa: «Al sopraggiungere della gloria [escatologica], cessano la profezia e la conoscenza. La
carità invece non cessa, ma viene perfezionata perché quanto più Dio è conosciuto,
tanto più perfettamente sarà amato».[44]
Questo che l’Aquinate dice è ineccepibile, ma incompleto. Tommaso infatti da un lato non motiva la
sua interpretazione e dall’altro riprende dal testo il confronto tra carismi e agape, ma non quello tra
fede-speranza e agape.[45]
In altre parole Tommaso tace sui punti più difficili.
Ciò che può gettare un po’ di luce su queste difficoltà è il confronto tra i
vv. 8-11 da una parte e il v. 12 dall’altra. Nei primi infatti il trapasso dal primo dei due tempi al
secondo e dalla parzialità (ek merous) alla perfezione (to teleion) porta al tramonto di
ciò che appunto è parziale e che è abbastanza chiaramente identificato con i carismi.
Ciò che è parziale e imperfetto non avrà la stessa sorte, invece, secondo il v. 12. In quel
versetto la visione mediata (come attraverso uno specchio) ed enigmatica (in enigma) sarà resa immediata
(faccia a faccia) e, allo stesso modo, la conoscenza parziale (ek merous) sarà resa perfetta
(conoscerò così come sono conosciuto [da Dio]). Visione e conoscenza saranno trasformate, dunque,
ma non saranno né annullate né fatte cessare (cf. invece il katargeisthai dei vv. 8, 10, 11,
e il pauein del v. 8, verbi usati per dire il tramonto dei carismi).
Sia nei vv. 8-11 che nel v. 12 c’è dunque la contrapposizione dei due tempi, ma i due tempi dei vv.
8-11 e i due tempi del v. 12 sono concettualmente diversi e sono detti con differenti congiunzioni. Infatti, nei
vv. 8-11 il primo tempo è introdotto con «quando /hote» (v. 11: hote ēmēn
nēpios…) e il secondo con «quando /hotan /hote» (vv. 10 e 11: hotan
de elthēi to teleion…, hote gegona anēr…). Nel v. 12
invece il primo tempo è introdotto con «ora /arti» e il secondo con «ma allora
/tote de», e questo per due volte: «Ora /arti vediamo…, ma allora /tote
de… Ora /arti conosciamo…, ma allora /tote de…». Quel che è
ancora più rilevante e che già si è intravisto è che tra i due tempi dei vv. 8-11
c’è totale discontinuità (katargeisthai nei vv. 8, 10, 11; pauein nel v. 8),
mentre tra i due tempi del v. 12 c’è una sostanziale continuità: nel secondo tempo la visione
e la conoscenza del primo tempo restano, e ciò che da un tempo all’altro viene superato sono la loro
presente difettosità e mediatezza. La visione e conoscenza del v. 12 sono dunque qualcosa di diverso dai
carismi che «cesseranno» e «saranno dismessi». Dopotutto Paolo non elenca mai il
«vedere /blepein» tra i carismi, e tantomeno il «vedere come in uno specchio». Per
lo stretto parallelismo tra il v. 12a e il v. 12b, non dovrebbe poi essere un carisma neanche il «conoscere
ek merous» di 13,12b, nonostante la gnōsis sia un carisma nel v. 8 e nonostante lo sia
il «conoscere ek merous» del v. 9.
In tal modo, nella continuità tra lo status viae e lo status patriae, come Tommaso li
chiama, si realizza la permanenza della fede, della speranza (delle quali Tommaso tralascia di parlare) e
dell’agape: «Ora poi restano fede, speranza, agape, queste tre realtà» (v. 13a). Ed
è alla triade teologale allora che con ogni probabilità bisogna applicare le esemplificazioni della
visione (prima attraverso lo specchio e poi faccia a faccia) e della conoscenza (prima parziale e poi
«così come si è conosciuti»). In altre parole, ora fede-speranza-agape ci permettono di
vedere come in uno specchio, ma quella visione nell’escatologia continuerà giungendo alla perfezione
perché nell’escatologia vedremo «faccia a faccia». Allo stesso modo, ora fede speranza e
agape ci danno una conoscenza parziale di Dio, ma anche quel conoscere ha un futuro di perfezione
nell’escatologia dove conosceremo e ameremo come siamo conosciuti e amati.[46] È così che anche fede e speranza
«restano» e hanno perennità, a differenza dei carismi.[47]
Resta da conciliare la medesima permanenza di agape e di fede-speranza (menei… ta tria tauta, v.
13a) con l’affermazione secondo cui invece l’agape è più grande (meizōn)
anche di fede e speranza (v. 13b),[48] che pure non sono caduche come i carismi.
Una qualche soluzione sul piano logico è difficile dal momento che Paolo non spende una sola parola per
motivare il suo assunto e dà invece l’impressione di volere tagliar corto e chiudere il discorso
quasi d’autorità. C’è di più: il confronto con fede e speranza in 1Cor 13
è di per sé estraneo, se non di disturbo.[49] In un testo che vuole celebrare la grandezza dell’agape è di
disturbo infatti dire che qualcosa le è pari. Sembra quasi che l’affermazione dell’uguale
perennità venga da un interlocutore di Paolo o, meglio, da un obiettore. Sembra che, impegnandosi in una
piccola diatriba, Paolo accetti l’obiezione in 13,13a e poi, senza portare altri motivi che le grandi cose
dette circa l’agape nell’encomio,[50] in 13,13b replichi al suo obiettore. Il verso 13,13 si potrebbe allora
parafrasare in questi termini: «È vero quello che dici, che fede speranza e agape permangono allo
stesso modo. E tuttavia l’agape, per motivi che non sto a dire, è pur sempre la più
grande». Insomma, non la logica ma la retorica aiuterebbe a capire il v. 13,13.
Nella terza strofa si ha dunque una serie di tre confronti. Il primo confronto è tra l’agape e i tre
carismi di profezia, lingue e gnōsis, e porta a constatare la superiorità dell’agape sui
carismi quanto a permanenza.[51] Gli altri due confronti sono tutti e due tra agape da una parte e fede-speranza
dall’altra, ma mentre uno porta a sottolineare la loro pari dignità teologale relativizzando in
qualche modo l’agape, l’altro porta all’affermazione della superiorità dell’agape
anche su fede-speranza, come richiede la natura stessa dell’encomio. Se poi si volesse motivare la
superiorità dell’agape su fede-speranza che Paolo ha tralasciato di motivare, si potrebbe dire con
H. Schlier che «Dio stesso non è né fede né speranza, ma è
amore».[52]
Le tre strofe dell’encomio hanno tra loro un collegamento più stretto di quanto può apparire
a prima vista. La prima strofa afferma che i carismi, se manca loro l’agape come ispirazione e dinamismo di
fondo, sono apparenza vuota. Dicendo come l’agape agisce, la seconda strofa dice che il carismatico non
può, per esempio, cercare il proprio interesse, né ostentare il dono spirituale di cui è
destinatario, né invidiare o disprezzare chi ha un dono più ricercato del suo (cf. 12,15-27).
L’agape dunque non è un carisma,[53] ma l’anima dei carismi. La terza strofa aggiunge che, nel momento stesso
in cui è fermento evangelico di tutti i carismi ed eroismi, l’agape li vince e li supera a motivo
della sua perennità, e dice che l’agape, insieme con fede e speranza, si colloca sul piano
teologale. Da un lato dunque, se l’agape è l’anima dei carismi e dei gesti di eroismo, la fede
li motiva teologalmente e la speranza li colloca nella prospettiva escatologica. Dall’altro, fede e
speranza fanno in modo che l’agape non sia semplice altruismo o filantropia,[54] informando teologalmente anch’essa e
soprattutto essa.[55]
Fede e speranza finiscono poi col caratterizzare teologalmente anche la metafora della via (hodos, v.
12,31) di cui Paolo si serve per definire l’agape e per dirne la funzione.[56] La metafora dice che l’agape è la via
sicura sulla quale non ci si può perdere e che conduce alla meta,[57] e, proprio in virtù della fede e della speranza
cristiane con cui forma un’indivisibile triade,[58] l’agape è molto più che la via anticotestamentaria
dell’esodo, o del ritorno dall’esilio, verso la terra promessa,[59] perché la meta cui porta è la nuova
creazione del mondo finale.[60] E allora viene alla mente che Gesù ha detto di sé: «Io sono
la via». Dopotutto molti interpreti fanno notare come in 1Cor 13 l’agape sia intercambiabile con
«Gesù»: «L’elogio dell’agape è una cristologia velata»,
«Nel testo di 1Cor 13 si potrebbe leggere “Gesù” al posto di “agape”»,
«[1Cor 13] fa vedere in filigrana la figura del Cristo pieno di bontà e dedito al servizio, icona
della carità del Padre».[61]
È per questo che Paolo mette l’encomio dell’agape dentro la cornice degli imperativi di 12,31
e di 14,1. Prima dell’encomio l’Apostolo scrive: «Cercate i carismi più grandi, e io
(nell’agape) vi mostro una via per eccellenza». E dopo di esso scrive: «Cercate
l’agape».[62]
Da un’epoca all’altra cambia il valore su cui poggia di volta in volta la sensibilità
dominante. Se nel mondo greco-romano erano stimati soprattutto il valore militare e l’amore di
patria,[63] e se nel
Medioevo il valore fondamentale era la verità così che era sentito come nemico della convivenza
umana l’eretico o chi aderiva a una religione diversa dalla propria,[64] l’epoca di Umanesimo e Rinascimento –
l’età di Botticelli, Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Giorgione, Tiziano ecc. – fu
l’epoca del bello. Poi, a partire dalla rivoluzione francese fino ad oggi, i valori più grandi sono
stati e sono quelli della libertà e dei diritti umani. La memorabile pagina di 1Cor 13 e tutto il NT
mettono invece al vertice dei valori l’agape e, come ogni altra generazione cristiana, anche la nostra si
trova talvolta divisa tra sensibilità dominante e affermazione dell’agape.
Non si tratta mai di totale contrapposizione tra valori umani emergenti e valori cristiani, come è ovvio,
ma di tensione e di vicendevole stimolo. Comunque, mentre Paolo confrontava l’agape internamente al credo
cristiano con i carismi e con le altre due virtù teologali, oggi noi dobbiamo misurarci verso
l’esterno con virtù laiche (di derivazione cristiana, non anticristiane o laiciste) e in questo
confronto dobbiamo rendere credibile il primato dell’agape, a motivo di questa pagina, a motivo
dell’affermazione di 1Gv 4,18.6 secondo cui «Dio è amore»,[65] a motivo dell’insegnamento di Gesù sul
più grande comandamento (Mt 22,35-40 e paralleli), il comandamento nuovo (Gv 13,34). Paolo lo
riaffermò non con moralistici imperativi, ma con la bellezza di un encomio.
Se per A.P. Stanley, come si è già visto, «lo scriba ha dovuto arrestarsi e alzare gli occhi
sul volto del suo maestro» quando Paolo cominciò a dettargli l’encomio di 1Cor 13, è
perché il suo orecchio e il suo spirito furono catturati da almeno tre stimoli di particolare bellezza. Il
primo è lo stimolo della bellezza letteraria, il secondo è quello della bellezza antropologica, il
terzo è quello della bellezza divina.
L’encomio della carità è bello anzitutto come pezzo di letteratura. Il bene va presentato
bene perché sia amato, e in 1 Cor 13 Paolo ha istintivamente elevato il livello estetico della sua prosa
perché i corinzi aspirassero all’agape ancora più che ai carismi. Nella prima strofa sono
belle le ipotesi di falsa grandezza ed è bello il loro infrangersi contro il refrain tre volte
ripetuto del «ma se non ho l’agape…» e contro il bilancio fallimentare del «sarei
un nulla». Nella seconda strofa è bella la personificazione dell’agape che nelle sue quindici
azioni è intraprendente, infaticabile, magnanime. Nella terza strofa sono belli i confronti tra ciò
che fa il bambino e ciò che fa l’adulto, tra il vedere in uno specchio (gli specchi antichi davano
un’immagine molto meno perfetta dei nostri) e il vedere faccia a faccia, e sono belle prima la competizione
in cui i carismi risultano perdenti e poi la vittoria dell’agape su fede e speranza, come dopo un testa a
testa, proprio alla linea di traguardo.
L’encomio di 1Cor 13 è bello poi per ciò che dice dell’uomo. Poiché il lettore
(soprattutto del nostro tempo) è sensibile al discorso antropologico, se gli viene detta la verità
di sé stesso lo avverte e ne resta catturato. E l’encomio di 1Cor 13 svela al lettore i trucchi dei
falsi eroi e delle false grandezze. Gli dice poi che cosa è effimero e invece che cosa giungerà
vittorioso al traguardo. E gli dice quali risorse di pazienza e di grandezza d’animo ha in sé stesso
cui non attinge per il fatto di averle scarsamente esplorate e scoperte. E gli insegna come misurarsi con il
limite e, tutto portando e tutto sopportando, come vincerlo.
Nella sua «cristologia velata» l’encomio di 1Cor 13 è bello infine perché in
trasparenza evoca per il credente l’amore del Cristo e di Dio. In esso si intravede il Paolo che altrove
scriveva: «Il Cristo mi ha amato e ha dato se stesso per me» e «Dio ha mostrato il suo amore
perché, mentre eravamo ancora peccatori, il Cristo è morto per noi» (Gal 2,20; Rom 5,8).
L’esperienza dell’amore ha portato Paolo a tessere l’elogio dell’amore e, per il fatto di
celebrare ciò che è sommamente buono, l’elogio non poteva che essere bello nella forma.
[1] E.-B. Allo, Saint Paul: Première épître aux Corinthiens, Paris 1934, cita A.P. Stanley (61876) alle pp. 340-341, mentre alla p. ciii lo definisce «pieux et chaleureux», non senza aggiungere il giudizio su di lui di A. Robertson - A. Plummer: «… not so strong in scholarship». – Quanto alla qualità letteraria del testo di 1Cor 13, C.K. Barrett, La prima lettera ai Corinti, Bologna 1979 (London 21971) 368, scrive: «Raramente in Paolo, e in genere nella letteratura greca, sono eguagliati il parallelismo dei pensieri e l’efficacia e potenza del lessico». Cf. poi la non poca enfasi di J. Huby, Prima epistola ai Corinti, Roma 1963 (Paris 1946) 243, che, dopo aver parlato di «respiro lirico paragonabile a quello dei più grandi profeti dell’AT», scrive: «[In 1Cor 13, la carità] è la vetta nevosa che si perde nelle profondità del cielo e da cui sgorgano le acque che sole diffondono la fecondità».
[2] Per esempio N. Lund definisce 1Cor 13 «inno all’amore» fin dal titolo; cf. N.W. Lund, The Literary Structure of Paul’s Hymn to Love, in «Journal of Biblical Literature» 50 (1931) 266-276. Parlano di inno anche E. Stauffer, voce agapaō, agapē, agapētos, in Grande Lessico del Nuovo Testamento, I, 138; e E.-B. Allo, Première épître aux Corinthiens, 240, che scrive: «Paolo (…) si diffonde in una sorta di poema, di inno, di salmo». – Secondo la rassegna condotta da O. Wischmeyer, Der höchste Weg. Das 13. Kapitel des 1. Korintherbriefes, Gütersloh 1981, 205, i titoli che di volta in volta sono stati proposti per definire il genere di 1Cor 13 sono una dozzina.
[3] J.T. Sanders, First Corinthians 13. Its Interpretation Since the First World War, in «Interpretation» 20 (1966) 159; R. Kieffer, Le primat de l’amour; LD 85, Paris 1975, 37; C. Spicq, L’agapē de I Cor., XIII. Un exemple de contribution de la sémantique à l’exégèse néo-testamentaire, in «Ephemerides Theologicae Lovanienses» 31 (1955) 358; R. Penna, Solo l’amore non avrà mai fine.Una lettura di 1Cor 13 nella sua pluralità di senso, in L’apostolo Paolo. Studi di esegesi e teologia, Cinisello Balsamo, Milano 1991, 227.
[4] Cf. C. Spicq, Agapè dans le Nouveau Testament. Analyse des textes, II, Paris 1959, 62 («Nell’epoca ellenistica l’elogio della virtù più grande o del bene supremo era un luogo comune delle discussioni tra sapienti e della predicazione filosofica popolare»). – Mentre B. Standaert, 1 Corinthiens 13, in L. de Lorenzi, a cura di, Charisma und Agape (1 Ko 12-14), Rom 1983, 133, nota 3, rimanda ai Testamenti dei XII Patriarchi, R. Penna, Solo l’amore non avrà mai fine, 227-229, elenca i molti paralleli della letteratura greca (Tirteo, Platone, Aristotele…) e soprattutto di quella giudeo-cristiana (1Esdra, Filone…) che tessono le lodi, non di un personaggio ma della più grande virtù o di ciò che va ritenuto il massimo bene per l’uomo. Cf. anche i rimandi di J.G. Sigountos, The Genre of 1 Corinthians 13, in «New Testament Studies» 40 (1994) 249-250.
[5] R. Penna, Solo l’amore non avrà mai fine, 227; C. Spicq, Agapè, 63.
[6] J. Smit, The Genre of 1 Corinthians 13 in the Light of Classical Rhetoric, in «Novum Testamentum» 33 (1991) 193-216. Cf. anche J.G. Sigountos, The Genre of 1 Corinthians 13, 246-260.
[7] Di per sé lo zēloute, invece che come imperativo («Cercate i carismi più grandi e io vi mostrerò una via per eccellenza»), si potrebbe intendere anche come interrogativo («Voi cercate i carismi più grandi? [Ebbene], io vi mostrerò una via per eccellenza»), oppure come indicativo («Voi siete alla ricerca dei carismi più grandi, ma io vi mostrerò una via per eccellenza»). Motivazioni a favore dell’indicativo in G. Iber, Zum Verständnis von I Cor 12,31, in «Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft» 54 (1963) 43-52 e, a favore dell’imperativo, in J.F.M. Smit, Two Puzzles: 1 Corinthians 12,31 and 13,3. A Rhetorical Solution, in «New Testament Studies» 39 (1993) 247-249, che elenca i sostenitori delle varie interpretazioni.
[8] «Non già “excellentior via”, Vg., una via più eccellente, ma la via per eccellenza»: così scrive C. Spicq, Agapè, 65-66. Similmente J. Huby, Prima epistola ai Corinti, 242, nota 69. – Per W.C. van Unnik, The Meaning of 1Corinthians 12,31, in «Novum Testamentum» 35 (1993) 158, il «per eccellenza /kath’hyperbolēn» è da unire non con «via /hodos» ma con il verbo «cercate /zeloute»: «… be zealous … even to the highest degree in the spiritual things».
[9] M. Sewodo, L’éloge de l’agapè en 1Co 13, Dissertazione dottorale, Roma 2001, 57. – «Esortazione parenetica» è comunque la definizione giusta per J.T. Sanders, First Corinthians 13. Its Interpretation Since the First World War, 158 («1Cor 13 descrive l’agape esclusivamente in termini di esistenza cristiana, e quindi è un invito all’agape»). La parenesi è dominante in 1Cor 13 anche per W.C. van Unnik, The Meaning of 1Corinthians 12,31, 144, che scrive: «Poiché il verbo zeloute è all’inizio e alla fine del capitolo (che è una unità letteraria e non una divisione casuale), può essere chiamato “idea guida”».
[10] Così J. Smit, The Genre of 1 Corinthians, 212 («Rafforzando o indebolendo l’adesione del pubblico a certi valori [come si fa negli encomi], l’oratore induce il suo pubblico a ricavare conclusioni pratiche»), e J.G. Sigountos, The Genre of 1 Corinthians 13, 259 («Un qualche elemento esortativo è essenziale agli epiloghi degli encomi»).
[11] H. Desroches, Le portrait de la charité, 1Cor 13, in «Vie Spirituelle» 74 (1946) 520; E.-B. Allo, Première épître aux Corinthiens, 341.
[12] Non è proprio vero, comunque, che non ci sia dibattito circa la suddivisione di 1Cor 13, perché si discute su almeno due dettagli, come risulta dalle due note seguenti.
[13] M.-F. Lacan, Les trois qui demeurent.1Cor 13,13, in «Recherches de Science Religieuse» 46 (1958) 325-330 (che si richiama al Crisostomo) e W. Michaelis, voce piptō, in Grande Lessico del Nuovo Testamento, X, 313-315, congiungono il v. 8a (hē agapē oudepote piptei) con le 15 azioni della seconda strofa, traducendo: «La carità non soccombe mai». Le ragioni di Lacan e Michaelis sono tutt’altro che deboli (analogia grammaticale del v. 8a con le 15 azioni precedenti - verbo al presente come i precedenti e non al futuro come i seguenti). – Tuttavia, alla congiunzione del v. 8a con ciò che precede si oppongono almeno tre difficoltà: (i) Il quadruplice panta del v. 7 ha il valore di una formula conclusiva: così E. Miguens, 1Cor 13,8-13 Reconsidered, in «The Catholic Biblical Quarterly» 37 (1975) 78-79 e J. Smit, The Genre of 1 Corinthians, 197 («La quadruplice ripetizione di “tutto /panta” è al vertice del crescendo che conclude la serie»); (ii) Il de del v. 8b (eite de prophēteiai katargēthēsontai) contrappone e quindi collega il v. 8b al v. 8a: così Miguens; (iii) Lo oudepote del v. 8a separa il v. 8a dai versetti precedenti e lo collega a quelli che seguono; così B. Standaert, 1 Corinthiens 13, 134, che scrive: «La negazione è caratterizzata temporalmente: oudepote, “mai”, modifica sostanzialmente l’atto della comunicazione. L’agape non vi è più descritta in sé stessa, ma è messa a confronto con altre cose, e questo proprio dal punto di vista del tempo, in rapporto all’eschaton». Lo stesso autore conclude: «C’è un parallelismo evidente con le piccole frasi della strofa precedente, ma anche una demarcazione molto netta da esse» (p. 136).
[14] J. Smit, The Genre of 1 Corinthians 13, 197, e G. Barbaglio, La prima lettera ai Corinzi, 690, separano il v. 13 dai vv. 7-12 per farne una quarta, brevissima strofa.
[15] Il collegamento di questa frase dichiarativa: «… e io vi mostro una via per eccellenza» (12,31b) con l’imperativo del v. 12,31a («Cercate i carismi più grandi») e il parallelismo di tutto il v. 12,31 con i due imperativi finali di 14,1 («Cercate la carità - cercate i [doni] spirituali»), invitano a intuire dietro l’indicativo («e io vi mostro una via…») un altro imperativo, e cioè la richiesta di percorrere quella via.
[16] E.-B. Allo, Première épître aux Corinthiens, 345, a proposito di «… e se distribuissi i miei possessi», scrive: «Paolo parla qui dei suoi possedimenti, lui che non possedeva nulla. Questo dice che lo egō può rappresentare non la sua personalità ma un uomo-tipo, a nome del quale egli parla secondo il procedimento caro alla diatriba»; G. Barbaglio, La prima lettera ai Corinzi, 689: «L’attenzione cade sull’io… Non è l’io autobiografico di Paolo, ma un io più vasto, simile a quello di Rom 7… Non per nulla si congettura il possesso di carismi, che riguarda i membri della comunità cristiana. Ma forse la prospettiva è ancora più vasta e Paolo si riferisce ad ogni uomo di cui vuole indicare la consistenza in rapporto all’avere o meno l’amore». – Differentemente pensa R.F. Collins, First Corinthians, Sacra Pagina 7, Collegeville MN, 1999, 472.
[17] Cf. R. Kieffer, Le primat de l’amour, 44-47.
[18] R. Kieffer, Le primat de l’amour, 45, nota 61, citando H. Riesenfeld (1948), rimanda al dōdōnaion chalkeion, e cioè al gong dell’albero sacro presso il tempio di Dodona in Epiro.
[19] R. Kieffer, Le primat de l’amour, 45, nota 61. – Secondo alcuni autori nel suono delle parole di questo versetto c’è il rumore del gong (chalkos echon), e delle nacchere (kymbalonalalazon): così C. Spicq, Agapè, 67; E.-B. Allo, Première épître aux Corinthiens, 343 («Sembra di udire i gong e i cembali di cui si parla»); J. Smit, The Genre of 1 Corinthians 13, 200 («C’è probabilmente una onomatopea»). – Sulla natura e fattura di ciò che è chiamato chalkos e kymbalon, cf. T.K. Sanders, A New Approach to 1 Corinthians 13,1, in «New Testament Studies» 36 (1990) 614-615.
[20] La glossolalia è il dono dello Spirito che rende capaci di pronunciare discorsi spirituali con suoni però non comprensibili se non a chi ha il corrispettivo carisma di interpretarli (1Cor 14,2).
[21] E.-B. Allo, Première épître aux Corinthiens, 342-343.
[22] C.K. Barrett, La prima lettera ai Corinti, 370.
[23] E.-B. Allo, Première épître aux Corinthiens, 343-344.
[24] Il crescendo tra le protasi è a lungo illustrato da J.H. Petzer, Contextual Evidence in Favour of kauchēsōmai in 1 Corinthians 13,3, 237-245.
[25] Circa la maggior forza che ha lo outhen nei confronti di ouden, cf. B. Standaert, 1 Corinthiens 13, 130: «Espressione molto forte a motivo del thēta che sottolinea la vanità, l’inanità del risultato finale».
[26] N.W. Lund, The Literary Structure of Paul’s Hymn to Love, 269, parla di «What we say - ciò che diciamo» per le prime protasi, di «What we have - ciò che abbiamo» per le seconde, di «What we do - ciò che facciamo» per le ultime. Ma ancora più propriamente già Tommaso d’Aquino parlava di carismi «ad locutionem», «ad cognitionem», e «ad operationem» (Super primam epistolam ad Corinthios lectura, XIII, 759).
[27] Per un bambino, cf. Aristofane, Lysistrata 19, e Thesmophoriazousae 692; per i malati cf. Ippocrate, 1208.
[28] Il senso dovrebbe essere: «Se anche mi gettassi nel fuoco, per venire in aiuto al prossimo»; così J. Huby, Prima epistola ai Corinti, 250. Di solito però ci si limita a dire quello che dice per esempio C. Spicq, L’agapē de I Cor., XIII, 360: «Il suicidio di fuoco è un topos tradizionale utilizzato dai filosofi come esempio di coraggio e di grandezza d’animo».
[29] È nota la questione di critica testuale legata a kauthēsomai. La variante alternativa: «… affinché poi abbia a gloriarmene (kauchēsōmai /-somai)» è meno conveniente al contesto. Secondo tutti i testi paolini del vanto, infatti, il kauchēma o il kauchasthai è negativo se non è «nel Signore» (1Cor 1,31; 2Cor 10,17). Di conseguenza l’immagine paolina del vanto non darebbe qui alcuna ipotesi di grandezza ma già in partenza sarebbe senza valore alcuno, neanche preteso. In secondo luogo, il vanto è implicito come errore di fondo in tutte le ipotesi di questa prima strofa: chi ha pretese grandezze è uno che si vanta di ciò che sembra grande ma non lo è. Se nel v. 3 il vanto fosse espresso ed esplicito, costituirebbe una tautologia. In terzo luogo l’espressione assoluta «Se dessi il mio corpo» sarebbe sospesa in aria e bisognerebbe intenderla come parallelo – molto improbabile – delle parole dell’ultima cena («Questo è il mio corpo dato», così J.H. Petzer, Contextual Evidence in Favour of kauchēsōmai in 1 Corinthians 13,3, 242). – Tra gli autori di monografie dedicate a questa disputa di critica testuale c’è chi si schiera a favore di kauchēsōmai come fa J.H. Petzer, appena citato; c’è chi si schiera a favore di kauthēsomai come fa J.K. Elliott, In Favour of kauthēsomai at I Corinthians 13,3, in «Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft» 62 (1971) 297-298; e c’è infine chi non prende posizione con nettezza come fa R. Kieffer, «Afin que je sois brûlé» ou bien «Afin que j’en tire orgueil»? (1Cor. XIII.3), in «New Testament Studies» 22 (1976) 95-97.
[30] Circa il campo di applicazione di quel «sarei nulla», cf. le precisazioni di V. Jacono, Le epistole di S. Paolo ai Romani, ai Corinti, e ai Galati, Torino 1952, 369, che cita S. Tommaso («scilicet secundum esse gratiae»), il Cajetano («in esse divini consortii»), e Nicola di Lira («relate ad esse gloriae»).
[31] R. Kieffer, Le primat de l’amour, 104; H. Schlier, Sull’amore, in Il tempo della Chiesa, Bologna 41981 (Freiburg i.B. 11956) 301.
[32] G. Barbaglio, La prima lettera ai Corinzi, Bologna 1996, 689: «Ci saremmo aspettati che Paolo parlasse dell’azione di chi ha amore; invece con ardito espediente retorico eleva questo ad “agente” personificato».
[33] C. Spicq, L’agapē de I Cor., XIII, 359; G. Friedrich (Was heißt das Liebe, Stuttgart 1972, 31; citato da Kieffer); R. Kieffer, Le primat de l’amour, 57.
[34] Le citazioni sono tratte dalla versione C.E.I. 1971, dalla cosiddetta Bible de Jérusalem, e dalla Revised Standard Version, Catholic Edition.
[35] C. Spicq, Agapè, 104: «Pressoché ogni parola costituisce una difficoltà e ogni soluzione modifica l’interpretazione dell’insieme».
[36] Parallelo a quello di Paolo è un testo di Senofonte: «Quanto ero un bambino (pais, non nēpios come in Paolo), io coglievo quelli che sono i frutti migliori per i bambini. Quando poi sono divenuto giovane uomo, (coglievo i frutti) che sono nei giovani, e infine, divenuto uomo maturo, quelli che sono negli uomini» (Cyropaedia 8, 7.6).
[37] Gli specchi nell’antichità erano di metallo battuto e riflettevano le immagini con molte deformazioni e difetti. – D.H. Gill, Through a Glass Darkly: A Note on 1 Corinthians 13,12, in «The Catholic Biblical Quarterly» 25 (1963) 427-429, ritiene invece che si debba mettere l’accento sul lato positivo dell’immagine dello specchio: noi non abbiamo altra via di intravedere Dio («… if we were to know anything of what He is really like») se non quella di vedere il suo riflesso nelle sue creature.
[38] È divertente che Tommaso d’Aquino (Super primam epistolam ad Corinthios, XIII, 801) esemplifichi con l’enigma, evidentemente diffuso al suo tempo, che suona: «Me mater genuit, et eadem gignitur ex me - Mia madre mi generò ed essa stessa è da me generata». La soluzione dell’enigma è: «… et dicitur de glacie, quae gignitur ex aqua congelata, et aqua gignitur ex glacie resoluta - Il ghiaccio, che nasce dall’acqua e da cui si genera acqua».
[39] Secondo la quasi totalità degli interpreti, il passivo «… come sono conosciuto» è un passivo teologico. Cf. già Agostino che, citando 1Cor 13,12, scrive: «Conoscerò te, mio conoscitore - Cognoscam te, cognitor meus. Cognoscam sicut et cognitus sum» (Confessiones 10, 1). Tra i moderni cf. soprattutto J. Beumer, «Tunc autem cognoscam sicut et cognitus sum» (1Cor 13,12), in «Verbum Domini» 22 (1942) 166-173, per il quale 1Cor 13,12 parla della visione beatifica. – Interpreta diversamente invece E. Miguens, 1Cor 13,8-13 Reconsidered, 81-87.
[40] Katargeō è forma contratta di kataergeō, con alfa privativo e radice del verbo «lavorare» (kata-/ a-/ ergazomai).
[41] E. Miguens, 1Cor 13,8-13 Reconsidered, 96-97: «In nessun momento l’agape decade dal suo primato, mentre profezia, lingue e gnōsis saranno rese inoperative al momento in cui nella pienezza della vita cristiana solo l’agape è forza trainante verso la piena umanità in Cristo».
[42] F. Dreyfus, Maintenant la foi, l’espérance et la charité demeurent toutes les trois (1Cor 13,13), in Studiorum paulinorum congressus internationalis catholicus 1961, AB 17-18, Romae 1963, I, 411-412. Così anche C. Spicq, Agapè, 106 (le virtù teologali rimangono perché sono le uniche a definire la vita morale), e Ch. Senft, La première épître de saint Paul aux Corinthiens, Genève 1979, 172.
[43] Cf. G. Bornkamm, Der köstlichere Weg. 1Kor 13, in Das Ende des Gesetzes: Paulusstudien, München 1952, 105: «Dopo lo “io conosco parzialmente”, sorprendentemente Paolo non prosegue con “allora io sarò perfetto”, ma con “allora io conoscerò come sono pienamente conosciuto”. La pienezza consiste nel fatto che la distanza tra conoscere ed essere conosciuto sarà tolta da Dio». Cf. poi la risposta di B. Standaert, 1 Corinthiens 13, 140, alla obiezione di J. Murphy-O’Connor. – Per evitare queste difficoltà E. Miguens, 1Cor 13,8-13 Reconsidered, 81-87, è costretto a vedere due carismi del tempo presente nelle espressioni «vedremo faccia a faccia» e «conoscerò come sono conosciuto».
[44] Tommaso d’Aquino, Super primam epistolam ad Corinthios, XIII, 787-806.
[45] Con H. Lietzmann, R. Bultmann, H. Conzelmann, tra i moderni sono sostenitori dell’interpretazione escatologica J. Huby, Prima epistola ai Corinti 252 («Il velo dei simboli e dei segni non cadrà mai quaggiù. Bisogna attendere il giorno in cui Cristo si manifesterà ecc.»); E. Stauffer, voce agapaō, agapē, agapētos, 137 (menein è concetto tipicamente escatologico); C.K. Barrett, La prima lettera ai Corinti, 380 («Fede speranza e amore perdurano – contro Calvino e altri, i quali pensano che nella vita avvenire fede e speranza cesseranno)»; W. Marxsen, Das «Bleiben» in I Kor 13,13, in H. Baltensweiler, a cura di, Neues Testament und Geschichte, Fs O. Cullmann, Zürich - Tübingen 1972, 229 (il verbo menein parla del «rimanere» escatologico, non di un «rimanere» quotidiano); G. Bornkamm, Der köstlichere Weg. 1Kor 13, 105 («… in die kommende Ewigkeit hinein…/ nella futura eternità»).
[46] C. Spicq, L’agapē de I Cor., XIII, 363: «Fede e speranza … sussisteranno … nei loro frutti».
[47] Collegata a queste due interpretazioni della terza strofa è quella che riguarda il nyni de con cui si apre il v. 13, che può avere valore temporale («in questo tempo, al presente») o valore logico («orbene, ebbene»), come ampiamente illustra M.-F. Lacan, Les trois qui demeurent. 1 Cor. 13,13, 321-322. – Il valore temporale («in questo tempo») conviene alla prima interpretazione: è nel tempo presente (nyni) che i carismi cadono perché, maturando, il cristiano sempre meno desidera i carismi e sempre più desidera l’agape. Il v. 13a sarebbe dunque da parafrasare con: «[Superata la ricerca dei carismi], nel tempo presente (nyni) restano fede speranza e agape». Il valore logico di nyni de conviene invece alla seconda interpretazione, a questo modo: «Ebbene (nyni), [mentre i carismi sono legati al tempo presente e cesseranno,] fede speranza e carità invece restano». – Nella seconda interpretazione è di qualche difficoltà il presente di menei (…nell’escatologia «resteranno», non «restano»), sennonché ha valore di futuro anche il presente piptei del v. 8 («L’agape mai non cade/cadrà»).
[48] Meizōn è un comparativo e, a motivo del precedente confronto di uguaglianza con ta tria tauta, è da prendere come tale («… ma l’agape è più grande /meizōn»), non come equivalente ellenistico di un superlativo («… ma l’agape è grandissima»). Pensa diversamente M. Zerwick, Analysisphilologica, adlocum, che scrive: «Megas, maior; hic = maximus».
[49] L’estraneità è avvertita per esempio da C. Spicq, Agapè, 104 («L’improvvisa intrusione di fede e speranza non può essere pienamente giustificata»), E. Stauffer, voce agapaō, agapē, agapētos, 138 («Il significato profondo del passo era stato per un momento annebbiato per l’intrusione della triade»), B. Standaert, 1 Corinthiens 13, 137 («La comparsa improvvisa della triade: pistiselpisagapē può sorprendere»).
[50] B. Standaert, 1 Corinthiens 13, 138: «Con un colpo finale l’autore cerca di strappare l’adesione, senza attardarsi sull’ultimo passo fatto. Si cercherà invano in questo passo una giustificazione dell’eccellenza dell’agape in rapporto a pistis e elpis».
[51] Lo scopo di questo confronto è detto da J.F.M. Smit, Two Puzzles: 1Corinthians 12,31 and 13,3, 246, che scrive: «La squalifica dei carismi deve preparare i corinzi ad accettare le misure restrittive che Paolo impartirà alla fine di questa discussione sui fenomeni pneumatici».
[52] H. Schlier, Sull’amore, 309. Schlier si ispira probabilmente a Bengel («Deus non dicitur fides aut spes absolute, amor dicitur»), citato da C.K. Barrett, La prima lettera ai Corinti, 383, il quale a sua volta commenta: «Se Dio sperasse, non sarebbe Dio. Ma se Dio non amasse, non sarebbe Dio».
[53] Così per esempio E. Stauffer, voce agapaō, agapē, agapētos, 161. - Contro I.J. Martin, I Corinthians 13 Interpreted by Its Context, in «Journal of Bible and Religion» 18 (1950) 103 («L’agape è il più alto dei doni spirituali»); H. Schlier, Sull’amore, 298; R.F. Collins, First Corinthians, 480 («La carità non è né una virtù umana, né è semplicemente uno dei carismi. È il carisma per eccellenza»). – Sul rapporto e distinzione tra carismi e agape cf. S. Cipriani, Rapporto tra «carità» e «carismi» in 1 Co 12,31a-14,1a, in L. de Lorenzi, a cura di, Charisma und Agape (1 Ko 12-14), Rom 1983, 295-318.
[54] Così E.-B. Allo, Première épître aux Corinthiens, 340, citando Bachmann («Bachmann si leva giustamente contro il moralismo piatto e incolore e contro la pura filantropia che certi “attivisti” vorrebbero vedere insegnati in questo capitolo come essenza della religione»), e R.F. Collins, First Corinthians, 487 («La fede implica il riconoscimento della signoria di Gesù e il potere salvifico di Dio presente nella resurrezione. La speranza si protende verso la venuta del regno e verso il compimento escatologico»).
[55] Essendo collegata con fede e speranza, l’agape è evidentemente l’amore dell’uomo. Intendono così i padri greci, ma i padri latini «hanno volentieri interpretato l’agape di 1Cor 13 come l’amore di Dio». Così R. Kieffer, Le primat de l’amour, 50, citando R. Balducelli, Il concetto teologico di carità attraverso le maggiori interpretazioni patristiche e medievali di I ad Cor XIII, Roma 1951. L’affermazione, però, può essere giusta solo nel senso che l’amore con cui il cristiano ama è l’amore che Dio ha riversato nel cuore degli uomini (Rm 5,5).
[56] Sul tema biblico della «via /derek, hodos» in relazione a 1Cor 12,31, cf. H. Riesenfeld, La voie de charité.Note sur 1Cor. XII,31, in «Studia Theologica» 1 (1948) 146-157; e S. Lyonnet, Agape et charismes selon 1Co 12,31, in L. De Lorenzi, Paul de Tarse, Apôtre du notre temps, Rome 1979, 509-527.
[57] H. Riesenfeld, La voie de charité, 148-149, cita Is 35,8-10 («[Sulla via del ritorno dall’esilio] non ci sarà il leone, nessuna bestia feroce la percorrerà…») e aggiunge: «La metafora della via illustra anche l’idea della direzione e della meta»; R. Kieffer, Le primat de l’amour, 44, definisce la via dell’agape «un mezzo infallibile per raggiungere la meta».
[58] Sulla triade delle virtù teologali in Paolo e sulla sua origine cf. W. Weiß, Glaube - Liebe - Hoffnung.Zu der Trias bei Paulus, in «Zeitschrift für die neutestamentliche Wissenschaft» 84 (1993) 196-217.
[59] Così R. Kieffer, Le primat de l’amour, 43.
[60] H. Schlier, Sull’amore, 307-309; G. Bornkamm, Der köstlichere Weg. 1Kor 13, 110.
[61] H. Desroches, Le portrait de la charité, 1Cor 13, 525: «On a fait remarquer que le texte pourrait se lire en lisant “Jésus” au lieu de “charité”»; B. Standaert, 1 Corinthiens 13, 133: «L’éloge de l’agapê est une espèce de christologie voilée»; N. Johansson, I Cor. XIII and I Cor. XIV, in «New Testament Studies» 10 (1963-1964) 386: «We can simply insert the name Christ in almost all the passages in which Agape now strands»; M. Sewodo, L’éloge de l’agapè en 1Co 13, 146: «… fait voir en filigrane la figure du Christ bon et serviable, icône de la charité du Père». Cf. poi C.K. Barrett, La prima lettera ai Corinti, 381: «Via via che procede la descrizione paolina dell’amore, diventa evidente… che l’unico modello umano che noi possiamo seguire è Gesù di Nazaret», e S. Cipriani, Rapporto tra «carità» e «carismi», 316: «Paolo non avrebbe mai scritto l’elogio della carità, se non avesse avuto l’esperienza viva di Cristo». – Sono state proposte anche altre «identificazioni» dell’agape di 1Cor 13. Pietro Lombardo la identificava con lo Spirito Santo (PL 191, 1659.A); la identificano invece con Paolo E. Stuart, Love is…Paul, in «The Expository Times» 102 (1991) 264-266, e R.F. Collins, FirstCorinthians, 474, e 479. Infine, S. Lyonnet, Agape et charismes selon 1Cor 12,31, 526, giunge a evocare l’amore di Dio senza l’intermediazione del Cristo scrivendo: «La carità non è solo la via che conduce in Dio. Dio non è al termine del cammino. Egli è già là: cammina con colui che ama. Egli ama in lui».
[62] I due «cercate» in greco sono espressi da due verbi diversi. Il primo è il verbo dello zelo (zeloute ta charismata ta meizona), il secondo è il verbo della caccia (diōkete tēn agapēn) che si fa in guerra ai fuggitivi o che si fa nella foresta agli animali selvatici (Liddell-Scott, ad vocem: «diōkō: Pursue, chase in war or hunting»). – Lo zelo è ad melius esse, la caccia è per sopravvivere, è ad esse; lo dicono in qualche modo E.-B. Allo, Première épître aux Corinthiens, 355: «diōkein significa “inseguire” come s’insegue una preda indispensabile alla vita», e S. Cipriani, Rapporto tra «carità» e «carismi», 310: «La carità bisogna cercarla, perfino andarne a caccia».
[63] Omero per esempio dice: «Solo un augurio è buono: battersi per la patria» (Ilias 12, 243), e Orazio: «È cosa dolce e buona morire per la patria - “Dulce et decorum est pro patria mori”» (Carmina 3, 2,15).
[64] Dante per esempio chiama «dèi falsi e bugiardi» le divinità del paganesimo cui per motivi anagrafici il suo Virgilio era legato (Inferno 1, 72).
[65] Il Concilio Vaticano II nella Gaudium et spes, n. 78, per esempio afferma: «L’amore va al di là di quanto la giustizia può dare» e nell’enciclica Dives in misericordia Giovanni Paolo II dice sostanzialmente che per il bene dell’uomo e della società non basta la giustizia ma è indispensabile la misericordia.