Riprendiamo il contributo del prof. Adriano Dell’Asta apparso su L’Osservatore Romano del 31 ottobre 2007. La relazione, pubblicata con il titolo originale “La rivoluzione del pensiero filosofico-religioso in Russia all’inizio del XX secolo”, è stata pronunciata all’interno del Convegno internazionale dal titolo “Russia Cristiana: la passione per l’unità. 1957-2007”, tenutosi nel cinquantenario della nascita dell’Associazione Russia Cristiana nata da una intuizione di padre Romano Scalfi. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza on-line di questo testo non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (17/12/2007)
«Rivoluzione» è proprio la parola giusta per suggerire il significato della
rinascita filosofico-religiosa russa dell'inizio del XX secolo, un fenomeno che tanto spazio e importanza ha avuto
nella storia di Russia Cristiana e che vide tornare alla fede e alla Chiesa, prima della rivoluzione del 1917, un
gruppo consistente di pensatori provenienti da correnti diverse ma per lo più dal marxismo.
Come una «rivoluzione» è stato percepito da Olivier Clément, un acuto osservatore nostro
contemporaneo, che vi riconobbe il fondamento culturale del movimento di Solidarno?? e della rivoluzione
assolutamente atipica che avrebbe portato poi al crollo del regime sovietico; ma così venne percepito anche
dai suoi stessi contemporanei che, nella sua riscoperta di una persona e di una realtà irriducibili ai
progetti politici e sociali, videro contestata e sconvolta la loro immagine ideologica del mondo, quel radicale
immanentismo ateo che doveva rendere possibile un processo di trasformazione del reale del tutto indipendente da
qualsiasi senso di responsabilità personale e da qualsiasi esigenza di fare i conti con la realtà
autentica.
Non è un caso a questo proposito che il «vechismo» (vechovstvo, questo fu uno dei nomi con
il quale venne definito il fenomeno, sulla base del titolo della famosa antologia Vechi) sia stato
immediatamente bollato da Lenin come un'«enciclopedia del doppiogiochismo liberale» e del suo
carattere «intrinsecamente controrivoluzionario»: tale doveva infatti apparire all'intelligencija atea la
denuncia del nichilismo cui avrebbe inevitabilmente portato il suo massimalismo.
Con la propria pretesa ad una assoluta autonomia, totalmente estranea al senso del peccato originale e del male
radicale della natura umana, questa intelligencija era sedotta dall'appello incondizionato alla perfezione,
all'adempimento perfetto della legge del bene: credendo di non avere bisogno di alcuna redenzione che restaurasse
la natura umana e la salvasse dai suoi peccati, esigeva una realizzazione immediata e piena dell'assoluto.
In questa sua insensibilità ai limiti del relativo e al bisogno della grazia, essa finiva però con
l'eliminare radicalmente proprio il relativo stesso, incapace di liberarsi da sé dei propri limiti; in
questo senso, concludeva Berdjaev, «l'ideale della perfezione senza grazia porta al nichilismo»,
all'«incapacità di sperimentare in modo immanente e libero tutte le ricchezze e i valori del
mondo».
Quello che l'intelligencija rivoluzionaria atea non poteva sopportare era appunto questo rimprovero di essere una
falsa liberazione, questa accusa di non essere in grado di offrire un autentico godimento dei beni terreni,
là dove tale godimento era invece offerto a chi si apriva alla grazia di Dio; questa era la vera rivoluzione e
la vera novità, ed era una peculiarità della filosofia religiosa russa e non certo dell'ateismo
rivoluzionario: se la prima poteva contemplare il creato e cercare di cogliervi e di realizzarvi il disegno di
Dio, che era comunque quello della salvezza offerta alla libertà dell'uomo, il massimalismo rivoluzionario non
poteva guardare il reale se non con il risentimento di chi aveva un'immagine ideale rispetto alla quale la
realtà era costantemente inadeguata e condannata.
Il carattere autenticamente rivoluzionario della filosofia religiosa russa nasceva dal rovesciamento del presupposto
su cui si fondava l'ideologia dell'intelligencija; esso era infatti determinato dal superamento dell'opposizione
moderna tra Dio e l'uomo: non si trattava più di pensare Dio contro l'uomo e l'uomo contro Dio, ma di
riscoprire Dio come verità dell'uomo, di vedere, guardando il volto di Cristo, «il volto di Dio
nell'uomo e il volto dell'uomo in Dio».
Questa coscienza era l'atto di nascita della nuova stagione filosofica e, per esplicita ammissione dei suoi
protagonisti, aveva avuto la sua prima e già compiuta formulazione nell'opera di esordio di Vladimir
Solov'ëv, quando questi, constatando la crisi in cui era caduta la filosofia occidentale dopo l'espulsione
di Dio dal mondo della ragione e dell'esperienza, aveva detto che “gli ultimi risultati necessari dello
sviluppo della filosofia occidentale pongono, nella forma della conoscenza razionale, quelle stesse
verità che, nella forma della fede e della contemplazione spirituale, erano state poste dalle grandi
dottrine teologiche dell'Oriente (in parte di quello antico, ma soprattutto dell'Oriente cristiano). In tal
senso questa nuovissima filosofia tende a unire la perfezione logica della forma occidentale con la
pienezza di contenuto delle concezioni religiose dell’Oriente”.
In maniera ancora più chiara e per certi versi più provocatoria, nelle Lezioni sulla
Divinoumanità Solov'ëv aveva chiarito che tutto quanto v'è di positivo nelle aspirazioni umane
trova il suo fondamento ultimo e la possibilità di una sua piena realizzazione solo in Dio: «il
socialismo, che esige la giustizia realizzata e non può realizzarla su fondamenti naturali finiti, porta
logicamente ad ammettere la necessità di un principio assoluto nella vita, cioè a riconoscere la
religione. Il positivismo porta alla stessa conclusione nel settore del sapere».
Quale che fosse il modo della formulazione il punto fermo era però che la ragione non si concepiva più
in opposizione alla fede, ma si apriva ad essa come alla propria luce. Anzi, la luce della ragione aveva esattamente
il nome di Cristo ed era venuta a risplendere pienamente nel mondo al momento dell'Incarnazione, come si canta nelle
preghiere del tempo di Natale; non è un caso allora che proprio Cristo, quanto Solov'ëv aveva
«di più caro nel cristianesimo», diventasse anche il modello nella cui luce guardare la
realtà: è significativo in questo senso che Solov'ëv, per suggerire una via di soluzione al
problema del rapporto tra cosa in sé e fenomeno, utilizzi delle espressioni tratte dal dogma cristologico
della perfetta unione del divino e dell'umano, distinti ma uniti nella persona di Cristo senza confusione e senza
separazione: «Ciò che è falso dice dunque Solov'ëv della cosa in sé e del fenomeno -
non è la loro distinzione, ma la loro separazione arbitraria. L'ignoranza confonde l'essere in sé e i
fenomeni. La filosofia astratta li separa assolutamente. Tu devi prendere la via regale tra la confusione e la
separazione astratta, c'è un termine medio: la differenza e la corrispondenza. Il fenomeno non è
l'essere in sé, ma ha con esso una relazione precisa, gli corrisponde».
La ragione, illuminata dalla luce di Cristo, riprendeva così a funzionare, non solo
risolvendo problemi particolari come quello cui abbiamo appena accennato, ma soprattutto superando i vicoli ciechi
in cui l'avevano gettata nell'epoca moderna da una parte la pretesa di essere lei la creatrice e l'arbitra del reale
e delle sue leggi e dall'altra la pretesa che l'unica realtà veramente esistente fosse esclusivamente quella
sperimentata attraverso i sensi.
Se il primo atteggiamento l'aveva chiusa nel mondo delle proprie fantasie e l'aveva isolata dalla realtà
concreta e sensibile, il secondo l'aveva gettata in un mondo di pure cose, di fatti bruti senza alcun
significato razionale; nel nuovo spazio aperto dalla fede, la ragione si spalancava invece ad accogliere una
realtà che non era posta da lei e che essa anzi riceveva dalle altre sfere dell'essere, con l'unico, ma
decisivo, compito di legare queste sfere e questi fatti al loro significato, di «stabilire - diceva ancora
Solov'ëv - il nesso generale di tutto ciò che esiste, e siccome tutto ciò che esiste si può
ricondurre al principio divino e al principio materiale (naturale), il compito della filosofia può essere
determinato nella maniera più semplice possibile così: stabilire un nesso interiore tra il principio
divino e il principio materiale», ritrovare nelle cose il loro senso unitario e la loro bellezza, senza
dover rinunciare alla loro concretezza.
La riscoperta della realtà e del suo senso attraverso l'attività rivelatrice (e non creatrice) della
ragione umana ci pone di fronte a un'altra delle caratteristiche fondamentali di questa rivoluzione
filosofica: il suo realismo; Berdjaev rivendicò questa peculiarità ricordando esplicitamente che
essa era il frutto proprio della riscoperta del fondamento religioso della vita: «dopo tutte le prove, dopo
tutte le peregrinazioni attraverso le deserte vacuità del pensiero astratto e dell'esperienza razionale, dopo
aver prestato un penoso servizio di polizia, la filosofia deve tornare sotto le volte del tempio, alla sua funzione
sacra, e ritrovarvi il realismo perduto, e di nuovo ricevere la consacrazione ai misteri della vita».
Si tratta dunque, contemporaneamente, della riscoperta della realtà e della riscoperta della sua
irriducibilità alle sfere superficiali dell'essere; il carattere del realismo di cui si parla qui è
definito innanzitutto dai caratteri della ragione che lo sostiene e dalla sua disponibilità ad un ampliamento
ininterrotto. Convinti che il mondo reale non si limiti ai fenomeni sensibili ma sia la manifestazione di una
«sostanza spirituale universale», gli esponenti di questo nuovo realismo «consapevolmente ampliano
la sfera del reale, di quanto esiste autenticamente, oltre i confini di ciò che è conosciuto con i
sensi e lo fanno non contro la filosofia del realismo, ma proprio in nome di questa»; in nome della pienezza
e della ricchezza che stanno riscoprendo nel reale, essi accettano di porre le «questioni maledette» che,
lungi dall'essere un «non senso filosofico», «si presentano come un fatto della vita
reale»: «come pensare quel fondamento ultimo e misterioso, che è la radice da cui procedono le
mutevoli e contingenti apparizioni l'essere? Che cos'è il mondo ovvero il tutto e che cosa fa del mondo il
mondo, cioè unifica in un insieme unico, e conforme a legge, fenomeni eterogenei, fantastici?».
Il problema è quello di un realismo che dia all'uomo una assolutezza vera, ben più ricca, concreta e
autentica di quella che gli aveva promesso l'intelligencija e che alla fine si era rivelata una semplice
schiavitù nei confronti della casualità materiale; è appunto nella prospettiva di questa
motivazione assoluta della vita che si situa la polemica della filosofia religiosa russa nei confronti del marxismo,
polemica che rende poi comprensibile la reazione stizzita di Lenin. Berdjaev, Bulgakov, Frank, Struve e molti altri
rappresentanti della filosofia religiosa avevano inizialmente accolto il marxismo proprio in forza di questa promessa
di una motivazione assoluta della vita. Il marxismo si era presentato inizialmente come uno strumento scientifico
capace di dare certezza al processo di liberazione, capace di sottrarlo al soggettivismo e al moralismo che avevano
contraddistinto le teorie populiste, e capace, ancora, di dare un senso unitario alle esigenze sociali e politiche,
«di animarle con un’unica visione del mondo, con un unico ideale».
È con queste aspettative che il marxismo era stato accolto come «il grido di guerra della giovane
Russia» ed è quindi con l'entusiasmo di chi aveva scoperto una sorta di pietra filosofale che Bulgakov,
ad esempio, si era accinto ad approfondirlo teoricamente. L'entusiasmo tuttavia aveva cominciato ad affievolirsi
ben presto, in fondo già nel 1897, in un articolo scritto ancora dal campo marxista nel quale però,
pur difendendo il principio del materialismo sociale (la totale signoria della legge di causalità), Bulgakov
già affermava la differenza tra la vita e la scienza e insinuava l'osservazione secondo cui l'ideale sociale
è «senza dubbio di provenienza non scientifica, anche se si riveste di panni scientifici».
Appena l’anno dopo a questa prima critica della pretesa di assoluta scientificità del marxismo, se ne
sarebbe aggiunta un'altra ancora più articolata e più radicale: innanzitutto Bulgakov si rese conto
del fatto che «la causalità è solo un modo di coordinare le nostre rappresentazioni» e
che perciò la zakonomernost' è solo un concetto, «un prodotto del lavoro attivo della ragione sul
materiale conoscitivo» e come tale non può ovviamente sostituire la vita reale; in secondo luogo,
in base alle proprie ricerche nel campo dell'economia, Bulgakov stabilì che, dato il suo stesso statuto
scientifico, la sociologia era incapace di formulare quelle previsioni cui invece il marxismo pretendeva di poter
arrivare.
Era impossibile «mostrare in forma conclusiva e indiscutibile la correttezza del sistema economico di Marx,
l'applicabilità generale della legge della concentrazione della produzione e in genere l’identità
dell'evoluzione industriale e di quella agricola» ma, data questa premessa e a dispetto di tutta la sua
pretesa di scientificità, la teoria marxiana della «catastrofe sociale (Zusammenbruchstheorie) e del
salto nel regno della libertà» si rivelava una pura utopia. A questo punto per Bulgakov era ormai
evidente che il marxismo era una strana concatenazione di motivi scientifici e religiosi, di realismo e utopismo, di
oggettivismo e volontarismo; e in questo senso si può dire che egli previde, con notevole anticipo sui
tempi, la piega volontaristica che Lenin avrebbe dato alla rivoluzione e ne rivendicò con grande
lucidità la perfetta ortodossia marxiana, mostrando nell'escatologismo rivoluzionario leninista e nel suo
violento anticristianesimo non un tradimento o una deviazione, ma la fedeltà a un marxismo che non si era
ancora «tagliato le ali spirituali», che non era stato ancora «privato della sua precedente
ispirazione religiosa e della sua apertura idealistica».
L’unico ma radicale limite di questa impostazione e delle sue alate teorie sul mondo perfetto dell'utopia
era che la realtà veniva costantemente sacrificata alla teoria; ed è per preservare la
realtà da questo sacrificio che nacque la totale opposizione della filosofia religiosa all'ideologia marxista
intesa come pretesa di sostituire la realtà con una sua rappresentazione ideologica. Non si trattò
di una opposizione politica ma culturale, non ci si oppose all'ideologia rivoluzionaria in nome di una ideologia
più ricca ma ci si situò su un piano completamente diverso da quello dell'astrazione concettuale o
della riduzione concettuale della realtà: il contrasto non fu tra due ideologie, ma tra una ideologia e la
realtà, tra la riduzione ideologica della realtà e la realtà stessa.
Non va qui dimenticato che un altro dei motivi di radicale opposizione al marxismo fu la sua incapacità di
rispettare la realtà della persona, con le sue esigenze e le sue domande, con le sue virtù e le sue
necessità, che restavano tutte senza risposta o senza spiegazione finché si restava nei limiti della
teoria (politica, economica, filosofica, ecc.), perché, come avrebbe detto sempre Bulgakov, «la
capacità di godere del cielo stellato, l'estasi religiosa, la tensione disinteressata e illimitata verso il
conoscere e così via, non si possono spiegare con alcuna considerazione economica» e soprattutto non con
quell'«inno funebre alla persona e alla creatività personale» che è il marxismo.
Chiuso negli stretti limiti della sua causalità puramente materiale esso non è infatti in grado di
rendere ragione della persona e delle sue aspirazioni a una felicità e a una vita senza fine, mentre
è proprio questa sete di infinito e di vittoria sulla morte che rende l'uomo pienamente uomo; la persona,
dirà Berdjaev, si realizza quando l'individualità di ciascun essere umano percepisce «qualcosa
che le è superiore e verso il quale essa si innalza nella propria realizzazione. Non si dà persona
se non c'è un essere che stia più in alto di lei».
Una delle tragedie del mondo contemporaneo, invece, ciò che ha reso la sua vita
insopportabile e piena di angoscia è il fatto che l'uomo ha creduto di potersi affermare meglio e
più pienamente liberandosi di Dio, ma in realtà ciò che ha ottenuto è esattamente il
contrario: «Il problema fondamentale dei nostri giorni non è il problema di Dio - come pensano molti,
come pensano spesso anche i cristiani che esortano alla rinascita cristiana, - il problema fondamentale dei nostri
giorni è innanzitutto il problema dell'uomo», avrebbe detto più tardi Berdjaev, e quindi
avrebbe precisato: «gli uomini hanno rinnegato Dio, ma così facendo non hanno messo in dubbio la
dignità di Dio, bensì la dignità dell’uomo. L'uomo non può tenersi in piedi
senza Dio. Per l'uomo Dio è appunto l'idea suprema, - la realtà che edifica l'uomo».
Senza Dio l'uomo finisce prima o poi per stancarsi di se stesso e della vita tutta, in un'ansia suicida di cui
oggi vediamo le manifestazioni più clamorose in certe forme di terrorismo nichilista, ma le cui origini erano
già state colte lucidamente dalla filosofia religiosa russa nelle premesse dell'umanesimo antropocentrico.
Gli uomini, rinnegando Dio, non hanno soltanto rinnegato l'uomo, ma hanno finito col distruggere il mondo stesso e la
vita: senza un Dio davanti al quale riconoscere il proprio peccato e dal quale attendere la salvezza, l'uomo non solo
è ridotto a un essere inevitabilmente senza speranza, ma i suoi mali e le sue disgrazie restano appese al
nulla; è quanto dimostra, dice Berdjaev, «la filosofia di Heidegger, nella quale l'essere è
decaduto nella sua essenza ma non è decaduto da nulla»: su tutto regna appunto il nulla, non solo
l'uomo si è stancato di se stesso, ma lo stesso mondo si è stancato di sé.
L'ateismo moderno, così come viene messo in luce dalla filosofia religiosa russa, è ben diverso da
quello classico: il suo vero nemico non è Dio, ma il mondo di Dio e ciò che sta al centro del mondo di
Dio, l'uomo e la sua vita; è sempre Berdjaev che lo dice in maniera esplicita: «le eresie generate
dalla civiltà attuale sono molto diverse dalla eresie dei primi secoli del cristianesimo, non sono eresie
teologiche, sono eresie della vita stessa».
Il rovesciamento di questa distruzione dell'uomo, il carattere rivoluzionario della risposta che la filosofia
religiosa russa contrappone all'ateismo moderno sta tutto nel fatto che questa risposta non tende a ripristinare
innanzitutto i diritti di Dio e del mondo religioso: se l'uomo non può essere il padrone del mondo e non
può pretendere di esserlo e di dominare il mondo, questo non significa che l'uomo debba essere dominato e
debba accettare di essere dominato, anzi, l'uomo deve aspirare alla propria grandezza, ma può essere veramente
libero e grande proprio a patto che si liberi dalla sua pretesa di costruire un mondo totalmente antropocentrico,
pretesa che è contraria alla sua realtà e alla sua natura di essere «a un tempo terreno e
celeste»; allora, avendo riconosciuto il fatto che lo costituisce, il fatto di non essere al mondo da
sempre ma di aspirare comunque all'immortalità, l'uomo si riconosce innanzitutto come creatura di Dio, e
qui la sua originaria dipendenza da Dio assume la forma e il nome di creaturalità: l'uomo si riconosce
creato a immagine e somiglianza di Dio. Ritrovando se stesso nel Dio che si è fatto uomo, l'uomo si trova
innalzato a livello di Dio, liberato dalle forze della natura e della società e cosciente del fatto che la sua
irriducibilità a qualsiasi grandezza finita è radicata proprio in questa origine celeste.
La scoperta di questo nucleo irriducibile di umanità è l'esito dell'esperienza che i rappresentanti
della filosofia religiosa russa fanno nel cuore del mondo contemporaneo e di quella sua molteplice crisi (umana,
politica, spirituale, artistica, culturale, e religiosa) che in breve tempo avrebbe portato la Russia alla tragedia
della rivoluzione e il mondo alla tragedia del totalitarismo nazista e della seconda guerra mondiale; ma questa
scoperta è nello stesso tempo ciò che li rende capaci di cogliere questa crisi. Dallo sconcerto di
un mondo che sembra aver addirittura rimosso la nozione stessa di un senso e di una verità e nel quale
è scomparso il «criterio stesso di verità» nasce la nostalgia di una verità
incrollabile; dallo smarrimento di un mondo nel quale «l'uomo ha smesso di distinguere la realtà dai
prodotti dell'immaginazione [...] che offrono un'utilità vitale e sociale» nasce appunto la domanda
infinita di un senso che porta la ragione umana ad aprirsi alla rivelazione e a rispondere alla chiamata insita nella
riveluzione stessa.
La creazione dell'uomo a immagine e somiglianza di Dio è ad un tempo il fondamento oggettivo (immagine)
dell'essere dell'uomo e della sua irriducibilità a qualcosa di finito e il motivo per cui l'uomo stesso si
sente chiamato a compiersi nella persona (somiglianza), che «è diversità, unicità,
irripetibilità, originalità, non somiglia ad altri, [...] è l'eccezione e non la
regola», rende l'uomo continuamente eccedente rispetto a qualsiasi realizzazione propria o a qualsiasi
tentativo di riduzione.
Per quanto possa salire in alto o per quanto possa cadere in basso l'uomo continua a sentire una vocazione a qualcosa
di più alto e di incommensurabile che prova la sua grandezza e la sua origine: come avrebbe detto Vladimir
Losskij, un altro grande pensatore russo della prima metà del XX secolo, «la persona significa
l’irriducibilità dell'uomo alla sua natura». «Irriducibilità» e non
«qualcosa di irriducibile» o «qualcosa che rende l'uomo irriducibile alla sua natura»,
appunto perché qui non può trattarsi di «qualcosa» di distinto, di un' «altra
natura», ma di qualcuno che si distingue dalla propria natura, di qualcuno che supera
la propria natura, pur contenendola, che la fa esistere come natura umana attraverso questo superamento e, tuttavia,
non esiste in se stesso, al di fuori della natura che egli "enipostatizza" e che supera incessantemente».