Riprendiamo sul nostro sito l'articolo che don Andrea Lonardo ha scritto il 13/6/2008 per la rubrica In cammino verso Gesù (la rubrica pubblica ogni due settimane un breve articolo di approfondimento sul Gesù storico e la rilevanza del suo vangelo) del sito Romasette di Avvenire
Il Centro culturale Gli scritti (14/6/2008)
«Mi ricordo della tua fede schietta, fede che fu prima nella tua nonna Lòide, poi in tua madre
Eunìce e ora, ne sono certo, anche in te» (2 Tim 1,5): le cosiddette lettere pastorali, cioè
le due lettere a Timoteo e la lettera a Tito, abitualmente indagate come documenti che permettono di cogliere lo
sviluppo del ministero nella chiesa, sono anche uno specchio di come i primi genitori cristiani vivessero
l’educazione delle nuove generazioni.
Le lettere a Timoteo parlano della terza generazione cristiana: Timoteo ha ricevuto la fede tramite la madre
Eunìce e costei, a sua volta, da Lòide che ora è nonna di Timoteo. Il Nuovo Testamento
è così testimone che, non appena si diventa cristiani, subito la fede viene trasmessa ai propri
figli e nipoti. Il piccolo Timoteo non deve attendere la sua età matura, ma fin da piccolo riceve
il dono di quei riferimenti e di quei valori che sono il tesoro prezioso di chi lo ha chiamato alla vita.
La seconda lettera aggiunge un particolare di questa precoce iniziazione alla fede: «Fin dall'infanzia
conosci le sacre Scritture: queste possono istruirti per la salvezza, che si ottiene per mezzo della fede in
Cristo Gesù» (2 Tim 3, 15). Il padre di Timoteo era pagano, la madre ebrea, ma non lo aveva
circonciso. Aveva, però, evidentemente accompagnato suo figlio, fin dalla tenera età, a conoscere
la rivelazione di Dio, secondo la più bella tradizione ebraica. Eunìce gli aveva fatto conoscere
non solo i libri dell’Antico Testamento, ma anche quel Gesù che era la chiave per comprendere quei
testi ed il loro più vero significato, poiché la salvezza promessa raggiungeva gli uomini per la
fede in lui.
Se le due lettere a Timoteo aprono uno squarcio sull’educazione dei figli, specularmente non parlano
astrattamente della condizione adulta, ma si rivolgono a mariti e mogli, a padri e madri, a vescovi e diaconi, a
famiglie e vedove. La teologia moderna ha formalizzato nel concetto dello “stato di vita” ciò
che è già evidente nella vita dei cristiani del Nuovo Testamento: se un giovane è tale
perché è ancora in ricerca della propria vocazione, l’adulto si caratterizza proprio per
quelle relazioni definitive che costituiscono la forma specifica del suo dono. Egli è adulto, proprio
perché è marito e padre, o perché è vescovo o diacono o ancora perché ha
accolto pienamente la condizione di vedovanza.
La definitività della vocazione non riguarda solo i presbiteri ed i diaconi, per i quali
l’autore raccomanda di non aver fretta ad imporre le mani, e nemmeno semplicemente coloro che sono stati
chiamati al matrimonio, ma addirittura è tratto essenziale di coloro che hanno subito la condizione
vedovile e sono ora chiamate a sceglierla o ad uscirne risposandosi: «Onora le vedove, quelle che sono
veramente vedove... Desidero che le più giovani si risposino, abbiano figli, governino la casa, per non
dare all’avversario nessun motivo di biasimo» (cfr. 1 Tim 4, 3-16).
L’odierna catechesi che sceglie di parlare sempre più di famiglia, piuttosto che semplicemente di
adulti, rispecchia proprio questa coscienza della centralità delle relazioni personali, delle scelte
che costituiscono la condizione tipica dell’adulto. Egli non educa solo perché si rivolge ai
più piccoli, ma anche e soprattutto perché vive con serena responsabilità la propria vita,
proponendosi così come modello e testimone.
La prima formazione ricevuta da Timoteo non è, però, sufficiente. Essa non può
mai essere semplicemente presupposta, proprio perché la persona è viva ed affronta situazioni
sempre nuove. «Ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l'imposizione delle mie mani.
Dio infatti non ci ha dato uno Spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza» (1 Tim 1, 6-7):
così afferma l’autore subito dopo aver parlato dell’educazione che Timoteo ha ricevuto dalla
nonna e dalla madre.
È una educazione che si deve misurare anche con la fatica della lettura e del pensiero -
«Fino al mio arrivo, dèdicati alla lettura» (1 Tim 4, 13), come, d’altro canto, a
Timoteo viene chiesto di farsi portatore dei libri necessari per Paolo: «Venendo, portami il mantello che
ho lasciato a Troade in casa di Carpo e anche i libri, soprattutto le pergamene» (2 Tim 4, 13).
Soprattutto, la conoscenza della affidabilità della rivelazione –«So a chi ho
creduto» (1 Tim 1, 12)- si è ormai tramutata nel dono che Timoteo fa di se stesso come testimone
della fede: «Soffri anche tu insieme con me per il vangelo, aiutato dalla forza di Dio» (2 Tim 1, 8).
Egli non è più come «coloro che stanno sempre lì ad imparare, senza riuscire mai a
giungere alla conoscenza della verità» (2Tim 3, 7), ma può ormai sentirsi dire da Paolo:
«Le cose che hai udito da me in presenza di molti testimoni, trasmettile a persone fidate, le quali siano
in grado di ammaestrare a loro volta anche altri» (2 Tim 2, 2).
Per questo una vera educazione non si rivolge semplicemente alla persona stessa, ma la apre a vivere pienamente
nel mondo per poter condividere con ciascuno i doni ricevuti da Dio. Timoteo è così invitato ad
avere sempre presenti tutti nel suo sguardo e nella sua preghiera -«Ti raccomando dunque, prima di
tutto, che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini, per i re e per tutti
quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta
pietà e dignità. Questa è una cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il
quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità. Uno solo, infatti,
è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l'uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in
riscatto per tutti» (1 Tim 2, 1-6). Per Timoteo, come vescovo, valgono le raccomandazioni ad essere
ospitale, capace di insegnare, benevolo, non litigioso (1 Tim, 3, 2-3); infatti «è necessario che
[il vescovo] goda buona reputazione presso quelli di fuori, per non cadere in discredito e in qualche laccio del
diavolo» (1 Tim 3, 7).
La critica moderna si è spesso domandato chi sia l’autore delle pastorali, poiché esse
utilizzano un linguaggio differente dalle lettere sicuramente autentiche di Paolo, ma, d’altro canto, sono
piene di riferimenti a fatti che possono provenire solo da un intimo conoscitore dell’apostolo. Una
proposta recente del prof.Giancarlo Biguzzi ipotizza, con buona probabilità, che l’autore possa
essere lo stesso Timoteo che avrebbe fuso insieme - da qui la non piena organicità della disposizione
finale delle lettere - i suoi ricordi dell’apostolo, i cosiddetti personalia contenuti nelle lettere
pastorali.
Per altri articoli e studi di d.Andrea Lonardo o sulle lettere di S.Paolo presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici