Riprendiamo dal sito www.letterepaoline.it l’articolo scritto da Luigi Walt, curatore dello stesso sito, il 19 ottobre 2008. I neretti sono nostri ed hanno l’unico fine di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (18/12/2008)
L’altra fonte canonica di cui disponiamo per una ricostruzione biografica dell’attività di
Paolo è costituita dagli Atti degli Apostoli, un testo che si rivela imprescindibile per la nostra
conoscenza dei primi passi del movimento di Gesù.
Il Canone Muratori, del II secolo, lo nomina nel suo elenco dei testi ritenuti normativi dalle chiese, col
titolo di Acta omnium apostolorum, una denominazione che risulta a conti fatti impropria: la narrazione si
concentra infatti sulle gesta (práxeis) di Pietro prima (At 1,1-12,25), e di Paolo poi (At
13,1-28,31), con digressioni anche estese su personaggi estranei all’originaria cerchia dei Dodici (ad
esempio Stefano e il gruppo dei “sette”), e solo qualche sporadica notizia su Giacomo e Giovanni, le
altre due “colonne della Chiesa” (secondo Gal 2,9).
Gli Atti vennero concepiti dal loro autore, riconosciuto dalla tradizione nel terzo evangelista (cf. ad es.
Ireneo di Lione, Adv. haer. III,1,1: “Luca discepolo di Paolo”; III,10,1: “Luca
discepolo degli apostoli”; III,14,1; 15,39; 16,8: “Luca collaboratore di Paolo”), come seconda
parte di un dittico, uno scritto unitario comprendente una previa narrazione dell’opera di Gesù (il
Vangelo), e dedicato a un non meglio conosciuto Teofilo, forse personaggio immaginario, forse neofita del
movimento e alto funzionario di Roma (cf. Lc 1,1-4 e At 1,1).
L’inscindibilità degli Atti dal Vangelo, che potrebbe emergere accostando i due testi e studiandone
i parallelismi strutturali, era stata “teologicamente” intravista da Giovanni Crisostomo: «i
Vangeli – come ebbe a dire – sono la storia di quelle cose che Cristo fece e disse, mentre gli
Atti lo sono di quelle che l’altro Paraclito [ossia lo Spirito Santo] disse e fece».
La narrazione di Luca si sviluppa secondo una precisa progressione geografica – da Gerusalemme a Roma,
attraverso Samaria, Giudea, Siria, Asia minore e Grecia – alla quale è sottesa un’evidente
intenzionalità storico-teologica: quella d’indicare il passaggio della Rivelazione
dall’ambito strettamente giudaico e palestinese all’inclusione completa dei Gentili nel piano della
salvezza (cf. il discorso di Paolo in At 13,46-47).
Il proposito lucano è chiaro sin dal principio del testo, quando Gesù stesso, prima
dell’ascensione, esorta gli apostoli a ricevere lo Spirito Santo, per essergli testimoni «fino alle
estremità della terra» (At 1,8). L’espressione greca éōs eschatou tês
gês non intende semplicemente alludere alla diffusione dell’annuncio evangelico presso le
comunità ebraiche della diaspora, bensì echeggia un versetto di Isaia: «Io ti farò
luce delle Genti, perché la mia salvezza raggiunga le estremità della terra» (Is 49,6
LXX).
La lettura teologica degli eventi compiuta da Luca ha generalmente spinto gli studiosi ad un ripudio degli Atti
quale fonte storica attendibile: eppure, seguendo in ciò lo stile dei primi scritti cristiani,
l’autore non elimina a bella posta episodi che potrebbero mettere in cattiva luce il movimento, ma al
contrario li registra, conferendovi una significazione “provvidenziale”.
L’armonizzazione dell’operato apostolico di Pietro e di Paolo, la differenza tra il Paolo delle
lettere e il Paolo degli Atti, la ricostruzione letteraria dei discorsi pubblici degli apostoli, la sapiente e
tutto sommato organica proporzione delle parti, hanno fatto propendere gli studiosi verso una datazione
complessiva del documento – che appare stilisticamente omogeneo – ad un periodo posteriore di
almeno vent’anni la morte di Paolo (avvenuta fra il 65 e il 67).
Tuttavia, la brusca interruzione del racconto con la (prima?) prigionia romana dell’apostolo, i resoconti
spesso sommari di singoli episodi (dovuti forse a interventi redazionali successivi o più probabilmente
all’utilizzo di fonti diverse) e l’uso della prima persona plurale nelle cosiddette
Wir-stücken o “sezioni-noi” (At 16,10-17; 20,5-21; 27,1-28,16), che presuppongono tra
le fonti un testimone oculare (plausibilmente un compagno di viaggio di Paolo), non possono far escludere una
prima stesura attorno agli anni che vanno dal 62 al 66.
Il classico argomento a favore di una datazione così alta è il fatto che l’autore di At
non accenna nemmeno all’esistenza di uno scambio epistolare fra l’apostolo e le varie
comunità: avrebbe potuto attingervi comodamente, per la stesura dei discorsi di Paolo riportati.
Ma cosa può significare, in realtà, questo strano silenzio? Lo spettro delle spiegazioni
possibili è molto ampio:
Non si può non dar ragione a Giuseppe Barbaglio, quando scrive che, in una ricerca storica su Paolo, il
testo degli Atti dovrebbe essere usato con grande senso critico, tuttavia non si può essere
d’accordo con lui nel valutare come “ibrido” il metodo di abbinare i dati delle lettere alla
testimonianza degli Atti, in quanto «fonti documentarie non parallele e ancor meno omogenee»
(così in Paolo di Tarso e le origini cristiane, Assisi 1989, p. 19).
Se è corretto rilevare la sistemazione teologica dell’autore degli Atti nel delineare il ritratto
del “suo” Paolo, non lo è altrettanto subordinare i numerosi dati storici ch’esso
fornisce, integrabili con testimonianze esterne, alla presentazione in ogni caso “di parte” che
Paolo fornisce di sé nelle proprie lettere, o alle pur scarse testimonianze autobiografiche ivi
reperibili.
D’altra parte, va anche ricordato che il ripudio di Atti come fonte storicamente inattendibile trascura
la modalità stessa di presentazione della storiografia antica, che non era interessata a una
ricostruzione del passato «wie es denn eigentlich gewesen» (secondo la celeberrima espressione di
Leopold von Ranke), «così come è stato».
In questo, l’operazione storiografica degli antichi potrebbe addirittura essere considerata, nella
valutazione dei propri limiti e scopi, come (involontariamente) più onesta di quella di tanti autori
moderni. È un po’ quello che accade, facendo un paragone ardito, nell’arte
dell’icona.
In questa icona russa del XVI secolo, ad esempio, vediamo Luca intento a ritrarre la Madre di Dio:
Ed è sufficiente confrontare la posa di quest’ultima con quella ch’essa stessa assume nella tela dell’evangelista-pittore, per accorgersi della differenza fra un piano di realtà e l’altro.