Presentiamo on-line sul nostro sito il discorso di Benedetto XVI tenuto il 12 settembre 2008 presso il Collège des Bernardins di Parigi alla presenza di settecento rappresentanti del mondo della cultura francese, responsabili dell'Unesco, dell'Unione europea e esponenti delle comunità musulmane. I neretti sono nostri ed hanno l’unica finalità di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (14/9/2008)
[...] Vorrei parlarvi stasera delle origini della teologia occidentale e delle radici della cultura
europea. Ho ricordato all'inizio che il luogo in cui ci troviamo è in qualche modo emblematico.
È infatti legato alla cultura monastica, giacché qui hanno vissuto giovani monaci, impegnati ad
introdursi in una comprensione più profonda della loro chiamata e a vivere meglio la loro missione.
È questa un'esperienza che interessa ancora noi oggi, o vi incontriamo soltanto un mondo ormai passato?
Per rispondere, dobbiamo riflettere un momento sulla natura dello stesso monachesimo occidentale. Di che cosa si
trattava allora? In base alla storia degli effetti del monachesimo possiamo dire che, nel grande sconvolgimento
culturale prodotto dalla migrazione di popoli e dai nuovi ordini statali che stavano formandosi, i monasteri
erano i luoghi in cui sopravvivevano i tesori della vecchia cultura e dove, in riferimento
adessi,venivaformatapasso passo una nuova cultura.
Ma come avveniva questo? Quale era la motivazione delle persone che in questi luoghi si riunivano? Che intenzioni
avevano? Come hanno vissuto?
Innanzitutto e per prima cosa si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura
e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più elementare. Il loro
obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio.
Nella confusione dei tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi
per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca di Dio. Dalle
cose secondarie volevano passare a quelle essenziali, a ciò che, solo, è veramente importante e
affidabile. Si dice che erano orientati in modo "escatologico". Ma ciò non è da intendere in
senso cronologico, come se guardassero verso la fine del mondo o verso la propria morte, ma in un senso
esistenziale: dietro le cose provvisorie cercavano il definitivo.
Quaerere Deum: poiché erano cristiani, questa non era una spedizione in un deserto senza strade,
una ricerca verso il buio assoluto. Dio stesso aveva piantato delle segnalazioni di percorso, anzi, aveva
spianato una via, e il compito consisteva nel trovarla e seguirla. Questa via era la sua Parola che, nei libri
delle Sacre Scritture, era aperta davanti agli uomini.
La ricerca di Dio richiede quindi per intrinseca esigenza una cultura della parola o, come si esprime Jean
Leclercq: nel monachesimo occidentale, escatologia e grammatica sono interiormente connesse l'una con
l'altra (cfr. L'amour des lettres et le desir de Dieu, p. 14). Il desiderio di Dio, le désir
de Dieu, include l'amour des lettres, l'amore per la parola, il penetrare in tutte le sue
dimensioni.
Poiché nella Parola biblica Dio è in cammino verso di noi e noi verso di Lui, bisogna imparare a
penetrare nel segreto della lingua, a comprenderla nella sua struttura e nel suo modo di esprimersi. Così,
proprio a causa della ricerca di Dio, diventano importanti le scienze profane che ci indicano le vie verso la
lingua. Poiché la ricerca di Dio esigeva la cultura della parola, fa parte del monastero la
biblioteca che indica le vie verso la parola. Per lo stesso motivo ne fa parte anche la scuola, nella quale
le vie vengono aperte concretamente. Benedetto chiama il monastero una dominici servitii schola. Il
monastero serve alla eruditio, alla formazione e all'erudizione dell'uomo - una formazione con
l'obbiettivo ultimo che l'uomo impari a servire Dio. Ma questo comporta proprio anche la formazione della
ragione, l'erudizione, in base alla quale l'uomo impara a percepire, in mezzo alle parole, la Parola.
Per avere la piena visione della cultura della parola, che appartiene all'essenza della ricerca di Dio, dobbiamo
fare un altro passo. La Parola che apre la via della ricerca di Dio ed è essa stessa questa via, è
una Parola che riguarda la comunità. Certo, essa trafigge il cuore di ciascun singolo (cfr. At 2,
37). Gregorio Magno descrive questo come una fitta improvvisa che squarcia la nostra anima sonnolenta e ci
sveglia rendendoci attenti per la realtà essenziale, per Dio (cfr. Leclercq, ibid., p. 35). Ma così
ci rende attenti anche gli uni per gli altri. La Parola non conduce a una via solo individuale di
un'immersione mistica, ma introduce nella comunione con quanti camminano nella fede. E per questo bisogna non
solo riflettere sulla Parola, ma anche leggerla in modo giusto. Come nella scuola rabbinica, così anche
tra i monaci il leggere stesso compiuto dal singolo è al contempo un atto corporeo. "Se, tuttavia,
legere e lectio vengono usati senza un attributo esplicativo, indicano per lo più
un'attività che, come il cantare e lo scrivere, comprende l'intero corpo e l'intero spirito", dice
alriguardo Jean Leclercq (ibid., p. 21).
E ancora c'è da fare un altro passo. La Parola di Dio introduce noi stessi nel colloquio con Dio. Il Dio
che parla nella Bibbia ci insegna come noi possiamo parlare con Lui. Specialmente nel Libro dei Salmi Egli ci
dà le parole con cui possiamo rivolgerci a Lui, portare la nostra vita con i suoi alti e bassi nel
colloquio davanti a Lui, trasformando così la vita stessa in un movimento verso di Lui.
I Salmi contengono ripetutamente delle istruzioni anche sul come devono essere cantati ed accompagnati con
strumenti musicali. Per pregare in base alla Parola di Dio il solo pronunciare non basta, esso richiede la
musica. Due canti della liturgia cristiana derivano da testi biblici che li pongono sulle labbra degli Angeli: il
Gloria, che è cantato dagli Angeli alla nascita di Gesù, e il Sanctus, che secondo Isaia 6 è
l'acclamazione dei Serafini che stanno nell'immediata vicinanza di Dio.
Alla luce di ciò la Liturgia cristiana è invito a cantare insieme agli Angeli e a portare
così la parola alla sua destinazione più alta. Sentiamo in questo contesto ancora una volta Jean
Leclercq: "I monaci dovevano trovare delle melodie che traducevano in suoni l'adesione dell'uomo redento ai
misteri che egli celebra. I pochi capitelli di Cluny, che si sono conservati fino ai nostri giorni, mostrano
così i simboli cristologici dei singoli toni" (cfr. ibid. p. 229).
In Benedetto, per la preghiera e per il canto dei monaci vale come regola determinante la parola del Salmo:
Coram angelis psallam Tibi, Domine - davanti agliAngelivoglio cantare a Te, Signore (cfr. 138, 1). Qui si
esprime la consapevolezza di cantare nella preghiera comunitaria in presenza di tutta la corte celeste e di
essere quindi esposti al criterio supremo: di pregare e di cantare in maniera da potersi unire alla musica degli
Spiriti sublimi, che erano considerati gli autori dell'armonia del cosmo, della musica delle sfere.
Partendo da ciò, si può capire la serietà di una meditazione di san Bernardo di Chiaravalle,
che usa una parola di tradizione platonica trasmessa da Agostino per giudicare il canto brutto dei monaci, che
ovviamente per lui non era affatto un piccolo incidente, in fondo secondario. Egli qualifica la confusione di
un canto mal eseguito come un precipitare nella "zona della dissimilitudine" - nella regio
dissimilitudinis.
Agostino aveva preso questa parola dalla filosofia platonica per caratterizzare il suo stato interiore prima
della conversione (cfr. Confess. vii, 10.16): l'uomo, che è creato a somiglianza di Dio, precipita in
conseguenza del suo abbandono di Dio nella "zona della dissimilitudine" - in una lontananza da Dio nella quale
non Lo rispecchia più e così diventa dissimile non solo da Dio, ma anche da se stesso, dal vero
essere uomo.
È certamente drastico se Bernardo, per qualificare i canti mal eseguiti dei monaci, usa questa parola, che
indica la caduta dell'uomo lontano da se stesso. Ma dimostra anche come egli prenda la cosa sul serio. Dimostra
che la cultura del canto è anche cultura dell'essere e che i monaci con il loro pregare e cantare devono
corrispondere alla grandezza della Parola loro affidata, alla sua esigenza di vera bellezza.
Da questa esigenza intrinseca del parlare con Dio e del cantarLo con le parole donate da Lui stesso è nata
la grande musica occidentale. Non si trattava di una "creatività" privata, in cui l'individuo erige
un monumento a se stesso, prendendo come criterio essenzialmente la rappresentazione del proprio io.Si
trattava piuttosto di riconoscere attentamente con gli "orecchi del cuore" le leggi intrinseche della musica
della stessa creazione, le forme essenziali della musica immesse dal Creatore nel suo mondo e nell'uomo, e
trovare così la musica degna di Dio, che allora al contempo è anche veramente degna dell'uomo e fa
risuonare in modo puro la sua dignità.
Per capire in qualche modo la cultura della parola, che nel monachesimo occidentale si è sviluppata dalla
ricerca di Dio, partendo dall'interno, occorre finalmente fare almeno un breve cenno alla particolarità
del Libro o dei Libri in cui questa Parola è venuta incontro ai monaci. La Bibbia, vista sotto l'aspetto
puramente storico o letterario, non è semplicemente un libro, ma una raccolta di testi letterari, la
cui stesura si estende lungo più di un millennio e i cui singoli libri non sono facilmente riconoscibili
come appartenenti ad un'unità interiore; esistono invece tensioni visibili tra di essi. Ciò
vale già all'interno della Bibbia di Israele, che noi cristiani chiamiamo l'Antico Testamento.
Vale tanto più quando noi, come cristiani, colleghiamo il Nuovo Testamento e i suoi scritti, quasi come
chiave ermeneutica, con la Bibbia di Israele, interpretandola così come via verso Cristo. Nel Nuovo
Testamento, con buona ragione, la Bibbia normalmente non viene qualificata come "la Scrittura", ma come "le
Scritture" che, tuttavia, nel loro insieme vengono poi considerate come l'unica Parola di Dio rivolta a noi.
Ma già questo plurale rende evidente che qui la Parola di Dio ci raggiunge soltanto attraverso la parola
umana, attraverso le parole umane, che cioè Dio parla a noi solo attraverso gli uomini, mediante le loro
parole e la loro storia. Questo, a sua volta, significa che l'aspetto divino della Parola e delle parole non
è semplicemente ovvio.
Detto in espressioni moderne: l'unità dei libri biblici e il carattere divino delle loro parole non
sono, da un punto di vista puramente storico, afferrabili. L'elemento storico è la molteplicità
e l'umanità. Da qui si comprende la formulazione di un distico medioevale che, a prima vista, sembra
sconcertante: "Littera gesta docet - quid credas allegoria..." (cfr. Augustinus de Dacia, Rotulus
pugillaris, i). La lettera mostra i fatti; ciò che devi credere lo dice l'allegoria, cioè
l'interpretazione cristologica e pneumatica.
Possiamo esprimere tutto ciò anche in modo più semplice: la Scrittura ha bisogno
dell'interpretazione, e ha bisogno della comunità in cui si è formata e in cui viene vissuta. In
essa ha la sua unità e in essa si dischiude il senso che tiene unito il tutto. Detto ancora in un
altro modo: esistono dimensioni del significato della Parola e delle parole, che si dischiudono soltanto nella
comunione vissuta di questa Parola che crea la storia.
Mediante la crescente percezione delle diverse dimensioni del senso, la Parola non viene svalutata, ma appare,
anzi, in tutta la sua grandezza e dignità. Per questo il Catechismo della Chiesa Cattolica con buona
ragione può dire che il cristianesimo non è semplicemente una religione del libro nel senso
classico (cfr. n. 108). Il cristianesimo percepisce nelle parole la Parola, il Logos stesso, che estende il suo
mistero attraverso tale molteplicità e la realtà di una storia umana. Questa struttura
particolare della Bibbia è una sfida sempre nuova per ogni generazione.
Secondo la sua natura essa esclude tutto ciò che oggi viene chiamato fondamentalismo. La Parola di
Dio stesso, infatti, non è mai presente già nella semplice letteralità del testo. Per
raggiungerla occorre un trascendimento e un processo di comprensione, che si lascia guidare dal movimento
interiore dell'insieme e perciò deve diventare anche un processo di vita. Sempre e solo nell'unità
dinamica dell'insieme i molti libri formano un Libro, si rivelano nella parola e nella storia umane la Parola di
Dio e l'agire di Dio nel mondo.
Tutta la drammaticità di questo tema viene illuminata negli scritti di san Paolo. Che cosa significhi il
trascendimento della lettera e la sua comprensione unicamente a partire dall'insieme, egli l'ha espresso in
modo drastico nella frase: "La lettera uccide, lo Spirito dà vita" (2 Cor 3, 6). E ancora: "Dove
c'è lo Spirito ... c'è libertà" (2 Cor 3, 17).
La grandezza e la vastità di tale visione della Parola biblica, tuttavia, si può comprendere solo
se si ascolta Paolo fino in fondo e si apprende allora che questo Spirito liberatore ha un nome e che la
libertà ha quindi una misura interiore: "Il Signore è lo Spirito, e dove c'è lo Spirito
del Signore c'è libertà" (2 Cor 3, 17). Lo Spirito liberatore non è semplicemente la
propria idea, la visione personale di chi interpreta. Lo Spirito è Cristo, e Cristo è il Signore
che ci indica la strada. Con la parola sullo Spirito e sulla libertà si schiude un vasto orizzonte, ma
allo stesso tempo si pone un chiaro limite all'arbitrio e alla soggettività, un limite che obbliga in
maniera inequivocabile il singolo come la comunità e crea un legame superiore a quello della lettera: il
legame dell'intelletto e dell'amore.
Questa tensione tra legame e libertà, che va ben oltre il problema letterario dell'interpretazione della
Scrittura, ha determinato anche il pensiero e l'operare del monachesimo e ha profondamente plasmato la cultura
occidentale. Essa si pone nuovamente anche alla nostra generazione come sfida di fronte ai poli dell'arbitrio
soggettivo, da una parte, e del fanatismo fondamentalista, dall'altra.
Sarebbe fatale, se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà ormai solo come la mancanza
totale di legami e con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo e l'arbitrio. Mancanza di legame e
arbitrio non sono la libertà, ma la sua distruzione.
Nella considerazione sulla "scuola del servizio divino" - come Benedetto chiamava il monachesimo - abbiamo fino a
questo punto rivolto la nostra attenzione solo al suo orientamento verso la parola, verso l' "ora". E di fatto
è a partire da ciò che viene determinata la direzione dell'insieme della vita monastica.
Ma la nostra riflessione rimarrebbe incompleta, se non fissassimo il nostro sguardo almeno brevemente anche
sulla seconda componente del monachesimo, quella descritta col "labora". Nel mondo greco il lavoro fisico era
considerato l'impegno dei servi. Il saggio, l'uomo veramente libero si dedicava unicamente alle cose
spirituali; lasciava il lavoro fisico come qualcosa di inferiore a quegli uomini che non sono capaci di
questa esistenza superiore nel mondo dello spirito.
Assolutamente diversa era la tradizione giudaica: tutti i grandi rabbi esercitavano allo stesso tempo anche
una professione artigianale. Paolo che, come rabbi e poi come annunciatore del Vangelo ai gentili, era anche
tessitore di tende e si guadagnava la vita con il lavoro delle proprie mani, non costituisce un'eccezione, ma sta
nella comune tradizione del rabbinismo. Il monachesimo ha accolto questa tradizione; il lavoro manuale è
parte costitutiva del monachesimo cristiano.
San Benedetto parla nella sua Regola non propriamente della scuola, anche se l'insegnamento e l'apprendimento
- come abbiamo visto - in essa erano cose praticamente scontate. Parla però esplicitamente, in un capitolo
della sua Regola, del lavoro (cfr. cap. 48).
Altrettanto fa Agostino che al lavoro dei monaci ha dedicato un libro particolare. I cristiani, che con
ciò continuavano nella tradizione da tempo praticata dal giudaismo, dovevano inoltre sentirsi chiamati
in causa dalla parola di Gesù nel Vangelo di Giovanni, con la quale Egli difendeva il suo operare in
giorno di Sabato: "Il Padre mio opera sempre e anch'io opero" (5, 17). Il mondo greco-romano non conosceva alcun
Dio Creatore; la divinità suprema, secondo la loro visione, non poteva, per così dire, sporcarsi le
mani con la creazione della materia.
Il "costruire" il mondo era riservato al demiurgo, una deità subordinata. Ben diverso il Dio cristiano:
Egli, l'Uno, il vero e unico Dio, è anche il Creatore. Dio lavora; continua a lavorare nella e sulla
storia degli uomini. In Cristo Egli entra come Persona nel lavoro faticoso della storia. "Il Padre mio opera
sempre e anch'io opero".
Dio stesso è il Creatore del mondo, e la creazione non è ancora finita. Dio lavora,
ergázetai. Così il lavorare degli uomini doveva apparire come un'espressione particolare della
loro somiglianza con Dio e l'uomo, in questo modo, ha facoltà e può partecipare all'operare di Dio
nella creazione del mondo. Del monachesimo fa parte, insieme con la cultura della parola, una cultura del lavoro,
senza la quale lo sviluppo dell'Europa, il suo ethos e la sua formazione del mondo sono impensabili.
Questo ethos dovrebbe però includere la volontà di far sì che il lavoro e la
determinazione della storia da parte dell'uomo siano un collaborare con il Creatore, prendendo da Lui la misura.
Dove questa misura viene a mancare e l'uomo eleva se stesso a creatore deiforme, la formazione delmondopuò
facilmente trasformarsi nella suadistruzione.
Siamo partiti dall'osservazione che, nel crollo di vecchi ordini e sicurezze, l'atteggiamento di fondo dei monaci
era il quaerere Deum - mettersi alla ricerca di Dio. Potremmo dire che questo è l'atteggiamento
veramente filosofico: guardare oltre le cose penultime e mettersi in ricerca di quelle ultime, vere.
Chi si faceva monaco, s'incamminava su una via lunga e alta, aveva tuttavia già trovato la direzione: la
Parola della Bibbia nella quale sentiva parlare Dio stesso. Ora doveva cercare di comprenderLo, per poter andare
verso di Lui.
Così il cammino dei monaci, pur rimanendo non misurabile nella lunghezza, si svolge ormai all'interno
della Parola accolta. Il cercare dei monaci, sotto certi aspetti, porta in se stesso già un
trovare. Occorre dunque, affinché questo cercare sia reso possibile, che in precedenza esista
già un primo movimento che non solo susciti la volontà di cercare, ma renda anche credibile che in
questa Parola sia nascosta la via - o meglio: che in questa Parola Dio stesso si faccia incontro agli uomini e
perciò gli uomini attraverso di essa possano raggiungere Dio.
Con altre parole: deve esserci l'annuncio che si rivolge all'uomo creando così in lui una convinzione che
può trasformarsi in vita. Affinché si apra una via verso il cuore della Parola biblica quale Parola
di Dio, questa stessa Parola deve prima essere annunciata verso l'esterno. L'espressione classica di questa
necessità della fede cristiana di rendersi comunicabile agli altri è una frase della Prima Lettera
di Pietro, che nella teologia medievale era considerata la ragione biblica per il lavoro dei teologi: "Siate
sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione (logos) della speranza che è in voi" (3, 15) (il
Logos, la ragione della speranza, deve diventare apo-logia, deve diventare risposta).
Di fatto, i cristiani della Chiesa nascente non hanno considerato il loro annuncio missionario come una
propaganda, che doveva servire ad aumentare il proprio gruppo, ma come una necessità intrinseca che
derivava dalla natura della loro fede: il Dio nel quale credevano era il Dio di tutti, il Dio uno e vero che
si era mostrato nella storia d'Israele e infine nel suo Figlio, dando con ciò la risposta che riguardava
tutti e che, nel loro intimo, tutti gli uomini attendono. L'universalità di Dio e
l'universalità della ragione aperta verso di Lui costituivano per loro la motivazione e insieme il dovere
dell'annuncio. Per loro la fede non apparteneva alla consuetudine culturale, che a seconda dei popoli è
diversa, ma all'ambito della verità che riguarda ugualmente tutti.
Lo schema fondamentale dell'annuncio cristiano "verso l'esterno" - agli uomini che, con le loro domande, sono in
ricerca - si trova nel discorso di san Paolo all'Areopago. Teniamo presente, in questo contesto, che l'Areopago
non era una specie di accademia, dove gli ingegni più illustri s'incontravano per la discussione sulle
cose sublimi, ma un tribunale che aveva la competenza in materia di religione e doveva opporsi
all'importazione di religioni straniere. È proprio questa l'accusa contro Paolo: "Sembra essere un
annunziatore di divinità straniere" (At 17, 18).
A ciò Paolo replica: "Ho trovato presso di voi un'ara con l'iscrizione: "Al Dio ignoto". Quello che voi
adorate senza conoscere, io ve lo annunzio" (cfr. 17, 23). Paolo non annuncia dèi ignoti. Egli annuncia
Colui che gli uomini ignorano, eppure conoscono: l'Ignoto-Conosciuto; Colui che cercano, di cui, in fondo, hanno
conoscenza e che, tuttavia, è l'Ignoto e l'Inconoscibile.
Il più profondo del pensiero e del sentimento umani sa in qualche modo che Egli deve esistere. Che
all'origine di tutte le cose deve esserci non l'irrazionalità, ma la Ragione creativa; non il cieco caso,
ma la libertà. Tuttavia, malgrado che tutti gli uomini in qualche modo sappiano questo - come Paolo
sottolinea nella Lettera ai Romani (1, 21) - questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto pensato e inventato
non è un Dio.
Se Egli non si mostra, noi comunque non giungiamo fino a Lui. La cosa nuova dell'annuncio cristiano è
la possibilità di dire ora a tutti i popoli: Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso
è aperta la via verso di Lui. La novità dell'annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in
un fatto: Egli si è mostrato.
Ma questo non è un fatto cieco, ma un fatto che, esso stesso, è Logos - presenza della Ragione
eterna nella nostra carne. Verbum caro factum est (Gv 1, 14): proprio così nel fatto ora c'è
il Logos, il Logos presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole. Certamente occorre sempre
l'umiltà della ragione per poter accoglierlo; occorre l'umiltà dell'uomo che risponde
all'umiltà di Dio.
La nostra situazione di oggi, sotto molti aspetti, è diversa da quella che Paolo incontrò ad Atene,
ma, pur nella differenza, tuttavia, in molte cose anche assai analoga. Le nostre città non sono più
piene di are ed immagini di molteplici divinità. Per molti, Dio è diventato veramente il grande
Sconosciuto. Ma come allora dietro le numerose immagini degli dèi era nascosta e presente la domanda circa
il Dio ignoto, così anche l'attuale assenza di Dio è tacitamente assillata dalla domanda che
riguarda Lui.
Quaerere Deum - cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui: questo oggi non è meno necessario che in
tempi passati. Una cultura meramente positivista che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la
domanda circa Dio, sarebbe la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più
alte e quindi un tracollo dell'umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò che ha
fondato la cultura dell'Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo, rimane anche oggi il
fondamento di ogni vera cultura.
(© L'Osservatore Romano - 14 settembre 2008)