Riprendiamo dal sito www.paroledivita.it un articolo del prof. Romano Penna che introduce alla lettura della Lettera ai Romani. Il testo è stato pubblicato nel numero di gennaio 2006 della rivista Parole di vita, bimestrale dell’Associazione Biblica Italiana con il titolo originale Come leggere la lettera ai Romani. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line. Per ulteriori testi su Paolo e le sue lettere vedi sul nostro sito la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento)
Il Centro culturale Gli scritti (2/11/2008)
C’è un doppio, fondamentale consiglio da dare a chi si accinge alla lettura di questo scritto:
prepararsi a qualcosa di impegnativo e poi non scoraggiarsi! Se questo vale in generale per tutte le
lettere di Paolo, tanto più è vero per questa lettera in particolare.
Ma una cosa è certa: la pazienza sarà abbondantemente premiata, perché ci si
accorgerà che ne valeva davvero la pena. Infatti, siamo davanti allo scritto più importante
dell’Apostolo, quello in cui egli impegna maggiormente se stesso nell’interpretazione di
ciò che significa l’evangelo per l’uomo, per ogni uomo.
D’altronde, la lettera ai Romani ha avuto nella storia della Chiesa e della teologia cristiana un influsso
non minore di quello che hanno avuto, poniamo, Platone o Aristotele sulla filosofia occidentale. Quindi, chi non
si stancherà di misurarsi con l’argomentazione qui dispiegata da Paolo meriterà la promessa
che leggiamo nell’Apocalisse: «Al vincitore che persevera fino alla fine… darò
autorità sopra le nazioni» (Ap 2,26); oppure, il che è lo stesso, verificherà di
persona quanto siano vere le parole di Lutero nel suo commento: «Fu come se per me si aprissero le porte
del paradiso»; o ancora, se la cosa non appare troppo banale, ci si accorgerà quanto abbia un reale
riscontro concreto, almeno in questo caso, il motto dello spot pubblicitario «Gratta e Vinci!».
Se la lettera ai Romani è importante per noi, bisogna dire che prima lo è stata già per
Paolo stesso. Infatti, quando egli la scrive si trova in un momento significativo e delicato della sua
biografia apostolica. È ormai verso la fine del suo terzo viaggio missionario e sta soggiornando a Corinto
(probabilmente al termine dell’anno 54 o all’inizio del 55), appena a un quarto di secolo dopo la
morte di Gesù e dopo aver scritto già un certo blocco di lettere, cioè: almeno una ai
cristiani di Tessalonica, due a quelli di Corinto, una a quelli di Filippi, una a Filemone (un cristiano della
città di Colosse, nell’entroterra di Efeso), e una ai cristiani della Galazia.
Soprattutto ciò che si verificò nelle Chiese di quest’ultima regione aveva rappresentato per
lui un’esperienza drammatica: l’infiltrazione di alcuni predicatori cristiani ma giudaizzanti
aveva rischiato di imporre ai Galati un’ermeneutica dell’evangelo assai diversa, se non contraria a
quella da lui predicata. Essi infatti pretendevano di coniugare l’adesione a Cristo con la
necessità di osservare la legge mosaica, sicché per essere giusti davanti a Dio non sarebbe bastata
la fede ma si doveva contare anche sulle opere religiose e morali compiute dall’uomo. Nella lettera
indirizzata appunto a quelle Chiese, Paolo aveva affrontato di petto la questione trattandola in termini molto
forti, energici nei toni e radicali nella sostanza. Egli vi aveva difeso a spada tratta «la verità
dell’evangelo» (Gal 2,14), cioè la libertà del cristiano da ogni vincolo esterno che
non sia la pura grazia di Dio manifestatasi in Gesù Cristo e accolta con nient’altro che non sia la
fede.
Inoltre, quando scrive ai romani, Paolo si trova di fronte a un’altra sfida, che questa volta egli fa a
se stesso. Le regioni e le città fino ad allora interessate dalla sua attività
evangelizzatrice, tenendo conto anche del racconto fattoci da Luca negli Atti, erano state davvero molte: in
Siria, la città di Antiochia; a Cipro, quelle di Salamina e Pafo; in Anatolia, alcune città delle
zone centro-meridionali della Panfilia (Perge), della Pisidia (Antiochia, Iconio) e della Licaonia (Listra,
Derbe), e in più la zona anatolica centro-settentrionale della Galazia; in Asia, la costa dell’Egeo
(Efeso, Colosse); in Grecia, la Macedonia (Filippi, Tessalonica) e l’Acaia (Atene, Corinto).
In ciascuna di queste località aveva suscitato delle Chiese, cioè dei gruppi (anche se
piccoli) di credenti in Cristo provenienti sia dal giudaismo sia dal paganesimo.
Detto all’ingrosso e con le sue parole, egli ha ormai predicato l’evangelo «da Gerusalemme e
dintorni fino all’Illiria» (Rm 15,19), e a questo punto pensa di non avere più un sufficiente
campo d’azione in quelle regioni (cf. Rm 15,23a). Da tempo egli coltivava già l’idea di
recarsi finalmente a Roma (cf. Rm 1,13; 15,23b), capitale dell’impero; e poiché questa per un
uomo dell’Oriente è comunque una città occidentale, Paolo progetta addirittura di spingersi
fino all’estremo Occidente dell’area mediterranea, puntando verso la Spagna (cf. Rm 15,24.28).
Sappiamo, dunque, che verso la metà degli anni ’50 Paolo non era ancora stato di persona a Roma;
quindi la Chiesa romana in quanto tale non aveva ancora avuto contatti concreti con lui. Resta però il
fatto che egli, non solo aveva notizia della fede dei romani (cf. Rm 1,8; 16,19a), ma in più doveva avere
tra loro qualche punto d’appoggio, come risulta da almeno un paio di indizi: uno è
l’interessante serie di ben 24 persone salutate per nome al termine dello scritto (cf. Rm 16,3-15: un
lungo elenco non riscontrabile in nessun’altra lettera); un altro è l’accorata richiesta di
un sostegno nella preghiera in vista del suo imminente viaggio verso Gerusalemme, dove egli prevede che le cose
non sarebbero andate bene per lui (cf. Rm 15,30-32), come effettivamente avvenne (cf. At 21,17-39).
Certo non sappiamo se la Chiesa di Roma da parte sua avesse il desiderio che egli vi si recasse a farle visita.
Comunque, i cristiani della capitale dovevano non solo aver sentito parlare di lui, ma anche essere venuti a
conoscenza di qualche sua tesi audace, come quella dell’assoluta preminenza della grazia di Dio nei
confronti di ogni comportamento morale dell’uomo: mentre in alcuni ciò aveva suscitato
un’adesione fin troppo entusiasta spinta fino al travisamento (cf. Rm 3,8), nella maggior parte dei romani
aveva suscitato un’opposizione molto netta (cf. Rm 16,17-18).
In ogni caso, la nostra lettera secondo le intenzioni del mittente avrebbe dovuto fungere da
auto-presentazione e da credenziale. L’estensione e il contenuto del testo epistolare pongono
però un problema di rilievo. Infatti, sapendo che la lettera è composta di ben 7.100
parole[1], è
inevitabile dedurne che non abbiamo a che fare con un elaborato qualsiasi. Se già il breve biglietto a
Filemone (di sole 335 parole) coniuga il caso personale dello schiavo Onesimo con la questione più
generale della schiavitù dal punto di vista cristiano, tanto più una lettera così ampia come
la nostra non è assolutamente riducibile a questioni di basso profilo.
In effetti, Paolo non ha scritto né soltanto per presentare la propria carta d’identità,
né soltanto per rintuzzare eventuali accuse, né soltanto per raccomandarsi al supporto dei romani e
tanto meno soltanto per condividere con loro un patrimonio ideale dato già per scontato. Nella
lettera, infatti, i toni amichevoli si trovano solo nella sua cornice (cioè: all’inizio in Rm
1,1-14; e alla fine in Rm 15,14-16,27); d’altra parte, l’allocuzione diretta ai destinatari con il
«voi» della seconda persona plurale, dagli effetti coinvolgenti, si trova raramente nel corpo del
testo (cf. Rm 1,8-15; 6,1-7,6; 8,9-11.13; 11,13); è invece più frequente nei capitoli dedicati
all’esortazione morale (Rm 12,1-15,13), di cui perciò intere sezioni molto importanti sono prive
(cf. Rm 1,18-5,21; 7,7-8,8.14-39; quasi interamente i cc. 9-11); la stessa interpellazione diretta dei
destinatari con l’appellativo di «fratelli», tenuto conto dell’estensione del discorso,
è ancora più rara (cf. Rm 7,1; 10,1; 11,25; 12,1; 15,14; 16,17).
Evidentemente Paolo ha intenzione di trattare delle questioni che vanno molto al di là della situazione
propria dei suoi lettori immediati e che investono le componenti fondamentali dell’identità
cristiana in quanto tale. La lettera perciò si avvicina al genere che oggi chiameremmo un
saggio. È come se Paolo, al punto in cui si trova della sua vita, volesse – una volta per tutte
– chiarire anche a se stesso che cosa significa in definitiva ciò che da anni andava annunciando in
giro per il mondo: si tratta di spiegare non tanto il contenuto dell’evangelo, che è già
chiaro per tutti (cioè: l’identità personale di Cristo come figlio di Dio e la sua
morte-risurrezione per i nostri peccati), quanto piuttosto come vada concepito l’impatto antropologico
di questo annuncio (cioè: che cosa significhi per l’uomo un evento del genere).
Questo, finora, non lo aveva ancora fatto; o meglio, lo aveva fatto solo parzialmente nella lettera ai
Galati. Ma là, come abbiamo accennato, il tono del discorso era molto polemico, motivato com’era
sia dall’attacco frontale infertogli da alcuni intrusi giudaizzanti, sia dal fatto che i destinatari della
lettera erano cristiani suscitati e quasi generati da lui (cf. Gal 4,19), il che gli permetteva di esprimersi con
una certa libertà di linguaggio (cf. Gal 1,6; 3,1; 5,12). La nostra lettera, invece, è
indirizzata a dei lettori che Paolo per lo più non conosce personalmente e con i quali perciò
è – per così dire – obbligato a impiegare toni di maggiore urbanità e comunque
pacati, pur senza rinunciare per nulla ai capisaldi del suo pensiero.
È questo dato contingente, insieme alle circostanze accennate più sopra, che gli offre
l’occasione di ripensare, ma anche lo induce a farlo, quale sia la portata dell’evangelo a
proposito di ciò che esso stimola e produce nell’uomo. Non che egli offra una sistematizzazione
del proprio pensiero. Paolo non era nato con la vocazione dello scrittore, e altrettanto egli non sa costruire la
propria argomentazione sulla base della ferrea logica aristotelica, benché provenga dalla diaspora di
lingua greca e non sia affatto digiuno delle regole che presiedono alla composizione di un discorso.
Anche dopo l’evento della strada di Damasco, la sua matrice semitico-ebraica è rimasta intatta, e
soprattutto è rimasto intatto il suo temperamento generoso e passionale, che lo portano
all’accumulazione dei concetti, all’iperbole, all’antitesi, e persino all’anacoluto,
con cui una frase viene interrotta per passare senza preavviso a un altro soggetto grammaticale (cf. Rm
2,18-20.21; 5,12; 8,3). D’altra parte, l’annuncio evangelico non è rinchiudibile negli schemi
della logica umana; esso non è dimostrabile, ma semmai persuasibile, e ciò del resto è
conforme all’antica arte retorica dei discorsi, che appunto tendeva non tanto a dimostrare quanto a
convincere[2]; e
ciò avviene servendosi di tecniche retorico-espositive particolari[3].
In effetti, si vede bene che il linguaggio di cui Paolo dispone dal punto di vista lessicale e sintattico non
è sufficiente a contenere il messaggio che deve trasmettere, e, viceversa, si percepisce altrettanto bene
che in ultima analisi l’annuncio evangelico e la riflessione su di esso eccedono enormemente le
possibilità di quel che è possibile dirne. C’è una sfasatura tra la parola e il
concetto e, se si eccettua il codice linguistico proprio dell’Apocalisse di Giovanni, solo Paolo (o
almeno Paolo più di altri) all’interno delle origini cristiane dimostra quanto sproporzionato sia il
rapporto tra il messaggio e il linguaggio. Il pensiero deborda lo scritto, il quale non è un argine
bastevole per incanalarne la forza straripante.
Il fatto è che Paolo non espone le cose didatticamente, come potrebbe fare un freddo cattedratico, che
separa la propria scienza dalla propria umanità. È ben diverso dire che due più due fanno
quattro e dire che in Gesù Cristo Dio ha amato tutti gli uomini, me compreso, fino a definirlo un
«Dio per noi» (Rm 8,31). Ecco, Paolo è coinvolto in ciò che dice e scrive,
perché ne va della vita e del senso che ad essa può derivarne dall’evangelo, sicché in
gioco non c’è solo una visione oggettiva delle cose, ma una profonda compromissione soggettiva ed
esistenziale.
Prima di incontrare personalmente i cristiani di Roma, dunque, Paolo espone loro il proprio pensiero sulla natura
e sulle implicanze dell’evangelo, così che essi sappiano bene che cosa pensa colui del quale
avrebbero dovuto poi fare la conoscenza.
L’Apostolo però sa che a Roma la fede cristiana è vissuta secondo un’interpretazione
che non è la sua. Ciò sarà significativamente confermato nel sec. IV dal primo
commentatore romano della lettera paolina, noto sotto lo pseudonimo di Ambrosiaster (vissuto al tempo di papa
Damaso, 366-384):
«I romani… pur non vedendo né segni né miracoli né alcuno degli apostoli,
avevano accolto la fede in Cristo sebbene in un senso falsato: infatti non avevano sentito annunciare il mistero
della croce di Cristo… L’Apostolo impiega tutte le sue energie per toglierli dalla legge,
perché «la legge e i profeti vanno fino a Giovanni», e per fissarli nella sola fede in Cristo
(in sola fide Christi), e quasi contro la legge difende il vangelo, non distruggendo la legge, ma
anteponendo il cristianesimo» (Prologo al suo commento).
Come si vede da questa testimonianza, che esprime l’autocoscienza propria della stessa Chiesa romana,
sono in gioco i grandi concetti di legge e di fede, tra i quali la croce di Cristo fa da
relais e nello stesso tempo da spartiacque. I cristiani di Roma, infatti, erano in
realtà pressoché tutti giudeo-cristiani, cioè facevano coesistere l’adesione a Cristo
con l’osservanza della Torà, sicché la morte di Cristo poteva significare al massimo
l’abolizione dei sacrifici templari (cf. Rm 3,25) ma non l’accantonamento dei vari precetti legali
(classificati successivamente dai rabbini in numero di 613)[4].
Da parte sua, invece, Paolo distingue nettamente i due termini: come accennato, egli aveva già
fatto questa operazione nella lettera ai Galati, ma ora riprende quella tematica e la sviluppa più
ampiamente. Perciò è assolutamente importante rendersi conto di come proceda l’esposizione
del suo pensiero e come esso vada a strutturare il quadro generale della lettera e segnatamente il suo corpo
centrale (cioè Rm 1,16-15,13)[5].
La prima, fondamentale osservazione riguarda l’organizzazione bipartita dell’intera
argomentazione. L’indizio più importante del passaggio da una parte espositiva a un’altra
è l’uso del verbo «esortare» in Rm 12,1, mai impiegato nelle pagine precedenti: con esso
Paolo passa decisamente a un discorso di genere morale, cioè alla richiesta di una condotta etica che
viene dettagliata fino a Rm 15,13 con ammonimenti vari, di carattere sia generale (incentrati comunque tutti
sulla necessità dell’agàpe/amore vicendevole) sia particolari (come il rapporto
all’esterno con le autorità politiche [Rm 13,1-7] e all’interno con coloro che, essendo deboli
nella fede, praticano astinenze da cibi e bevande [Rm 14,1-15,13]).
A questo indizio se ne aggiunge un altro complementare, quello della dossologia con cui si conclude la sezione
precedente in Rm 11,33-36: abbiamo qui una sorta di inno, che canta l’insondabilità della
sapienza di Dio e che per le sue movenze celebrative rappresenta l’apice di quanto esposto prima.
Perciò l’ultima sezione epistolare, che si apre con uno stacco ben marcato (Rm 12,1: «Vi
esorto, dunque, fratelli»), si presenta come una deduzione di comportamenti vissuti da intendersi come
conseguenza di tutto ciò che l’Apostolo ha precedentemente esposto da Rm 1,16 fino a Rm 11,36.
Ciò che appare sorprendente è il patente sbilanciamento quantitativo tra le due parti: ai 71
versetti di quest’ultimo segmento epistolare si oppongono i ben 300 del segmento precedente!
Se dunque la lettera si divide in due parti, risulta evidente che la prima è la più importante,
poiché è qui che si trovano i princìpi e le basi della condotta cristiana. Appare quindi
chiaro che a Paolo interessa di più (e non solo prima) fare un discorso sui fondamenti che non sulle sue
sovrastrutture, sulle radici che non sull’albero, sull’essere che non sull’agire, in una
parola sulle componenti pre-morali della condotta cristiana. Ecco, la lettera ai Romani ci insegna proprio
questo: a non anteporre il dover fare al dover essere. Paolo sa che, se si chiariscono bene gli elementi
portanti, allora la vita cristiana crescerà da sola producendo naturalmente frutti omogenei alle sue
premesse costitutive.
Ebbene, detto in breve, la sezione Rm 1,16-11,36 si può strutturare nel modo seguente.
Tutto si apre con un’enunciazione di principio, che definisce l’annuncio cristiano nei suoi
elementi formali (Rm 1,16-17).
Seguono tre ampie sotto-sezioni, che ricamano su questo tema e trattano rispettivamente:
Come si vede, il quadro è ampio e ricco. Non resta che immergervisi, sapendo che limitarsi a guardarlo ne pregiudica l’esatta comprensione, poiché ciascuno di noi ne fa comunque parte integrante.
[1] Negli epistolari antichi, solo la lettera settima di Platone è più estesa della nostra (con ca. 8.000 parole), mentre la più lunga tra quelle di Seneca a Lucilio (la n° 95) non arriva a 5.000 parole; cf. in merito R. Penna, «La questione della dispositio rhetorica nella lettera di Paolo ai Romani: confronto con la lettera 7 di Platone e la lettera 95 di Seneca», in Biblica 84 (2003) 61-88.
[2] Questi sono già i termini esplicitamente impiegati da Platone nella sua definizione (cf. Gorgia).
[3] Cf. R. Penna, Lettera ai Romani - I. Rm 1-5. Introduzione, versione, commento, EDB, Bologna 2004, 39-43, 60-65.
[4] Cf., per esempio, il Talmud babilonese, Makkôt 24a.
[5] A questo proposito tralasciamo di mettere in evidenza le sezioni cosiddette «di cornice» della lettera, cioè: il prescritto o protocollo (Rm 1,1-7), a cui corrispondono, al termine, come escatocollo, i saluti finali (Rm 16,1-27); e il ringraziamento post-protocollare (Rm 1,8-15), a cui corrisponde, al termine, una sezione di tono altrettanto colloquiale (Rm 15,14-32).