San Paolo apostolo contro l’utopia: dal vangelo di Gesù il realismo politico dinanzi al potere ed alla sua richiesta fiscale
di Gianfranco Ravasi

Ripresentiamo on-line sul nostro sito, per il progetto Portaparola, un articolo di mons.Gianfranco Ravasi apparso su Avvenire del 18 luglio 2008, con il titolo “E Paolo disse: pagate le tasse!”. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line del testo.

Il Centro culturale Gli scritti (19/7/2008)


 

Paolo non è un teorico puro; anche in una Lettera così densamente teologica com’è quella ai Romani egli lascia spazio nei capitoli 12-16 alla morale, alla prassi pastorale e alle relazioni ecclesiali, nella convinzione che il vero 'culto logico' ( loghikè latreia), cioè compiuto nello spirito profondo dell’uomo, sia l’«offrire i nostri corpi come sacrificio vivo, santo, caro a Dio» (Rm 12,1). Detto in altri termini, il vero culto cristiano è quello di presentare al Signore un’offerta esistenziale, ossia la propria vita. L’amore-agape, celebrato in 1 Cor 13, è ora riproposto con intensità come «pienezza della legge» (Rm 13,10).

Noi, però, vorremmo scegliere nelle pagine della Lettera ai Romani un paragrafo a prima vista un po’ stridente con la nostra sensibilità, quello del rapporto con il potere civile. Paolo rivela un lealismo sorprendente nei confronti dell’impero romano, lealismo ribadito anche in altri passi dell’epistolario (1 Tm 2,1-2; Tt 3,1-2; cfr. 1 Pt 2,13-17), in dissonanza con la dura polemica dell’Apocalisse.

È probabile che questa scelta facesse parte di una strategia 'politica', seguita anche da Luca negli Atti degli Apostoli, secondo la quale si cercava di impedire che si confondesse la Chiesa con uno dei vari movimenti eversivi antiromani d’Oriente (si pensi agli zeloti ebrei di Palestina o all’editto del 49 con cui l’imperatore Claudio espelleva da Roma molti Ebrei come indesiderati).

Il passo in questione è Romani 13,17 ed è aperto da una dichiarazione di principio: «Ogni persona sia sottomessa alle autorità costituite» (Rm 13,1). Seguono due motivazioni. La prima è teologica e riflette l’antica concezione biblica secondo la quale «non c’è autorità se non sotto Dio e quelle che esistono sono state stabilite da Dio», che è il Signore della storia. Opporsi ad esse è, allora, opporsi a un piano divino tracciato nella vicenda umana (Rm 13,1-2).

La seconda motivazione è di taglio più pratico: l’autorità è deputata al bene comune, osservarne le norme significa assicurare alla società serenità, violarle comporta la punizione «perché non invano essa regge la spada» (Rm 13,3-4).

La conclusione è scontata: «È necessario stare sottomessi, non solo per timore della sua collera ma anche per ragione di coscienza» (Rm 13,5). A questo punto Paolo allega una nota sulla questione fiscale: «Per questo, allora, dovete pagare le tasse, perché coloro che compiono questa funzione sono ministri [leitourgoì] di Dio» (Rm 13,6).

Certo, il discorso risente del tempo, del contesto socio-culturale, delle finalità immediate che l’Apostolo si propone, dell’ottimismo con cui si vede l’impero romano come tutore anche del cristianesimo, in opposizione al giudaismo considerato come ostile e vessatorio. È, quindi, necessaria una corretta interpretazione; essa ci permetterà di riprendere il discorso sul rapporto tra fede e politica già sviluppato da Gesù con il gesto simbolico della moneta di Cesare (Mt 22,15-22).

Sicuro è che Paolo come già Cristo non vuole qui offrire un trattato di morale socio-politica ma tracciare solo una linea di condotta alla Chiesa del I secolo inserita nella struttura imperiale romana. Tuttavia alcune considerazioni di ordine generale possono essere dedotte anche da un brano 'datato' com’è questo. L’uso da parte di Paolo del linguaggio giuridico profano, l’angolo di visuale 'dal basso' per i rapporti con lo Stato (cioè la morale del cittadino più che quella del politico, come si ha invece in un documento giudaico contemporaneo, la cosiddetta Lettera di Aristea), la concretezza degli impegni richiesti vogliono coinvolgere il cristiano nella realtà della vita civica.

In tal modo, come ha fatto notare il teologo Ernst Käsemann, Paolo intende forse opporsi all’esaltazione eccitata di quei cristiani che, per una falsa emancipazione spiritualistica, si ritenevano già cittadini del Regno dei cieli e quindi rifiutavano ogni impegno all’interno delle strutture istituzionali storiche (più o meno come si comportano oggi certi gruppi o sette o movimenti apocalittici).

Il cristiano, invece, deve partecipare con realismo alla vita sociale e politica senza fughe in verticale e senza decollare verso cieli mitici o mistici. Un’ulteriore osservazione di tipo 'contestuale' ci condurrebbe a un altro dato interessante. In queste righe l’Apostolo, opponendosi all’orientamento della letteratura apocalittica, ricusa ogni concezione solo demoniaca del potere. Esso, certo, comporta rischi gravi di degenerazione, può divenire idolatrico, come accadeva nel culto imperiale o nell’assolutizzazione della ragion di stato, ma può anche partecipare al progetto di Dio sulla storia quando si impegna per il bene comune.

Il cristiano dev’essere, dunque, disponibile, con genuino spirito di collaborazione nei confronti di tutto ciò che l’autorità statale anche atea/pagana (si ricordi che, quando Paolo scriveva, imperatore a Roma era Nerone) esige per il bene civico. Un capitolo speciale e importante è, al riguardo, quello delle tasse. L’evasione fiscale è chiaramente bollata da Paolo: «Rendete a ciascuno il dovuto: a chi il tributo il tributo, a chi le tasse le tasse...» (Rm 13,7).

Ma vorremmo aggiungere un’altra considerazione. Per l’Apostolo il rapporto con lo Stato non è solo una questione giuridica estrinseca, è anche un problema di coscienza e, come tale, tocca la morale cristiana. Il civismo, la correttezza fiscale, i doveri sociali sono altrettanti capitoli dell’impegno etico del credente. Anzi, come è stato notato da Ulrich Wilckens in un suo saggio sul brano paolino, la trascrizione 'attualizzata' e aggiornata degli impegni proposti in questo paragrafo secondo la sensibilità moderna comporterebbe maggiori esigenze rispetto all’antico contesto: supporrebbe, infatti, partecipazione responsabile, cooperazione sociale, attenzione critica, solidarietà e uno spiccato senso democratico e civico.

Siamo, perciò, davanti a un testo che non dev’essere, certo, assunto in modo fondamentalistico come avallo sacrale del potere. Esso è aperto a nuove incarnazioni secondo le moderne istanze del diritto, della politica sociale, della giustizia, dell’obiezione di coscienza e così via. Una pagina da trascrivere, dunque, partendo, però, dalla convinzione che il rapporto del credente con lo Stato è anche una questione autenticamente cristiana.


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