«Sì, Roma ho amato, nel continuo assillo di meditarne e di comprenderne il trascendente segreto,
incapace certamente di penetrarlo e di viverlo, ma appassionato sempre, come ancora lo sono, di scoprire come
e perché “Cristo è Romano” (cfr. Dante Alighieri, La Divina Commedia,
Purgatorio, XXXII, 102)».
Così ebbe a dire Paolo VI nella messa celebrata per il suo ottantesimo compleanno, nel 1977. Questa
rubrica, attraverso gli articoli che saranno pubblicati on-line ogni due settimane, è animata dallo stesso
desiderio, quello di indagare, attraverso la figura di Paolo, l’amore di predilezione che il Signore ha
avuto per l’urbe ed i suoi abitanti e, tramite la sua chiesa, per tutti.
È semplicemente straordinario come la testimonianza apostolica e neotestamentaria sia legata alla
città di Roma, al punto che viene spontaneo parlare di una ‘geografia della salvezza’, a
fianco di una ‘historia salutis’. Gli stessi romani sembrano a volte inconsapevoli di tutta la
ricchezza di questo legame.
Già i maccabei inviarono delegati a Roma, a parlare nella Curia del Senato che è tuttora
possibile ammirare nei Fori ai piedi del Campidoglio (1 Mac 8). Erode il Grande salì al
Campidoglio, come attesta Flavio Giuseppe che scrisse in Roma le sue opere, avendo al suo fianco Ottaviano e
Antonio, quando nel 40 a.C. gli venne assegnato nell’urbe il regno. I suoi figli, fra i quali Erode
Antipa, si incontrarono con Ottaviano Augusto, divenuto nel frattempo imperatore, nel tempio di Apollo sul
Palatino, quando venne diviso dal potere romano il regno del loro padre.
Più volte Pilato, durante il regno di Tiberio, dovette ascendere al Palazzo imperiale a conferire
sui fatti della Giudea e recarsi per i sacrifici agli dèi al Tempio dedicato sul colle del Campidoglio
alla triade capitolina, come al Tempio di Marte ultore nei Fori, luogo rituale di incontro dei rappresentanti
della politica estera dell’impero.
Ma, sopratutto, è impressionante constatare come il desiderio paolino di testimoniare Cristo a Roma sia
stato accompagnato dal grande amore che dovette destare la città di Roma non solo in Pietro, ma in
tanti cristiani della prima generazione.
Gli Atti testimoniano di Aquila e Priscilla, nella cui casa si riuniva la comunità (cfr. Rm 16, 5),
espulsi dall’urbe con l’editto di Claudio del 49 d.C. e probabilmente ritornati poi in città
successivamente.
Due dei quattro evangelisti ebbero un forte legame con Roma: Marco, che probabilmente scrisse il suo
vangelo in città - come sembrano indicare, oltre alla tradizione, i latinismi del testo ed alcune
sottolineature che ben si confanno al diritto latino, ad esempio l’asserita possibilità giuridica
del divorzio delle donne – e Luca che certamente giunse a Roma e vi soggiornò, come attesta la
finale degli Atti (appartenente alle famose “sezioni-noi”, cfr. in particolare At 28).
Non possiamo essere certi della presenza a Roma dell’evangelista Giovanni, del quale la tradizione attesta,
nel luogo dell’odierna S.Giovanni in Oleo, la persecuzione, ma certo Roma, la “prostituta che
siede sui sette colli” (cfr. Ap 17, 9) dovette avere un ruolo decisivo nella vicenda del discepolo
amato e della sua scuola.
Sopratutto Pietro fu, insieme ai primi martiri romani durante la persecuzione neroniana ricordata da Tacito, il
grande testimone del vangelo in Roma. L’urbe che si presenta come Babilonia (1 Pt 5, 13), come
nemica di Dio, diviene l’amata del Signore che invia i suoi apostoli non per la vendetta, ma per la
salvezza dei romani.
Insieme a quella di tutti costoro – a partire da quegli anonimi primi annunziatori che portarono il vangelo
in Roma a motivo del loro lavoro di commercianti – la presenza di Paolo in Roma divenne benedizione per
la città.
A Roma egli inviò, in preparazione al suo viaggio, la grande lettera paolina sul peccato originale e
sulla grazia e nell’urbe stessa potrebbero essere state scritte le cosiddette “lettere dalla
prigionia”, Filippesi e Filemone principalmente e poi Efesini e Colossesi.
La lettera agli Ebrei risulta essere inviata in Italia, probabilmente a Roma, poiché al testo
è accluso un biglietto nel quale gli emigrati della penisola inviano un saluto ai loro connazionali (Eb
13, 24).
La seconda lettera a Timoteo, allora ad Efeso, attesta non solo la presenza del principale collaboratore
di Paolo a Roma, ma anche la consapevolezza dell’ora del martirio, sebbene il testo possa essere nella sua
redazione successivo alla morte dell’apostolo.
Paolo è stato, insomma, in Roma annunziatore del vangelo di Cristo, unito a Pietro fino alla testimonianza
suprema, come attesta la tradizione dell’ultimo abbraccio fra i due apostoli presso la Piramide
Cestia. Essi non furono, però, soli nell’amore con il quale convinsero del vangelo di Cristo
tanti romani, ma furono accompagnati da quel nugolo di testimoni dei quali si è parlato.
L’augurio che ancora una volta Paolo VI rivolse a tutti illumini le riflessioni che compariranno in questa
rubrica: «Che tutti i credenti della santa Chiesa ed anche coloro che aspirano ad un ecumenismo religioso
autentico, possano a buon diritto, per fede e per amore, far propria la definizione, non tanto giuridica quanto
spirituale, che di San Paolo fu data: “Hic homo civis Romanus est”, “quest’uomo
è cittadino Romano” (Act. 22, 26)».
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