Pubblichiamo un articolo scritto da Andrea Lonardo per la rubrica “Paolo a Roma” del sito www.romasette.it
Il Centro culturale Gli scritti (3/12/2008)
«I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili» (Rm 11,29). Questa famosa affermazione con la
quale S. Paolo spiegava ai Romani che l’amore di Dio per il popolo ebraico non era cessato fu fatta propria
dal papa Giovanni Paolo II che la ripeté nella sua storica visita alla sinagoga di Roma il 13
aprile 1986.
L’apostolo testimonia la sua convinzione che il disegno di Dio sia unico, che una sia la storia della
salvezza e che l’alleanza con Israele non sia semplicemente superata e pertanto da dimenticare. Anzi
proprio nei primi versetti della lettera Paolo afferma che il vangelo che egli annunzia era stato promesso da Dio
«per mezzo dei suoi profeti nelle Sacre Scritture» (Rm 1,2).
Paolo si sente in diritto di fornire la giusta interpretazione dell’Antico Testamento. Esso gli appartiene,
non gli è estraneo. È netta e chiara in lui, al punto che non sente nemmeno la necessità di
fornirne una dimostrazione, la convinzione che la Sacra Scrittura è una unità e che essa ha in
Cristo la sua chiave di lettura.
L’idea di un Canone delle Scritture si basa proprio sulla fede nell’unico Dio che si è
rivelato ai patriarchi, ai profeti ed, infine, pienamente in Cristo. Non è solo la fede successiva della
Chiesa nei secoli a cogliere questa unità; essa è piuttosto il punto di partenza manifesto
all’interno della stessa Sacra Scrittura.
Nella Premessa al suo Gesù di Nazaret l’attuale pontefice ha affermato acutamente che
tale unità della Scrittura «è un dato teologico che non è, tuttavia, attribuito solo
dall’esterno a un insieme in sé eterogeneo di scritti. L’esegesi moderna ha mostrato come le
parole trasmesse nella Bibbia divengano Scrittura attraverso un processo di sempre nuove riletture: i
testi antichi, in una situazione nuova, vengono ripresi, compresi e letti in modo nuovo».
Si pensi a come Paolo rilegge nel capitolo quinto della lettera ai Romani le parole di Genesi 3, relative al
peccato di Adamo. Veramente il peccato di quell’unico progenitore ha segnato tutte le generazioni a venire,
ma ancor più la grazia donata dall’unico Cristo si estende ad ogni uomo. Non è così S.
Agostino o il dogma della Chiesa ad inventare la grazia e la sua necessità dinanzi al male presente nel
cuore umano a partire da quella prima caduta, ma è il Nuovo Testamento stesso a rileggere in
profondità l’Antico, manifestandone in pienezza il senso.
Qual è allora il motivo che sta a fondamento di questa continua rilettura che la Scrittura fa di se
stessa, raggiungendo il suo culmine nella manifestazione di Cristo che permette di vedere in una luce più
ricca tutto l’Antico Testamento? Esso consiste non solo nella fede nell’unico Dio, ma anche nel fatto
che «il popolo di Dio - la Chiesa - è il soggetto vivo della Scrittura; in esso le parole della
Bibbia sono sempre presenza» (così ancora nel Gesù di Nazaret). Paolo rilegge con
assoluta naturalezza i libri dell’Antico Testamento, perché si sente parte di quell’unico
popolo che Dio ha guidato fin dalle origini ed al quale ora ha inviato il Cristo.
La novità del cristianesimo non rompeva così il legame con la storia sacra che lo precedeva. Ma
già nel II secolo si avvertì la tentazione di spezzare questa unità. Marcione fu il
capostipite di quella che si manifesterà come una perenne provocazione che la comunità cristiana
sarà chiamata a respingere. Egli, venuto a Roma dal Ponto, fu espulso dalla Chiesa nel 144 d.C.
proprio per questo motivo: talmente affascinato dal vangelo della grazia, giunse a ritenere che l’Antico
Testamento era opera di un dio diverso dal Dio di Gesù Cristo e, perciò, da rifiutare. Marcione si
fondò sulle lettere paoline e sul loro annunzio di grazia, ma non si avvide che proprio Paolo,
conformemente a tutta la tradizione apostolica, difendeva invece la relazione esistente fra il Cristo e la
Scrittura che lo aveva preannunziato.
Anche la teologia e l’esegesi moderne si trovano a dover sempre di nuovo affrontare la sfida di chi vuole
contrapporre Cristo all’Antico Testamento. Confrontandosi a viso aperto con questa grande questione
così scrisse, con parole densissime, il grande teologo francese Henri de Lubac nella sua riflessione sulla
perenne attualità dell’esegesi medioevale: «In Cristo, i verba multa (le molte parole)
degli scrittori biblici diventano per sempre Verbum unum (l’unica Parola). Senza di Lui, invece,
il legame si scioglie: di nuovo la parola di Dio si riduce a frammenti di “parole umane”; parole
molteplici, non soltanto numerose, ma molteplici per essenza e senza unità possibile, perché, come
constata Ugo di San Vittore, multi sunt sermones hominis, quia cor hominis unum non est (numerose sono le
parole dell’uomo, perché il cuore dell’uomo non è uno)».