Riprendiamo dal sito www.ratzinger.it
la conferenza tenuta dall’allora cardinal Joseph Ratzinger sulla situazione
della catechesi il 15 gennaio 1983 nella basilica di Notre-Dame di Fourvière
a Lione ed il 16 gennaio 1983 nella cattedrale di Notre-Dame a Parigi. Il testo
recava il titolo originale Transmission de la Foi et sources de la Foi e
riprendeva a sua volta la traduzione dal francese della rivista Cristianità
del 1983 alla quale abbiamo numerose correzioni, consapevoli, però,
che un testo importante come questo avrebbe bisogno di una traduzione ufficiale
per la chiarificazione delle sfumature nei suoi passaggi teologicamente e catecheticamente
più complessi.
I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Restiamo a disposizione
per l’immediata rimozione se la presenza di questo testo sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli
aventi diritto.
Il Centro culturale Gli scritti (19/1/2009)
Con le ultime parole rivolte ai suoi apostoli, il Signore diede loro l'incarico di andare in tutto il mondo per farvi dei discepoli (Mt 28,19 ss.; Lc 16,15; At 1,7). Fa parte della essenza della fede il richiedere di essere trasmessa: si tratta dell’interiorizzazione di un messaggio, che si rivolge a tutti perché é la verità, e l'uomo non può essere salvato senza la verità (1 Tim 2,4). Per questo la catechesi e la trasmissione della fede sono state, fino dalle origini, una funzione vitale per la Chiesa, e tali devono restare fin tanto che la Chiesa durerà.
Le difficoltà attuali della catechesi sono un dato generalmente accettato che non è necessario
provare nei particolari. Le cause della crisi e le sue conseguenze sono state descritte spesso e
abbondantemente[1].
Nel mondo della tecnica, che é una creazione dell'uomo stesso, non si incontra anzitutto il Creatore, ma
l'uomo incontra sempre se stesso. La sua struttura fondamentale è quella di essere "fattibile", il
modo delle sue certezze è il calcolabile. Per questo motivo il problema della salvezza non viene posto in
relazione a Dio, che non compare in alcun modo, ma in funzione del potere dell'uomo, che vuole diventare
costruttore di se stesso e della sua storia.
L'uomo non cerca più, dunque, i criteri della sua morale in un discorso sulla creazione o sul Creatore,
che gli sono diventati sconosciuti. La creazione non ha più, per lui, risonanze morali; essa gli parla
solamente il linguaggio matematico della sua utilità tecnica, a meno che ella non protesti contro le
violenze che lui le fa subire. Anche allora l'appello morale che la creazione così gli rivolge, resta
indeterminato: in definitiva, la morale si identifica, in un modo o nell'altro, con la dimensione sociale, quella
dell'uomo verso se stesso e quella dell'uomo nei confronti del suo contesto. Da questo punta di vista, anche
la morale è diventata una questione di calcolo delle migliori condizioni per uno sviluppo nel
futuro.
La società ne è stata mutata profondamente: la famiglia, che è la cellula portante della
cultura cristiana, sembra essere, il più delle volte, in via di dissoluzione. Quando i legami
metafisici non contano più, essa non può essere conservata, per lungo tempo, da altre specie di
legami.
Questa nuova visione del mondo, da una parte si riflette nei mass-media, dall'altra si nutre di essi. La
rappresentazione del mondo e degli avvenimenti da parte dei mass-media oggi segna la coscienza, più di
quanto non lo faccia l'esperienza personale della realtà. Tutto ciò influisce sulla catechesi,
che vede spezzati i classici sostegni della società cristiana, senza, peraltro, potersi appoggiare
sull'esperienza vissuta della fede in una Chiesa vivente: in un tempo in cui il linguaggio e la coscienza si
nutrono solo con l’esperienza di un mondo che si vuole creatore di se stesso, la fede sembra condannata al
mutismo.
Negli ultimi decenni la teologia pratica si è consacrata con energia a questi problemi per tracciare alla
trasmissione della fede vie nuove e più adatte a questa situazione. Certo molti, nel frattempo, sono
arrivati a convincersi che questi sforzi hanno contribuito più ad aggravare che a risolvere la crisi.
Sarebbe ingiusto generalizzare questa affermazione, ma sarebbe anche falso negarla puramente e
semplicemente.
Un primo grave errore fu quello di sopprimere il catechismo e di dichiarare "sorpassato" il genere stesso del
catechismo. Certo, il catechismo come libro è divenuto comune soltanto al tempo della Riforma; ma la
trasmissione della fede, come struttura fondamentale nata dalla logica della fede, è vecchia quanto il
catecumenato, cioè quanto la Chiesa stessa. Essa scaturisce dalla natura stessa della sua missione e,
dunque, non si può rinunciarvi. La rottura con una trasmissione della fede attinta nella sua
strutturazione fondamentale alle fonti di una tradizione presa nella sua globalità, ha avuto come
conseguenza la frammentazione della proclamazione della fede. Essa fu non solo arbitrariamente accolta nella sua
esposizione, ma anche messa in discussione in alcune sue parti, che appartengono a un tutto e che, staccate da
esso, appaiono sconnesse.
Cosa vi era dietro questa decisione errata, affrettata e universale? Le ragioni sono molteplici e fino a ora poco
esaminate. Sicuramente questa decisione è da mettere in rapporto con la evoluzione generale
dell'insegnamento e della pedagogia, caratterizzata da una ipertrofia del metodo rispetto al contenuto delle
diverse discipline. I metodi diventano i criteri del contenuto e non più i veicoli di esso. L'offerta si
regola sulla domanda: è così che sono state tracciate le vie della nuova catechesi nella disputa
sul catechismo olandese[2].
Ne conseguì che ci si limitò alle questioni per principianti, invece di cercare le vie che
avrebbero permesso di superarle e di arrivare a ciò che inizialmente non si comprendeva, unico metodo che
modifica positivamente l'uomo e il mondo. Così, il potenziale di cambiamento proprio della fede fu
paralizzato. Infatti la teologia pratica non era più intesa come uno sviluppo concreto della teologia
dogmatica o sistematica, ma come un valore in sé. Ciò corrispondeva, di nuovo, alla tendenza
attuale a subordinare la verità alla prassi, che, nel contesto delle filosofie neo-marxistiche e
positivistiche, ha fatto breccia anche in teologia[3].
Tutti questi fatti contribuirono a impoverire considerevolmente l’antropologia: precedenza del metodo
sul contenuto significa predominanza dell'antropologia sulla teologia, di modo che questa dovette trovarsi un
posto nel contesto di un antropocentrismo radicale. Il declino dell'antropologia fece apparire, a sua volta,
nuovi centri di gravità: supremazia della sociologia, o, ancora, primato della esperienza, come nuovi
criteri di comprensione della fede tradizionale.
Dietro a queste cause e ad altre ancora, che si possono trovare nel rifiuto del catechismo e nel crollo della
catechesi classica, vi è tuttavia un processo più profondo. Il fatto di non avere più il
coraggio di presentare la fede come un tutto organico in se stesso, ma solamente come una serie di riflessi
scelti di esperienze antropologiche parziali, si fondava, in ultima analisi, su di una certa diffidenza nei
riguardi della totalità.
Esso si spiega con una crisi della fede, meglio: della fede comune alla Chiesa di tutti tempi. Ne risultava
che la catechesi ometteva generalmente il dogma e tentava di ricostruire la fede direttamente a partire dalla
Bibbia. Ora, il dogma non è niente altro, per definizione, che interpretazione della Scrittura,
ma questa interpretazione, nata dalla fede dei secoli, non sembrava più potersi accordare con la
comprensione dei testi, a cui il metodo storico aveva nel frattempo condotto. In questo modo, coesistevano due
forme di interpretazione apparentemente irriducibili: la interpretazione storica e quella dogmatica.
Ma quest'ultima, secondo le concezioni contemporanee, poteva essere considerata solo come una tappa
pre-scientifica della nuova interpretazione. Così, sembrava difficile riconoscere a essa un posto
proprio. Laddove la certezza scientifica è considerata la sola forma valida, perfino la sola possibile,
della certezza, quella del dogma doveva sembrare o come una tappa sorpassata di un pensiero arcaico, oppure come
la espressione della volontà di potenza di istituzioni passate che ancora sopravvivevano. La verità
del dogma deve allora essere valutata secondo la misura dell'esegesi scientifica e può, al massimo,
confermare le dichiarazioni di quest’ultima; essa non può più pretendere di giudicarla in
ultima istanza.
Eccoci arrivati al punto centrale del nostro tema, al problema del posto occupato dalle "fonti" nel processo
di trasmissione della fede. Una catechesi che sviluppava, per così dire, la fede direttamente a partire
dalla Bibbia, senza passare attraverso il dogma, poteva pretendere di essere una catechesi dedotta specificamente
dalle fonti. Ma allora emerse un fenomeno curioso. L'effetto di freschezza, all'inizio provocato dal
contatto diretto con la Bibbia, non fu durevole. Certo, all'inizio ne risultò molta fecondità,
bellezza e ricchezza nella trasmissione della fede. Si sentiva "l'odore della terra di Palestina", si riviveva il
dramma umano nel quale la Bibbia è nata. Vi fu così, più verità umana e concreta.
Ben presto, però, apparve l’ambiguità del progetto, che J. A. Möhler aveva descritto in
modo classico centocinquanta anni fa. Ciò che la Bibbia apporta in fatto di bellezza, di immediatezza, a
cui non si può rinunciare, e così descritto: "Senza la Scrittura, la forma propria delle
parole di Gesù ci resterebbe nascosta, noi non sapremmo come parlava il Figlio dell'uomo e credo che non
mi piacerebbe più continuare a vivere se non la sentissi più".
Ma Möhler sottolinea subito il motivo per cui la Scrittura non può essere separata dalla
comunità vivente, nella quale soltanto può essere "la Scrittura", quando continua dicendo:
"Solo che, senza la tradizione, noi non sapremmo chi parlava allora, ne ciò che annunciava, e anche
la gioia che proviene dal suo modo di parlare svanirebbe"[4].
Nel libro che Albert Schweitzer consacrò alla storiografia delle ricerche sulla vita di Gesù, si
trova descritta, da tutt'altro punto di vista, la stessa evoluzione di una catechesi legata unicamente allo
studio letterario delle fonti: "Ciò che è capitato alla ricerca sulla vita di Gesù
è singolare. Essa è partita alla ricerca del Gesù della storia ed ha creduto di poterlo
ricollocare nel nostro tempo così come era, come Maestro e Salvatore. Essa disfece i legami che, da
secoli, la univano alla roccia dell'insegnamento della Chiesa, e si rallegrava vedendo la sua figura riprendere
vita e movimento, e il Gesù storico venire incontro. Ma ecco, esso non si arrestò, passò
di fianco al nostro tempo e ritornò verso il suo"[5].
In realtà questo processo, di cui, circa un secolo fa, Schweitzer aveva creduto di avere arrestato
l'evoluzione teologica, si ripete sempre in un modo nuovo e con svariati cambiamenti nella moderna catechesi.
Infatti, i documenti che si sono voluti leggere senza alcun altro intermediario oltre al metodo storico, per
ciò stesso si allontanarono alla distanza che li separa storicamente. Una esegesi che non vive e non
comprende più la Bibbia insieme all'organismo vivente della Chiesa diventa archeologia: un museo di cose
passate.
Concretamente, ciò si verifica anzitutto nel fatto che la Bibbia si disgrega come Bibbia, per non
essere niente altro che una collezione di libri eterogenei. Di qui la domanda: come assimilare questa
letteratura, e secondo quali criteri scegliere i testi con i quali bisogna costruire la catechesi? La
rapidità con cui si è realizzata questa evoluzione si vede, per esempio, in una proposta fatta
recentemente in Germania in una lettera di un lettore a una rivista: stampare, nelle nuove edizioni della
Bibbia, in caratteri piccoli ciò che è superato, e mettere invece in evidenza ciò che resta
valido. Ma che cosa è valido? Che cosa è superato? In fin dei conti, è il gusto a
decidere, e la Bibbia potrà tutt'al più servire ad assecondare la nostra decisione.
Ma la Bibbia si disgrega anche in un altro modo. Cercando l'elemento primitivo, giudicato sicuro e affidabile,
ci si scontra con le fonti più antiche ricostruite a partire dalla Bibbia, che si pensa in definitiva
essere più importanti de "la Fonte". Una madre tedesca mi raccontò, un giorno, che suo figlio,
che frequentava la scuola media, era in procinto di essere iniziato alla cristologia della presunta fonte dei
"loghia del Signore"; ma dei sette sacramenti, degli articoli del Credo, egli non sospettava
ancora neppure la esistenza. L'aneddoto vuole dire questo: con il criterio dello strato letterario più
antico come testimonianza storica più sicura, la vera Bibbia spariva a vantaggio di una Bibbia
ricostruita, a vantaggio di una Bibbia come avrebbe dovuto essere.
Lo stesso succede di Gesù. Quello dei Vangeli è considerato come un Cristo notevolmente
rimaneggiato dal dogma, dietro il quale bisognerebbe ritornare al Gesù dei loghia
oppure di un'altra fonte presunta, per trovare il Gesù reale. Questo Gesù "reale", a questo
punto, non dice e non fa niente di più di quello che ci piace. Ci risparmia, per esempio, la croce
come sacrificio espiatorio; la croce è ricondotta alle dimensioni di uno scandaloso incidente, al quale
non conviene prestare troppa attenzione. Anche la Resurrezione diventa una esperienza dei discepoli secondo la
quale Gesù, o almeno la sua "realtà", continua. Non ci si sofferma più sugli avvenimenti, ma
sulla coscienza che ne hanno avuto i discepoli e la "comunità". La certezza della fede è sostituita
dalla fiducia nell'ipotesi storica. Ora, questo modo di procedere mi sembra irritante.
La garanzia dell’ipotesi storica, in un grande numero di testi di catechismo, diventa assolutamente
più importante della certezza della fede. Questa è scaduta al livello di una vaga fiducia senza
contorni precisi. Ma la vita non è una ipotesi, e la morte neppure; ci si rinchiude nello scrigno vitreo
di un mondo intellettuale, che ci si è fatti da soli e che, allo stesso modo, può dissolversi.
Ma ritorniamo al nostro tema. Se ricapitoliamo le riflessioni fatte finora, possiamo anzitutto constatare che lo
sconvolgimento della catechesi negli ultimi venti o trenta anni è caratterizzato da una nuova immediatezza
nel contatto con le fonti scritte della fede, con la Bibbia. Se prima la Bibbia entrava nell'insegnamento
della fede solo nella forma di dottrina della Chiesa, ora si tenta di penetrare nel cristianesimo attraverso un
dialogo diretto tra l’esperienza attuale e la parola biblica. L'utilità di questo sforzo
consiste in un accrescimento di umanità concreta nella esposizione dei fondamenti del fatto cristiano.
Ma così facendo, il dogma non era generalmente negato, ma scadeva al rango di una specie di quadro
orientativo di poca importanza per il contenuto e per la struttura della catechesi.
Dietro a ciò stava una certa perplessità nei confronti del dogma, che proveniva dal fatto di non
avere chiarito i rapporti tra lettura dogmatica e lettura storico-critica della Scrittura. Nella misura in cui
questa evoluzione progrediva, apparve manifesto che la Scrittura, lasciata a se stessa, cominciava a dissolversi:
la si sottometteva sempre a nuove "riletture". Nel tentativo di attualizzare il passato, l'esperienza personale o
comunitaria diveniva, a vista d'occhio, il criterio decisivo di ciò che rimaneva attuale. Così
nasceva una specie di empirismo teologico, in cui l’esperienza del gruppo, della comunità oppure
degli "esperti", diventa la fonte ultima.
Le fonti comuni sono allora canalizzate in modo tale che non si riconosce più granché del loro
dinamismo originario. Se un tempo è stato rimproverato alla catechesi tradizionale di non condurre alle
fonti, ma di farle arrivare agli uomini dopo averle filtrate, oggi queste canalizzazioni del passato dovrebbero
piuttosto essere paragonate a dei torrenti in rapporto ai nuovi metodi di analizzare delle fonti. Infatti, oggi,
si pone una domanda centrale, ed è questo propriamente il nostro tema: come può essere
conservata pura l'acqua delle fonti nella trasmissione della fede? Con questa domanda sono messi in luce due
problemi essenziali per la situazione attuale.
La questione che deve essere esaminata in primo luogo è quella dei rapporti tra esegesi dogmatica ed esegesi storico-critica. Questa è anche la questione dei rapporti da stabilire tra il tessuto vivente della tradizione, da una parte, e i metodi razionali di ricostruzione del passato, dall'altra. Ma è anche la questione dei due livelli del pensiero e della vita: qual è, dunque, il posto dell'articolazione razionale della scienza nel tutto dell'esistenza umana e del suo incontro con il reale?
La seconda questione ci sembra consistere nella determinazione dei rapporti tra metodo e contenuto, tra esperienza e fede. È chiaro che la fede senza esperienza può essere soltanto chiacchiericcio di formule vuote. Per contro, è ugualmente evidente che ridurre la fede alla esperienza significa privarla del suo contenuto. Ci smarriremmo nel campo del non sperimentato e non potremmo dire con il salmo: "Hai guidato al largo i miei passi" (Sal 31[30],9), prigionieri della ristrettezza delle nostre esperienze.
Sarebbe dare prova di un inammissibile accademismo attendere che si "sia finito di discutere" prima di
promuovere un rinnovamento della catechesi. La vita non aspetta che la teoria sia arrivata alla fine della sua
elaborazione; la teoria, piuttosto, ha bisogno delle iniziative della vita, che è sempre "aggiornata".
La fede stessa è anticipazione su quanto è attualmente inaccessibile. Così essa lo
raggiunge nella nostra vita e conduce la nostra vita a superarsi.
In altri termini: in vista di un giusto rinnovamento teorico e pratico della trasmissione della nostra fede,
proprio come in vista di un vero rinnovamento della catechesi, è indispensabile che i problemi appena
enunciati siano riconosciuti come tali e condotti verso la loro soluzione. Ora, l'impossibilita in cui siamo di
rinunciare alla teoria, sia nella Chiesa che riguardo alla fede, non significa che la fede debba risolversi in
teoria, né che dipenda totalmente dalla teoria. La discussione teologica, di norma, è possibile
e significativa solo se e perché vi è, in permanenza, una avanzamento del reale. Di questo parla
con insistenza la prima lettera di san Giovanni, a proposito di una crisi del tutto simile alla nostra: "Voi
avete l'unzione ricevuta dal Santo e tutti avete la scienza" (1 Gv 2,20).
Questo vuole dire: la vostra fede battesimale, la conoscenza che vi è stata trasmessa con l'unzione
(sacramentale), sono un contatto con la realtà stessa, che ha, dunque, la precedenza sulla teoria. Non
è la fede battesimale che deve giustificarsi davanti alla teoria, ma la teoria davanti alla realtà,
davanti alla conoscenza della verità concessa nella confessione battesimale. Alcuni versetti
più avanti, l'Apostolo traccia una frontiera molto netta alle esigenze intellettuali che si facevano
chiamare "gnosi". Poiché ciò che allora era in causa, era l'esistenza stessa del cristianesimo o il
suo riassorbimento da parte della filosofia del tempo. L'Apostolo dice: "E quanto a voi, l'unzione che avete
ricevuto da Lui [cioè la conoscenza della fede in comunione di spirito con la Chiesa] rimane in voi
e non avete bisogno che alcuno vi ammaestri; ma come la sua unzione vi insegna ogni cosa [la sua unzione,
cioè la fede cristologica della Chiesa, dono dello Spirito], è veritiera e non mentisce,
così state saldi in Lui come essa vi insegna" (1 Gv 2,27).
Questo passaggio avverte, attraverso l'autorità apostolica di colui che aveva toccato il Verbo incarnato,
che i fedeli devono resistere alle teorie che dissolvono la fede in nome dell’autorità della pura
ragione. Ai cristiani viene detto che il loro giudizio - quello della semplice fede della Chiesa - ha una
autorità più alta di quella delle teorie teologiche, poiché la loro fede esprime la vita
della Chiesa, che è al di sopra delle spiegazioni teologiche e delle loro certezze
ipotetiche[6].
Ora, con questi rinvii al primato della fede battesimale su tutte le teorie didattiche e teologiche, diamo, in
realtà, una risposta completa alle domande fondamentali della nostra esposizione. Per meglio elaborare e
approfondire queste vedute, dobbiamo adesso formulare meglio la nostra questione. Per rispondere esattamente,
dobbiamo, dunque, chiarire ciò che si deve intendere per fede e per fonte della fede.
L’ambiguità del termine "credere" deriva dal fatto che può indicare due atteggiamenti
spirituali diversi. Nel linguaggio quotidiano, credere significa "pensare, supporre"; questo è un
grado inferiore di sapere riguardo a realtà delle quali non abbiamo ancora certezza. Ora, si suppone
comunemente che la fede cristiana stessa sia un insieme di supposizioni su argomenti di cui non abbiamo una
conoscenza esatta.
Ma una tale opinione manca totalmente il suo obiettivo. Il più importante catechismo cattolico, il
Catechismo Romano pubblicato sotto Pio V in seguito al Concilio di Trento - e al quale dovremo sovente
ritornare -, in merito al fine e al contenuto della catechesi, che è la somma delle conoscenze cristiane,
si esprime, infatti, conformemente a un detto di Gesù riportato da san Giovanni: "E la vita eterna
è questa, che conoscano te, solo vero Dio, e Colui che hai mandato, Gesù Cristo" (Gv
17,3)[7].
Dicendo ciò, il Catechismo Romano intende precisare contenuto e finalità di ogni catechesi,
e precisa effettivamente, in un modo fondamentale, ciò che è la fede: credere significa trovare
e realizzare la vita, la vera vita. Non si tratta di un qualsiasi potere, che sarebbe lecito acquisire o lasciare
da parte, ma proprio del potere di imparare a vivere, e di vivere una vita che possa rimanere per sempre.
Sant’Ilario di Poitiers, che scrisse nel secolo IV un libro sulla Trinità, ha descritto in modo
simile il punto di partenza della sua ricerca di Dio: aveva finalmente preso coscienza che la vita non
è donata solamente per morire. Nello stesso tempo aveva compreso che i due possibili scopi della vita,
che vengono proposti come il contenuto di vita, sono insufficienti: non mi bastano – egli dice - né
il possesso, né il tranquillo godimento della vita. "Beni e sicurezza": di questo la vita non si
può accontentare sono ciò che la vita non può accontentarsi di essere, "altrimenti l'uomo
ubbidirebbe solo al suo ventre ed alla sua pigrizia"[8].
Il vertice della vita può essere raggiunto solo là dove vi è qualche cosa di più: la
conoscenza e l’amore. Si potrebbe dire anche: solo la relazione dona alla vita la sua ricchezza, la
relazione con l’altro, la relazione con l'universo. Tuttavia, neppure questa duplice relazione è
sufficiente, perché "la vita eterna è che conoscano te". La fede è la vita, perché
è relazione, cioè conoscenza che diventa amore, amore che viene dalla conoscenza e che conduce alla
conoscenza. Come la fede indica un altro potere oltre a quello di compiere alcune azioni isolate, cioè il
potere di vivere, così essa possiede anche, in proprio, un altro campo oltre a quello della conoscenza
degli esseri particolari, vale a dire il potere della conoscenza fondamentale stessa, grazie alla quale prendiamo
coscienza del nostro fondamento, impariamo ad accettarlo, e grazie a esso possiamo vivere. Il dovere
essenziale della catechesi consiste, dunque, nel condurre alla conoscenza di Dio e di Colui che Egli ha inviato,
come dice giustamente il Catechismo Tridentino.
Le nostre riflessioni ci hanno fatto descrivere, finora, quello che si potrebbe chiamare il carattere personale
della nostra fede. Ma questa è solo la metà di un tutto. Vi è un secondo aspetto che
troviamo ancora descritto nella prima lettera di san Giovanni. Al versetto I, l'esperienza dell'Apostolo
è definita "visione" e "contatto" con il Verbo, che è Vita e si offrì al tatto facendosi
carne. Di qui la missione degli apostoli, che consiste nel trasmettere quanto hanno sentito e visto,
"perché anche voi siate in comunione con noi", con questa Parola (1 Gv 1,1-4).
La fede non è, dunque, soltanto un incontro faccia a faccia con Dio e con Cristo: è anche quel
contatto che apre all'uomo la comunione con coloro ai quali Dio stesso si è comunicato. Questa
comunione - possiamo aggiungere - è dono dello Spirito, che getta per noi un ponte verso il Padre e il
Figlio. La fede non è, dunque, solo un "io" e un "tu", essa è anche un "noi". In questo
"noi" vive il memoriale che ci fa ritrovare quanto abbiamo dimenticato: Dio e Colui che Egli ha Inviato.
Per dirla in altri termini, non vi è fede senza Chiesa. Henri de Lubac ha dimostrato che
l’"io" della confessione di fede cristiana non è l’"io" isolato dell'individuo, ma
l’"io" collettivo della Chiesa[9].
Quando io dico: "Credo", significa che supero le frontiere della mia soggettività per integrarmi
nell'"io" della Chiesa e, nello stesso tempo, mi integro nel suo sapere, che oltrepassa i limiti del tempo.
L'atto di fede è sempre un atto con il quale si entra nella comunione di un tutto. È un atto di
comunione con il quale ci si lascia integrare nella comunione dei testimoni, tanto che, attraverso loro,
tocchiamo l’intoccabile, udiamo l'inaudibile, vediamo l'invisibile.
Il cardinale de Lubac ha dimostrato anche che noi non crediamo nella Chiesa allo stesso modo con il quale
crediamo in Dio, ma che la nostra fede è fondamentalmente un atto compiuto con tutta la
Chiesa[10].
Dunque, tutte le volte che si pensa di potere trascurare anche solo un poco, nella catechesi, la fede della
Chiesa, con il pretesto di attingere alla Scrittura una conoscenza più diretta e più precisa, si
penetra nel campo dell'astrazione. Allora, infatti, non si pensa più, non si vive più, non si
parla più in ragione di una certezza che oltrepassa le possibilità dell'io individuale e che si
fonda su una memoria ancorata alle basi della fede e derivante da essa; non si parla più in virtù
di una facoltà che oltrepassa i poteri dell'individuo; al contrario, ci si butta in quell'altra sorta di
fede che è solo opinione, più o meno fondata, su quanto non si è in grado di conoscere.
In queste condizioni, la catechesi si riduce ad essere soltanto una teoria accanto ad altre, un potere simile
ad altri; essa non può più essere, allora, studio e accoglienza della vita vera, della vita
eterna.
Considerando la fede in questa prospettiva, anche il problema delle "fonti" si pone in modo diverso. Quando,
circa trent'anni fa, tentavo di fare uno studio della Rivelazione nella teologia del secolo XIII, mi sono
scontrato con una constatazione inaspettata: infatti, in questa epoca nessuno aveva avuto l'idea di chiamare
la Bibbia "la Rivelazione"; così pure ad essa non venne mai applicato il termine di "fonte". Non che
allora si fosse tenuta la Bibbia in minore stima di oggi: al contrario, se ne aveva un rispetto assai meno
condizionato, ed era chiaro che la teologia non poteva e non doveva essere altro che interpretazione della
Scrittura.
È l'idea che ci si faceva dell'armonia tra Scrittura e Vita che era differente. Per questo si applicava
la parola "Rivelazione", da un lato, al solo atto - mai esprimibile con parole umane - con il quale Dio si fa
conoscere alla sua creatura e, d'altro lato, all'accoglienza con la quale la "condiscendenza" divina diventa
percettibile all'uomo in forma di Rivelazione. Tutto ciò che deve essere fissato in parole, dunque la
Scrittura stessa, testimonia della Rivelazione, senza essere questa Rivelazione nel senso più stretto del
termine.
Solo la Rivelazione medesima è, propriamente parlando, "fonte", una fonte alla quale attinge anche la
Scrittura. Se la si distacca da questo contesto vitale della "condiscendenza" divina nel "noi" dei credenti,
allora la fede è strappata al suo terreno naturale, per non essere più che "lettera" e
"carne"[11].
Quando, molto più tardi, si applicò alla Bibbia il concetto storico di "fonte", si
eliminò contemporaneamente la sua capacità interna di superamento, che, ciononostante,
appartiene alla sua essenza, e si ridussero pure a una sola le dimensioni della sua lettura. Questa non poteva
cogliere altro che lo storicamente verosimile; ma che Dio agisca, ciò non poteva e non doveva più
rientrare nelle categorie del verosimile agli occhi dello storico. Se non si considera la Bibbia altrimenti
che come una fonte nel senso del metodo storico - cosa che certo essa è anche -,
allora lo storico è il solo competente ad interpretarla; ma allora, anche, essa può darci soltanto
informazioni storiche. Lo storico si sente in dovere di provare a fare dell'agire di Dio, in un tempo e in un
luogo determinati, un’ipotesi inutile.
Se, al contrario, la Bibbia è il condensato di un processo di Rivelazione molto più grande e
inesauribile, e il suo contenuto è percettibile al lettore solamente quando costui resta aperto a questa
dimensione più alta, allora il senso della Bibbia non ne risulta diminuito. Ciò che, per
contro, cambia totalmente sono le competenze della sua interpretazione. Ciò significa che essa appartiene
ad un ambito di relazioni, per le quali il Dio vivente si comunica in Cristo mediante lo Spirito Santo.
Ciò significa che essa è espressione e strumento della comunione grazie alla quale l’"io"
divino e il "tu" umano si toccano nel "noi" della Chiesa attraverso la mediazione di Cristo.
Essa è allora parte di un organismo vivente dal quale trae, per altro, la sua origine; di un organismo che
- attraverso le vicissitudini della storia - conserva nondimeno la sua identità e che, di conseguenza,
può fare valere, per così dire, i suoi diritti d'autore sulla Bibbia come su di un bene che ad
esso appartiene. Che la Bibbia, come tutte le opere d'arte e ben più di tutte le opere d’arte,
dica di più di quello che noi possiamo comprendere ora della sua lettera, risulta allora dal fatto che
essa esprime una Rivelazione, riflessa ma non esaurita dalla parola.
Si spiega così anche che, laddove la Rivelazione è stata "percepita" ed è ridiventata
vivente, ne sia seguita un'unione con la parola più profonda che là dove essa è stata
analizzata soltanto come un testo. La "simpatia" dei santi verso la Bibbia, le loro sofferenze condivise con
la Parola, la fanno loro comprendere più profondamente di quanto non abbiano potuto farlo i sapienti
dell'epoca dei lumi. Questa è una conseguenza del tutto logica. Ma, contemporaneamente, divengono
comprensibili sia il fenomeno della Tradizione che quello del Magistero della Chiesa[12].
Che rapporto hanno queste considerazioni con il nostro argomento? Se sono esatte, significano che le fonti
storiche devono sempre confluire nella fonte per eccellenza, cioè Dio che agisce in Cristo. Questa
fonte non è altrimenti accessibile che nell'organismo vivente che l’ha creata e la mantiene in vita.
In questo organismo, i libri della Scrittura e i commenti della Chiesa che spiegano la fede non sono più
testimonianze morte di avvenimenti passati, ma elementi portatori di una vita nuova. Là, essi non hanno
mai smesso di essere presenti e di aprire le frontiere del presente. Dal momento che essi ci conducono verso
Colui che tiene il tempo nella sua mano, rendono anche permeabili le frontiere del tempo. Il passato e il
presente si ricongiungono nell'oggi della fede[13].
La coesione interna tra la parola e l’organismo vivente che la trasmette traccia il cammino alla catechesi.
La sua struttura appare attraverso gli avvenimenti principali della vita della Chiesa, che corrispondono alle
dimensioni essenziali della esistenza cristiana. Così, fin dai primi tempi, è nata una struttura
catechetica,il cui nucleo risale alle origini della Chiesa. Lutero ha utilizzato questa struttura per il
suo catechismo così naturalmente come lo hanno fatto gli autori del catechismo del Concilio di Trento.
Ciò fu possibile perché non si trattava di un sistema artificiale, bensì, semplicemente,
della sintesi del materiale mnemonico indispensabile alla fede, che riflette contemporaneamente gli elementi
vitalmente indispensabili alla Chiesa: il simbolo degli apostoli, i sacramenti, il decalogo, la preghiera del
Signore.
Queste quattro parti classiche e principali della catechesi sono servite per secoli come disposizione e riassunto
dell’insegnamento catechetico; esse hanno anche aperto l'accesso alla Bibbia così come alla vita
della Chiesa. Vogliamo dire che corrispondono alle dimensioni della esistenza cristiana. E quanto afferma il
Catechismo Romano dicendo che vi si trova quanto il cristiano deve credere (simbolo), sperare (Padre
Nostro), fare (decalogo), e in quale spazio vitale deve compierlo (sacramenti e Chiesa)[14].
Così diventa percettibile contemporaneamente l’accordo con i quattro gradi
dell’esegesi, dei quali si parla nel Medioevo, e che sono anche considerati come una risposta alle
domande che si pongono nel corso delle quattro tappe dell’esistenza umana. Vi è, anzitutto, il senso
letterale della Scrittura, che si ricava con l’attenzione al radicamento storico degli avvenimenti della
Bibbia. Viene poi il senso detto allegorico, cioè l’intuizione e l’interiorizzazione di tali
avvenimenti in vista di superarli - quello grazie al quale i fatti storici riportati fanno parte di una storia
della salvezza. Vi sono, infine, il senso morale e quello anagogico, che mettono in evidenza come l'agire deriva
dall’essere e come la storia, al di là dell'avvenimento, è speranza e sacramento del
futuro[15]. Oggi
occorrerebbe rifare 1o studio di questa dottrina dei quattro sensi della Scrittura: essa spiega il posto
indispensabile dell’esegesi storica, ma delimita altrettanto chiaramente i suoi confini e il suo necessario
contesto.
Alla raccolta mnemonica dei contenuti della fede, che rappresentano le quattro componenti principali che stiamo
enumerando, presiede, dunque, una innegabile logica interna. Per questo il Catechismo Romano le ha
caratterizzate a giusto titolo come i "luoghi della esegesi biblica". Nel linguaggio scientifico e teorico di
oggi si direbbe che esso intende considerarle come i punti fissi di una topica e di una ermeneutica della
Scrittura[16].
Non si comprende perché oggi si ritenga che questa struttura semplice, esatta tanto teologicamente che
pedagogicamente, sia da abbandonare a tutti i costi. Nei primi tempi del nuovo movimento catechetico essa
passava per ingenua. Si credeva di dovere edificare a tutti i costi una sistematizzazione cristiana
contemporaneamente logica e cogente. Ora, tentativi di questo genere appartengono alla ricerca teologica e non
alla catechesi: essi, d'altronde, raramente sopravvivono ai loro autori. All'estremo opposto, si proponeva
un’abolizione di qualunque struttura e si affermava la caducità delle scelte fatte in ragione di una
situazione contingente: fu una reazione inevitabile agli eccessi del pensiero sistematico.
Il fine di questa esposizione non è di dare in dettaglio il contenuto di queste quattro componenti principali. Qui si vuole occuparsi solo di problemi di struttura. Non posso nondimeno evitare alcune brevi riflessioni a proposito di due elementi di queste strutture, che mi sembrano oggi particolarmente minacciati.
Il primo punto è quello della nostra fede in Dio creatore e nella creazione, come elementi del simbolo
di fede della Chiesa. Di tanto in tanto compare il timore che una troppo forte insistenza su tale aspetto della
fede possa compromettere la cristologia[17]. Considerando qualche presentazione della teologia neoscolastica, questo timore
potrebbe sembrare giustificato.
Oggi, tuttavia, è il timore inverso che mi sembra giustificato. La emarginazione della dottrina della
creazione riduce la nozione di Dio e, di conseguenza, la cristologia. Il fenomeno religioso non trova,
allora, altra spiegazione al di fuori dello spazio psicologico e sociologico; il mondo materiale è
confinato nel campo di indagine della fisica e della tecnica. Ora, soltanto se l’essere, ivi compresa la
materia, è concepito come uscito dalle mani di Dio e conservato nelle mani di Dio, Dio è anche,
realmente, nostro Salvatore e nostra Vita, la vera Vita.
Oggi si tende a evitare la difficoltà dovunque il messaggio della fede ci mette in presenza della materia,
e si tende ad attenersi a una prospettiva simbolica: questo comincia con la creazione, continua con la nascita
verginale di Gesù e la sua resurrezione, finisce con la presenza reale di Cristo nel pane e nel vino
consacrati, con la nostra stessa resurrezione e con la parusìa del Signore. Non si tratta di una
discussione teologica di poca importanza quando si situa la resurrezione individuale al momento della morte,
negando così non soltanto l'anima, ma anche la realtà della salvezza per il corpo[18]. Per questo un rinnovamento
decisivo della fede nella creazione costituisce una condizione necessaria e preliminare alla credibilità e
all'approfondimento sia della cristologia che della escatologia.
Il secondo punto che vorrei sottolineare concerne il decalogo. Fu a causa di una incomprensione fondamentale
della critica fatta da Paolo alla Legge che molti sono giunti a pensare che il decalogo, in quanto legge, doveva
essere eliminato dalla catechesi e sostituito dalle beatitudini del discorso della Montagna. Si misconosceva
così non solo il decalogo, ma anche il discorso della Montagna, come pure tutta la struttura interna della
Bibbia. Paolo, al contrario, ha caratterizzato il passaggio dalla Legge al Nuovo Testamento dicendo che "pieno
compimento della Legge è l'amore", e per spiegare questo compimento si è espressamente riferito
al decalogo (Rom 13,8-10; cfr. Lev 19,8; Es 20,13 ss.; Dt 5,17)[19].
Dove il decalogo è espulso dalla catechesi, viene intaccata la struttura fondamentale di essa. Non vi e
più, allora, alcuna introduzione reale alla fede della Chiesa[20].
Vorrei terminare le mie riflessioni con due osservazioni sui problemi teologici essenziali, che sono stati oggetto della nostra considerazione nella prima parte dell’esposizione.
La prima riflessione concerne i rapporti dell’esegesi dogmatica con l’esegesi storica. All'origine
del ritorno alla Scrittura che fu in pari tempo un abbandono della catechesi dogmatica tradizionale, vi era la
paura che il legame con il dogma non lasciasse vera libertà ad una lettura comprensiva della Bibbia.
Il modo con il quale la tradizione dogmatica aveva effettivamente praticato la esegesi scritturistica
giustificava ampiamente, infatti, questo timore.
Ma oggi constatiamo che solo il contesto della tradizione ecclesiale mette il catechista in condizione di
attenersi a tutta la Bibbia e alla vera Bibbia. Oggi vediamo che solo nel contesto della fede comunitaria
della Chiesa si può prendere la Bibbia alla lettera, ritenere ciò che essa dice come realtà
attuale, tanto per il nostro mondo di oggi che per la sua storia. Questa circostanza legittima l'interpretazione
dogmatica della Bibbia anche da un punta di vista storico: il luogo ermeneutico costituito dalla Chiesa
è il solo che possa fare accettare gli scritti della Bibbia come Sacra Scrittura, e le loro dichiarazioni
come significative e vere. Vi sarà, nondimeno, sempre una certa tensione tra i nuovi problemi della
storia e la continuità della fede. Ma, nello stesso tempo, ci sembra chiaro che la fede tradizionale non
costituisce il nemico, bensì il garante di una fedeltà alla Bibbia che sia conforme ai metodi della
storia.
La seconda e ultima rif1essione ci fa tornare al problema dei rapporti tra metodo e contenuto della catechesi. Il
lettore di oggi può stupirsi che il Catechismo Romano del secolo XVI abbia avuto una coscienza
assai viva del metodo catechetico.
Vi si legge, infatti, che importava enormemente sapere se tale insegnamento dovesse essere impartito in questa
o in quella maniera. Per questo la catechesi doveva essere esattamente adeguata all'età, alle capacita di
comprensione, alle abitudini di vita e alla situazione sociale degli uditori, per essere veramente tutto a
tutti. Il catechista doveva sapere chi aveva bisogno di latte, chi aveva bisogno di alimenti solidi, al fine
di adattare il suo insegnamento alla capacita di ciascuno.
Lo stupefacente per noi è che il Catechismo Romano abbia lasciato al catechista molta più
libertà di quanto non faccia generalmente la catechetica attuale. Infatti, esso lascia all'iniziativa
di colui che insegna l’ordine da adottare nella sua catechesi in funzione delle persone e delle
circostanze. Esso presuppone anche, è vero, che il catechista viva e faccia sua la materia del suo
insegnamento attraverso una meditazione continua e una assimilazione interiore e che - nella scelta del proprio
piano - non perda di vista la necessità di ordinarlo in funzione delle quattro componenti principali della
catechesi[21].
Il Catechismo Romano non esige certo di prescrivere un certo metodo didattico. Esso dice piuttosto: quale
che sia l’ordine scelto dal catechista, noi abbiamo scelto per questo libro la via dei
Padri[22]. In altre
parole, mette a disposizione del catechista il dispositivo fondamentale indispensabile, come pure i contenuti con
cui riempirlo; ma non lo dispensa dal trovare lui stesso quale via sia la più appropriata alla sua
trasmissione in una data situazione concreta. Senza alcun dubbio, il Catechismo Romano
presupponeva già, così, l'esistenza di una letteratura di secondo grado, grazie alla quale
il catechista poteva essere aiutato nel suo compito, senza che si potessero tuttavia programmare anticipatamente
tutte le situazioni particolari.
Questa distinzione di livelli è, ai miei occhi, essenziale. Il guaio della nuova catechesi consiste, in
definitiva, in questo: ci si è un poco dimenticati di distinguere il "testo" dal suo "commento". Il
"testo", cioè il contenuto propriamente detto di ciò che bisogna annunciare, si diluisce sempre
più nel suo commento; ma il commento non ha allora più nulla da commentare, è diventato
misura di se stesso, e perde, nello stesso tempo, la sua serietà.
Sono dell'avviso che la distinzione fatta dal Catechismo Romano tra il testo di base (il
contenuto della fede della Chiesa) e i testi parlati o scritti della sua trasmissione non sia una via possibile
tra altre: essa appartiene all'essenza della catechesi (questo ordinamento di livelli appare chiaramente a
partire dal secolo II nella struttura delle relazioni tra simbolo e regula fidei dei trattati catechetici:
se il simbolo presenta la parola comune della confessione orante, per contro la regula, che non può
essere fissata parola per parola, è una struttura fondamentale dei "capita" del cristianesimo
preesistente a ogni maestro, struttura che, a sua volta, è riflessa, concretizzata e applicata alle
diverse situazioni nella produzione teologica[23].
Da un lato è al servizio della necessaria libertà del catechista nel trattare le situazioni
particolari; dall’altro, essa è indispensabile per garantire l’identità del contenuto
della fede. A ciò non si può obiettare che qualunque discorso umano relativo alla fede è
già un commento e non più il testo primitivo, perché la Parola di Dio non può mai
essere imprigionata nella parole umane. Che la Parola di Dio sia sempre infinitamente più grande di
ogni parola umana, più grande anche delle parole ispirate dalla stessa Scrittura, questo non toglie al
messaggio della fede il suo volto e i suoi contorni.
Al contrario, questo ci obbliga tanto più alla salvaguardia della nostra fede ecclesiale come un bene
comune. È questa che dobbiamo sforzarci di spiegare nelle situazioni sempre mutevoli, con parole sempre
nuove, al fine di corrispondere così, attraverso il tempo, alla inesauribile ricchezza della
Rivelazione. Credo, di conseguenza, che sia necessario distinguere di nuovo con chiarezza i gradi del discorso
catechetico, anche nei libri destinati alla catechesi e al catechista. Ciò vuol dire che bisogna avere il
coraggio di presentare il catechismo come un catechismo, affinché il commento possa restare un commento e
affinché le fonti e la loro trasmissione possano ritrovare il loro rapporto esatto.
Non saprei trovare migliore conclusione alle mie riflessioni delle parole con le quali il Catechismo
Tridentino - che ho spesso citato - descrive la catechesi: "L'intera finalità della dottrina e
dell'insegnamento deve essere posta nell'amore che non finisce. Poiché si può ben esporre
ciò che bisogna credere, sperare o fare: ma, soprattutto, si deve sempre fare apparire l’amore di
Cristo, affinché ciascuno comprenda che ogni atto di virtù perfettamente cristiano non ha altra
origine che l'Amore e nessun altro termine che l'Amore"[24].
[1] Cfr. Conferenza Episcopale Francese, La catéchèse des enfants. Texte de reference, Paris, 1980, pp. 11-26; Sinodo Generale delle diocesi della Germania Federale, edizione ufficiale, I.
[2] Cfr. Joseph Ratzinger, Dogma und Verkündigung, München, 1973, p. 70.
[3] Cfr. Idem, Theologische Prinzipienlehre, München, 1982, pp. 334ss.
[4] J. A. Möhler, L'unité dans l'Église, trad. francese di A. de Lilienfeld, Paris, 1938, p. 52.
[5] Cit. in W.-G. Kümmel, Das Neue Testament. Geschichte der Erforschung seiner Probleme, Fribourg/B, 1958, p. 305.
[6] Questa è la posizione fondamentale di sant'Ireneo nel suo scontro con la gnosi, così capitale da essere a fondamento stesso della teologia cattolica e da fondare, in maniera decisiva, la dottrina della Chiesa, che la riceve come tale: cfr. H. J. Jaschke, Der Heilige Geist im Bekenntnis der Kirche, Münster, 1976, pp. 265-294.
[7] Cfr. Catechismo Tridentino, prefazione, n. 10 (N.B. de Gli scritti: la numerazione dell’edizione critica citata dalla conferenza dell’allora cardinal J. Ratzinger non corrisponde alla diversa numerazione dell’edizione tascabile italiana. Il n. 10 della Prefazione secondo l’edizione critica Catechismus Romanus, P. Rodriguez ed., LEV-Ediciones Universidad de Navarra, Città del Vaticano-Barañain/Pamplona, 1989, corrisponde, infatti, nell’edizione italiana Catechismo tridentino, Cantagalli, Siena, 1981, al n. 5).
[8] Sant'Ilario di Poitiers, La Trinità, I, 1 e 2.
[9] Cfr. Henri de Lubac, Paradoxe et mystère de l’Église, Paris, 1967.
[10] Cfr. IDEM, La Foi chrétienne. Essai sur la structure du symbole des apôtres. Aubier-Montaigne, Paris, 1969, 2e ed. 1970, pp. 201-234; cfr. anche J. Ratzinger, Theologische Prinzipienlehre, cit., pp. 15-27; importante e chiarificatore a tale proposito è quanto sottolinea Louis Bouyer, Le métier du théologien, Paris, 1979, pp. 207-227.
[11] A causa di diverse circostanze, fino a ora ho potuto pubblicare solo frammenti delle ricerche fatte a quell'epoca; cfr. J. Ratzinger, Offenbarung - Schrift – Überlieferung, in Trierer Theologische Zeitschrift 67, 1958, pp. 13-27; Idem, Wesen und Weisen der Auctoritas im Werk des hlg. Bonaventura, in Die Kirche und ihre Amter und Stande, Miscellanea cardinale Frings, Köln, 1960, pp. 58-72; si troveranno ugualmente alcune indicazioni nella mia opera Die Geschichtstheologie des hlg. Bonaventura, München, 1959; cfr., per questa problematica, H. de Lubac, Exégèse médiévale, 3 voll., Paris, 1959-1964.
[12] Cfr. P.-G. Müller, Der Traditionsprozess im Neuen Testament, Freiburg/B, 1981, che ha bene dimostrato, con l’aiuto del metodo linguistico, come la Bibbia stessa presupponga questo contesto e possa, dunque, essere letta nella sua prospettiva propria solamente nella misura in cui vi si acceda così; H. Gese, Zur biblische Theologie, Munich, 1977, pp. 9-30, presenta, a questo riguardo, punti di vista importanti e interessanti; sulla Chiesa in quanto soggetto, cfr. Commissione Teologica Internazionale, L'unité de la loi et le pluralisme théologique, Einsiedeln 1973, in particolare il mio commento sulle tesi IV-VIII, pp. 32-48.
[13] Così l’"oggi" e il "domani" della liturgia nel tempo di Avvento e in quello di Quaresima non sono un semplice gioco di parole nella fede, ma, piuttosto, interpretazione della realtà.
[14] Cfr. Catechismo Tridentino, prefazione, n. 12. (N.B. de Gli scritti: la numerazione dell’edizione critica citata dalla conferenza dell’allora cardinal J. Ratzinger non corrisponde alla diversa numerazione dell’edizione tascabile italiana. Il n. 12 della Prefazione secondo l’edizione critica Catechismus Romanus, P. Rodriguez ed., LEV-Ediciones Universidad de Navarra, Città del Vaticano-Barañain/Pamplona, 1989, corrisponde, infatti, nell’edizione italiana Catechismo tridentino, Cantagalli, Siena, 1981, al n. 8).
[15] Cfr. H. De Lubac, Histoire et Esprit. L'intelligence de l'Écriture d'après Origène, Paris, 1950.
[16] Cfr. Il Catechismo
Tridentino, prefazione, n. 12, che parla di "quattuor his quasi communibus Sacrae Scripturae locis",
"questi quattro luoghi per così dire comuni della sacra Scrittura"; il n. 13 tratta di "prima ilia
quattuor genera", "queste quattro categorie prime"; la parola "fonte" interviene quando si dice che ogni
enunciato della Bibbia può essere ricondotto a uno di questi "luoghi", ai quali ogni catechista deve
ricorrere come alla fonte della dottrina da spiegare in ogni caso, "quo tamquam ad ejus doctrinae fontem
[...] confugient" (N.B. de Gli scritti: la numerazione dell’edizione critica citata dalla
conferenza dell’allora cardinal J. Ratzinger non corrisponde alla diversa numerazione dell’edizione
tascabile italiana. I nn. 12 e 13 della Prefazione secondo l’edizione critica Catechismus Romanus,
P. Rodriguez ed., LEV-Ediciones Universidad de Navarra, Città del Vaticano-Barañain/Pamplona, 1989,
corrispondono entrambi, infatti, nell’edizione italiana Catechismo tridentino, Cantagalli, Siena,
1981, al n. 8).
Per l’uso della parola "fonte", come pure per la comprensione esatta dei fattori che entrano in gioco
nell'insegnamento cristiano, l'osservazione seguente non mi pare priva di importanza; qui, non si considera la
Bibbia come fonte, in opposizione alle "componenti principali", "capita", che sarebbero uno schema di
organizzazione, ma sono, invece, le "componenti principali" a essere la fonte dalla quale scaturiscono gli
enunciati biblici particolari. Il fatto che ciò sia valido per il decalogo nel suo rapporto con i libri
legislativi dell'Antico Testamento è stato dimostrato in modo convincente da H. Gese, con i metodi della
esegesi scientifica, nel suo fondamentale studio sulla Legge, Zur biblischen Theologie (cit., pp. 55-84).
Lo si potrebbe dimostrare ugualmente, non in modo equivalente ma analogo, anche per le altre tre "componenti
principali".
[17] Questo timore è ricordato dalla Conferenza Episcopale Francese, La catéchèse des enfants. Texte de référence. cit., p. 37, che sottolinea, per altro giustamente, "che si può parlare cristianamente di Dio creatore soltanto nella luce di Gesù Cristo risorto".
[18] Su questa problematica, cfr. J. Ratzinger, La Mort et l’Au-delà. Court traité d'espérance chrétienne; trad. francese, 1979, e il mio articolo Entre la mort et la résurrection, in Revue catholique internationale Communio, V (1980) 3, pp. 4-19, dove sintetizzo e approfondisco tale problema.
[19] Cfr. anche H. Gese, Zur biblische Theologie. cit.
[20] È merito del testo di riferimento della Conferenza Episcopale Francese avere situato con esattezza l’attualità del decalogo - La catéchèse des enfants. Texte de reference, cit., p. 59 -; così pure è in rapporto con il nostro discorso quanto è detto della catechesi come "processo strutturato sacramentalmente", ibid.. p. 57.
[21] Catechismo Tridentino, prefazione, n. 13: "Docendi autem ordinem eum adhibebit, qui et personis et temporis accomodatum videbitur"; gli altri riferimenti sono alla prefazione, n. 12 (N.B. de Gli scritti: la numerazione dell’edizione critica citata dalla conferenza dell’allora cardinal J. Ratzinger non corrisponde alla diversa numerazione dell’edizione tascabile italiana. I nn. 12 e 13 della Prefazione secondo l’edizione critica Catechismus Romanus, P. Rodriguez ed., LEV-Ediciones Universidad de Navarra, Città del Vaticano-Barañain/Pamplona, 1989, corrispondono entrambi, infatti, nell’edizione italiana Catechismo tridentino, Cantagalli, Siena, 1981, al n. 8).
[22] Ibid., n. 13(N.B. de Gli scritti: la numerazione dell’edizione critica citata dalla conferenza dell’allora cardinal J. Ratzinger non corrisponde alla diversa numerazione dell’edizione tascabile italiana. Il n. 13 della Prefazione secondo l’edizione critica Catechismus Romanus, P. Rodriguez ed., LEV-Ediciones Universidad de Navarra, Città del Vaticano-Barañain/Pamplona, 1989, corrisponde, infatti, nell’edizione italiana Catechismo tridentino, Cantagalli, Siena, 1981, al n. 8).
[23] Per le relazioni tra il simbolo, la regula e la teologia, cfr. H. J. Jaschke, op. cit., passim, ma, in particolare, le pp. 36-44 e 140-147.
[24] Catechismo Tridentino, prefazione, n. 10 (N.B. de Gli scritti: la numerazione dell’edizione critica citata dalla conferenza dell’allora cardinal J. Ratzinger non corrisponde alla diversa numerazione dell’edizione tascabile italiana. Il n. 10 della Prefazione secondo l’edizione critica Catechismus Romanus, P. Rodriguez ed., LEV-Ediciones Universidad de Navarra, Città del Vaticano-Barañain/Pamplona, 1989, corrisponde, infatti, nell’edizione italiana Catechismo tridentino, Cantagalli, Siena, 1981, al n. 5)..