Non è stato Paolo a cambiare il cristianesimo, ma Gesù a cambiare Paolo
di Andrea Lonardo


“Ultimo fra tutti Cristo risorto apparve anche a me come a un aborto” (1 Cor 15, 8). Paolo descrive qui se stesso, prima della conversione sulla via di Damasco, come una vita non nata, come un’esistenza non giunta alla gioia della nascita. Egli ha cominciato a vivere solo dopo l’incontro con il Signore.

Chi è stato veramente Paolo e qual è la radice ultima che lo portò alla decisione di arrivare a Roma e di giungere fino al martirio nell’urbe? Per chi vorrebbe, snaturando gli scritti neotestamentari, che Cristo sia stato solo un rabbino fra i tanti maestri del suo tempo, non resta che affermare che Paolo è il secondo fondatore del cristianesimo o ne è addirittura l’iniziatore stesso, colui che ha ellenizzato il cristianesimo, colui che ha portato a tutti – contro le stesse intenzioni di Gesù, a loro dire – il messaggio del rabbì di Galilea.

Secondo altri egli avrebbe, invece, giudaizzato il cristianesimo, reinserendo in esso gli elementi liturgici e ministeriali dei quali un Gesù in versione liberale avrebbe fatto piazza pulita in episodi come la cacciata dei mercanti del Tempio (il tutto sostenuto con un’esegesi a dir poco approssimativa di quel passo). Altri ancora, invece, sulla scia di una certa interpretazione della Riforma, lo vedrebbero come l’unico vero interprete di Gesù, a motivo dell’accentuazione paolina dei temi della grazia e della misericordia che renderebbero superflua – a loro dire – ogni esigenza morale del cristianesimo.

La testimonianza stessa di Paolo indica, invece, con precisione una via totalmente differente: non è stato l’apostolo a trasformare il Signore, ma è stato Gesù a cambiare Paolo! Egli che non aveva mai vissuto, ha trovato la vita sulla via di Damasco.

La cecità fisica, sperimentata da Paolo in quell’occasione, ha un suo corrispettivo interiore nell’accorgersi in quel giorno di non aver mai visto niente nel giusto modo. È solo l’incontro con la chiesa, l’invio a lui di Anania ed il dono sacramentale del battesimo, a far sì che egli cominci a vedere, che egli abbia la vista.

Il cavallo che la tradizione iconografica ha voluto aggiungere al racconto degli Atti non è in dissonanza con questo, ma rappresenta in maniera straordinaria e vera l’accaduto a partire dal simbolo. L’elegante e possente animale è sempre stato immagine di potenza. Gli imperatori, i re, i nobili, hanno sempre voluto essere rappresentati in sella – si pensi solo al Marco Aurelio del Campidoglio – a manifestare la loro autorità. Caravaggio e Michelangelo a Roma, insieme a tanti altri prima e dopo di loro, hanno voluto sottolineare il rovesciamento dei valori avvenuto nell’esistenza di Paolo in quel giorno. Cristo lo aveva disarcionato, smontato dalla sua sicurezza. Gli aveva rivelato il suo essere ‘come un aborto’.

Questo non significa dimenticare i tratti ebraici o greci di Paolo, ma tutto, in quel giorno, assunse un diverso significato. Paolo era ancora ebreo, Paolo era ancora greco e romano. Ma Paolo era divenuto cristiano.

Vengono qui in mente le famose espressioni di G. K. Chesterton quando scriveva che l’eresia non è necessariamente una affermazione falsa, ma più spesso è una verità che dimentica tutte le altre verità. E continuava sostenendo che il cattolicesimo è l’unico luogo dove tutte le verità si danno appuntamento. Ha senso parlare di un Paolo ebreo, di un Paolo che conosce a menadito le Scritture, è lecito parlare di un Paolo impregnato di cultura ellenistico-romana, pensando ad episodi come la discussione avvenuta all’Areopago di Atene o ancora all’uso della Bibbia nella sua versione greca elaborata dai rabbini di Alessandria d’Egitto. Ma l’evento che è la chiave di volta per capire l’uno e l’altro è ormai il suo rapporto con il Signore Gesù, è l’incontro sulla via di Damasco.

È così importante quella svolta nella vita di Paolo che Luca, negli Atti, la descriverà ben tre volte (At 9, 1-18; 22, 1-21; 26, 2-23). Paolo stesso nel suo epistolario vi farà continuamente riferimento (1 Cor 9, 1; 1 Cor 15, 8; 2 Cor 4, 6; Gal 1, 11-16; Fil 3, 7-14; Ef 3, 1-12; 1 Tim 1, 11b-17). Se Paolo fu per nascita ebreo e romano, formato nella tradizione ebraica e nella cultura greca, ciò che lo segnò in maniera radicale fu il suo diventare cristiano.

Quel giorno nacque in lui la vocazione che lo spinse poi fino a Roma. Come gli disse sulla via di Damasco il Signore: «Va’, perché io ti manderò lontano, tra i pagani» (At 22, 21).


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