Riprendiamo sul nostro sito dal web la trascrizione di una conferenza tenuta dal cardinale Carlo Maria Martini
il 9 maggio 2003 presso la Basilica cattedrale di Cesena. L’incontro era stato organizzato dalla
comunità monastica Piccola Famiglia della Resurrezione di Valleripa. I neretti sono nostri ed hanno
l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
In appendice al testo riprendiamo alcuni passaggi del testo curato dallo Studium Biblicum Franciscanum di
Gerusalemme e messo a disposizione sul sito dello stesso Istituto come sintesi della conferenza che il 25 maggio
2004 il cardinale Carlo Maria Martini ha tenuto presso lo SBF per presentare la nuova edizione da lui curata del
Papiro Bodmer VIII contenente le due lettere di Pietro. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione
se la presenza di questi testi sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
Il Centro culturale Gli scritti (20/11/2008)
Ringrazio di cuore per l'accoglienza e le benevole parole. Sono contento di essere qui, in questa splendida e
antica cattedrale, anche se mi trovo qui un po' contro i miei propositi. Avevo deciso, infatti, dopo aver
lasciato l'episcopato di Milano alla fine di settembre dello scorso anno, dopo oltre 22 anni di servizio
pastorale, essendo giunto all'età fatidica dei 75 anni, avevo deciso - dicevo - di fare almeno un anno
di silenzio "sabbatico", come una specie di anno giubilare, dedicato alla meditazione e allo studio, senza
alcun intervento o conferenza pubblica.
Come oggetto del mio studio avevo scelto la ricerca sui manoscritti antichi del Nuovo Testamento, partendo da
un papiro del III secolo contenente le due lettere di Pietro, ricerca che ho completato in questi mesi e che
fra poco verrà condensata in un libro dedicato appunto alla presentazione critica di questo papiro.
Mi proponevo poi di iniziare subito dopo uno studio sul grande Codice Vaticano greco 1209, detto Codice B,
scritto 17 secoli fa. In questo contesto mi era stato fatto l'amabile invito di Abba Orfeo, di trattare di
questo codice con un gruppo ristretto di persone interessate ad una riflessione sulla Bibbia e che già
avevano compiuto un notevole cammino di approfondimento dei testi della Scrittura. Si trattava quindi di una
riflessione specializzata per un gruppo ben preparato. Ho detto di sì, sia per il rispondere all'invito
dell' Abba Orfeo e dei suoi monaci che stanno a Gerusalemme, sia perché restavo così nell'ambito
della mia ricerca, senza essere distratto da interventi pubblici.
Poi è intervenuto il vescovo, il carissimo Monsignor Lino Garavaglia, a cui voglio bene da tanto tempo,
anche perché è un mio diocesano, originario di Mesero, in diocesi di Milano, che è anche il
luogo dove ha operato una grande Santa madre di famiglia, beatificata pochi anni fa da Giovanni Paolo II, Gianna
Beretta Molla. Perciò non ho potuto dire di no al vescovo e mi trovo dunque qui, un po' contro i
miei propositi, a parlare ad un pubblico vasto su un tema molto specializzato.
Ciò costituisce per me, come potete ben comprendere, un motivo di imbarazzo: come si può parlare di
un tema molto particolare, tipico della ricerca scientifica, a un pubblico vasto che potrebbe non avere molta
familiarità con questi problemi? Cercherò per questo di essere molto semplice, svolgendo il
percorso seguente: anzitutto vorrei spiegare il significato del titolo di questa relazione, e poi cercare di
rispondere ordinatamente alle seguenti domande:
Inizio dunque con una spiegazione del titolo, partendo dal sottotitolo, che indica il motivo originario per cui
avevo accettato di tenere questa breve conversazione: “Una riflessione a partire dal Codice Vaticano
greco 1209”. Questo è infatti il codice al quale mi sto dedicando, e di cui vi ho portato anche
un esemplare che sta qui davanti. Non è evidentemente l'originale, che è conservato nella
Biblioteca Vaticana, ma una splendida riproduzione anastatica e fotografica di esso, preparata appositamente per
il Santo Padre Giovanni Paolo II per il giubileo dell'anno 2000.
Mentre il sottotitolo riporta - dunque riflette - l'oggetto preciso sul quale ero stato invitato a parlare, il
titolo rimanda a ad un tema più vasto, cioè al modo con cui sono giunti fino a noi i Vangeli, i
quattro Vangeli di Matteo Marco Luca Giovanni che ora possediamo. Infatti noi oggi li leggiamo in italiano e li
troviamo spesso facenti parte di un libro che contiene l'intero Nuovo Testamento o addirittura l'intera Bibbia.
Ma è ovvio che non è sempre stato così.
Intanto noi abbiamo tra le mani un libro stampato, e la stampa non è conosciuta se non da poco più
di cinque secoli, mentre questi libri hanno almeno duemila anni. Che forma avevano dunque questi scritti nei
secoli precedenti e come venivano trasmessi quando non c'era ancora la stampa? Inoltre noi abbiamo davanti un
testo in italiano e sappiamo che questo non può essere il testo originale perché i Vangeli sono
stati scritti in greco. Dove troviamo dunque gli originali greci dei Vangeli?
Per rispondere a queste domande occorre fare un certo cammino, di cui ho già indicato le tappe, occorre
cioè rispondere ad alcune domande. E la prima suona così: Come nasce un libro antico, cioè
un libro composto prima dell'invenzione della stampa, quando il tipografo Johann Gutenberg, verso il 1450,
inventò i caratteri mobili da stampa rivoluzionando il sistema della cultura europea e poi di quella
mondiale?
I libri antichi venivano scritti per lo più anzitutto in una sola copia. Talora era l'autore stesso
che scriveva il suo libro, talora lo dettava. In ogni caso si partiva da una copia manoscritta, e questo lavoro
ovviamente prendeva molto tempo. Tale copia poteva poi venire prestata ad amici e fatta girare.
Poi, se il libro ne valeva la pena, veniva la richiesta di farne qualche altra copia. Venivano così
alla ribalta agli scribi, cioè gli specialisti della trascrizione, coloro che sapevano scrivere
correttamente e lo facevano per mestiere, che passavano lunghe ore seduti per lo più per terra, con un
foglio sulla mano sinistra e la penna nella mano destra, intingendo regolarmente la penna nell'inchiostro per
scrivere le lettere sul foglio di papiro che avevano davanti, ricopiando lettera per lettera il testo
originale.
Tutto ciò era molto lungo e costoso, e questo spiega come nell'antichità le biblioteche fossero
qualcosa di molto raro e di molto prezioso e il libro fosse uno strumento praticamente di lusso. Il
materiale per scrivere non era ancora la carta, che si sarebbe diffusa in Europa solo a partire dal secolo XII.
Si scriveva o su strisce di midollo di papiro variamente intrecciate, che formavano una pagina piuttosto rugosa
ma capace di trattenere i segni, o su pelli di pecora o capra o vitello conciate e lisciate e chiamate
‘pergamene’, dal nome della città di Pergamo, dove fu perfezionata la produzione tecnica di
questo materiale scrittorio.
Queste pelli di animali erano ovviamente molto più resistenti dei papiri, che si sbriciolavano facilmente.
Per questo sono giunti a noi copie di libri antichi soprattutto in pergamena, mentre i papiri che possediamo
sono in gran parte di origine egiziana, cioè conservati in una terra nella quale non piove quasi mai
ed è quindi più difficile lo sbriciolarsi del papiro.
Tutto questo ci fa comprendere come il fatto di scrivere libri nell'antichità fosse un fatto costoso,
piuttosto raro, che riguardava situazioni o di grande rilievo culturale o di pubblica utilità. Tra
queste rientravano anche il culto pubblico e i grandi raduni religiosi, dove c'era bisogno di utilizzare
libri sacri.
In questo quadro possiamo rispondere alla seconda domanda: Come sono nati i libri del Nuovo Testamento? La
risposta che darò può fa stupire. Sono nati un po' occasionalmente, cioè non per un
progetto prefabbricato, ma rispondendo a necessità concrete che via via emergevano. Sappiamo infatti
che Gesù non ha scritto nulla né ha ordinato ai suoi discepoli di scrivere, ma di predicare,
cioè di proclamare oralmente il Vangelo.
Per questo gli scritti più antichi del Nuovo Testamento non sono probabilmente i Vangeli ma le lettere
degli apostoli. Gli apostoli - in particolare San Paolo - lasciando una comunità per andare in
un'altra città, sentivano ogni tanto il bisogno di scrivere lettere alle comunità che avevano
fondato, per richiamare loro alcuni punti del loro insegnamento, per esortarle e confortarle nella fede.
Queste lettere sono i primi testimoni cristiani scritti. La lettere più antica conservata che fa oggi
parte del Nuovo Testamento è probabilmente la prima lettera ai Tessalonicesi, scritta verso l'anno 51,
cioè meno di 30 anni dalla morte di Gesù. In tutto quel tempo il Vangelo si era diffuso già
molto nell'arco del Mediterraneo, ma ciò soprattutto attraverso la testimonianza orale, accompagnata
probabilmente da alcuni promemoria scritti ad uso dei predicatori, che però non ci sono pervenuti come
tali.
C'era anche un particolare motivo che tratteneva i primi cristiani dallo scrivere propri libri sacri. Essi
infatti avevano già importantissimi testi sacri, quello che noi chiamiamo oggi l'Antico Testamento o il
Primo Testamento. Quando nel Nuovo Testamento si parla di "scritture sacre" è ad essi che si fa
riferimento. Così ad esempio quando san Paolo scrive a Timoteo ( 2 Tim 3,15) " fin dall'infanzia conosci
le sacre lettere" queste sacre lettere sono chiaramente i libri della Torah (o della Legge), dei Profeti e dei
Salmi con i libri sapienziali, cioè le grandi suddivisioni secondo cui gli ebrei avevano organizzato la
loro biblioteca sacra.
Essa aveva il nome di "Scritture" o "Scritture sacre" o "Lettere sacre" e anche il nome di "Bibbia", che in greco
significa "i libri". Tali scritti hanno poi assunto anche il nome di Tanach, dalle iniziali
delle tre grandi componenti Torah, Nebiim, Ketubim, cioè Legge, Profeti e Scritti sapienziali e
poetici.
Di questa collezione di libri faceva già menzione l'Antico Testamento, per esempio nella lettera scritta
da Gionata sommo sacerdote e dal popolo dei giudei al popolo di Sparta, circa due secoli prima di Cristo. Ad essi
viene scritto così: «Gionata sommo sacerdote e il consiglio degli anziani del popolo e i sacerdoti e
tutto il resto del popolo giudaico agli Spartani loro fratelli salute... Noi pur non avendone bisogno, avendo
a conforto le Scritture sacre che sono nelle nostre mani, ci siamo indotti a questa missione per rinnovare la
fraternità e l'amicizia con voi in modo da non diventare per voi degli estranei» (1 Mac
12,9-10).
Si vede dunque che gli ebrei avevano la coscienza di possedere questi libri sacri e li tenevano in grande onore.
I primi cristiani li hanno ereditati da loro e non hanno dunque sentito il bisogno di avere propri libri.
Predicando il vangelo raccontavano i fatti di Gesù basandosi sulla memoria dei testimoni e facendo
riferimento, quanto a libri scritti, alle pagine dell'Antico testamento, così come aveva iniziato a fare
Gesù stesso. Così, per esempio, apparendo dopo la resurrezione ai discepoli di Emmaus,
Gesù «cominciando da Mosé e da tutti profeti spiegò loro in tutte le Scritture
ciò che si riferiva a lui»(Lc 24,27).
E ancora la sera dello stesso giorno Gesù apparendo agli apostoli nel cenacolo dice loro: «Bisogna
che si compiano tutte le cose scritte su di me nella Legge di Mosé, nei Profeti e nei Salmi. Allora
aprì loro la mente all'intelligenza delle Scritture» (Luca 24,44-45). Si vede dunque che per i primi
cristiani i testi normativi e sacri erano gli stessi libri usati dagli ebrei.
Ma ben presto, come ho detto, cominciarono a circolare delle lettere di apostoli alle comunità, che
venivano lette, data la ricchezza del loro contenuto, non solo dalla comunità cui erano dirette, ma
che venivano fatte passare a comunità vicine. Di questo ce ne dà testimonianza l'autore stesso
della lettera ai Colossesi, che conclude il suo scritto così: «Quando questa lettera sarà
stata letta da voi, fate che venga letta anche nella chiesa dei Laodicesi e anche voi leggete quella inviata
ai Laodicesi» (Col 4,16).
Di qui si vede che v'era l'abitudine di fare copie di queste lettere ed inviarle alle comunità vicine.
Cominciano a nascere così le prime raccolte delle lettere di San Paolo. Ma e per i Vangeli? Certamente
la prima predicazione orale avrà sentito abbastanza presto il bisogno di avere dei testi di riferimento,
in particolare raccolte di detti di Gesù, per sostenere la memoria dei nuovi predicatori. E
così che nacque molto probabilmente una raccolta di parole di Gesù, che fu poi utilizzata dagli
autori dei nostri Vangeli e che non ci è pervenuta.
Ma molto presto nacque anche il bisogno di avere un racconto un po' completo della vita di Gesù, in
particolare della Passione, che fosse un po' la sintesi della predicazione degli apostoli. E così che la
tradizione ritiene che il Vangelo secondo Marco, probabilmente il Vangelo più antico, scritto verso la
metà degli anni 60, fosse una sintesi della predicazione di Pietro composta dal suo discepolo Marco.
Questo accadeva a Roma, mentre probabilmente in Antiochia di Siria o in qualcuna delle altre
comunitàdi questa regione un altro predicatore metteva insieme una sintesi ordinata delle
parole e dei detti di Gesù, che è nota come Vangelo secondo Matteo.
Dopo qualche tempo una personalità colta della cristianità primitiva, il medico Luca, ebbe
l'idea di comporre un racconto ancora più ordinato e completo e lo dedico a una importante
personalità del suo tempo, un certo Teofilo, con queste parole: «Poiché molti hanno posto
mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne
furono testimoni fin da principio e divennero ministri della parola, così ho deciso anch'io di fare
ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un resoconto ordinato, illustre
Teofilo, perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto»
(Lc 1,1-4).
Di qui ricaviamo che vi erano già stati diversi tentativi di mettere per iscritto la predicazione dei
primi divulgatori del Vangelo. E che Luca stesso ha potuto approfittare di alcuni di questi scritti,
probabilmente anzitutto dei Vangelo di Marco, e anche di una raccolta molto antica di detti di Gesù.
Più tardi l'apostolo Giovanni con una comunità di discepoli, probabilmente a Efeso, misero
insieme i ricordi del discepolo prediletto e le meditazioni di Giovanni su Gesù e ne uscì
così il quarto vangelo.
Questi libri venivano ovviamente scritti anzitutto in una sola copia, probabilmente con l'aiuto di un
amanuense, cioè di qualcuno che sapesse scrivere correttamente sotto dettatura e con buona
velocità Da questa copia poi ne venivano composte altre, secondo le richieste, sia per uso privato sia
principalmente per l'uso della predicazione nelle comunità.
Quando poi si cominciò a leggere nelle assemblee comunitarie, oltre alle Scritture dell'Antico Testamento,
anche qualche passo dei nuovi libri che raccontavano la storia di Gesù e qualche passo delle lettere degli
apostoli, le comunità si dettero da fare per avere delle copie di questi scritti e metterli
insieme.
È questo il procedimento di origine dei primi scritti cristiani, che andò avanti probabilmente per
circa quaranta – cinquant’anni dopo la morte di Gesù. Da questo lavoro nacque a poco a poco
il testo del Nuovo Testamento così come lo possediamo, che poi fu via via riconosciuto e adottato da tutte
le comunità cristiane del tempo.
Tale processo supponeva ovviamente una trascrizione accurata dei codici da parte degli scribi, coscienti
dell'importanza del loro lavoro e preoccupati di trascrivere bene il testo che avevano davanti. Che il loro
lavoro, malgrado gli inevitabili errori umani, sia stato molto accurato e fedele, è documentato dalla
sostanziale concordanza di migliaia di manoscritti evangelici antichi giunti fino a noi.
Possiamo ora rispondere dunque ad una nuova domanda: come si sono propagati i vangeli? Da quanto abbiamo detto
risulta che i vangeli si sono propagati per trascrizione di copia in copia, per rispondere ai bisogni di
singole comunità cristiane di poter rileggere in pubblico i fatti e i detti di Gesù o anche per il
bisogno di persone colte che volevano avere una copia personale di questi testi.
È molto probabile che le prime copie dei Vangeli siano state trascritte sul papiro, che era un
materiale allora ancora molto comune e piuttosto povero rispetto al materiale di pelle di pecora, cioè di
pergamena. Ma poi, col crescere dell'importanza delle comunità cristiane si cominciò a scrivere
anche su fogli di pergamena, e di questo materiale sono composti i più grandi manoscritti antichi che
ci sono pervenuti, tra cui il Codice B.
Uno storico del quarto secolo, il vescovo Eusebio di Cesarea, ci racconta nella sua Vita di Costantino,
che l'imperatore, verso il 331 d. C., volendo fornire di codici biblici le nuove chiese di Costantinopoli, la
città da lui scelta come nuova capitale dell'impero, diede ordine a Eusebio di far preparare cinquanta
copie della Sacre Scritture, da trascriversi su pergamena pregiata, con scrittura ben leggibile, da parte di
calligrafi (cioè di scrivani professionisti), e in formato conveniente, facile da trasportare.
Si è anche supposto che il Codice Vaticano greco 1209, di cui dirò tra poco, sia uno di questi
codici. Ma le sue origini, come vedremo, sono piuttosto dall'Egitto, anche se risalgono a quella stessa
epoca. E anche interessante notare il formato di questi testi. Fino a non molto tempo prima si usava scrivere
i libri su fogli che venivano poi incollati così da poter essere arrotolati su un bastone (di qui il
nome di 'volumen', cioè qualcosa che si svolge e si riavvolge) per essere conservati accuratamente. Su
simili rotoli venivano conservati i libri dell'Antico Testamento, e di tali rotoli ne furono ritrovati molti
soprattutto a partire dalla scoperta delle grotte di Qumran, presso il Mar Morto, dopo il 1947. In tali grotte si
conservarono per oltre venti secoli centinaia di rotoli contenenti parti della Bibbia soprattutto in ebraico, che
oggi è possibile ammirare nel museo di Gerusalemme detto "Santuario del Libro".
Ma col Nuovo Testamento si introdusse una grande novità "editoriale". Si capì che era più
comodo consultare un testo se era scritto non in un rotolo da ripiegare, che conteneva tra l'altro poco
materiale. Si vide che era molto più comodo scrivere su fogli di formato quadrato o rettangolare da
collocare poi l'uno accanto all'altro anzitutto ripiegando in due o in quattro (o in più parti ancora)
alcuni fogli grandi, così da costituire i cosiddetti quaderni (la parola "quaderno" deriva da quaternio,
che era un foglio più grande ripiegato in quattro parti così da costituire un quadernetto di otto
fogli più piccoli).
Si vide anche che era opportuno "rilegare" questi quaderni ricucendoli insieme per mezzo di fili e tenendoli
fermi con un bordo di pelle. Nascevano così i primi veri e propri "libri" o "codici". I papiri
più antichi del Nuovo Testamento greco che sono stati ritrovati sono tutti frammenti di pagine di codici e
non di rotoli. Si è detto perciò per questo che il "codice" o libro con sequenza di pagine numerate
(perché poi veniva assegnato un numero sull'alto di ogni pagina) è una invenzione
cristiana.
Possiamo dunque immaginare le comunità cristiane di quel tempo, soprattutto attorno al bacino mediterraneo
ma anche in regioni più lontane, come un grande alveare di trascrizione di codici. Una
trascrizione frequente era anche necessaria perché il papiro era molto fragile e quindi si sbriciolava
facilmente ed era necessario approntare sempre nuove copie di questi libri preziosi.
Questo deteriorarsi rapido del libro avveniva anche per i libri dell'antichità classica, anche per quelli
scritti su pergamena, a causa del frequente uso. Ciò spiega perché di quasi nessun libro antico
classico abbiamo il manoscritto originale, ma solo dei manoscritti ricopiati. Spesso sono passati molti
secoli tra la prima scrittura del libro e la copia arrivata a noi.
Così per esempio noi leggiamo le opere di Tacito a partire da manoscritti medievali posteriori di molti
secoli rispetto all'opera primitiva. Dei Vangeli invece possediamo frammenti di papiro già a partire
dal II secolo d.C., cioè circa trenta - cinquant' anni dopo la loro scrittura. Inoltre possediamo
una grande varietà di questi codici evangelici scritti nei primi secoli che ci permette di confrontare
i singoli manoscritti, correggendo con l'aiuto di essi uno gli errori eventuali dell'altro e risalendo
così il più possibile vicino ai testi originali.
Infatti, com'è chiaro, la riproduzione a mano, lettera per lettera, di un testo precedente non avveniva
in maniera meccanica come nella stampa, ma attraverso una ritrascrizione che poteva comportare errori umani,
momenti di stanchezza, sviste, difetti talora anche visivi dello scrittore o di udito, se il testo veniva
dettato. Così avveniva che uno scriba saltasse per esempio una linea o che saltasse da una parola
simile a un'altra simile. Questo spiega perché i manoscritti antichi non sono mai del tutto perfettamente
identici. Ma data la grande quantità di manoscritti dei Vangeli noi possiamo con ragionevole certezza
risalire al testo più antico, quello dal quale sono derivati gli altri testi da noi posseduti.
Possiamo così rispondere alla domanda successiva: quanti e quali sono i testimoni antichi dei testi del
Nuovo Testamento, in particolare dei Vangeli? I più antichi sono quelli scritti su papiri, oltre un
centinaio (ma di cui molti lacunosi), scritti per lo più nel secolo terzo e quarto, ma con qualche
prolungamento fino al secolo VII.
A partire dal secolo quarto possediamo codici scritti su pergamena e in carattere cosiddetto maiuscolo, un
carattere stampatello che dura fino verso il secolo X. A partire dal secolo X viene invece in uso una
scrittura detta corsiva, che lega le parole, un po' come noi siamo soliti fare oggi nella scrittura
manuale.
I codici conservati dei Nuovo Testamento scritti tra il secolo II e il secolo XVII sono circa 3000, ai quali
vanno aggiunti circa 2200 lezionari, cioè testi in cui i brani del N.T. sono riportati secondo
l'ordine delle letture liturgiche. I codici che contengono i vangeli sono 2238, di cui 178 sono
frammentari. 655 sono i manoscritti che contengono gli Atti degli Apostoli e le Lettere Cattoliche, 779 sono
quelli che contengono san Paolo e 287 contengono l'Apocalisse.
Questi manoscritti sono conservati in diverse biblioteche del mondo. La raccolta più ricca è
quella del Monte Athos (dispersa però in diversi monasteri) che comprende più di 500 codici, ma di
cui molti sono piuttosto recenti. Seguono poi le biblioteche di Atene, con 419 codici, Parigi con 373, Roma
(specialmente la Biblioteca Vaticana) con 367 codici, Londra con 271, San Pietroburgo con 233 e il monastero dei
Monte Sinai con 230. 158 sono conservati a Oxford e 146 a Gerusalemme.
Ed eccoci allora alla nostra domanda ultima: come si colloca in questo contesto il Codice Vaticano greco 1209,
detto anche Codice B? Si tratta del codice completo più antico che possediamo di tutta la Bibbia
scritta in greco. II greco era la lingua originaria dei testi del Nuovo Testamento, mentre l'Antico
Testamento, come sappiamo, fu scritto in ebraico e in piccola parte in aramaico.
Ma esisteva dell'Antico Testamento una traduzione greca già fin dal II secolo avanti Cristo. Il
Codice B riporta la tradizione greca di tutti i libri dell'Antico Testamento e il testo originale greco di tutti
i libri del Nuovo Testamento. Con qualche eccezione però, perché il testo è lacunoso
all'inizio e alla fine e anche un po' al centro. Sono quindi omessi i primi capitoli della Genesi, alcuni Salmi,
le lettere di Paolo a Timoteo, Tito e Filemone e l'Apocalisse. Si tratta in ogni caso di un codice grande,
sontuoso, molto costoso e molto raffinato, che dovette essere prodotto per una chiesa di grandi tradizioni
culturali.
Questo manoscritto comprende 1536 pagine numerate. Il manoscritto è composto di fogli di pergamena
molto sottile, accuratamente preparata. Prima della scrittura la pagina veniva cioè posta sotto un telaio
e con una punta di ferro si incidevano le righe, perché lo scriba potesse procedere in linea retta.
Le pagine sono accuratamente ordinate secondo le due facce della pergamena, che, essendo di pelle di animale, da
una parte aveva un tessuto più carnoso e chiaro, dall'altra uno più peloso e scuro. Il codice
è fatto in modo che le due pagine opposte siano rispettivamente o più chiare o più
scure, sia per l'estetica sia per evitare il danneggiamento dei fogli.
I libri della Bibbia si succedono senza soluzione di continuità, cioè alla fine di un libro
si lascia solamente vuoto il resto della colonna e il libro nuovo comincia nella colonna immediatamente seguente
e non, come noi siamo soliti fare, in una nuova pagina, magari con un foglio bianco intermedio. Si ha
l'impressione che, pur nella ricchezza dell'opera, forse necessario risparmiare pergamena. Il testo
è scritto ordinariamente su tre colonne, eccetto che nei salmi, dove le colonne sono due, per dare maggior
rilievo al testo poetico. Ognuna delle tre colonne comporta circa sedici lettere.
La scrittura, secondo l'uso degli antichi è continua, cioè non c'è nessuna
separazione fra una parola e l'altra e non ci sono né spiriti né accenti. Anche la punteggiatura
nella prima trascrizione fu molto scarsa. Ovviamente mancavano nel testo originale anche tutte le indicazioni di
capitoli e di versetti, che sono stati introdotti più tardi nella Bibbia latina (i capitoli nel secolo
XII e i versetti nel secolo XVI). Chi leggeva questi libri in pubblico doveva quindi prepararsi molto bene, e
sapere quasi a memoria il testo, utilizzando lo scritto solo per richiamare alla mente la pagina già
nota.
Quanti scribi sono stati necessari per scrivere il codice? Se ne sono ipotizzati tre o quattro, con
alcune differenze tra loro, pur usando tutti rigorosamente un unico stile.
Il testo primitivo si presentava dunque come un testo molto semplice, senza ornamenti nei titoli e senza
particolari accorgimenti per segnalare le differenti sezioni del discorso. Ma a poco a poco il manoscritto fu
riutilizzato nel corso dei secoli. L'intervento più importante fu quello fatto circa nel secolo X,
quando uno scriba ripassò con inchiostro tutte le lettere, in cui l'inchiostro stava svanendo, ad
eccezione di quelle ritenute erronee. È così possibile in questi casi vedere chiaramente il
"ductus", cioè il tocco dello scriba primitivo distinguendolo da quello successivo.
Ma molte altre aggiunte furono fatte nei secoli seguenti. In particolare gli inizi dei Vangeli e di altri
libri furono adornati con iniziali a colori. Furono poi aggiunti anche altri segni ornamentali, la
numerazione dei capitoli e note di lettura. Si trovano inoltre nel testo delle osservazioni marginali, databili
probabilmente alla seconda metà del secolo X.
Da dove proviene questo manoscritto? Probabilmente dall'Egitto, perché sembra legato al testo usato dai
Padri egiziani e probabilmente fu scritto al tempo di San Atanasio, un padre della Chiesa vissuto nel quarto
secolo. Il libro potrebbe essere stato prodotto nell'anno 350 circa: oggi ha circa dunque 1700 anni di
vita. Tuttavia è ancora perfettamente leggibile e lo si può considerare come uno dei testi
più accuratamente trascritti del Nuovo Testamento.
Poco si conosce della storia di questo testo prima che entrasse nella Biblioteca Apostolica vaticana nel
1475. Da allora fu oggetto di numerose consultazioni, edizioni e studi critici. Io stesso vorrei pubblicare
un'introduzione critica tutto il codice, che lo presenti in tutte le sue molteplici caratteristiche. Un codice
infatti è come un microcosmo, che sotto la lente dello studioso rivela una miriade di eventi. Esso
riporta in tante piccole caratteristiche la storia di coloro che l'hanno trascritto, delle comunità che lo
hanno letto, degli studiosi che lo hanno consultato. Un codice dunque è il rappresentante di una lunga
storia spirituale, il segno della venerazione con cui gli uomini hanno studiato ascoltato la parola di Dio e
hanno pregato su di essa.
Da ultimo, pur non potendo entrare qui nelle complicazioni scientifiche della storia dei manoscritti e della
ricostituzione critica del testo biblico, potremmo concludere dicendo che il testo dei Vangeli che possediamo
ha tutte le garanzie per essere sostanzialmente identico al testo originale, uscito dalla penna degli
evangelisti. Le numerose piccole varianti emerse successivamente nella trascrizione dei codici non sono quasi
mai di natura sostanziale, non toccano cioè il senso, pur potendo generare piccole differenze di
traduzione.
Il codice biblico dunque è anche un testimone della serietà e della cura con cui i cristiani
antichi trasmisero i loro libri, e si riflette in esso la fiducia che essi ponevano sulla verità delle
cose raccontate.
I testi dei Vangeli in particolare sono oggi tra i più affidabili tra i testi antichi dal punto di
vista critico e ad essi possiamo anche rivolgerci con fiducia per determinare ciò che la
comunità primitiva aveva sperimentato e tramandato su Gesù. In una società attraversata da
grande confusione mentale e da un pauroso offuscamento delle evidenze etiche, la presenza di codici di tale
perfezione ci ricorda il significato illuminante della parola di Dio per tutte le realtà oscure del nostro
tempo e ci mette a contatto con quella rivelazione che rimane in eterno.
Spero perciò che voi comprenderete come, dopo avere cercato di servire la Chiesa sia nell'insegnamento
come nel servizio pastorale diretto come vescovo, voglia ora dedicarmi, per quel che mi sarà ancora
possibile, a servire la Chiesa studiando uno dei suoi tesori più preziosi, cioè questo Codice
Vaticano greco che è uno dei gioielli della Biblioteca Apostolica Vaticana e che ci testimonia ancora,
dopo 17 secoli, della vitalità del messaggio cristiano.
A partire da questi testi noi siamo oggi in grado di incontrare la figura di Gesù, di vederlo e di
ascoltarlo e di parlare con lui con fiducia. Si attua così anche la speranza del Concilio Vaticano II,
che cioè attraverso la lettura e la meditazione dei libri biblici cresca nel popolo cristiano la
conoscenza di Gesù Cristo e che la parola di Dio possa raggiungere i confini della terra. La luce di
questi libri continuerà dunque a illuminare tutte le nazioni, fino a che ogni parola in essi contenuta non
sia compiuta nella pienezza del regno di Dio. A voi l'impegno di meditare su queste pagine, di farne l'oggetto di
una "lectio divina", cioè di una lettura accompagnata dalla preghiera, che vi aiuti a entrare nelle
coordinate secondo cui la Provvidenza guida la storia dell'umanità e quella di ciascuno di noi.
Il decano dello Studium Biblicum Franciscanum (SBF) di Gerusalemme nel suo discorso introduttivo ha, fra
l’altro, così detto, rivolgendosi al cardinale Carlo Maria Martini:
Mi sono ricordato di quanto Lei premetteva in apertura alla monografia Il problema della recensionalità
del codice B alla luce del papiro Bodmer XIV (AB 26, Roma 1966), la tesi di laurea all’Istituto
Biblico, pubblicata quasi quaranta anni fa. Riferiva le parole con cui Erasmo di Rotterdam nei Capita
argumentorum contra morosos quosdam ac incultos introduceva nel 1527 la sua edizione del Nuovo Testamento.
Eccole in traduzione: “Questo nostro studio da alcuni viene disprezzato come umile e puerile.
L’appunto non mi tocca per il fatto che lavoro intorno a sillabe e parolette. Io ritengo cosa grande tutto
ciò che appartiene alla Teologia. E poiché non ignoravo quanta riverenza si doveva ai sacri libri
coscientemente mi sono assunto ciò che in quel compito sembrava infimo” (p. VI).
Proprio così: nulla vi è di poco importante che non meriti il nostro impegno quando si tratta delle
Scritture, insegnavano già i maestri di Israele. E San Basilio Magno osava affermare:
“Dire che nella Scrittura c’è una parola inutile è terribile bestemmia”
(De hom. struct. 1,15).
Il prof. Rosario Pierri ha così riassunto la parte centrale dell’intervento del cardinal Carlo
Maria Martini:
Fino a quarant’anni fa il testo più antico delle due lettere di Pietro era quello del codice
Vaticano (Vaticanus graecus 1209). In seguito si ebbe la pubblicazione di frammenti minimi di papiri (20, 54,
9) riguardanti soprattutto la Lettera di Giacomo e le Lettere di Giovanni. Nel 1961 fu pubblicato il papiro 64,
un frammento però recente. Ad ogni modo anche altri frammenti resi noti successivamente non risalivano
oltre il IV sec.
Con il papiro 72, contenente 1Pt, 2Pt e la Lettera di Giuda, si riuscì finalmente a infrangere questo
limite e ad aprire una finestra sul III sec. Purtroppo quando e dove fu scritto con esattezza e la sua
provenienza (chiesa, monastero, biblioteca privata) non è dato saperlo. È noto che fu comprato
in Egitto negli anni ‘50 dal benemerito mecenate Martin Bodmer. Questi, anche grazie
all’abilità di una segretaria, riuscì a mettere le mani su di un lotto di papiri che
circolavano tra i commercianti egiziani. Ma il luogo di provenienza è rimasto sconosciuto.
Il codice è composto da 36 pagine riprodotte nell’attuale edizione molto fedelmente. Soltanto la
prima pagina della 1Pt è un po’ rovinata, le rimanenti sono leggibili. Il codice insieme ad altri
scritti faceva parte di un volume risalente al IV sec., appartenuto verosimilmente a un ricco devoto che
commissionò la rilegatura in un unico volume delle diverse opere. Il testo delle due Lettere è
molto antico.
Una serie di indizi e di caratteristiche induce ad attribuirne la stesura ad uno scriba egiziano, con ogni
probabilità non di grande scuola. La sua conoscenza della lingua greca non doveva essere sicura. La
confusione tra le gutturali evidenzia che doveva essere di lingua copta. Un esempio lo si incontra alla
pagina 32 del codice in 2Pt 2,4 dove in margine occorre la parola copta per ‘verità’.
Conosceva il greco abbastanza bene ma la sua onciale inclina piuttosto a destra; la grandezza delle
lettere è irregolare e il loro numero per riga oscilla sensibilmente. Il manufatto rivela la mano di uno
scriba un po’ rozzo. È curioso notare che fa errori ma non dove occorrono parole difficili o
ricercate. È un dato assodato che gli scribi in questi casi si applicassero a copiare lettera per
lettera le parole, col provvidenziale risultato di lasciare ai posteri una tradizione manoscritta priva di
varianti.
Alcuni errori sono clamorosi (11 nella Prima, 18 nella Seconda) e non rappresentano certamente lezioni
originarie. Il Codice Vaticano a confronto, nelle stesse Lettere, ha 4-5 errori nella 1Pt e 1 nella 2Pt.
L’itacismo è dilagante al punto che si fa fatica a interpretare. Lo scriba doveva conoscere la
lingua parlata ma non quella scritta, non era di sicuro un professionista di grande livello.
L’oggetto, il codice, è di piccola entità, destinato ad uso privato e non liturgico.
Ma nello stesso tempo è di notevole valore, perché conferma l’antichità del testo
dei codici Vaticano, Alessandrino e Sinaitico, in una parola, del testo egiziano. In passato era stata
avanzata l’ipotesi che il Codice Vaticano dipendesse da codici del II sec., anzi gli studiosi ne erano
convinti. Il papiro Bodmer VIII ha confermato l'intuizione.
Il testo delle due Lettere contiene 60 ‘lezioni singolari’ accettabili per la grammatica, ma che
sembrano piuttosto errori. In 1Pt 5,1, per portare un esempio, si incontra la lezione theou in luogo di
christou. Tale lezione non può essere originale: la tradizione teologica cristiana è
concorde nel riferire i patimenti a Cristo. Un appoggio a questa lezione lo si potrebbe trovare negli Atti degli
apostoli al capitolo 20, lì dove dice: "Vegliate su voi stessi e su tutto il gregge, in mezzo al quale lo
Spirito Santo vi ha posti come vescovi a pascere la chiesa di Dio, che egli si è acquistata con il suo
sangue" (v. 28). Tuttavia è tutt’altro che risolutivo ed è un unico caso.
Le suddette 60 ‘lezioni singolari’ non hanno corrispondenza nel Codice Vaticano. Nello stesso tempo
il Papiro sostiene il Codice Vaticano in alcune lezioni singolari contro tutte le altre. Un esempio, in
questo senso, è offerto da 2Pt 2,15 dove i due testimoni concordano nel plurale "amarono un salario di
iniquità" contro il singolare degli altri testimoni "il quale amò un salario di iniquità".
Il papiro Bodmer VIII si allinea con i grandi onciali e con il testo egiziano. Non dovette esistere in
Egitto una tradizione testuale 'occidentale' affermata. Il testo del Bodmer VIII fa toccare con mano la
tradizione testuale alessandrina.
Il cardinale ha lavorato all’edizione del testo delle due Lettere petrine in due periodi. Nel 1968, in
occasione del XIX centenario del martirio di S. Pietro, Paolo VI volle che si pubblicasse un’edizione
speciale del Bodmer VIII. Il papiro a quel tempo si trovava ancora a Ginevra e Martini non ebbe la
possibilità di consultarlo di persona. Si assunse l’incarico di stendere un commento da
accludere alla pubblicazione e un apparato critico per la cui composizione si servì di diverse edizioni
precedenti e soprattutto di quella di Merk.
Quando nel 1969 Paolo VI fu in visita a Ginevra, Martin Bodmer volle donargli il Papiro di 1Pt e 2Pt che, da
allora, si trova presso la Biblioteca Vaticana. Si erano create le condizioni ottimali per una nuova edizione
del testo delle lettere. Ma per il cardinale l’opportunità per ritornare su questi scritti venne
rimandata al 2002, quando, alla fine mese di settembre, terminato il suo servizio di vescovo di Milano,
trasferitosi a Roma, poté dedicarsi al nuovo incarico.
La nuova edizione ha un’introduzione aggiornata e ampliata ed è corredata da tre apparati
critici. Il primo in calce alla pagina registra gli errori più gravi. Nel secondo ogni parola del
papiro è paragonata con le varianti degli altri manoscritti. Il terzo, posto sotto il testo della
Neo-vulgata, segnala le differenze di quest’ultima nei confronti del papiro.
Un provvidenziale concorso di fatti ha contribuito alla felice realizzazione dell’edizione: da una parte la
possibilità di usufruire di un anno sabbatico da dedicare all'opera, dall'altra la pubblicazione
dell’editio critica maior del testo del Nuovo Testamento avvenuta nel 2000, il cui primo fascicolo
comprendeva anche le due Lettere petrine. Delle Lettere cattoliche erano stati collazionati tutti i 522
manoscritti esistenti.
Gran parte di questi sono tardivi e sono rappresentanti del testo bizantino che risale alla chiesa di
Costantinopoli. Suo carattere peculiare è la tendenza facilitante. È il testo
Koinè che si è affermato nella chiesa greca. Il testo dei grandi onciali contiene più
lezioni difficili. Dei 522 manoscritti ricordati, 100 sono bizantini, 372 non sono stati considerati
perché dipendenti dal testo bizantino, 181 sono stati considerati in tutte le loro lezioni. Anche in
questi 181 manoscritti occorrono lezioni bizantine. Sono stati citati quando avevano lezioni varianti che di
solito corrispondono al resto alessandrino.
Per la sua edizione il cardinale ha potuto quindi confrontare il testo del Bodmer VIII con le varianti più
importanti comprese quelle presenti nelle citazioni dei Padri greci e latini e quelle offerte nelle versioni
latina, copta e siriaca.
Lasciandosi andare quasi a una confessione spontanea, il cardinale ammette che la critica testuale è
una disciplina che lo appassiona fino al punto da assorbirlo totalmente, facendogli dimenticare, quando è
al lavoro, tempo e luogo. Sente di rivivere in qualche misura l'esperienza di Ezechiele. Il profeta nel terzo
capitolo della sua profezia mangia il 'rotolo' che gli viene offerto: al suo palato è dolce come il miele.
Similmente accade all'Autore dell'Apocalisse (10,8ss).
In entrambi i casi ai protagonisti capita che la dolcezza percepita dal palato si tramuti in amarezza
nell'addome. Il cardinale, con un po' d'ironia, dice di non essere arrivato a questo stadio. Qui la dolcezza va
intesa in un senso diverso da come può essere percepita immediatamente. È una sorta di piacere
dovuto alla possibilità di soppesare ogni parola che occorre in un dato luogo del testo e di metterla a
confronto con quelle che occorrono nello stesso luogo ma in testimoni diversi: è il contatto
più diretto che si possa avere con le tradizioni vive delle quali i manoscritti sono testimonianza
concreta; è domandarsi, per compiere un ulteriore passo che avvicina al pensiero, all'intenzione
dell'Autore, per quale motivo quest'ultimo abbia scelto questa e non quella parola: è l'aspetto forse
più ambizioso ma certamente più coinvolgente.