Riprendiamo da L’Osservatore romano del 23/4/2008 l’articolo di Carlo Carletti che portava il
titolo originale “Epigrafi funerarie e speranza cristiana: una riflessione in margine alla ‘Spe
salvi. Scrivere la morte non è mai per disperazione”.
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Il Centro culturale Gli scritti (26/4/2008)
Spessore e profondità di un testo letterario si misurano anche per le suggestioni, le analogie, i
collegamenti, i parallelismi, gli approfondimenti concettuali e formali, che esso suscita. È la sensazione
immediata che si riceve dalla lettura dell'enciclica Spe salvi di Benedetto XVI. La "deformazione
professionale" di chi scrive, non ha potuto non cogliere già nelle pagine iniziali dell'enciclica una
prima suggestione: la citazione - forse inaspettata in un documento pontificio e perciò stimolante
- di una iscrizione pagana.
Benedetto XVI la richiama per dare spessore storico, attraverso la materialità di un documento
scritto sulla pietra, alla realtà "senza speranza e senza Dio nel mondo" (Efesini, 2, 12) evocata
da Paolo in riferimento alla condizione degli Efesini prima della conversione. E in effetti quella riflessa
nell'epitaffio romano citato da Benedetto XVI (Corpus Inscriptionum Latinarum, CIL, VI 26003) è
appunto la negazione di ogni speranza. Col tradizionale espediente dell'appello al passante, l'iscrizione invita
il lettore a sostare e meditare: "rifletti tu che leggi" - respice lector - "nulla siamo e fummo mortali"
- nil sumus et fuimus mortales - "quanto prima dal nulla ricadiamo nel nulla" - in nihil ab nihilo quam
cito recidimus: un pessimismo radicale, mutuato dalla vulgata epicurea, che trovò discreta fortuna nel
formulario epigrafico, come si legge nell'iscrizione posta da due genitori che, in seguito alla morte prematura
del proprio figlio, ripropongono la cruda formula "dal nulla al nulla, non vide nulla di buono", attenuata
però, alla fine, dalla espressione tutta umana dettata dal fratello del piccolo defunto: "per noi
continuerai a vivere" - et frater dixit tu nobis vibes - (CIL, VI 29884).
Formule "nihiliste" che, propagandosi nel tempo, penetrano anche nelle iscrizioni cristiane, non tanto come
consapevole enunciazione di una concezione esistenziale priva di speranza, quanto piuttosto come risposta
immediata, tutta antropologica, alla irruzione traumatica dell'evento morte. E perciò non sorprende che
nell'iscrizione di una Filomena, deposta nel cimitero di Calepodio sulla via Aurelia, la cupa affermazione
"non fummo e fummo; non siamo, non desideriamo; fin qui - cioè nel cimitero - siamo stati condotti"
conviva, in antitetico parallelismo, con l'acclamazione finale “te in pace” (Inscriptiones
Christianae Urbis Romae, ICUR, II, 4334).
Nel solco di questa prospettiva si collocano due tarde iscrizioni romane che, quasi in funzione di illusoria
consolazione, ripropongono la concezione dell'esistenza umana come breve intervallo tra due periodi di
non-esistenza. Nella prima, risalente all'anno 426, un anonimo defunto, parlando in prima persona, tramanda ai
superstiti: "Non fui, sono ciò che fui! La natura si è ripreso ciò che aveva
concesso", (ICUR, V, 13393 ); nell'altra il levita (cioè diacono) Dionysius, colpito nel profondo
dalla perdita della giovane moglie Rhodine, lamenta: "Ahimè! qui giace la gran parte di me. Ahimè
nel triste giaciglio - triste cubile, cioè il sepolcro - tu, o Rhodine, ora senza luce, giaci senza di
me", per poi concludere amaramente: "ritornò nella pace eterna, donde era venuta" - aeternam in
pacem, unde erat, et venit (ICUR, VII, 19255).
Ci si potrebbe ora chiedere se nell'epigrafia cristiana vi siano esplicite e compiute attestazioni relative alla
dimensione della speranza, così come enunciata nella pagine della enciclica Spe salvi o quantomeno
ad essa assimilabili in termini formali e sostanziali. La risposta è sicuramente affermativa, ma forse
deludente se si tiene conto che queste testimonianze, sempre inserite in contesti relativi al tema centrale della
resurrezione, risultano quantitativamente esigue - un centinaio su un insieme di circa settantamila
iscrizioni - e per di più concentrate in prodotti epigrafici destinati pressoché
esclusivamente agli ecclesiastici, ai consacrati, alle persone al servizio della chiesa istituzionale. Sono
testi in definitiva concepiti e realizzati in un ambiente in cui presumibilmente vi era naturale consuetudine con
le Scritture oltre che disponibilità di strumenti culturali idonei per inserire in un tessuto epigrafico
la sintesi di principi dogmatici, talvolta complessi nella loro stessa enunciazione.
Tra le iscrizioni più antiche e più compiutamente definite, si impone l'epitaffio in versi dedicato
al presbitero Tigrino sepolto al tempo di Leone I (440 - 461) in un cimitero della via Latina (ICUR, VI, 15842).
Alla accettazione di quanto prefissato dalla natura - praefixo moriens naturae munere functus - Tigrino, che
parla in prima persona, fa seguire l'esplicita dichiarazione dell'attesa di una realtà escatologica: "per
la mia sorte ultima non ho timore alcuno, unica speranza per me di salvezza è infatti Cristo, sotto la
cui guida la morte muore" - pono metum de fine meo, spes una salutis, nam mihi fit Christus, quo duce mors
moritur - e qui non sfuggirà l'espressiva "figura etimologica" mors moritur.
Questa proiezione della speranza ultima in Cristo era già stata sviluppata da Papa Damaso (366-384) nel
suo epitaffio che - prudentemente - pensò bene di non delegare ad altri scrivendolo quand'era ancora in
vita (ICUR, 12418). A sostegno e conforto della sua aspettativa, Damaso richiama tre passi del Nuovo Testamento:
la resurrezione di Lazzaro (Giovanni, 11, 1-44), Gesù che cammina sulle acque (Matteo, 14, 25-26), il
loghion del seme che muore per rinascere (Giovanni, 12, 24-25): "Colui che camminando calcò gli
amari flutti del mare; colui che restituisce vita ai semi della terra destinati alla morte; colui che ebbe il
potere di sciogliere i lacci letali della morte e, dopo tre giorni, restituire vivo il fratello alla sorella
Marta, dalle ceneri - credo - farà risorgere Damaso".
In questa stessa direzione, nell'iscrizione di Silvius, ecclesiae sanctae minister, morto ad Olmedo (Sardegna)
nel sesto secolo, la risurrezione è richiamata ricorrendo al passo di Giobbe (19, 25) nel quale
è prefigurata la resurrezione della carne: "egli aspetta che, per opera di Cristo - Christi ope - la sua
carne possa di nuovo - rursus - tornare in vita nell'attesa di vedere le gioie della nuova luce e il regno".
Il richiamo a Giobbe, quasi in termini di citazione, ritorna anche in un epitaffio di Cordova dedicato alla
famula dei Iusta: "credo che il mio Redentore viva e nell'ultimo giorno - novissimo die - dalla
terra resusciterà la mia pelle, e ripresa la mia carne potrò vedere il Signore" (Inscriptiones
Latinae Christianae Veteres, 2399).
Il giorno del giudizio è poi evocato dal romano arcidiacono Sabino che, con allusione ad un passo di san
Paolo (1 Corinzi, 15, 51), richiama lo squillo della tromba celeste per l'annuncio del novissimus dies, al
quale - dice Sabino - "sono certo di essere subito presente" (ICUR, VII, 18017).
Con esplicita ripresa di un passo dell'Apocalisse (20, 5-6), Alessandro, vescovo di Tipasa, amator
pauperum, aelemosine deditus, attende fiducioso la futura resurrezione quando potrà congiungersi con i
santi già in possesso del regno celeste - resurrectionem expectans futuram de mortuis primam, consors ut
fiat sanctis in possessione regni caelestis (CIL VIII 20905).
Vi è poi la testimonianza, finora unica, di una iscrizione romana del quarto secolo dove si menziona
espressamente la securitas, la salvezza acquisita, la soluzione della spes: "O Attico, dormi in pace, sicuro
della tua salvezza e prega sollecito per i nostri peccati" (ICUR, I 1283); e su un medesimo piano concettuale si
pone l'epitaffio di Gentianus fidelis-cioèbattezzato - che nella sua "scrittura ultima" viene presentato
comegiàinpossessodella salvezza: "nelle tue orazioni pregherai per noi, perché ti sappiamo in
Cristo - quia scimus te in Christo (ICUR, VIII, 22480).
Nel corso dei secoli quinto e sesto i due complementari termini-chiave spes e resurrectio si
cristallizzano in veri e propri moduli formulari che avranno una qualche diffusione per lo più nell'ambito
degli appartenenti alla chiesa istituzionale. Ad Aosta Engebaude, femina religiosa, è sepolta "nella
speranza della resurrezione e della vita eterna"(CIL,XII, 2422); Matrona a Vienne riposa "nella speranza della
resurrezione e della misericordia" e a Cesarea di Mauritania un anonimo defunto attende la resurrezione della
carne nel sonno della pace (CIL, VIII, 9594).
La esiguità e la selettività delle testimonianze finora ricordate, sul piano della ricostruzione
storica, non consentono evidentemente di trarre conclusione di ordine generale sulla densità e i -
diversi? - livelli di accoglienza e maturazione delle comunità cristiane nei secoli quinto e sesto nei
riguardi del tema della speranza. Si propongono, però, nella materialità del documento epigrafico,
come non trascurabile valore aggiunto per seguire attraverso i secoli dell'antichità cristiana il reale
sentire, talvolta emotivo, di un "vissuto cristiano", non sempre sincronico e perfettamente coincidente con il
"prescritto cristiano".
L'enciclica pontificia riserva largo spazio al carattere comunitario della speranza come specifico
intrinsecamente cristiano. Benedetto XVI affronta l'argomento con un taglio problematico, tipico della struttura
mentale di uno studioso, ponendo inizialmente un interrogativo non retorico: "La speranza cristiana è
individualistica?". Per una prima risposta viene richiamata la conclusione di una grande teologo moderno,
Henri de Lubac, che "sulla base della teologia dei Padri, poté mostrare che la salvezza è stata
sempre considerata come una realtà comunitaria" (Spe salvi, 14).
A sostegno di questa affermazione è frequente nell'enciclica il riferimento alla realtà della
Chiesa primitiva che, non a caso, con la sua documentazione epigrafica, sembra riproporci ancora una volta
l'immagine non sfuocata di una realtà vissuta. Al terzo secolo risalgono circa un migliaio di
iscrizioni, le prime in senso assoluto sicuramente attribuibili a committenza cristiana, che iniziarono ad essere
prodotte a Roma nel corso e all'indomani di un trentennio giudicato "di importanza decisiva nella storia
della chiesa di Roma per le profonde trasformazioni che essa subì in questi anni, assumendo specifici
caratteri che fisseranno la sua fisionomia per lungo tempo a venire" (Simonetti): è l'epoca dei
pontificati di Vittore (189-199), Zefirino (199-217), Callisto (218-222).
Manifestazione paradigmatica e nel contempo propulsiva di questi mutamenti è senz'altro l'ascesa alla
cattedra episcopale dell'ex schiavo e banchiere Callisto, in seguito alla sconfitta del suo avversario,
l'ancora anonimo presbitero autore dell'Elenchos, vulgato come Ippolito. In questa vicenda un grande
storico dell'antichità (Mazzarino) colse l'emergenza di un fattore profondamente "innovativo", non
soltanto nei riguardi degli assetti sociali del tempo, ma anche nei confronti delle dinamiche e dei
particolarismi interecclesiali.
I testimoni materialmente percepibili di queste innovazioni, tuttora visibili, sono soprattutto le iscrizioni
delle catacombe che, nella forma e nei contenuti, si propongono in netta controtendenza rispetto alla coeva
prassi romana: vi predomina una struttura testuale minimale, che prevede solo il ricordo del nome del defunto,
talvolta accompagnato da una formula irenica - pax, pax tibi, pax tecum, in pace e i corrispettivi greci - e
arricchito da un semplice apparato figurativo costituito per lo più da elementi vegetali o dalle immagini
del pesce, dell'àncora, della colomba. Tra i moltissimi esempi: Caelestina pax (ICUR, IX, 25046), pax
tecum Filumena (ICUR, VIII, 23243), pax tecum Valeria (ICUR, IX, 25570), Roufina eirene (ICUR, IV, 9499) o, in
forma ancora più ridotta, Esperos (ICUR, IV, 9484), Urbica (ICUR, IV, 9453), Faustinianum (ICUR, IV,
9399).
Le ragioni che ispirarono questa modalità di "scrivere la morte" non sono frutto del caso né
possono attribuirsi - come pure è stato infelicemente insinuato - a fattori di ordine tecnico-esecutivo,
ma vanno ricercate nei nuovi indirizzi ecclesiali e pastorali maturati nella Chiesa di Roma tra la fine del
secondo e l'inizio del terzo secolo. In questo orizzonte le "scritture ultime" pur continuando, come da
tradizione, ad identificare e commemorare il defunto nella sua individualità, con l'assenza
programmatica della menzione dei "dati retrospettivi" - quelli relativi alla vita terrena - formalmente e
concettualmente cancellano qualsiasi elemento di distinzione. Al di là dei rapporti di
consanguineità, i fedeli sono tra loro fratres ed è appunto con tale termine che talvolta si
autodefiniscono nelle iscrizioni del terzo secolo: "Leonzio pace dai (tuoi) fratelli. Addio" (ICUR, IX, 25319) o,
in maniera più articolata, nella più antica iscrizione latina in versi - fine terzo secolo: "vi
chiedo, fratelli, quando venite qui - nel cimitero - per pregare e in tutte le vostre preghiere invocate il Padre
e il Figlio, ricordatevi della cara Agape" (ICUR, IX, 25962).
La comunità romana, che aveva formalizzato questo stile epigrafico è quella che sul piano
concettuale e comportamentale - come dice Peter Brown - "stava saltando il fosso delle convenzioni
consolidate". Callisto veniva infatti accusato di deviazionismo e lassismo per guadagnare alla sua causa il
consenso popolare con l'accoglienza di coloro che provenivano da gruppi scismatici ed eretici, con la
misericordia nei riguardi dei peccatori postbattesimali, con il concedere consenso e legittimità alle
unioni tra soggetti di diverso ceto che la legge civile non riconosceva.
Il nuovo impianto ecclesiale è presentato e sostenuto da Callisto con il richiamo di luoghi della
Scrittura: dalla proposizione dell'esclamazione di Paolo "tu chi sei per giudicare" (Romani, 14, 4) rivolta al
suo antagonista; alla ripresa della parabola della zizzania applicata alla necessità di non espellere i
peccatori dalla chiesa (Matteo, 13, 29); alla riproposizione dell'immagine dell'arca di Noè "nella quale
cani, lupi, corvi e tutte le altre bestie pure e impure erano comprese e bisognava che la stessa cosa accadesse
nella Chiesa": una chiesa, quella di Callisto, non dell'apotaxìa, del distacco dal
mondo, ma dell'agàpe, della comunione aperta, che si contrapponeva al progetto
delineato dal suo antagonista, il presbitero Ippolito, che prevedeva intransigenza, chiusura, severità di
giudizio, selezione: in definitiva una chiesa d'élite.
Alla base di questo modello ecclesiale, cui Santo Mazzarino riconosce un ruolo importante nel processo della
democratizzazione della cultura agli albori della tarda antichità, non è difficile cogliere il
diretto influsso della concezione paolina "non c'è più giudeo né greco, non c'è
più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi
siete uno in Cristo Gesù" (Galati, 3, 28). È lo sfondo concettuale che alimenta e dà un
senso alla più antica prassi epigrafica dei cristiani, che proprio nel cimitero di san Callisto aveva
trovato le sue più antiche e significative testimonianze. La memoria epigrafica che tradizionalmente era
servita a tramandare virtutes e res gestae, individuali e gentilizie, diviene ora immagine di realtà e
prospettive affatto diverse, che senza eccezioni di rango, sono partecipate dall'intera comunità.
È il modello che, nella sua radicale applicazione, contrassegna anche la memoria funeraria dei vescovi
della chiesa romana dal 235 al 283: di Antero, Ponziano, Fabiano, Cornelio, Lucio, Eutichiano, Gaio.
Questo stile epigrafico non superò lo spazio di un secolo. Con l'avvento dell'era costantiniana
nell'iscrizione funeraria dei cristiani rientrano massicciamente gli elementi che erano stati
programmaticamente esclusi nel secolo precedente: si riconsegnano alla posterità le storie vissute dei
singoli e delle famiglie, le "speranze terrene", raggiunte o frustrate che esse fossero. "Della speranza che
va oltre" (Spe salvi, 30) sembra per lo più rimanere un'immagine sbiadita, spesso solo surrogata dai segni
dell'appartenenza, che contrassegnano a migliaia e migliaia le tombe delle masse dei nuovi convertiti o, forse
meglio, dei nuovi aderenti.
(© L'Osservatore Romano - 25 aprile 2008)