Riprendiamo sul nostro sito il testo della conferenza tenuta dall’allora cardinal Joseph Ratzinger in occasione dell’incontro dei vescovi della FABC (Federazione delle Conferenze episcopali asiatiche), tenutosi ad Hong Kong nei giorni 2-6 marzo 1993. Il testo è stato tradotto da Piero Gheddo e Rodolfo Casadei e pubblicato su ASIA NEWS, n. 141, 1-15 gennaio 1994, con il titolo Cristo, la fede e la sfida delle culture. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza on-line sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
Il Centro culturale Gli scritti 22/3/2009
Con le sue ultime parole, il Signore risorto manda i suoi Apostoli fino agli ultimi confini della terra: "Andate
e fate discepole tutte le nazioni, battezzandole ... e insegnate ad esse tutto quello che ho insegnato a voi" (Mt
28,19 ss.; At 1,8). Il cristianesimo entra nel mondo conscio di una missione universale. Fin
dall’inizio i seguaci di Gesù Cristo sono coscienti del loro dovere di trasmettere la fede a tutti
gli uomini. Essi vedevano nella fede un bene che non apparteneva solo a loro, ma che tutti avevano diritto di
ricevere. Gli Apostoli sarebbero stati infedeli al loro Maestro, se non avessero portato fino agli estremi
confini della terra ciò che avevano ricevuto.
Il punto di partenza dell’universalismo cristiano non è un desiderio di potere, ma la certezza di
aver ricevuto la conoscenza che salva e l’amore che redime, che tutti gli uomini hanno diritto di
ricevere ed a cui aspirano fin dal profondo del loro essere. La missione non era percepita come
un’operazione di conquista per esercitare il potere, ma come la trasmissione obbligatoria di quel bene che
era stato dato per tutti e di cui tutti hanno bisogno.
Oggi sono sorti dei dubbi circa l’universalità della fede cristiana. Molti non vedono più la
storia della missione mondiale come la storia della diffusione della verità che libera e dell’amore,
ma una storia di alienazione e di violenza. Questa nuova consapevolezza chiede a noi cristiani di
riconsiderare radicalmente chi siamo e chi non siamo, cosa crediamo e cosa non crediamo, cosa abbiamo da dare
agli altri e cosa non abbiamo da dare. Nel quadro di questa conversazione, posso solo tentare di compiere un
piccolo passo in una così vasta problematica.
La mia intenzione è di considerare il diritto e la capacità della fede cristiana di comunicare
se stessa alle altre culture, di assimilarle e di diffondersi in esse. Essenzialmente, questo include tutti i
problemi che riguardano il fondamento dell’esistenza cristiana. Perché credere in qualcosa? Esiste
la verità, una verità raggiungibile dall’uomo e che tutti possono conoscere? Oppure siamo
destinati, attraverso vari simboli, a scorgere solo alcuni bagliori della verità, che in realtà non
ci è mai stata rivelata? Parlare della verità della fede è presunzione o dovere? Anche
questi interrogativi non possono essere presi di petto e discussi nella loro integrale profondità. Noi li
teniamo presenti nell’impostare la nostra discussione su fede e cultura.
Il nostro primo interrogativo è questo: cos’è la cultura? In quale rapporto sta con la
religione e in che modo può essere in contatto con forme religiose che originariamente le erano estranee?
Prima di tutto dobbiamo notare che è stata l’Europa moderna ad inventare un concetto di cultura
nel quale la cultura appare come un campo distinto o anche in opposizione alla religione. In tutte le culture
storicamente conosciute, la religione è l’elemento essenziale della cultura, anzi il nucleo
determinante, caratterizzante. È la religione che determina le strutture dei valori e perciò
dà ad essi la loro logica interna.
Ma se questo è vero, l’inculturazione della fede cristiana nelle altre culture appare ancor
più difficile, poiché non si capisce come una cultura, che vive e respira la religione con cui
è profondamente interconnessa, possa essere trapiantata in un’altra religione, senza che ambedue
vadano in rovina. Se da una cultura togliete la religione che l’ha generata, la private del suo cuore.
Potete metterle un nuovo cuore, il cuore cristiano, ma sembra inevitabile che l’organismo che non è
orientato a ricevere questo nuovo cuore, debba alla fine rigettarlo come un corpo estraneo.
Una soluzione positiva è difficile da immaginare. L’operazione può solo aver senso se la
fede cristiana e l’altra religione, con la cultura che essa ha originato, non sono in una situazione di
radicale differenza e opposizione; se esse sono interiormente aperte l’una all’altra o, per dirla in
altro modo, se esse naturalmente tendono ad avvicinarsi e ad unirsi. Perciò l’inculturazione
presuppone la potenziale universalità di ogni cultura, che in tutte le culture la stessa natura umana sia
al lavoro e che cercare l’unità è la comune verità della condizione umana come si
esprime nelle culture. In altre parole, il programma di inculturazione ha senso solo se non si compie nessuna
ingiustizia nei confronti di una cultura quando, data l’universale disposizione dell’uomo a cercare
la verità, la cultura è aperta e viene sviluppata da una nuova potenza culturale.
Ne consegue che ogni elemento che in una cultura esclude questa apertura e scambio va giudicato come una
deficienza di quella cultura, poiché l’esclusione degli altri va contro la natura
dell’uomo. Il segno della nobiltà di una cultura è la sua apertura, la sua
capacità di dare e di ricevere, che le permetta di essere purificata e di diventare più conforme
alla verità e all’uomo.
Vorrei tentare di dare una definizione di cultura: è quella forma comune di espressione delle
intuizioni e dei valori che storicamente s’è sviluppata e che caratterizza la vita di una
comunità. Esaminiamo ora più da vicino gli elementi di questa definizione per comprendere meglio la
possibilità di inter-comunicazione delle culture, secondo quanto indica il termine "inculturazione".
a) Anzitutto, la cultura ha a che fare con la conoscenza e i valori.
È un tentativo di comprendere il mondo e l’esistenza dell’uomo nel mondo, non in un senso
puramente teorico, ma orientato agli interessi fondamentali dell’esistenza umana. La comprensione ci
dovrebbe indicare come essere uomini, come l’uomo deve prendere il suo posto in questo mondo e come deve
vivere per realizzare se stesso nella sua ricerca di successo e di felicità.
Tuttavia, nelle grandi culture, questo problema non è posto ai singoli individui, come se ciascuno debba
pensare ad un modello di vita per venire a patti col mondo e con l’esistenza. Il singolo può
riuscire solo con gli altri: il problema della retta conoscenza è dunque un problema di adeguata
formazione della comunità. D’altra parte, la comunità è la condizione primaria,
indispensabile per la realizzazione dell’individuo. Nella cultura noi trattiamo di una comprensione che
è conoscenza, da cui nasce la prassi della vita, il modo di vivere; in altre parole, noi stiamo trattando
di una conoscenza che comprende l’indispensabile dimensione dei valori o morale.
Possiamo aggiungere qualcosa d’altro che era evidente per tutti nel mondo antico. I problemi
dell’uomo e del mondo sempre contengono la questione fondamentale di Dio. Non si può capire il
mondo né vivere onestamente, se la domanda su Dio rimane senza risposta. In realtà, andando alla
radice delle grandi culture possiamo dire che esse interpretano il mondo per ordinarlo alla divinità.
b) La cultura, in un senso classico, include l’andare oltre le cose visibili per raggiungere le cause
reali: così la cultura, nel suo nucleo più profondo, significa un’apertura al divino. A
ciò, come già abbiamo visto, è collegata la nozione secondo cui l’individuo trascende
se stesso nella cultura e si trova portato in un soggetto sociale più vasto, di cui eredita le intuizioni,
dà ad esse continuità e le sviluppa. La cultura è sempre unita ad un soggetto sociale che da
un lato assume le esperienze dell’individuo e, dall’altro, aiuta a formarle.
Il soggetto comune conserva e sviluppa le intuizioni che superano le capacità di un individuo; intuizioni
che possono essere definite pre-razionali e super-razionali. In questo modo, le culture richiamano la sapienza
degli "antenati", che furono più vicini agli dèi; esse richiamano le primordiali tradizioni che
hanno carattere di rivelazione, cioè non vengono da un’indagine e decisione umana, ma da un
originario contatto con la radice di tutte le cose. In altre parole, le culture indicano una comunicazione da
parte della divinità[1].
La crisi di una cultura, di conseguenza, viene quando quella cultura non è più capace di portare
avanti l’eredità sopra-razionale, mettendola in relazione in modo convincente con una nuova
conoscenza critica. In questo caso, la verità ereditata viene messa in questione; quello che una volta
era verità diventa solo abitudine, costume e perde la sua vitalità.
c) Un altro punto importante è questo: le società camminano e le culture hanno a che fare con la
storia. Nel suo viaggio attraverso il tempo, la cultura si sviluppa incontrando nuove realtà e con
l’emergere di nuove intuizioni.
La cultura non è isolata dal fiume dinamico del tempo, formato da tante correnti culturali che muovono
verso l'unità. La storicità di una cultura significa la sua capacità di progredire e
questo dipende dalla sua capacità di essere aperta e di trasformarsi attraverso l’incontro.
In realtà, si potrebbe distinguere tra culture cosmico-statiche e culture storiche. Le antiche culture,
come si dice, descrivono il mistero del cosmo che è sempre uguale, mentre il mondo culturale
giudeo-cristiano concepisce il rapporto con Dio come storia. La storia è dunque fondamentale a questo
mondo culturale. La distinzione fra culture statiche e culture dinamiche è corretta, ma non dice tutto, in
quanto le culture statiche credono nella morte e nella rinascita, alla condizione umana come cammino. Come
cristiani noi diciamo che esse contengono una dinamica messianica, ma questo è un tema su cui
ritorneremo in seguito[2].
I nostri piccoli sforzi per chiarificare le categorie di base del concetto di cultura ci aiutano a capire meglio
come le culture possono incontrarsi e intercomunicare. Possiamo ora dire che l’attaccamento ad una
identità culturale, ad una particolare espressione culturale, è la base per la molteplicità
delle culture e le loro rispettive caratteristiche.
D’altra parte possiamo constatare che la storicità di una cultura, il suo movimento attraverso il
tempo, comprende il suo essere aperta. Una singola cultura non vive solamente la propria esperienza di Dio,
del mondo e dell’uomo. Piuttosto, necessariamente, incontra sulla sua via altre culture con le loro
esperienze tipicamente differenti, e deve confrontarsi con esse.
Così, una cultura approfondisce e raffina le proprie intuizioni e valori, nella misura in cui è
aperta o chiusa, internamente vasta o stretta. Questo può portare ad una profonda evoluzione della sua
primitiva configurazione culturale e questa trasformazione non può in nessun modo essere definita
alienazione o violazione. Una trasformazione ben riuscita è spiegata dall’universalità
potenziale di tutte le culture, che diventa concreta in una data cultura attraverso l’assimilazione delle
altre e la sua interna trasformazione.
Un tale procedimento può anche risolvere l’alienazione latente dell’uomo dalla verità e
da se stesso, che una cultura può albergare. Può significare la Pasqua di salvezza di una
cultura: mentre sembra morire, la cultura realmente nasce, ritrovando pienamente se stessa per la prima
volta.
Per questo motivo noi non dovremmo più parlare di "inculturazione", madi incontro di culture o
"inter-culturalità", se vogliamo forgiare una nuova espressione. Infatti l’inculturazione
presume che la fede, liberata dalla cultura, sia trapiantata in un’altra cultura religiosamente
indifferente, dove due soggetti, sconosciuti l’uno all’altro, si incontrano e si fondono.
Ma questo modo di concepire l’incontro della fede con le culture è anzitutto artificiale e
irrealistico, perché, con l’eccezione della civiltà moderna tecnologica, non esiste una fede
senza cultura o una cultura senza fede. È difficile immaginare come due organismi, estranei
l’uno all’altro, possano diventare improvvisamente un insieme coerente in un trapianto che arresta lo
sviluppo di ambedue. Invece, se è vero che le culture sono potenzialmente universali e aperte l’una
all’altra, l’inter-culturalità può portare a una fioritura di nuove forme.
Fino a questo punto abbiamo espresso considerazioni che possono essere definite fenomenologiche,
cioè abbiamo notato come le culture agiscono e si sviluppano. Facendo questo, abbiamo ragionato sulla
potenziale universalità di tutte le culture, come espressione fondamentale dell’idea che la storia
va verso l’unificazione.
Ma allora noi ci chiediamo: perché è così? Perché tutte le culture sono particolari e
quindi diverse l’una dall’altra? Perché esse sono, allo stesso tempo, aperte a tutte le
altre culture e capaci di reciproco scambio, purificazione, perfezionamento? Non voglio dare una risposta
positivista a questi interrogativi, anche se esiste.
A me sembra che proprio nel nostro caso il riferimento alla metafisica non può essere evitato.
L’incontro delle culture è possibile perché l’uomo, nonostante tutte i divergenti
cammini della sua storia e dei suoi sistemi sociali, rimane un unico ed identico essere. Quest’unico
uomo, tuttavia, è segnato in profondità nella sua esistenza dalla verità. La fondamentale
apertura di ogni persona all’altra può essere spiegata solo dal fatto misterioso che le nostre anime
sono state toccate dalla verità; e questo spiega la sostanziale concordanza che esiste anche fra le
culture più lontane l’una dall’altra.
D’altra parte, la diversità che porta all’isolamento è attribuibile alla limitatezza
dello spirito umano. Nessuno afferra il tutto. Le miriadi di intuizioni e di forme sono una specie di mosaico
che rivela la loro complementarietà e la loro interconnessione. Per essere se stesso, ciascuno ha bisogno
dell’altro. L’uomo si avvicina all’unità e alla totalità del suo essere solo
nella reciprocità di tutte le grandi realizzazioni culturali.
In realtà dobbiamo riconoscere che questa diagnosi ottimistica non corrisponde alla realtà dei
fatti. La potenziale universalità delle culture si scontra sempre di nuovo con ostacoli
insormontabili, quando tentiamo di tradurla in un’universalità pratica, poiché non si
tratta solo della forza dinamica di ciò che noi abbiamo in comune.
Dobbiamo anche considerare gli elementi di separazione, le barriere e le contraddizioni,
l’impossibilità di raggiungere l’altra sponda perché le acque che ci dividono sono
troppo profonde e non esistono ponti. Abbiamo parlato dell’unità dell’essere umano, toccato da
Dio in modo misterioso attraverso la verità. Ma ci rendiamo anche conto che esiste un fattore negativo
nell’esistenza umana, un’alienazione che ostacola la conoscenza e taglia fuori l’uomo, almeno
in modo parziale, dalla verità e, perciò, impedisce agli uomini di incontrarsi.
In questo innegabile fattore di alienazione sta la povertà dei nostri sforzi per promuovere
l’incontro delle culture. Da questo fatto, mentre possiamo dedurre che è sbagliato accusare tutte
le religioni della terra di idolatria, sarebbe anche scorretto considerare tutte le religioni solo in modo
positivo. Non dobbiamo dimenticare la critica della religione che non solo Feuerbach e Marx, ma anche grandi
teologi come Karl Barth e Bonhoeffer hanno acceso come un fuoco nelle nostre anime.
Veniamo alla seconda parte delle nostre considerazioni. Abbiamo discusso l’essenza della cultura e le
condizioni che permettono l’incontro delle culture, il loro reciproco influsso che origina la nascita di
nuove forme culturali. Dal piano dei princìpi dobbiamo ora scendere a quello dei fatti.
Ma prima riassumiamo i risultati essenziali delle nostre riflessioni e chiediamoci cosa può unire le
culture in modo che non siano solo superficialmente appiccicate l’una all’altra, ma il loro incontro
diventi occasione per il mutuo arricchimento e perfezionamento. Il mezzo che può unire le culture non
può essere altro che la verità partecipata sull’uomo, la quale necessariamente chiama in
gioco la verità su Dio e sulla realtà del mondo nel suo complesso.
Una cultura, più è umana e più è grande, più esprimerà la
verità che in precedenza ignorava e più sarà capace di assimilare la verità e
sarà essa stessa assimilata dalla verità. A questo punto, la speciale comprensione di se stessa
della fede cristiana diventa manifesta.
La fede cristiana, se è vigile e onesta, sa benissimo che c’è una buona parte di umano
nelle sue espressioni culturali particolari, molto del quale necessita di essere purificato e aperto.
Ma la fede cristiana è anche certa che il suo nucleo fondamentale è la rivelazione della
verità stessa e perciò è la redenzione. Poiché la vera povertà
dell’uomo è essere all’oscuro della verità, il che falsifica le nostre azioni e ci
scatena l’un contro l’altro, appunto perché siamo corrotti, alienati da noi stessi, tagliati
fuori dalla radice del nostro essere, che è Dio.
La comunicazione della verità porta alla liberazione dall’alienazione e dalla divisione, ci
dà il criterio universale di giudizio, che non fa violenza ad alcuna cultura, anzi conduce ciascuna al
suo proprio centro, dato che ogni cultura è in fondo attesa della verità.
Questo non significa uniformità. Proprio l’opposto. Solo quando questo si verifica
l’opposizione tra le culture può diventare complementarietà poiché ogni cultura,
basata su un comune criterio di giudizio, può ora portare i suoi frutti particolari.
Questo è il grande mandato col quale la fede cristiana venne al mondo; esso sottolinea l’intimo
impegno di mandare tutti i popoli alla scuola di Gesù, poiché Egli è la verità in
persona e quindi la via dell’umanità. Non è qui il caso di discutere la
legittimità del mandato missionario, ma ritorneremo su questo punto. Chiediamoci ora: quali conclusioni
possiamo trarre da quanto detto finora riguardo al concreto rapporto della fede cristiana con le culture del
mondo?
Primo, possiamo dire che la fede stessa è cultura. Non esiste la nuda fede o la pura religione. In
termini concreti, quando la fede dice all’uomo chi egli è e come deve incominciare ad essere uomo,
la fede crea cultura. La fede è essa stessa cultura.
La parola fede non è un’astrazione; è maturata attraverso una lunga storia e rapporti
interculturali nei quali essa ha formato un organico sistema di vita, l’interazione dell’uomo con se
stesso, i suoi vicini, il mondo e Dio. Questo significa anche che la fede è, in se stessa, una
comunità che vive in una cultura, che noi chiamiamo "Popolo di Dio".
Il carattere storico della fede come soggetto può essere forse più chiaramente espresso da questo
concetto. Significa questo che la fede si pone come una cultura fra le altre, così che uno debba
scegliere se appartenere a questo popolo, come comunità culturale, o ad un altro? No. A questo punto
appare evidente ciò che è speciale e proprio di una cultura.
Il soggetto culturale "Popolo di Dio" differisce dalle culture classiche, che sono definite dalla
tribù, dal popolo o dai confini di una comune regione, mentre il Popolo di Dio esiste nelle diverse
culture le quali, pur diventando cristiane, non cessano di essere culture in modo primario e non
relativo.
Il cristiano non cessa di essere francese, tedesco, americano, indiano, ecc. Nel mondo pre-cristiano,
anche nelle grandi culture dell’India, Cina e Giappone, l’identità e
l’indivisibilità del soggetto culturale rimane. Una doppia appartenenza è impossibile, con
l’eccezione del buddhismo, capace di inserirsi in altre culture come una specie di principio
interno.
Ma la doppia appartenenza culturale incomincia in modo consistente con la cristianità, così che
l’uomo vive oggi in due mondi culturali, la sua cultura storica e quella nuova della fede: ambedue
contribuiscono a formare la sua identità. Questa interazione non porterà mai ad una sintesi
compiuta, poiché essa include la necessità di continui sforzi verso la riconciliazione e la
perfezione.
Sempre di nuovo l’uomo deve imparare la trascendenza verso la totalità e
l’universalità che sono proprie non di un popolo specifico, ma precisamente del Popolo di Dio che
abbraccia tutti gli uomini. D’altra parte, sempre più quanto è posseduto in comune
dev’essere ricevuto nel campo del particolare e vissuto o anche sofferto nella storia concreta.
Da tutto questo deriva qualcosa di molto importante. Si potrebbe pensare che la cultura è un problema
della storia di ogni singolo paese (Germania, America, Francia, ecc.), mentre la fede per parte sua è
alla ricerca di un’espressione culturale. Le singole culture dovrebbero quindi fornire alla fede un corpo
culturale per esprimersi. Di conseguenza, la fede dovrebbe sempre vivere in culture imprestate che rimangono alla
fine in qualche modo esterne e corrono il rischio di essere gettate via. Soprattutto, una forma culturale
imprestata non potrebbe parlare a chi vive in un’altra cultura. Così l’universalità
diventerebbe alla fine fittizia.
Questo modo di pensare è, alla sua radice, manicheo. La cultura è svilita, diventa un guscio
intercambiabile, e la fede è ridotta ad uno spirito disincarnato, ultimamente privo di realtà.
Una simile visione è tipica della mentalità post-illuministica. La cultura è ridotta ad una
pura forma e la religione a mero sentimento inesprimibile o puro pensiero. Si perde la feconda tensione che
dovrebbe caratterizzare la coesistenza di due soggetti.
Se la cultura è più di una pura forma o principio estetico, se essa è piuttosto
l’ordinamento di valori in una forma storica e vivente e non può prescindere dal problema di
Dio, allora noi non possiamo evitare che la Chiesa sia per il fedele il suo proprio soggetto culturale.
Questo soggetto culturale: Chiesa, Popolo di Dio, non coincide con alcun altro soggetto culturale storico, anche
in tempi di apparente piena cristianizzazione, come si pensa sia stata raggiunta nell’Europa del passato.
Piuttosto la Chiesa mantiene, significativamente, la sua forma culturale come una volta, un arco al di sopra
di tutte le altre culture.
Se le cose stanno così, quando la fede e la sua cultura incontrano un’altra cultura fino a quel
momento ad essa estranea, non si tratta di dissolvere la dualità delle culture a vantaggio di una o
dell’altra. Entrare in una cristianità privata del suo carattere umano, al prezzo di perdere la
propria eredità culturale, sarebbe un errore allo stesso modo che se la fede abbandonasse la sua propria
fisionomia culturale. Veramente la tensione è fruttuosa, poiché essa rinnova la fede e guarisce la
cultura.
Sarebbe dunque insensato offrire una sorta di cristianesimo pre-culturale o deculturato, che dovrebbe privare
se stesso della sua forza storica e degradarsi ad un vuoto contenitore di idee. Non dobbiamo dimenticare che
già nel Nuovo Testamento il cristianesimo è frutto di una storia culturale, storia di accettazione
e di rifiuto, di incontro e cambiamento. La storia della fede in Israele, che è stata assunta dal
cristianesimo, trovò la sua propria forma nel confronto con le culture egiziana, ittita, sumera,
babilonese, persiana e greca. Tutte queste culture erano allo stesso tempo religioni, totalizzanti forme storiche
di modi di vivere.
Israele, con sofferenza, le adottò e trasformò nel corso della sua lotta con Dio e con i
grandi profeti, in modo da preparare un vaso più puro per la novità della rivelazione
dell’unico Dio. Così, queste altre culture raggiunsero la loro definitiva realizzazione. Esse
sarebbero scomparse nel lontano passato, se non fossero state purificate ed elevate nella fede della Bibbia,
raggiungendo così la loro permanenza.
In verità, la storia della fede in Israele incomincia con la chiamata di Abramo: "Esci dalla tua terra,
dalla tua stirpe e dalla casa di tuo padre" (Gen 12, 1): incomincia con una rottura culturale. Questa
rottura con la sua storia precedente, questo andare oltre segnerà sempre l’inizio di una nuova epoca
nella storia della fede.
Ma questo nuovo inizio si manifesta come un potere risanante e capace di attirare a sé tutto quello che
è umano, tutto ciò che viene realmente da Dio. "Quando sarò elevato da terra,
attirerò a me tutti gli uomini" (Gv 12, 31): queste parole del Signore risorto si applicano anche qui. La
croce è prima di tutto rottura, espulsione, elevazione dalla terra, ma proprio per questo diventa un nuovo
centro di attrazione magnetica, che orienta la storia del mondo verso l’alto e raduna gli uomini
divisi.
Chiunque entra nella Chiesa deve essere cosciente di entrare in un soggetto culturale con la sua
inter-culturalità che s’è sviluppata nella storia con molteplici manifestazioni. Non si
può diventare cristiani senza un certo "esodo", una rottura con la precedente vita in tutti i suoi
aspetti. La fede non è una via privata a Dio, essa conduce dentro al Popolo di Dio e nella sua storia.
Dio ha legato se stesso ad una storia che ora è anche la sua e che noi non possiamo rifiutare. Cristo
resta uomo in eterno, egli conserva il suo corpo nell’eternità. Essendo uomo e avendo un corpo,
inevitabilmente questo include una storia e una cultura, una particolare storia e cultura, lo vogliamo o no.
Noi non possiamo replicare l’avvenimento dell’incarnazione per accontentare noi stessi, nel senso di
rimuovere la carne di Cristo e offrirgliene un’altra. Cristo rimane Se stesso, col Suo vero corpo. Ma
Egli ci attira a sé.
Questo significa che, poiché il Popolo di Dio non è una particolare entità culturale, ma
invece è stato tratto da tutti i popoli, perciò la sua stessa primaria identità culturale,
nata dalla rottura, ha il suo posto. Ma non solo questo. La prima identità è necessaria per
permettere all’Incarnazione di Cristo, del Logos, di raggiungere la sua pienezza. La tensione dei molti
soggetti nell’unico soggetto appartiene essenzialmente al dramma non ancora completato
dell’Incarnazione del Figlio. Questa tensione è il reale e intimo dinamismo della storia, che si
sviluppa sotto il segno della Croce, cioè, sempre deve lottare contro le spinte contrarie della chiusura
mentale e del rifiuto.
Se Gesù di Nazareth è veramente l’Incarnazione del senso della storia, il Logos,
l’auto-manifestazione della verità, allora è chiaro che questa verità è il
luogo dove ciascuno può essere riconciliato e non perde nulla della propria dignità e del proprio
valore.
Ma a questo punto oggi si sollevano varie obiezioni. Affermare che le concrete asserzioni di una religione sono
vere è considerato oggi non solo presunzione, ma un segno di non essere illuminati. Hans Kelsen
esprime lo spirito del nostro tempo quando sostiene che la questione posta da Pilato "Cosa è la
verità?" è il solo punto di vista adeguato di fronte ai gravi problemi morali e religiosi
dell’umanità.
La verità è sostituita dalla decisione della maggioranza, egli dice, precisamente perché non
c’è alcun modello vincolante e accessibile per l’uomo [3]. Così la molteplicità delle culture diventa
la prova della loro relatività. La cultura è messa in opposizione alla verità. Questo
relativismo, sentimento basilare dell’uomo illuminista che oggi è penetrato profondamente nella
teologia, è il più grave problema del nostro tempo. È anche il motivo fondamentale per cui
la prassi ha preso il posto della verità e così ha spostato l’asse delle religioni.
Noi non sappiamo cosa è vero, ma noi sappiamo cosa dobbiamo fare, cioè annunziare una
società migliore, il "regno", come spesso si dice, prendendo una parola biblica ed usandola in un senso
profano, utopico. La centralità della Chiesa, di Cristo e di Dio, tutto questo sembra essere sostituito
dalla centralità del regno, come compito comune a tutte le religioni, in cui tutte si possono
incontrare[4].
Così non c’è più motivo per cui le religioni debbano essere conosciute nel loro nucleo
essenziale o che si debbano mettere in relazione reciproca nei loro messaggi morali e religiosi. Al contrario, le
religioni sono distorte nella loro profonda essenza, in quanto ci si attende che esse servano come mezzi per
una futura struttura che in realtà è estranea ad esse e le svuota di contenuto.
Il dogma del relativismo agisce anche in un’altra direzione. L’universalismo cristiano portato avanti
nella missione non è più la doverosa trasmissione di un bene, cioè della verità e
dell’amore validi per tutti gli uomini. La missione diventa invece l’arrogante presunzione di una
cultura che si ritiene superiore alle altre e così le spoglia di ciò che hanno di buono e di
caratteristico.
Le conclusioni che derivano da questo relativismo differiscono da cultura a cultura, anche se la spinta di base
è comune. Nell’America Latina vi è oggi un movimento sotterraneo che si definisce
"teologia india", in riferimento ai popoli indigeni. Il movimento lamenta la scomparsa delle antiche
religioni di questo continente e vorrebbe in qualche modo richiamarle in vita. Le religioni sono viste come vie
dei differenti popoli a Dio, egualmente e fondamentalmente valide per la salvezza. Ogni popolo ha il diritto alla
sua propria via. L’America Latina deve al fine essere liberata dall’alienazione che ha sperimentato
quando il cristianesimo occidentale fu imposto su di essa.
La situazione è abbastanza diversa in Africa dove, in contrasto con l’America Latina, le
religioni tribali originali sono ancora vigorose. Ma anche qui si verifica un movimento di ritorno al
passato, dovuto al dubbio su di sé che affligge oggi il cristianesimo e alla riduzione della sua essenza
religiosa a puri imperativi morali.
Perché l’Africa dovrebbe gettar via la sua identità religiosa, in favore di una
religione la cui proclamazione e impiantazione appare a molti, in una visione retrospettiva, come un altro
aspetto alienante della colonizzazione imposta agli africani?
Chiunque esamina questi problemi da vicino, si rende subito conto che non può esserci alcun semplice
ritorno al passato. Non solo perché la convergenza dell’umanità verso una singola
comunità con una vita e un destino comune è un movimento inarrestabile (essendo questa tendenza
fondata nell’essenza dell’essere umano), ma anche perché la diffusione della civiltà
tecnologica è irrevocabile. È un sogno romantico quello di preservare isole pre-tecnologiche nel
mare dell’umanità. Non potete chiudere uomini e culture in una specie di riserva naturale
spirituale.
In pratica nessuno, sia in America Latina che in Asia e in Africa, vuole seriamente escludere se stesso dalla
scienza naturale e dalla tecnologia che ebbero origine in Occidente. Ma poiché la tecnologia come
scienza naturale appare neutrale, alcuni dicono: perché non accettare le realizzazioni
dell’epoca moderna, mantenendo allo stesso tempo le religioni indigene?
Quest’idea così apparentemente illuminata non funziona. Poiché in realtà la moderna
civiltà non è pura moltiplicazione di conoscenza e di metodi. Essa è profondamente
fondata sul modo di intendere l’uomo, il mondo e Dio; essa cambia i modelli e i comportamenti e capovolge
l’interpretazione del mondo alla base. La visione sacrale del cosmo è necessariamente scossa.
L’arrivo di queste nuove possibilità di esistenza è come un terremoto che scuote il panorama
intellettuale fin dalle sue fondamenta.
In ogni modo, succede sempre più di frequente che la fede cristiana è scartata come
un’eredità culturale europea e le antiche religioni sono ripristinate, mentre, allo stesso tempo, la
tecnologia, sebbene indubbiamente occidentale, viene adottata e utilizzata con passione. Questa divisione
dell’eredità occidentale nell’utile che viene accettato e nello straniero che viene rifiutato,
non porterà le antiche culture alla salvezza.
Oggi si può vedere che quello che è grande e profetico, cioè la dimensione messianica delle
antiche religioni, entra in crisi perché sembra incompatibile con la nuova conoscenza del mondo e
dell’uomo, mentre il magico (nel senso lato della parola), tutto quello che promette potere sul mondo,
rimane intatto e diventa per la prima volta determinante per la vita. Così le religioni perdono la loro
dignità, poiché quello che in esse è il meglio viene eliminato e resta solo quello che
è pericoloso.
La situazione dell’Asia riguardo al cristianesimo è diversa da quella dell’America
Latina e dell’Africa nera. Qui infatti non abbiamo a che fare con culture tribali senza scrittura, ma con
alte culture religiose, che hanno anche prodotto un vasto patrimonio di testi sacri e scritti filosofici e di
riflessione teologica. In Africa, il cristianesimo incontrò le religioni indigene in un momento in cui le
stesse, piene di giovanile vigore, erano ancora alla ricerca di una definitiva parola.
Si può riconoscere una certa analogia con la situazione del mondo mediterraneo nel momento del suo
incontro con Cristo, anche se l’analogia contiene tante differenze quante sono le somiglianze, come in
tutte le analogie. La prima proclamazione del cristianesimo al mondo greco-romano si trovò di fronte a
religioni che erano moribonde, avevano perso la loro credibilità e vitalità. La gente era alla
ricerca di un qualcosa di nuovo. Possiamo dire che c’era un’aspirazione al monoteismo, a conoscere
l’unico Dio sopra tutti gli dei. La filosofia lo vedeva da lontano, ma non era in grado di indicare il
cammino verso di Lui; come filosofia, non poteva sostituire la religione.
Qui la proclamazione cristiana fu la risposta interiormente attesa che afferrò il pensiero filosofico e lo
riempì con una realtà religiosa. In Africa esisteva e tuttora c’è una simile
esigenza di autotrascendenza delle religioni tribali. Anche queste non sono adeguate alle esigenze del
momento storico. L’islam e il cristianesimo stanno tentando di rispondere ai problemi posti dalle religioni
stesse.
La situazione è diversa in Cina e Giappone, poiché le religioni tradizionali hanno prodotto sistemi
filosofici che interpretano il mondo nel suo complesso e inquadrano razionalmente la religione nella struttura
della vita e della cultura. Perciò qui il cristianesimo non ha potuto essere sperimentato come nel
Mediterraneo o anche nell’Africa nera, come un nuovo passo avanti nel cammino di questi popoli, che
già va in quella direzione. Invece, il cristianesimo è apparso più come una cultura e una
religione straniera che si è collocata accanto a quelle asiatiche, minacciando di soppiantarle. Per
questo motivo, le conversioni al cristianesimo sono rimaste largamente marginali nel quadro dell’intera
società.
Tuttavia, il confronto tra i mondi religiosi cristiano e asiatico non è rimasto senza effetto, ma ha
condotto ad un profondo processo di trasformazione, specie nella religiosità. Il neo-induismo come
rappresentato da Radhakrishnan, ad esempio, viene dalla fusione delle tradizioni indiane con una tarda forma
di cristianesimo occidentale.
Senza dubbio si può definire una sintesi di cultura e religione, ma forse può essere meglio
compresa come una forma di filosofia della religione, in cui il moderno relativismo occidentale si fonde con la
spiritualità orientale ed offre una specie di base razionale per prospettive religiose e cultuali che di
sicuro hanno perso in gran parte il loro senso originario in questa nuova visione. Se in questo caso il momento
indiano è determinante nella sintesi, si può dire che in Panikkar si verifica un’unione in
cui l’accento è posto sulla componente cristiana. Ma anche qui si tratta più di filosofia
della religione che di religione.
Al di là di questi tentativi, bisogna trovare una via di incontro autentico di culture e religioni,
caratterizzato non dalla perdita di fede o di verità ma da un più profondo contatto con la
verità, che renda possibile dare a tutto ciò che è maturato in passato il suo pieno e
profondo significato. Questa sintesi di verità non può essere inventata a tavolino, altrimenti non
supererà lo status di filosofia o di pura teoria. Piuttosto è indispensabile un processo di fede
vissuta, che crei la capacità di incontrare nella verità e così, come dice il Salmo, "porre
le cose in un vasto spazio" (31,8). Ma naturalmente questo processo deve essere guidato e ordinato a pensare
la fede.
Questo è il grande compito che la teologia in Asia nel nostro tempo deve affrontare, un compito che nello
stesso tempo riguarda tutta la Chiesa. Il nostro incontro qui a Hong Kong dovrebbe essere un incoraggiamento a
intraprendere questo lavoro e nello stesso tempo aiutarci a chiarificare i necessari principi che ne sono
coinvolti. I Padri della Chiesa possono mostrarci la via per conseguire i retti principi poiché
essi hanno affrontato un simile compito nel loro incontro con le religioni dell’area del Mediterraneo, con
le loro endemiche filosofie della religione.
Infatti, sebbene la fede negli dei e quindi il significato immediato degli antichi culti si fossero disintegrati,
vennero concepite nuove giustificazioni filosofiche delle religioni pagane che mostrano caratteristiche molto
simili alle filosofie della religione del nostro secolo, per esempio a quella di Radhakrishnan.
Citerò soltanto due esempi notevoli. Il primo ce lo fornisce il retore romano Simmaco (ca.
345-402), che difese appassionatamente la preservazione dell’antica religione romana. Egli divenne famoso
soprattutto per la sua richiesta a Cesare di reinstallare la statua della dea Vittoria nel Senato romano. La
frase chiave del suo memorandum contenente la richiesta recita: uno itinere non potest veniri ad tam grande
secretum, non si può accedere a un così grande mistero per un’unica strada.
Questa frase è una classica espressione dell’idea romana di religione: il mistero divino è
così grande che nessuna via umana può esaurirlo, nessuna religione può circoscriverlo.
Può essere accostato solo da lati diversi e deve essere rappresentato in varie forme. Simmaco non voleva
abolire il cristianesimo, voleva soltanto integrarlo nella sua concezione di religione. Il cristianesimo doveva
imparare a considerarsi come un modo di vedere, cercare e parlare di Dio, ammettendo che ci sono anche altri
modi. Anche il cristianesimo non può pretendere di esaurire il grande mistero.
Forse la questione si può capire ancora meglio nel caso dell’imperatore Giuliano
l’Apostata (332-363), che voleva nuovamente sopprimere il cristianesimo e ristabilire gli antichi
culti, collocando come fondale la filosofia neoplatonica. Giuliano criticava l’Antico Testamento e la fede
cristiana dallo stesso punto di vista di Simmaco. La sua principale critica al cristianesimo e la sua decisa
obiezione all’ebraismo riguardavano il primo comandamento. Non poteva e non voleva ammettere
l’unicità dell’unico Dio.
Anche il Dio di Israele, il Dio di Gesù Cristo, era per lui soltanto una manifestazione del divino, che
non esauriva il "grande mistero". Per questo motivo, il Dio dell’Antico Testamento, il Dio dei cristiani
doveva tollerare altri dei oltre a Sé. Per questa ragione, il Nazareno non poteva essere riconosciuto
come il Logos incarnato che è l’unico mediatore per tutta l’umanità. Nella polemica col
politeismo filosofico illuminato i Padri della Chiesa hanno individuato i fondamenti della fede biblica:
relativizzarli significa annullare questa fede e privarla della sua identità. Ciò che resterebbe
dopo l’abbandono sarebbero elementi selezionati di tradizione biblica, ma non la fede della Bibbia in
quanto tale.
Tenterò brevemente di indicare questi elementi fondamentali che i Padri hanno derivato dalle Sacre
Scritture.
a) Il primo grande comandamento è allo stesso tempo il primo articolo di fede e il principio fondativo di
identità della fede: "Il Signore, nostro Dio, è un solo Signore". Tutti gli "dei" non sono Dio.
Pertanto solo l’unico Dio può essere adorato nella verità; adorare altri dei è
idolatria. Senza questa fondamentale decisione non c’è cristianesimo.
Dove essa è dimenticata o relativizzata, ci si trova fuori della fede cristiana. Cristologia,
ecclesiologia, adorazione e sacramento possono essere correttamente trattati solo quando esiste questa
decisione. Il cristianesimo rivoluzionò il mondo antico con questa confessione di fede. Il mondo
antico aveva preso le mosse dal principio esattamente opposto, nuovamente formulato dall’imperatore
Giuliano alla fine dell’antichità.
Certamente l’unico Dio non è un tema sconosciuto nella storia della religione. In realtà si
può dire che la grande maggioranza delle religioni ne ha nozione. Pertanto esse sanno che gli dei non
rappresentano la potenza ultima, ma solo potenze relative. In generale le religioni sono anche coscienti che
gli "dei" non sono "Dio".
Allo stesso tempo, l’unico Dio è spesso privo di culto, o almeno è privo di importanza
livello di culto, poiché è troppo lontano dalla vita dell’uomo. Pertanto le pratiche
cultuali sono indirizzate agli dei, dimodoché nelle religioni Dio è spesso nascosto quasi
interamente dietro gli dei per quanto riguarda tutti gli aspetti pratici. La fede cristiana è consistita,
per il mondo mediterraneo e poi ancora per l’America latina e per l’Africa, in una liberazione dagli
dei perché ora l’unico Dio si è mostrato ed è diventato il "Dio con noi".
Le parole cruciali con cui Gesù respinge Satana, il tentatore dell’umanità, recitano:
"Adorerai il Signore Dio tuo e Lui solo servirai" (Mt 4,10; Lc 4,8; Dt 5,9; 6,13). Senza
l’accettazione di questo comando non ci si può collocare dalla parte di Gesù Cristo nella
religione professata dalla Bibbia.
b) L’esistenza cristiana comincia con questa decisione fondamentale e si fonda sempre su di essa. Quando
scompare la differenza fra adorazione e idolatria, il cristianesimo è distrutto. La Bibbia e il
linguaggio dei Padri chiamano "conversione" (metanoia) la necessaria decisione.
Una teologia che omettesse il concetto di conversione trascurerebbe la categoria decisiva della religione
biblica. La fede cristiana è un nuovo inizio, e non semplicemente una nuova variante culturale di una
strutture religiosa sempre in via di svolgimento. Per questo motivo i Padri sottolineavano con enfasi la
novità del cristianesimo.
L’atto della conversione è essenziale alla speciale comprensione della verità dei cristiani.
In un grande numero di religioni, come abbiamo visto, la realtà del Dio unico non è certamente
sconosciuta, ma questo Dio unico è troppo distante. Il suo mistero è inaccessibile.
Così i contenuti concreti della religione possono essere solo di natura simbolica. Essi non sono la
verità, ma manifestazioni parziali al di là delle quali sono possibili altre manifestazioni.
La fede cristiana riconosce nel Dio di Israele, nel Dio di Gesù Cristo, l’unico vero Dio, la
verità stessa che si manifesta. Pertanto la conversione cristiana è nella sua essenza fede nel
fatto della rivelazione di sé che la verità attua. Mentre il mistero non è per questo
abolito, il relativismo è senza dubbio escluso, poiché esso separa l’uomo dalla verità
facendone uno schiavo. La reale povertà dell’uomo consiste nell’oscurità rispetto alla
verità. Egli diventa libero per la prima volta quando è obbligato a servire la sola
verità.
Tuttavia un altro punto è importante in questa riflessione. I Padri hanno anzitutto enfatizzato con molto
vigore il carattere della conversione come decisione e di conseguenza il carattere della fede come esodo. Una
volta garantito questo punto, hanno sempre più sottolineato il secondo aspetto, cioè che la
conversione è trasformazione, non distruzione.
La conversione non distrugge le religioni e le culture, ma le trasforma. Sulla base di questa intuizione, i
Padri giunsero sempre più a opporsi all’iconoclastia di fanatici cristiani dalla visuale ristretta.
I templi non furono più smantellati, ma trasformati in chiese. La profonda continuità fra le
religioni e la fede cristiana divenne visibile.
Essa condusse alla resurrezione del meglio delle antiche religioni. Non fu una filosofia della religione
relativistica che diede ad esse esistenza continuata; in realtà, proprio questa filosofia in un primo
momento le aveva rese inutili. La fede diede alle religioni lo spazio in cui la loro verità potè
svilupparsi e dare frutti. Entrambi gli aspetti dell’atto di conversione sono importanti, ma solo dopo che
è stato compiuto il primo passo, cioè la svolta decisiva verso l’unico Dio, può
seguire il secondo, la conservazione trasformante.
c) Il mistero di Gesù Cristo può essere compreso solo in questo contesto del primo comandamento e
dell’atto di conversione che esso esige. Per Gesù, che non abolì il Vecchio Testamento ma lo
portò a compimento, il primo comandamento rimase il fondamento di ogni cosa ulteriore; rimase il contenuto
che sta alla base della fede: "Ascolta, Israele: il Signore nostro Dio è un solo Signore".
Oso sostenere che la centralità di questo passo per tutta la letteratura dell’Antico Testamento
è anche la ragione essenziale del posto unico che l’Antico Testamento tiene nella fede cristiana.
Poiché l’intero Antico Testamento è costruito attorno a questa singola frase, per questo
motivo esso rappresenta un "canone" per i cristiani, quindi Sacra Scrittura. Solo per questa ragione esso rende
testimonianza a Gesù e viceversa. Gesù è la chiave all’Antico Testamento perché
egli rende concreta questa frase nella Sua stessa carne.
Sfortunatamente, la mancanza di tempo non ci permette di presentare la questione cristologica come meriterebbe.
Per questo motivo mi piace tanto più rimandare all’enciclica Redemptoris
Missio, in cui gli argomenti essenziali sono esposti in maniera vivida e chiara. Questa enciclica deve
costituire il modello per ogni ulteriore ricerca di Teologia delle religioni e della missione. Non sarà
mai studiata e accolta abbastanza intensamente.
Qui mi devo limitare a una breve allusione. Il problema che si pone in India ma anche altrove trova espressione
nella famosa frase di Panikkar: "Gesù è Cristo, ma Cristo non è (soltanto)
Gesù".
Per capire tutta l’ampiezza del problema dovremmo sostituire la parola "Cristo" con Logos o Figlio di
Dio, dal momento che Cristo è un titolo storico-salvifico nel quale l’intera profondità
metafisica del mistero di Gesù non viene ancora alla luce. Nella sua vita storica, Gesù fu
reticente sull’uso di questo titolo. La tradizione post-pasquale spiega il titolo sempre più
decisamente col titolo di Figlio, che infine lo sostituisce e che allora di nuovo Giovanni interpreta in
profondità per mezzo del concetto di Logos.
Questo processo dello sviluppo della rivelazione, comunque, è già molto evidente nella
tradizione sinottica. La confessione di Pietro suona molto semplicemente in Marco: "Tu sei il Cristo (il
Messia)". In Matteo leggiamo: "Tu sei il Cristo (il Messia), il Figlio del Dio vivente" (Mc 8,29; Mt 16,16).
Gesù dice espressamente a Pietro che quest’ultimo non aveva appreso questa confessione dalla carne e
dal sangue, cioè dalla sua cultura o dalla sua tradizione religiosa, ma "te l’ha rivelata il Padre
mio che sta nei cieli" (Mt 16,17).
Pertanto questa confessione, la fondamentale confessione di tutta la Chiesa di ogni tempo e luogo, è
espressamente dichiarata estranea alle semplici tradizioni umane e definita come una rivelazione nel senso
stretto del termine. Ogni interpretazione che non perviene ad essa rappresenta un ritorno al puramente umano.
Il cristianesimo sta o cade sulla base di questa confessione.
Essa non può essere separata dalla confessione fondamentale di Israele: "Il Signore nostro Dio è un
solo Signore". L’unico Dio mostra Se stesso a noi nel Suo unico Figlio e desidera essere adorato come
l’unico Dio in Lui. Ciò risponde in via di principio alla questione della reversibilità
delle formule cristologiche. Quando Panikkar nega la semplice reversibilità, egli ha ragione nella
misura in cui le due nature, divina ed umana, rimangono distinte. La natura umana di Gesù ha il suo inizio
nel tempo, la natura divina del Logos è eterna. Le due sono tanto diverse come sono diversi creatore e
creatura, e perciò non sono intercambiabili.
Tuttavia, nell’Incarnazione il Logos eterno ha legato Se stesso a Gesù in modo tale che la
reversibilità delle formule deriva dalla Sua persona. Il Logos non può essere più
pensato indipendentemente dalla Sua connessione con l’uomo Gesù. Il Logos ha tratto a Sé
Gesù e ha unito Se stesso a Lui in modo tale che essi sono solo un’unica persona nella
dualità delle nature.
Chiunque entra in contatto col Logos tocca Gesù di Nazareth. Gesù è più del
sacramento del Logos. Egli è il Logos stesso che nell’uomo Gesù è un soggetto
storico. Certamente Dio tocca l’uomo in molti modi anche al di fuori dei sacramenti.
Ma Egli lo tocca sempre attraverso l’uomo Gesù che è la Sua automediazione nella storia e
la nostra mediazione nell’eternità. Cristo non è una semplice teofania, una
manifestazione di Dio, ma piuttosto in Lui l’essere di Dio stesso entra in unità con l’essere
dell’uomo. Se noi - con Pietro, con tutto il Nuovo Testamento, con l’intera Chiesa - confessiamo
Gesù come Cristo, Figlio del Dio vivente, allora noi non vogliamo solo dire che questo Gesù
è diventato la più alta manifestazione del divino per noi, mentre altri altrove possono ben aver
trovato i loro propri salvatori.
La Fede, nel senso del Nuovo Testamento, significa esattamente che veniamo distolti dalle nostre valutazioni
puramente umano-culturali, che Colui che ci prende per mano è Colui che attraversa il mare del tempo senza
affondare perché Egli è Signore del tempo. La fede come atto trascende ogni esperienza.
È un atto di assenso che possiamo fare solo al Dio vivente, che è verità in persona. Non
possiamo tributare, questa obbedienza a nessuna realtà relativa. È quel che Pietro vuole
significare quando dice ai capi e agli anziani del popolo di Israele: "... non vi è infatti altro nome
dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo salvarci" (At 4,12).
Nelle sue lettere dalla prigione Paolo sviluppa il significato cosmico di Cristo e così dischiude per noi
una cristologia nel senso di quanto abbiamo prima detto a proposito dalla conversione. La fede in Gesù
Cristo diventa un nuovo principio di vita e dischiude un nuovo spazio di vita. Il vecchio non è distrutto,
ma trova la sua forma definitiva e il suo pieno significato. Questa conservazione trasformante, praticata
dai Padri in modo splendido nell’incontro fra la fede biblica e le sue culture, è il contenuto
reale dell’"inculturazione", dell’incontro e dell’interfecondazione di culture e religioni
sotto il potere di mediazione della fede.
È qui che si collocano i grandi compiti dell’attuale momento storico. Senza dubbio la missione
cristiana deve capire ed accogliere le religioni in un modo molto più profondo di quanto abbia fatto fino
ad ora. D’altra parte le religioni, per vivere in modo autentico, devono riconoscere il loro proprio
carattere messianico che le sospinge in avanti verso Cristo.
Se procediamo in questo senso verso una ricerca interculturale di indizi dell’unica verità comune,
scopriremo qualcosa di inatteso: gli elementi che il cristianesimo ha in comune con le antiche culture
dell’umanità sono più grandi di quelli che esso ha in comune col mondo
razionalistico-relativistico. Quest’ultimo ha tagliato i ponti con le fondamentali intuizioni comuni
che sono di sostegno all’umanità e ha condotto l’uomo in un vuoto esistenziale che lo minaccia
di rovina se non giungerà una risposta.
Infatti la conoscenza della dipendenza dell’uomo da Dio e dall’eternità, la conoscenza del
peccato, della penitenza e del perdono, la conoscenza della comunione con Dio e con la vita eterna, e infine la
conoscenza dei precetti morali fondamentali come hanno preso forma nel decalogo, tutte queste conoscenze
permeano le culture. Non è certo il relativismo a trovare conferma. Al contrario, è
l’unità della condizione umana, l’unità dell’uomo che è stata toccata
da una verità più grande di lui.
[1] Cfr. Josef Pieper, Überlieferung: Begriff und Anspruch, Monaco 1970; e Über die platonischen Mythen, Monaco 1965.
[2] Soprattutto T. Häcker ha sottolineato il concetto del messianico nel precristiano. Cfr. T. Häcker, Vergil: Vater des Abendlandes Lipsia 1931; ristampato Monaco 1947.
[3] Cfr. V. Possenti, Le società liberali al bivio: Lineamenti di filosofia della società, Marietti 1991, pp. 315-345, spec. 345.
[4] Cfr. le indicazioni di J. Dupuis in The Kingdom of God and World Religions in Vidyajyoti, Journal of Theological Reflection n. 51 (1987), pp. 530-544.