Riprendiamo on-line dal sito de L’Osservatore Romano, l’articolo scritto da S.Ecc.mons. Gianfranco Ravasi per il numero del 24/25 dicembre 2007. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza on-line sul nostro sito di questo testo non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti 26/12/2007
«Oggi siamo seduti, alla vigilia / di Natale, noi gente, misera / in una gelida stanzetta, / il vento corre di fuori, / il vento entra. / Vieni, buon Signore Gesù da noi, volgi lo sguardo: / perché Tu ci sei davvero necessario». Era Bertolt Brecht, apparentemente così lontano dal cristianesimo, a ricordare, in una delle sue poesie degli anni 1918-'33, questa "necessità" autentica e profonda del Natale di Cristo per gli ultimi della terra e per tutti i "poveri" (spesso tali non solo a livello sociale). In questo Natale vorremmo riscoprire l'evento radicale e "necessario" dell'Incarnazione attraverso una semplice e immediata rilettura di alcune pagine di quei quattro capitoli evangelici due di Matteo e due di Luca che totalizzano 180 versetti e che hanno ricevuto la tradizionale titolatura di "Vangeli dell'infanzia di Gesù". Cominceremo, però, con una sorta di premessa di metodo.
Nella mentalità semitica c'è un modo di esprimersi simbolico che gli studiosi hanno
chiamato "polarismo": se io colgo i due poli di una sfera, riesco a sollevarla e a reggerla. Nascita e morte,
Vangeli dell'infanzia e Vangeli della pasqua sono stati il "polarismo" della vita di Gesù e della predicazione
della Chiesa. Agli inizi del cristianesimo, nella meditazione sull'incarnazione natalizia e sulla risurrezione
pasquale si raccoglieva sinteticamente tutto l'annuncio salvifico cristiano. Per questa ragione i due
mini-Vangeli a cui attingeremo non sono tanto una folcloristica sequenza di scene orientali, di sentimenti delicati,
di vicende familiari e classiche riguardanti il delizioso "Bambino di Betlemme" a cui anche l'arte sacra ci ha
abituati; sono invece un primo canto al Cristo glorioso la cui apparizione nel mondo è già il
compendio cifrato e decifrabile della salvezza che egli ci porta.
Si tratta, quindi, di un racconto storico carico di immagini e di segnali simbolici ma anche e soprattutto carico
di teologia. In pratica queste due narrazioni, parallele ma autonome, sono dirette dalla fede in Cristo e
dirigono la fede in Cristo di chi le medita. Al centro, infatti, non c'è una dolce e drammatica storia
familiare ma il mistero fondamentale del cristianesimo, l'Incarnazione, la Parola nelle parole, Dio nella tenda della
"carne" fragile dell'uomo. "I due mondi da sempre separati, il divino e l'umano - scriveva il filosofo danese
Soeren Kierkegaard - sono entrati in collisione in Cristo. Una collisione non per un'esplosione ma per un
abbraccio".
Proprio per questa densità teologica i due libretti evangelici dell'infanzia sono difficili, sono
tutt'altro che pagine per bambini, come ancora qualcuno sospetta. Sotto la superficie smaltata dei colori, dei
simboli, delle narrazioni, si apre un testo che è simile ad una cittadella ben compatta e armonica di cui
bisogna possedere la mappa per raggiungerne il cuore. È necessario avere una "attrezzatura" interpretativa
per entrare correttamente in queste pagine, attrezzatura che è offerta da una bibliografia sterminata. Gli
interrogativi sono molteplici, di ordine letterario, storico, teologico. Pochi sanno, ad esempio, che l'ultimo libro
ad essere messo all'Indice, prima dell'abolizione di questa prassi, fu una Vie de Jésus (1959) di un
noto biblista francese, Jean Steinmann, proprio a causa del capitolo dedicato ai Vangeli dell'infanzia.
Due sono le sponde da evitare. La prima è quella storicistica o apologetica. È visibilissimo
anche in superficie che queste pagine sono differenti da quelle che compongono il resto dei Vangeli; il loro nucleo
storico di eventi è avvolto in un velo di interpretazioni, di approfondimenti, di rielaborazioni teologiche,
di simboli, di allusioni bibliche (donde le diverse catalogazioni degli esegeti: racconto omiletico cristiano, storia
simbolica, storia popolare, e così via). Sono ardui e spesso vani, allora, gli sforzi di quelli che vogliono
dimostrare e documentare storicamente ogni asserto. Solo per fare un esempio, pensiamo allo spreco di energia
esegetica e scientifica che ha causato la stella dei Magi: c'era chi ricorreva, come Keplero, a una "nova" o
"supernova", cioè a una di quelle stelle deboli e lontane che improvvisamente, per settimane o mesi, crescono
in intensità visiva a causa di un'esplosione colossale interna; c'era chi si affidava alla cometa di Halley
(apparsa però nel 12-11 avanti Cristo) chi ipotizzava una congiunzione Giove-Saturno, e così via.
C'è, tuttavia, un'altra sponda da evitare ed è quella mitico-allegorica. In questa
prospettiva il testo è solo un "pretesto" per illustrare tesi cristologiche o per rivestire di consistenza
fantasie popolari o per rielaborare miti antichi oppure per suscitare emozioni spirituali e morali. Va in questa
direzione quella melassa religiosa, sentimentale, infantilistica che è versata a piene mani su queste pagine
da un certo "clima natalizio", complice il consumismo interessato. I Vangeli dell'infanzia, invece, sono testi per
adulti nella fede, i cui segreti storici e teologici si aprono solo a chi vuole comprendere autenticamente le
Scritture. Al centro c'è un uomo e quindi una storia che è l'antipodo del mito. Un uomo reale,
segnato dalle frontiere del tempo che si chiamano nascita e morte. Un uomo come tutti, contrassegnato da una sua
identità spaziale, culturale, temporale e linguistica. Ma su questo uomo si proietta la luce della Pasqua e
del mistero. Un uomo, allora, diverso da tutti perché il suo tempo cela in sé l'eterno,
perché il suo spazio abbraccia ogni altezza, larghezza e profondità, perché le sue parole non
tramonteranno mai, perché le sue opere non sono sue ma di Dio stesso, perché il suo amore è
infinito, perché la sua nascita modesta è rivelazione cosmica, perché la sua morte è vita
per tutti.
Inizieremo il nostro percorso con un'inversione di marcia, risalendo verso il passato che sta alle
spalle di Gesù di Nazaret e della sua stessa vicenda personale e di quella della cristianità. Ci
rivolgeremo, cioè, innanzitutto alle Sacre Scritture ebraiche. "La prova più grande di Gesù
Cristo sono le profezie. Esse sono la preparazione della nascita di Gesù Cristo, il cui Vangelo doveva essere
creduto in tutto il mondo. Fu necessario non solamente che ci fossero delle profezie per farlo credere, ma che queste
profezie fossero divulgate in tutto il mondo per farlo abbracciare da tutto il mondo": così annotava Blaise
Pascal nei suoi Pensieri (numero 526, secondo l'edizione di Chevalier). Sul tema delle profezie dell'Antico
Testamento come annunzio del Cristo, il grande filosofo e credente francese ritornerà a più riprese e
con passione nei suoi scritti. D'altronde per secoli l'arte cristiana ha raffigurato alcuni profeti protesi verso
l'alba del Natale di Cristo. Ed è proprio dalle profezie dell'Antico Testamento che noi partiamo per il nostro
itinerario all'interno dei Vangeli dell'infanzia di Gesù.
Tra i profeti eccelle Isaia: già nel II secolo, in uno sbiadito ma suggestivo affresco nelle catacombe
romane di Priscilla sulla via Salaria, la Madonna siede tenendo in grembo il piccolo Gesù nudo, che si volge
con vivacità verso il profeta Isaia. In alto, una stella, verso la quale accenna il profeta, evoca l'oracolo
messianico del mago Balaam, la cui storia è narrata nel libro biblico dei Numeri (24, 17: "Una stella spunta
da Giacobbe, uno scettro sorge da Israele"). Se vogliamo citare un'altra rappresentazione pittorica più vicina
a noi, pensiamo all'Isaia affrescato da Raffaello attorno al 1512 nella chiesa romana di Sant'Agostino: mentre due
"putti" angelici reggono una tavoletta scritta in greco e dedicata al Cristo, a Maria e a sant'Anna, il profeta
srotola una pergamena che porta in ebraico una frase di Isaia (26, 2: "Aprite le porte: entri il popolo giusto che
mantiene la fedeltà").
Il desiderio di gettare un ponte tra i due Testamenti, d'altra parte, era sbocciato già negli stessi
evangelisti, in particolare Matteo, che costella il suo Vangelo di una settantina di citazioni esplicite
dell'Antico Testamento e di continue allusioni, proprio per collegare l'attesa d'Israele alla figura e alla parola di
Gesù. Non per nulla nel 1954 uno studioso scandinavo, Krister Stendahl, in un'opera intitolata The
school of saint Matthew, aveva liberamente ipotizzato che il Vangelo matteano fosse sorto in una specie di scuola
di "rabbini" cristiani. Non potremo segnalare tutti gli ammiccamenti, i sottintesi, le allusioni bibliche che
intarsiano il testo matteano dell'infanzia di Gesù. Ci accontenteremo solo di vagliare le citazioni profetiche
che Matteo esplicitamente connette a Gesù bambino, di solito attraverso una solenne frase di "compimento":
"Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta".
Si pensi che una simile formula, tipica di Matteo, risuona con varianti 14 volte nel Vangelo e i due nostri capitoli
la riecheggiano per ben 5 volte.
Prima di iniziare il nostro cammino all'interno di queste righe cariche di significati, dobbiamo però
rispondere ad una domanda preliminare. Perché gli evangelisti, e Matteo in particolare, si sono preoccupati
di questo raccordo tra il Cristo e l'alleanza di Dio con Israele? La risposta è duplice. Innanzitutto essi
hanno voluto identificare l'esistenza di un filo d'oro continuo tra le Scritture ebraiche e il Cristo per ragioni
"apologetiche", cioè per argomentare, nei confronti della comunità giudaica di allora, che la fede
in Gesù Cristo era nella linea dell'attesa dei profeti e di tutta la Rivelazione biblica. Un'altra ragione
era, invece, di ordine "catechetico" e si indirizzava ai convertiti per mostrare loro che gli eventi della vita di
Gesù entravano nel disegno divino già annunziato dalle Scritture. È per questo che anche
elementi secondari della vicenda del Cristo venivano "appoggiati" a un testo profetico, spesso in forma molto libera
e non rigorosamente storica e letteraria. Lo scopo, infatti, era quello di far rilevare l'unità tra i due
Testamenti e dimostrare come il Cristo fosse il sigillo ultimo dell'attesa e della speranza dell'Israele di
Dio.
Qualche studioso "radicale" in passato ha immaginato che gli eventi dell'infanzia di Gesù secondo Matteo
siano stati "inventati" proprio a partire dalle profezie dell'Antico Testamento così da esaltare il Cristo. Ma
l'ipotesi è molto fragile. Come, infatti, si può "creare" tutto il racconto dei Magi dalla profezia
di Michea che, come vedremo, parla solo di Betlemme? Come "inventare" a partire dall'oracolo di Isaia sulla "vergine"
che genera l'Emmanuele tutto il racconto che è l'annunciazione a Giuseppe? È, invece, probabile che i
primi cristiani, per costruire quel ponte tra Gesù e l'Antico Testamento, abbiano attinto ai cosiddetti
Testimonia del giudaismo. Si trattava di florilegi di testi biblici di taglio messianico: si raccoglieva
una sequenza antologica di citazioni anticotestamentarie per alimentare nei fedeli la speranza messianica. Uno
studioso inglese, James Rendel Harris, ne ha ipotizzato l'esistenza nel 1915, e dopo il 1947, quando sono venuti alla
luce i famosi manoscritti del Mar Morto, nella quarta delle undici grotte di Qumran sono state identificate alcune di
queste raccolte bibliche, usate da quella comunità giudaica del I secolo avanti Cristo e I secolo dopo
Cristo.
La prima delle cinque citazioni bibliche è posta a conclusione dell'annunciazione angelica
a Giuseppe invitato a "non temere di prendere con sé Maria, perché quel che è generato in lei
viene dallo Spirito Santo" (1, 20). Matteo fonda questo dato su un celebre oracolo indirizzato da Isaia al re di
Giuda, Acaz, nel 734 avanti Cristo. Ma il testo originale ebraico non coincide con quello evocato da Matteo in un
punto capitale. Infatti Matteo ha: "Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio" (1, 23),
mentre Isaia aveva scritto in ebraico: "Ecco, la giovane donna concepirà e partorirà un figlio". (7,
14). Il vocabolo ebraico usato dal profeta non è quello preciso della verginità
(betulah), ma quello generico della donna abilitata al matrimonio
('almah). Certo, secondo la prassi sociale e la morale antica d'Israele, la donna da
matrimonio doveva essere vergine fisiologicamente, ma il profeta non ha voluto mettere l'accento su questo dato.
Molti studiosi pensano che di per sé Isaia nel suo annunzio all'empio re Acaz forse intendeva soltanto
alludere al figlio di Acaz, Ezechia, uno dei sovrani più giusti di Israele, nato dalla "giovane" moglie del
re.
Tuttavia, come si vede nei capitoli successivi di Isaia - in particolare il 9 e l'11 - in filigrana alla
fisionomia concreta di quel bambino, il profeta aveva disegnato il ritratto ideale del re atteso come inviato
perfetto e definitivo di Dio. Non per nulla il suo nome sarebbe stato "Emmanuele", che in ebraico significa
"Dio-con-noi". Se vogliamo fare un gioco di parole, potremmo dire che Isaia annunziava nel "messia" - il vocabolo
di origine ebraica significa, come è noto, re "consacrato" - il "Messia" per eccellenza. Tutto questo combacia
perfettamente con la figura del Cristo disegnata da Matteo: tra l'altro, l'ultima riga del suo Vangelo allude
ancora alla prima pagina della nascita di Gesù perché il Cristo risorto promette di "essere sempre con
noi sino alla fine dei tempi" (28, 20), di essere, quindi, l'Emmanuele. Ma la menzione della "vergine" come
può essere giustificata? La risposta è probabilmente nel fatto che Matteo rimanda, come spesso avviene
nei Vangeli, alla celebre versione greca della Bibbia del III-II secolo avanti Cristo detta "dei Settanta". In
essa la "giovane donna" di Isaia è resa col termine greco parthènos, che significa
appunto "vergine". Questo non implica che il giudaismo di quel tempo attendesse un concepimento verginale del
Messia, ma solo che "una donna, che ora è vergine, concepirà" un bambino provvidenziale e
straordinario. Matteo nel vocabolo vede, invece, profilarsi la realtà di Maria e di suo figlio, che non
è generato da seme umano, "da carne e da volere di uomo, ma da Dio". Potremmo dire che l'evangelista
recupera tutta la carica di speranza dell'oracolo di Isaia nei confronti del Messia sospirato, ma anche ne marca un
nuovo lineamento, quello della sua nascita dallo Spirito di Dio e non dalla carne.
Tra parentesi, ricordiamo che il cristianesimo e il giudaismo successivi entreranno in polemica proprio su questo
elemento: alcuni testi rabbinici del II secolo chiamano Gesù "figlio di Panthera", ritenuto un soldato romano,
giocando forse sull'assonanza tra parthènos, "vergine", e il nome Panthera. La
polemica era passata anche nei rapporti tra cristianesimo e paganesimo, come è attestato dal famoso scrittore
cristiano Origene, che cita e confuta il filosofo platonico Celso della seconda metà del II secolo - autore
dell'opera andata perduta Dottrina verace - secondo il quale, "la madre di Gesù era stata cacciata da
suo marito, artigiano di mestiere, che l'aveva accusata di adulterio con un certo soldato, di nome Panthera, il quale
l'aveva messa incinta. Cacciata dal marito ed errando in modo miserevole, diede alla luce di nascosto
Gesù".
Passiamo ora alla seconda citazione, messa in bocca questa volta agli stessi "sommi sacerdoti e scribi del
popolo". Essa risuona nei palazzi di Erode, davanti ai Magi venuti da Oriente a Gerusalemme con la domanda:
"Dov'è il re dei Giudei che è nato?". La risposta è attinta dal libro profetico di un
contemporaneo e forse discepolo di Isaia, il contadino Michea del villaggio di Moreset, 35 chilometri a sud-ovest di
Gerusalemme. Predicatore appassionato e durissimo contro la corruzione dei politici e dell'alto clero del suo tempo -
3, 3: "Divorano la carne del mio popolo e gli strappano la pelle di dosso, ne rompono le ossa e lo fanno a pezzi come
carne in una pentola, come lesso in una caldaia" - Michea apre nel finale l'orizzonte a una luce di
tonalità messianica. Da Betlemme, piccolo villaggio ma patria di Davide, una partoriente darà alla luce
un nuovo Davide, re di pace e di gioia, fonte di un'armonia cosmica. Ecco il passo che offre numerose varianti,
microscopiche rispetto alla citazione di Matteo, pur coincidendo nella sostanza: "E tu, Betlemme di Efrata,
così piccola per stare in mezzo ai clan di Giuda, da te mi uscirà una guida di Israele... Dio li
metterà in potere altrui fino a quando colei che deve partorire partorirà" (5, 1-2).
Matteo rappresenta il Cristo come il "figlio di Davide" perfetto, che, nascendo nello stesso villaggio del grande
re d'Israele, si rivela al popolo di Dio come il Messia atteso. Anche nel Vangelo di Giovanni la folla osserva
che "la Scrittura dice che il Cristo (Messia) verrà dalla stirpe di Davide e da Betlemme, il villaggio di
Davide" (7, 42). Ponendo in bocca ai diretti avversari di Cristo l'annunzio di Michea, Matteo sottolinea che essi
sono in grado di comprendere le Scritture ma non si decidono a credere in esse, le conoscono ma non le "riconoscono"
come messaggio aperto alla pienezza che ora si sta attuando. D'altra parte, tutto il racconto dei Magi è
un ricamo di allusioni all'Antico Testamento: dalla luce che sorge su Gerusalemme, e che fa "camminare i popoli e i
re allo splendore del suo sorgere", all'"oro e incenso" offerti da quelli che giungono da Saba (Isaia, 60, 3.6),
dalla stella di Balaam, già citata, al passo del Salmo 72 sui "re di Tarsis e delle isole, degli Arabi e di
Saba che portano offerte e tributi" al re messianico...
Brevissima è la terza citazione, destinata a sostenere la fuga e il successivo rientro dall'Egitto della
santa Famiglia. Evocando un tenerissimo passo del profeta Osea (VIII secolo avanti Cristo), in cui Dio è
raffigurato come un padre che cerca di far mangiare e di far camminare il "figlio" Israele, Matteo vede nella frase
del profeta, che commemora l'esodo dalla schiavitù egiziana, una prefigurazione del viaggio di Gesù
bambino nella terra d'Egitto. Ora il protagonista non è più Israele "figlio primogenito" di Dio,
come si dice nel libro dell'Esodo (4, 22) e in Osea, ma è il Figlio di Dio per eccellenza che inaugura in
sé stesso il nuovo e perfetto esodo verso la liberazione definitiva. Si tratta quindi, come si usa dire, di
una citazione "tipologica": nell'esodo antico è visto il "tipo", cioè il modello dell'esodo nuovo e
conclusivo.
Un analogo procedimento regge la quarta citazione, posta a suggello della pagina insanguinata della strage degli
innocenti. Matteo rimanda a un passo di Geremia, che, a sua volta, suppone un episodio della Genesi. Giacobbe con
Rachele, la moglie amata, incinta, sta per giungere a Efrata, che è il circondario di Betlemme. La donna
è scossa da un parto difficile e la sua situazione si fa drammatica: "Mentre esalava l'ultimo respiro,
perché stava morendo, essa lo chiamò Ben-onì ("figlio del mio dolore"), ma suo padre lo
chiamò Beniamino ("figlio della destra") cioè della fortuna". (Genesi, 35, 18).
Ancor oggi all'ingresso di Betlemme una sinagoga commemora la morte e la sepoltura di Rachele. Secoli dopo
quell'evento, nel 586 avanti Cristo, davanti a Gerusalemme diroccata dall'esercito babilonese, Geremia riprende quel
ricordo e lo ambienta a Rama, una località 17 chilometri a nord di Gerusalemme; Betlemme è, invece, a
pochi chilometri a sud della città santa. Là erano stati concentrati dai Babilonesi tutti gli Ebrei
che si sarebbero poi incamminati per l'esilio verso i fiumi di Babilonia. Su questa folla di disperati il profeta
immagina che si erga la figura statuaria di Rachele: questa ombra sembra piangere non più la sua morte, ma
quella dei suoi figli caduti nell'assedio di Gerusalemme e quelli ora deportati: "Una voce si ode da Rama,
lamento e pianto amaro: Rachele piange i suoi figli, rifiuta d'essere consolata perché non sono più"
(31, 15). Matteo, in dissolvenza, riproduce la stessa scena dipinta da Geremia ma riportandola a Efrata, cioè
a Betlemme, ove si leva il pianto delle madri dei bimbi sgozzati da Erode.
Come è evidente, la connessione è libera e creativa e si basa su un modo di riferimento alla Bibbia
praticato dallo stesso giudaismo e caro per secoli al cristianesimo. Esso non si cura di stabilire collegamenti
diretti e puntuali, ma piuttosto di isolare una rete di legami simbolici che rivelano come Antico e Nuovo Testamento
appartengano a un tessuto e a un progetto comune voluto da Dio. Per raggiungere questo scopo talora si ricorre a
un rimando generico, fluido, quasi evanescente. È il caso della quinta e ultima citazione del vangelo
dell'infanzia di Gesù secondo Matteo: "Andò ad abitare a Nazaret perché si adempisse ciò
che era stato detto dai profeti: Sarà chiamato Nazareno" (2, 23). Queste poche parole hanno fatto versare
i classici fiumi d'inchiostro proprio perché il "detto" in questione non esiste in nessuna pagina
dell'Antico Testamento, al quale Nazaret, tra l'altro, è totalmente ignota. L'evangelista rimanda forse a
un libro non canonico ("apocrifo") dell'antica tradizione d'Israele a noi ignoto? Nel Nuovo Testamento c'è al
riguardo un caso analogo, quello del verso 9 della Lettera di Giuda che cita l'Assunzione di Mosè, un libro
caro al giudaismo ma apocrifo. Oppure Matteo si vuole genericamente appellare alla tradizione messianica dell'Antico
Testamento vedendola confluire nel "nazareno" Gesù? È difficile scegliere tra queste e altre soluzioni
dell'enigma presente nella dichiarazione di Matteo.
Si potrebbe forse tentare di ricorrere al valore simbolico del termine "nazareno", al di là del suo legame
con Nazaret. Nell'originale greco del vangelo abbiamo, infatti, Nazoràios, un vocabolo che
può rimandare al "nazireo", cioè a quella persona che si è consacrata a Dio, mediante un voto e
il cui ritratto è minuziosamente disegnato nel capitolo 6 del libro biblico dei Numeri. Una figura famosa di
"nazireo" è quella dell'eroe Sansone, che si presenta così nel libro dei Giudici: "Io sono un nazireo
di Dio", cioè un consacrato a lui con tutto il suo essere. Come è noto, Sansone tradirà il suo
voto infrangendolo sotto il fascino di Dalila, una donna filistea emblema dell'idolatria cananea che tanto attirava
Israele. Sapendo che uno degli impegni principali del "nazireo" era quello dell'astinenza dagli alcolici; vediamo che
anche il Battista è tratteggiato come un "nazireo": "Non berrà né vino né bevanda
inebriante e sarà pieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre" (Luca, 1, 15).
Matteo, allora, intreccia nella parola Nazoràiosapplicata a Gesù sia il
riferimento concreto alla residenza anagrafica sia il legame spirituale all'Antico Testamento, ove erano emerse
figure di "nazirei". Ma nessuno di loro era stato veramente il Santo di Dio, cioè la persona pienamente
"consacrata" al Padre nell'adesione totale alla sua volontà. Come è evidente, il ponte con l'Antico
Testamento è in questo caso molto sottile, affidato all'allusione e al sottinteso, secondo uno stile
abbastanza comune al giudaismo, a cui Matteo e i suoi lettori appartenevano per nascita e cultura. Possiamo,
però, ipotizzare un altro collegamento, forse ancor più sottile, segnalato da alcuni studiosi. Giocando
sulle assonanze, Matteo avrebbe potuto alludere al vocabolo ebraico nezer, "germoglio",
"virgulto", un termine che nell'Antico Testamento era diventato quasi il nome del re-Messia. Scrive, infatti,
Isaia a proposito dell'Emmanuele: "Un germoglio spunterà dal tronco di Iesse (il padre di Davide), un virgulto
germoglierà dalle sue radici e su di lui si poserà lo Spirito del Signore" (11, 1-2).
Cristo è, allora, il germoglio di vita che sboccia nel mondo morto dell'uomo peccatore come un inizio
assoluto di speranza e di grazia divina. Questo è intuito da Matteo attraverso l'accostamento tra la
realtà "nazaretana" di Gesù e il simbolo del nezer, il "germoglio" messianico cantato da Isaia.
Proprio quest'ultima citazione biblica di Matteo ci permette di comprendere appieno il modo con cui il Nuovo
Testamento si è raccordato all'attesa dell'Antico. Da un lato le pagine anticotestamentarie, soprattutto
quelle profetiche, sono percorse dall'attesa viva e intensa di un intervento definitivo di Dio nella nostra storia
intricata e insanguinata. Un intervento che si renderà manifesto attraverso un uomo ideale, il Messia, il
"consacrato", perfetto re, profeta e sacerdote, dal volto ancora ignoto. Come diceva suggestivamente la scrittrice
Simone Weil, "i beni più preziosi non devono essere cercati, ma attesi come dono".
D'altro lato, gli autori ispirati del Nuovo Testamento, che hanno di fronte ai loro occhi la figura del Cristo,
rileggono quelle parole antiche, ancora sfumate, incerte ma "aperte", attraverso la luce della realtà che essi
vivono con Gesù di Nazaret. Intuiscono che sotto gli scritti e il pensiero dei profeti si muove il disegno
di Dio stesso, che compone in un'unica trama di salvezza tutta la vicenda dell'uomo, portandola alla pienezza nel
Cristo. I passi dell'Antico Testamento si allargano oltre il loro primo significato, rivelano nuove risonanze,
acquistano valori inediti. Il Natale e i primi anni di Gesù vengono visti alla luce della speranza messianica
dell'Israele di Dio e i testi profetici a loro volta sono illuminati dall'esistenza e dalla realtà di
Gesù.
Abbiamo voluto riservare così ampio spazio all'orizzonte che sta alle spalle degli inizi
storici di Gesù Cristo, perché di solito questa dimensione, che era di grande rilievo per la
cristianità delle origini e per la tradizione successiva, si è un po' appannata ed è stata
accantonata dall'attenzione popolare che ha puntato i suoi occhi soprattutto sul fatto della nascita. Noi ora ci
accontenteremo di evocarne le varie componenti in modo molto essenziale e partiremo da un evento preliminare che si
sfrangia in una sorta di trittico di scene. Intendiamo riferirci alla cosiddetta "annunciazione" della nascita di
Cristo: essa si ramifica in tre diversi annunzi. Il primo è quello rivolto alla futura madre, Maria; il
secondo è indirizzato al padre legale Giuseppe, mentre il terzo ha come destinatari un gruppo di pastori
nomadi. In questa e nelle altre scene dell'infanzia di Cristo noi entreremo in modo lieve e descrittivo, senza
affrontare le mille questioni esegetiche che hanno coinvolto la lettura degli studiosi e che sono trattate come si
è già detto in una fitta bibliografia, fatta spesso di opere molto impegnative. A questo proposito,
anche noi, come i nostri lettori, siamo in attesa del secondo volume del Gesù di Nazaret promesso da Benedetto
XVI, destinato a comprendere anche un'analisi delle origini storiche di Cristo, attraverso l'approfondimento delle
pagine evangeliche che ora noi scrutiamo solo dall'alto, in uno sguardo panoramico.
C'è, dunque, una prima annunciazione, quella che coinvolge Maria, la ragazza nazaretana chiamata a
un'avventura umana e spirituale unica. A narrare questo evento è Luca in un racconto (1, 26-38) modellato su
uno schema già presente nell'Antico Testamento, quello degli annunzi delle nascite di alcuni personaggi famosi
come Sansone (Giudici, 13-16) o il citato re-Emmanuele di Isaia (7, 10-17). Siamo a Nazaret. Un francescano
archeologo, Bellarmino Bagatti, ha trovato una traccia antichissima della devozione delle origini in una casa
nazaretana adibita allora a luogo di culto dai giudeo-cristiani: "Nell'intonaco si trovò un'iscrizione in
caratteri greci. Essa recava in alto le lettere greche XE e, sotto, MAPIA. È ovvio riferirsi alle parole
greche che il Vangelo di Luca mette in bocca all'angelo annunziatore: Chàire Maria". Ebbene, attraverso
quella comunicazione angelica, segno di una rivelazione trascendente, si delinea nel testo di Luca come un piccolo
Credo che offre una perfetta definizione dell'identità di Cristo.
Ascoltiamo infatti l'annunzio a Maria, dopo il saluto dell' "Ave": "Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce,
lo chiamerai Gesù. Sarà grande e sarà chiamato Figlio dell'Altissimo. Il Signore Dio gli
darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non
avrà fine. Lo Spirito Santo scenderà su di te, la potenza dell'Altissimo stenderà su te la sua
ombra; colui che da te nascerà sarà Santo e chiamato Figlio di Dio" (Luca, 1, 32-33.35). È la
stessa proclamazione dell'incarnazione, cioè dell'incontro tra il divino e l'umano in Gesù, che
è espressa da Giovanni nella frase essenziale "Il Logos si è fatto carne" (1, 14). È per questo
che Maria è allusivamente rappresentata come l'arca dell'alleanza del tempio di Sion su cui si stendeva
l'"ombra" della presenza divina ed è interpellata dall'angelo come kecharitomène, cioè come
"ricolma di grazia" da parte di Dio. Suo figlio sarà, come dice il poeta tedesco Novalis nei suoi Inni
alla notte scritti tra il Natale 1799 e l'Epifania 1800, "frutto infinito di misterioso amplesso". E il filosofo
Johann G. Fichte in una predica pronunziata nella festa dell'annunciazione a Maria, il 25 marzo 1786, esclamava: "Ci
sembra poco che fra tutti i milioni di donne della terra soltanto Maria fosse l'unica eletta che doveva partorire
l'Uomo-Dio Gesù? Ci sembra poco l'esser madre di Colui che doveva rendere felice l'intero genere umano e
grazie al quale l'uomo sarebbe divenuto un'immagine della divinità e l'erede di tutte le sue
beatitudini?".
Noi tutti abbiamo in mente la scena dell'annunciazione coi colori teneri ed estatici del Beato
Angelico nel Convento di san Marco a Firenze. Nell'ultimo dei suoi Canti spirituali Novalis confessava: "In
mille immagini, Maria, ti vedo / amabilmente ritratta / Ma nessuna di esse può fissarti / come ti vede la mia
anima". L'annunzio dell'angelo a Maria è uno dei soggetti spirituali capitali nella memoria dell'Occidente:
solo per citare un esempio a noi vicino, pensiamo a L'Annunzio fatto a Maria di Paul Claudel (1912).
Già san Bernardo di fronte all'esitazione e allo sconcerto di Maria - che alla fine però si dichiara
"serva del Signore", un titolo biblico di onore e di consapevolezza di un'alta missione - dichiarava: "L'angelo
aspetta la tua risposta, o Maria! Stiamo aspettando anche noi, o Signora, questo tuo dono, che è dono di
Dio. Sta nelle tue mani il prezzo del nostro riscatto. Rispondi presto, o Vergine! Pronunzia, o Signora, la
parola che terra e inferi e persino il cielo aspettano... Alzati, corri, apri!".
L'improvvisa e sorprendente maternità di Maria crea, però, sconcerto in un'altra persona evangelica, il
promesso sposo Giuseppe. Nella prassi matrimoniale ebraica antica il fidanzamento era considerato a tutti gli effetti
il primo atto del matrimonio stesso. A segnalarci questo sconcerto è, invece, Matteo che ci narra una
"annunciazione a Giuseppe". Leggiamone le battute fondamentali. "Maria, promessa sposa di Giuseppe, prima che
andassero a vivere insieme, si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe, suo sposo, che era
giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto. Mentre stava pensando questo, ecco apparirgli in
sogno un angelo che gli disse: Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa,
perché quello che in lei è generato viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo
chiamerai Gesù; egli, infatti, salverà il suo popolo dai suoi peccati" (Matteo, 1, 18-21). Giuseppe
si trova di fronte ad una scelta drammatica. Il libro della legge biblica, il Deuteronomio, è chiaro: "Se la
donna fidanzata non verrà trovata vergine, la si farà uscire sulla soglia della casa paterna e la
popolazione della sua città la lapiderà per farla morire, perché ha commesso un'infamia in
Israele" (22, 20-21). Il giudaismo posteriore aveva attenuato la norma, imponendo però il ripudio: è
ciò che deve fare anche Giuseppe. Egli, però, da "uomo giusto", cioè mite e buono, vuole
scegliere la via segreta, quella di un atto senza clamore, senza denunzia legale e processo ma solo alla presenza
di due testimoni, come gli consentiva la legge. Maria se ne sarebbe ritornata alla casa paterna per una vita
emarginata e infelice. Ecco, però, l'irrompere dell'angelo: egli è per eccellenza il segno di una
rivelazione divina, come lo è il sogno - se ne contano cinque nel Vangelo dell'infanzia di Gesù secondo
Matteo - è il simbolo della comunicazione di un mistero. Giuseppe è invitato a perfezionare il
matrimonio con Maria, superando ogni perplessità o sdegno, e ad assumere la paternità legale nei
confronti del nascituro: l'imporre il nome - che viene spiegato etimologicamente come "salvatore" ("Gesù"
deriva dalla radice ebraica jasha', "salvare") - era un atto tipico della patria potestà.
Come si è già detto, la verginità è, nel racconto evangelico sia di
Luca sia di Matteo, un dato marcato a livello teologico: Cristo, anche se è generato nella pienezza di una
maternità e dell'umanità, non è frutto della "carne" e del "sangue", cioè non deriva dai
puri e semplici meccanismi biologici di una generazione creaturale. In lui c'è il sigillo del divino ed
è a questo che è finalizzata la verginità della madre, che non di rado alcune miniature o
dipinti amano raffigurare in evidente stato interessante. Alla fine Maria partorisce ed è Luca a collocare
questo evento nella cornice di Betlemme, una cittadina nei pressi di Gerusalemme, patria del re Davide, in occasione
di un censimento ordinato dal "governatore della Siria Quirinio" (si legga Luca, 2, 1-7). Pieter Bruegel il vecchio
in una tela del Museo delle belle arti di Bruxelles (1566) ha rappresentato in modo delizioso l'accorrere a Betlemme,
immersa nella neve, di un fitto stuolo di mercanti, contadini, straccioni per farsi registrare secondo un
censimento condotto alle radici, cioè ai focolari d'origine delle famiglie, una prassi attestata nell'Egitto
romano, anche se predominante era il censimento residenziale.
C'è, però, una difficoltà storica piuttosto grave. L'unico censimento documentato di Quirinio
in Palestina fu eseguito nel 6-7 dopo Cristo, quando Gesù aveva almeno dodici anni e stupiva i dottori
della legge nel tempio di Gerusalemme (Luca, 2, 41-52). Come è noto, il calcolo cronologico della nascita di
Cristo è quasi certamente erroneo a causa del computo impreciso del monaco Dionigi il piccolo del VI secolo,
che fissò l'evento nell'anno 753 dalla fondazione di Roma. In realtà, i Vangeli affermano che
Gesù nacque sotto Erode il Grande che morì attorno al 4 avanti Cristo Luca, evocando quell'operazione
censuale, ha forse confuso le date? Oppure l'ha fatto per imprimere alla nascita di Gesù un respiro
universale? Sappiamo che i Vangeli, pur narrando la vicenda storica di una figura concreta come Gesù di
Nazaret, non hanno rigorose preoccupazioni storiografiche. Tuttavia sappiamo anche che Luca è l'evangelista
più attento al dato storico. È possibile, dunque, seguire due percorsi.
Da un lato, si può affermare - come scrive un certo importante commentatore di Luca, Heinz Schürmann -
che "il tema del censimento pone la nascita di Gesù in rapporto con tutto l'impero. In lui non si compie solo
l'attesa dei Giudei ma di tutta la terra. Si apre un orizzonte vasto come il mondo; è affermata l'importanza
universale della nascita di Gesù". La questione sarebbe dunque da affrontare a livello teologico e simbolico,
non certo storiografico. Come scrive un altro studioso tedesco, Emil Schürer, nella sua Storia del popolo
giudaico al tempo di Gesù, un'opera classica dell'Ottocento, "Luca avrebbe generalizzato in un unico
evento i vari censimenti ordinati da Augusto in epoche e luoghi diversi", così da collocare la nascita di
Cristo all'interno di un respiro universale e planetario.
D'altro lato, però, si può tentare di vagliare tutti i dati storici disponibili, come hanno fatto in
forme diverse vari studiosi. Ad esempio, secondo lo storico Giulio Firpo, in un suo studio del 1983 su Il problema
cronologico della nascita di Gesù, "il primo censimento", come lo definisce Luca (2, 2), sarebbe da
inquadrare in un piano globale censuale progettato da Augusto, destinato a coinvolgere anche un regno autonomo ed
esente, com'era quello di Erode, rex socius et amicus, cioè re alleato e amico di Roma. Nel 7-6 avanti
Cristo si sarebbe eseguito, dunque, in Palestina un censimento amministrativo, connesso a un giuramento di
fedeltà all'impero e condotto secondo il metodo tribale e non residenziale per ragioni di tattica e cautela
politica. A gestirlo fu Quirinio, in quel momento reggente con incarico speciale la legazione di Siria, tenuta in
via ordinaria dal governatore Sanzio Saturnino, allora impegnato in una dura guerra contro gli Armeni. Questo
sarebbe il censimento durante il quale nacque Gesù. Quando diverrà responsabile, a pieno titolo della
Siria, Quirinio ordinerà il secondo censimento, più noto e documentato, quello del 6-7 dopo Cristo.
Certo è che, al di là delle questioni storiche -non manca neppure qualche studioso che cerca di
confermare la datazione attuale dei secoli cristiani - Luca vede nella nascita di Cristo un evento dagli echi
universali e dall'incidenza nella vicenda storica umana.
La dimensione teologica nel racconto del Natale di Gesù risulta, quindi, primaria, come ha sempre compreso
la tradizione. Persino Jean-Paul Sartre, nel suo primo testo teatrale, Bariona o il figlio del tuono,
composto per il Natale del 1940 nello Stalag XII D nazista di Treviri, riesce ad esprimere i sentimenti di Maria che
partorisce non tanto in una stalla - come vorrà la tradizione - ma in una di quelle stanze, non di rado
rupestri, che nelle case palestinesi servivano come dispensa e rifugio invernale, in compagnia di animali, stanza
forse ceduta da un conoscente o parente.
Ecco qualche riga del testo di Sartre, una pagina veramente sorprendente per la sua intensità spirituale,
soprattutto se si pensa alle successive scelte ideali di questo filosofo francese. "Cristo è suo figlio, carne
della sua carne e frutto delle sue viscere. Ella lo ha portato per nove mesi e gli darà il seno e il suo latte
diventerà il sangue di Dio... Ella sente insieme che il Cristo è suo figlio, il suo piccolo, e che egli
è Dio. Ella lo guarda e pensa: "Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne.
Egli è fatto di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Egli mi
assomiglia. È Dio e mi assomiglia!". Nessuna donna ha avuto in questo modo il suo Dio per lei sola. Un
Dio piccolissimo che si può prendere tra le braccia e coprire di baci, un Dio tutto caldo che sorride e
respira, un Dio che si può toccare e vive". Si intravede in queste righe la base della riflessione
tradizionale cristiana che ha attribuito a Maria, nel concilio di Efeso (451), il titolo di Theotòkos,
"madre di Dio".
"C'erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro
gregge": queste sono le presenze che popolano il deserto di Giuda adiacente a Betlemme e che Luca farà
emergere in primo piano il giorno della nascita di Gesù, giorno non identificabile cronologicamente - il 25
dicembre, come è noto, è stato probabilmente escogitato in connessione e sostituzione del culto solare,
al solstizio d'inverno. Nel trattato Sanhedrin (25b) del Talmud, la
grande raccolta delle tradizioni giudaiche, si legge che i pastori non potevano testimoniare in sede processuale
perché considerati impuri, a causa della loro convivenza con animali, e disonesti, a causa delle loro
violazioni dei confini territoriali. Il loro statuto civile era, quindi, in basso alla scala sociale e le loro
condizioni di vita erano molto meno "georgiche" e idilliache di quanto ci abbiano abituato a pensare Virgilio o
Teocrito. La tradizione cristiana ha collocato il loro accampamento per quella notte nell'attuale villaggio arabo di
Bet-Sahur, a tre chilometri da Betlemme, in una località detta "Campo dei pastori", occupata nel IV-VI secolo
da un monastero bizantino eretto su grotte usate dai pastori per le loro veglie notturne. Ora là si staglia
una chiesa moderna (1953) che vorrebbe imitare nella sua struttura la tenda beduina e la cui cupola lascia filtrare
la luce del cielo quasi in un gioco di stelle.
Dopo le annunciazioni a Maria e a Giuseppe possiamo, allora, parlare di un'annunciazione ai pastori. Anche in questo
caso sono di scena gli angeli che intonano quel Gloria in excelsis che verrà cantato in mille e mille
Messe nei secoli. Questo coro che esce dalle labbra di "tutto l'esercito celeste", come Luca chiama biblicamente
gli angeli, sarà rilanciato dalla terra al cielo quando Gesù entrerà a Gerusalemme per l'ultima
settimana della sua vita. Nella notte del Natale gli angeli avevano cantato: "Gloria a Dio nel più alto
dei cieli e pace in terra agli uomini (oggetto) della buona volontà (divina)" (questa è la versione
più corretta di Luca, 2, 14, ove di scena è l'amore di Dio e non tanto la volontà umana). Alle
soglie della Passione i discepoli canteranno: "Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli!" (Luca, 19, 38).
Commenta Raymond Brown in un'importante opera su La Nascita del Messia secondo Matteo e Luca: "È un
tocco pieno di fascino che la moltitudine della milizia celeste proclami la pace sulla terra, mentre la moltitudine
dei discepoli proclama la pace in cielo: i due passi potrebbero diventare quasi un responsorio antifonale".
C'è però, in mezzo alla coreografia dell'epifania angelica un messaggio specifico, indirizzato ai
pastori. Nell'originale greco Luca lo definisce un "evangelo" e ha un contenuto squisitamente teologico: "Oggi vi
è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore" (2, 11). Anche in questo
caso abbiamo un piccolo Credo cristiano che ruota attorno a tre titoli fondamentali attribuiti al Bambino: Salvatore,
Cristo (cioè Messia), Signore (cioè Dio). Anche Paolo conosce questo Credo e lo cita scrivendo
ai cristiani di Filippi: "Aspettiamo il Salvatore, il Signore Gesù Cristo" (3, 20). Nel piccolo
Gesù - secondo l'orientamento dei Vangeli dell'infanzia - si intravede già il glorioso "Signore"
risorto, proclamato dalla fede pasquale della Chiesa. La tipologia dell'icona russa della scuola di Novgorod (XV
secolo) esplicita questo collegamento raffigurando il bambino Gesù avvolto in fasce e deposto in una
mangiatoia che ha la forma di un sepolcro. Ebbene, i primi ad accorrere in pellegrinaggio a Cristo Signore sono gli
ultimi della terra, anticipando un detto caro a Gesù: "I primi saranno gli ultimi e gli ultimi primi".
Tutto il racconto lucano è costellato di verbi di moto e di sorpresa: "andiamo, conosciamo, andarono,
trovarono, videro, riferirono, tutti udirono, si stupirono, tornarono glorificando e lodando Dio per tutto quanto
avevano udito e visto". La famiglia di Betlemme è circondata dai pastori, i rifiutati dal Sinedrio, i
marginali che Luca, però, vede come la prefigurazione della Chiesa di Cristo. Ma è interessante
scoprire, in parallelo, quale sia la presenza che Matteo (2, 1-12) colloca attorno al bambino Gesù. Prima di
tutto è necessario sottolineare che la scenografia è completamente differente e anche questo attesta la
diversità delle tradizioni che stanno alla base dei due racconti e la loro qualità spesso più
teologica che storica. Ora la sacra famiglia è rappresentata in una specie di sala del trono a cui accede
quasi una delegazione estera in visita di cortesia. Per Matteo si agitano, infatti, le cancellerie, il clero di
Gerusalemme, l'intera città. Un evento "internazionale" sta per compiersi e ha per protagonisti alcuni
misteriosi Magi "venuti dall'Oriente". Ma a questa scena dedicheremo la nostra attenzione in futuro, in occasione
della solennità dell'Epifania.
Così come abbiamo fatto aprendo questa riflessione natalizia, così ora la vogliamo concludere con le
parole di un poeta dalla religiosità molto incerta. Ora a offrirci lo spunto per un augurio non convenzionale
per il nostro Natale è Salvatore Quasimodo che, nella sua lirica Natale, desunta dalla raccolta
mondadoriana delle sue Poesie (1972), propone sì la scenografia un po' scontata - ma ai nostri giorni
non troppo - di un presepe domestico, ma ne raccoglie l'appello spirituale profondo. Ecco i suoi versi: "Natale.
Guardo il presepe scolpito, / dove sono i pastori appena giunti / alla povera stalla di Betlemme. / Anche i Re Magi
nelle lunghe vesti / salutano il potente Re del mondo. / Pace nella finzione e nel silenzio / delle figure di legno:
ecco i vecchi / del villaggio e la stella che risplende, / e l'asinello di colore azzurro. / Pace nel cuore di Cristo
in eterno; / ma non v'è pace nel cuore dell'uomo. / Anche con Cristo, e sono venti secoli, / il fratello si
scaglia sul fratello. / Ma c'è chi ascolta il pianto del bambino / che morirà poi in croce fra due
ladri?".
(© L'Osservatore Romano - 24-25 dicembre 2007)
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