Riprendiamo sul nostro sito l’articolo di André Vauchez, apparso su
L’osservatore romano del 27 gennaio 2008 con il titolo originario “La lettera che uccide è fatta
di parole senza spiegazioni”. Il testo è, a sua volta, la traccia della relazione che il prof.Vauchez ha
tenuto come Prolusione per l’inaugurazione del Master in Medioevo francescano. Storia, filosofia e teologia,
organizzato dalla Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani della Pontificia Università Antonianum e
dalla Facoltà di Lettere e Filosofia della LUMSA Università, avvenuta il 14 dicembre 2007 e che portava
l’originario titolo Frate Francesco e il Vangelo tra lettera e spirito.
In quella occasione il prof.Vauchez aveva concluso la prolusione con una breve riflessione tesa a paragonare
l’approccio di Francesco al Vangelo e quello degli storici a Francesco. Dapprima aveva mostrato come siano da
apprezzare nella loro insostituibilità le fatiche filologiche degli storici delle fonti. Aveva esemplificato
questo con il riferimento al la Lettere ad un ministro che reca nella lezione originaria l’espressione,
riferita ad un ministro che non riesce a farsi ubbidire dai frati: “Amali e non pretendere che siano cristiani
migliori... aspettando ciò che Dio ti darà”, mentre in alcuni manoscritti tardivi si legge
invece: “Prova a fare sì che siano cristiani migliori”. La prima versione è la lectio
difficilior, che è quella autentica: essa invita a mescolarsi ai peccatori. Qui Vauchez ha sottolineato quanto
gli studi recenti debbano a questi studi letterali, pignoli, apparentemente deludenti, che cercano di ricostruire la
“lettera” da conoscere.
Ma che la “lettera” sia insufficiente –ha aggiunto- lo indica lo stesso Francesco. Essa non
è, però, da superare, attraverso il metodo combinatorio, come già affermò Arsenio Frugoni
nel suo Arnaldo da Brescia, poiché questo non rispetterebbe la gerarchizzazione necessaria delle fonti. La via
da seguire è piuttosto quella di non seguire perdersi nell’analisi dei singoli frammenti, glossandoli a
tal punto da perdere poi il contatto con il contenuto che essi tramandano.
Il Centro culturale Gli scritti (6/2/2008)
Oggigiorno nessuno potrebbe mai classificare Francesco d'Assisi
come un fanatico religioso o un uomo di spirito settario. Al contrario,
poche figure di santi cattolici sono così ben viste dai nostri contemporanei,
non solo nell'insieme delle Chiese cristiane, ma anche presso i musulmani, i
buddisti e, in maniera generale, dai non cristiani, come attesta il fatto che
Papa Giovanni PaoloII abbia scelto proprio Assisi nel 1986 per la famosa giornata
di preghiera per la pace. Non è neanche eccessivo vedere nel Poverello
una delle grandi figure spirituali dell'umanità, alla quale ciascuno
ha la possibilità di riferirsi al di là delle differenze confessionali
e delle divergenze dottrinali.
Tuttavia l'esperienza religiosa di Francesco, quando si cerca di riassumerla "in brevi parole" - per riprendere
un'espressione che gli era familiare - appare come un tentativo spinto fino all'estremo per conformarsi in maniera
letterale al Vangelo tanto da farne una norma assoluta di comportamento, sia per se stesso che per la
fraternità che si era costituita attorno a lui. (...)
Così, attenendosi ad una lettura immediata dei fatti, l'esperienza originaria di Francesco si presenta come
un miscuglio di entusiasmo religioso e di "letteralismo" evangelico, che presenta certamente delle similitudini in
rapporto a quello che oggi verrebbe definito un movimento fondamentalista. Ora noi sappiamo, con il distacco che
ci procura la distanza storica, che il francescanesimo non ha seguito questa via. Resta da sapere come e
perché abbia saputo evitare la deriva alla quale pareva destinato, visti i suoi orientamenti originali.
Esso si pone alla confluenza di due correnti che hanno profondamente segnato l'Occidente nel corso del dodicesimo
secolo per quanto riguarda l'aspetto religioso e culturale: da una parte il desiderio generale di risalire a delle
fonti autentiche o più autentiche, e dall'altro lato una volontà di rinnovo tramite un'interpretazione
letterale dei testi sacri. In questo senso Francesco appare, a tutta prima, più come un uomo del
dodicesimo secolo che del tredicesimo, se si definisce quest'ultimo come l'epoca d'oro della Scolastica, vale a dire
un'apoteosi della glossa eretta come principio di base dell'insegnamento e della cultura sapiente.
Il grande movimento designato sotto il nome di "Rinascimento del XII secolo" può in effetti definirsi come
un tentativo sistematico di ritorno alle fonti, nel doppio senso di questo termine che rinvia sia alle origini che ad
un corpo testuale libero dalle scorie di una tradizione deformante. Questa aspirazione generale ha abbracciato
delle forme molto varie, sin dal ritorno in vigore del cursus antico negli atti di
cancelleria e dalla restaurazione di forme di produzione architettoniche e decorative paleocristiane nelle basiliche
romane fino ai tentativi dei giuristi di Bologna di ritrovare il testo originale ed integrale del diritto imperiale
romano, al di là delle compilazioni parziali dell'alto medioevo.
In tutti i campi si rese dunque necessario il passaggio da una tradizione impura - testi incompleti, apocrifi o falsi
- ad una tradizione più pura, vale a dire ad un testo fondatore considerato come l'archetipo ed il modello
ideale. Questa "reformatio" ante litteram si instaura in un contesto culturale dove si
prefigurava il progresso come un ritorno alla perfezione delle origini e dove anche un pensatore apparentemente
così rivolto verso il futuro come Gioacchino di Fiore "non concepisce l'anticipazione delle cose a venire se
non come una vasta anamnesi del passato".
A proposito della Sacra Scrittura questa aspirazione fu all'origine della ricerca appassionata della
hebraica veritas, vale a dire di una lettura cristiana fondata sul testo ebraico della Bibbia,
impresa nella quale si lanceranno certi esponenti della scuola dei Vittorini, convinti che l'accesso ai sensi
veritieri dell'Antico Testamento passasse per la riscoperta della sua littera.
Questa propensione si ritrova ugualmente, mutatis mutandis, nella maggior parte dei movimenti religiosi
dell'epoca, sia che si tratti della riforma detta gregoriana, accentrata sul ritorno all'Ecclesiae
primitivae forma, o dell'ideale della Vita Apostolica, radicata nel modello della prima
comunità cristiana di Gerusalemme, così com'è descritta negli Atti degli Apostoli (4, 32-35).
Com'è noto, quest'ultimo testo, ispirò all'epoca delle esperienze religiose molto diverse come quella
dei canonici regolari discepoli delle differenti varianti della regola detta di sant'Agostino, fino a quella della
comunità di Fontevrault, così come Roberto d'Arbrissel la concepisce attorno al 1100.
È in questo contesto che è apparsa, all'inizio del dodicesimo secolo, l'idea che il Vangelo potesse
costituire lui solo la regola della vita cristiana. Santo Stefano di Muret, il fondatore dell'abbazia di
Grandmont, scrisse in effetti, a favore dei suoi primi compagni, che "non c'è altra regola se non quella
del Vangelo di Cristo" e che quest'ultimo rappresentava la sola via attraverso la quale un cristiano potesse
sperare di guadagnare il Regno dei Cieli.
Ma quest'intuizione, che precede di un secolo buono quella del tutto simile di san Francesco, non trovò ai
suoi tempi risonanza nella Chiesa. In effetti, per tutto il dodicesimo secolo, l'evangelismo si sviluppò
soprattutto nell'ambito di movimenti di contestazione religiosa che agivano per un ritorno alla pura tradizione
cristiana che la Chiesa avrebbe tradito, almeno a cominciare da Silvestro e Costantino, attaccandosi ai beni di
questo mondo e lasciandosi corrompere dall'esercizio del potere temporale.
Taluni, come i catari, le rimproveravano anche di aver volontariamente dissimulato una parte del messaggio
divino che aveva per missione di trasmettere, in particolare, il carattere puramente spirituale della salvezza,
così come viene definita nel vangelo di Giovanni, ed aspiravano ad un evangelismo integrale fondato sul
rigetto dell'Antico Testamento e di tutte le mediazioni sacramentali ed istituzionali tra il divino e
l'umano.
A furia di brandire il Vangelo contro la Chiesa e di condannarla in suo nome, questi
movimenti finirono per creare un vero e proprio sospetto all'interno della Chiesa, sia da parte dei laici che richiedevano il
diritto di accedere direttamente alla Parola di Dio, sia da parte del clero che si opponeva a queste richieste. Ci
volle tutta la santità personale di Francesco per ridurre questa frattura e reintegrare l'ideale evangelico
nell'ambito dell'istituzione.
Come abbiamo visto, si affermò, parallelamente, a diversi livelli, la tendenza a ritornare all'interpretazione
letterale dei testi fondatori per ritrovarvi il significato originale. Così, nelle prime generazioni
cistercensi e nella loro polemica contro il vecchio monachesimo si esprime il desiderio di ritrovare l'intenzione
originaria, vale a dire lo spirito autentico, della regola di san Benedetto, come sottolinea il prologo
dell'Exordium magnum ordinis Cistercensis: "Ad puritatem simplicitatemque sanctae regulae pure simpliciterque
tenendam prompto animo flagrantes, [...] qui perfectionis vitae et regulae sancti patris Benedicti ad litteram
tenendae desiderio, arctam et angustam viam ingressi sunt".
In Francesco, che inizialmente era un laico, si ritrova ancora più nettamente la tendenza, comune a tutti i
movimenti religiosi popolari dell'epoca, a prendere sul serio le parole stesse del testo sacro. Il Poverello
d'Assisi era ben lontano dal vedere, sia in queste parole che nelle ingiunzioni, talvolta molto rudi, che contenevano
delle espressioni che conveniva interpretare in un senso puramente simbolico, dei semplici flatus vocis,
intendeva, invece, metterle in pratica in maniera diretta ed immediata anche a rischio di lasciar scioccati.
Non si trattava certo di una novità assoluta: nel mondo bizantino si conoscevano già da molto tempo
i santi saloi e altri "folli in Cristo", che applicando alla lettera certi passaggi del
Nuovo Testamento relativi al rifiuto del mondo, ma anche al disprezzo di se stessi e alla "follia" caratteristica dei
discepoli di Cristo, conducevano un'esistenza marginale e allo stesso tempo scandalosa che attirava su di loro
l'attenzione e talvolta la persecuzione.
Francesco ha forse conosciuto questa tradizione orientale o l'ha ritrovata da
sé come ciò sembra più probabile? È sempre stata
sua intenzione proclamata comportarsi in maniera "irragionevole" agli occhi
del mondo - alter pazzus - la messa in scena della sua nudità
quando si fece trascinare da uno dei suoi fratelli con la corda al colloe andò
a predicare per Assisi così conciato, la bizzarria del comportamento
di fra Ginepro o di Giovanni il semplice, tutto ciò andava nel senso
di una volontà sistematica di fedeltà "alla lettera" al Nuovo
Testamento e del rifiuto di tutte le letture distanti o esegetiche sapienti
della Parola di Dio.
Infatti, sin dal momento della sua conversione fino al suo ultimo respiro, il Poverello di Assisi sembra aver
provato una repulsione profonda di fronte alla glossa, vale a dire per i commenti che potrebbero fare schermo tra il
testo sacro e l'individuo, permettendo a quest'ultimo di schivare le sue esigenze concrete ed immediate. Si
conoscono le esortazioni commoventi che egli lanciò nel suo testamento, all'avvicinarsi della sua morte,
affinché i fratelli seguissero la regola senza cercare di interpretarla: "E il ministro generale e tutti gli
altri ministri e custodi siano tenuti, per obbedienza, a non aggiungere e a non togliere niente da queste parole.
[...] E a tutti i miei frati, chierici e laici, comando fermamente, per obbedienza, che non inseriscano spiegazioni
nella Regola né in queste parole dicendo: "Così devono essere intese"; ma come il Signore ha dato a me
di dire e di scrivere con semplicità e purezza la Regola e queste parole, così voi con
semplicità e senza commento cercate di comprenderle, e con santa operazione osservatele sino alla fine".
Leggendo questo testo fondamentale si percepisce - e questo è confermato
dall'analisi lessicale dei suoi scritti - che Francesco, a differenza di
certi propositi che gli attribuirono alcuni testi agiografici posteriori, non
impiega mai l'espressione litteraliter o ad litteram,
tranne in un passaggio delle sue Admonitiones dove commenta in questi
termini la famosa frase di san Paolo (1 Corinti, 3, 6) sulla lettera che uccide
e lo spirito che vivifica: "sono uccisi dalla lettera quei religiosi che non
vogliono seguire lo spirito della divina Scrittura, ma piuttosto bramano
sapere le sole parole e spiegarle agli altri".
Senza che essi l'abbiano mai espresso in un discorso concettuale, il problema con il quale si scontrarono il
Poverello e i suoi compagni nella messa in pratica del loro modello di vita evangelica può riassumersi in
questi termini: come attenersi il più possibile al testo sacro evitando la glossa o interpretazioni superflue,
senza cadere pertanto in un letteralismo arido o ridicolo?
Per superare questa apparente contraddizione, bisogna risalire fino alla convinzione intima che già animava,
come abbiamo visto, i riformatori del monachesimo del dodicesimo secolo e che Francesco condivideva senza alcun
dubbio, come dimostrano le testimonianze dei suoi contemporanei. Egli infatti aveva capito che il senso autentico
della Scrittura risiede anche nella stessa parola scritta del testo sacro, solo garante dell'autenticità dello
spirito e dell'urgenza della carità che spingeva alla sua messa in pratica.
In effetti, per l'uomo medievale, il rapporto tra parola scritta e spirito è paragonabile a quello che gli
intellettuali stabiliscono tra forma e materia: la parola scritta serve ad incarnare lo spirito e prende tutto il suo
valore dal modo in cui la contiene e l'esprime integralmente; da qui l'accento posto da Francesco in maniera
tenace ed appassionata, sull'osservanza più concreta possibile del Vangelo e della regola dei frati minori
che, ai suoi occhi formavano un tutt'uno con lui.
Ma il rispetto letterale del testo non era per lui fine a se stesso: egli non impiega mai, in questo contesto, le
parole litteraliter o ad litteram, ma l'espressione spiritualiter
et pure. Darne una traduzione soddisfacente non è cosa semplice; si potrebbe essere tentati di
affermare che il Poverello di Assisi era partigiano di un'osservanza "spiritualmente letterale" della regola, nella
misura in cui essa costituiva non un assoluto, ma un mezzo relativo ad un fine, al servizio del progresso spirituale
dell'individuo e della comunità nella quale era inserito.
In effetti, ai suoi occhi, l'essenziale non era tanto il rispetto capillare delle sue prescrizioni, quanto
l'esigenza di una coerenza personale integrale, il non restare fermi alle parole, per quanto fossero sublimi, ma
lasciarsi coinvolgere da queste ed impegnarsi sulla strada che esse aprivano - qui emerge l'importanza della parola
"cominciare" nei suoi scritti. Lo scopo individuato era di far coincidere l'interiore con l'esteriore, il
comportamento con la parola, al fine di giungere ad essere perfettamente conformi a Cristo, vero Dio e vero uomo.
In un certo senso dire e fare sono la stessa cosa e, ricorrendo a una espressione moderna, possiamo sostenere che
Francesco era convinto della potenza performatrice della parola. Ma chi parla e non agisce di conseguenza è
già un traditore.
Anche qui l'analisi lessicale si rivela feconda per penetrare nell'universo spirituale del Poverello di Assisi.
Bisogna, in effetti, sottolineare che nei testi in cui evoca le relazioni tra l'uomo e Cristo, Francesco non
impiega mai il termine "imitare" (imitari, imitatio), ma il verbo "seguire"
(sequi). Il modello è "il Signore nostro Gesù Cristo, del quale dobbiamo seguire
le orme".
In questo c'è molto più che una semplice sottigliezza di linguaggio, poiché quello che
prescrive non è un'imitazione letterale, bensì una sequela creativa: i frati minori e, in maniera
più generale, tutti i cristiani che vogliono seriamente raggiungere la salvezza, dovranno accettare - in
una situazione evidentemente differente e variabile per ognuno - di subire delle prove simili a quelle che Cristo
ha subito durante la sua vita terrena - povertà, solitudine, sofferenza, abbandono, ecc. - sforzandosi di
riscontrare le sue inclinazioni fondamentali, e particolarmente lo spirito di preghiera e di amore, per meritare di
sfuggire al suo seguito alla "morte seconda".
Conformarsi a Cristo non è altro che vivere nella fedeltà allo Spirito che l'animava; e dunque
Francesco avrebbe detto un giorno, se bisogna credere al suo primo biografo, come fosse proprio lo Spirito Santo
il vero ministro generale dell'ordine dei frati minori. Da qui la sua istanza sulla necessità per i frati
di osservare la regola spiritualiter e di comportarsi in conseguenza - ambulare spiritualiter,
conversari spiritualiter - vale a dire in tutta semplicità (simpliciter).
Infatti, i due termini simpliciter e spiritualiter sono, per lui
sinonimi e definiscono un comportamento che consiste nel seguire la regola senza fare commenti né
interpretazioni e di metterla in opera integralmente, poiché lo Spirito è quel dono che possiedono gli
umili nel prendere Dio in parola e lasciarsi guidare da Lui. Questo "spirito alla lettera" - se si
può chiamarlo così - si oppone in Francesco a quello che potremmo definire lo "spirito della
carne".
La "carne", in questo contesto, evidentemente non designa il corpo fisico, ma la tendenza, naturale dell'uomo in
ragione della sua natura di peccatore, ad appropriarsi del dono di Dio e a gloriarsi dei suoi talenti o della sua
saggezza, come se essi fossero cose proprie. Questa falsa santità, vera impostura e peccato contro lo
Spirito, è incarnata secondo lui dai predicatori che si accontentano di annunciare la Parola di Dio senza
metterla essi stessi in pratica: "Guai al religioso che si diletta in parole oziose e vane"; "Guai a quel religioso
che non custodisce nel suo cuore i beni che il Signore gli mostra e non li manifesta agli altri attraverso le opere,
ma piuttosto, col vano pretesto di una ricompensa, preferisce manifestarli agli uomini a parole".
È dunque questa, per Francesco "la lettera che uccide", secondo l'espressione di san Paolo, in opposizione
alla lettera che salva, che è apertura e disponibilità a seguire la Parola o la Regola che l'attualizza
nel mondo. Lo spirito autentico si riconosce in effetti nei suoi frutti, che sono la ricerca della povertà,
la purezza di cuore, l'umiltà, la pazienza nelle persecuzioni e nelle malattie, l'amore per i nemici e il
perdono delle offese, attitudini spirituali che sono le componenti essenziali della stessa nozione di
minoritas, vale a dire dello stile di vita e di comportamento di un vero frate minore.
In ultima analisi, si può dunque affermare senza esitazioni che il francescanesimo non rappresenta un
fondamentalismo nella misura in cui esso valorizza meno la lettera del testo sacro che l'attitudine di colui che vi
si riferisce: in questo senso, la distinzione tra un approccio "carnale" e un approccio "spirituale" del Vangelo o
della Regola, gioca qui un ruolo centrale discriminante. Per il Poverello di Assisi,la vita religiosa non si
definisce come una lotta contro gli altri o il mondo, bensì contro se stesso. L'uomo non deve cercare di
imporre la sua verità o la sua legge agli altri, né di fare violenza a chiunque. Egli non deve
prendersela che con se stesso e con le sue inclinazioni cattive.
(© L'Osservatore Romano - 27 gennaio 2008)
Per altri testi su S.Francesco presenti su questo sito, vedi la pagina San Francesco d'Assisi nella sezione Percorsi tematici