Mettiamo a disposizione on-line sul nostro sito, per sua gentile concessione, il testo che don Massimo Serretti, professore di Dogmatica e Cristologia presso la Pontificia Università Lateranense, aveva preparato per gli incontri di formazione dell'OCST (organizzazione cristiano-sociale ticinese) tenutisi tra il 1998 e il 1999 a Lugano, in Svizzera. I neretti sono nostri ed hanno l’unica finalità di rendere più facile la lettura on-line del testo.
Il Centro culturale Gli scritti (16/1/2007)
La riflessione che intraprendiamo insieme non ha un carattere astratto e puramente teorico o
dottrinale. Anche se faremo uso di concetti e di categorie che non sono sempre quelle che adoperiamo quotidianamente,
il nostro tentativo sarà quello di recuperare alla chiarezza della nostra coscienza e consapevolezza alcuni
aspetti della nostra esperienza. Sarà in fondo un tentativo di comprendere meglio noi stessi, in quella
particolare sfera del nostro vivere e del nostro agire che è rappresentata dal lavoro. La riflessione che
nasce da un'esperienza e che ha un'esperienza come sua finalità è di un'importanza estrema, dato che
non c'è nessuna esperienza veramente umana che non abbia in se stessa un momento riflessivo e conoscitivo. La
riflessione e la conoscenza fanno parte dell'esperienza che l'uomo ha di sé, degli altri, della storia, della
società. Josef Tischner, il primo assistente nazionale di Solidarnosc, scriveva all'inizio degli anni '80 che
«la comprensione del lavoro fa parte dell'essenza del lavoro stesso»[1]. Dobbiamo quindi «pensare il lavoro», se non vogliamo che altri lo
facciano per noi, oppure a nostro discapito. Questo lavoro sul lavoro ha un significato riappropriativo.
Intendiamo far più nostra un'esperienza che svolge un ruolo così rilevante ed essenziale nella nostra
vita e ciò rende ancor più indispensabile il nostro tentativo e la nostra scommessa liberandoli da ogni
patina di possibile oziosità.
C'è poi un altro riferimento concreto che è fornito dal quadro entro cui la nostra riflessione comune
si colloca: il sindacato. Esso, in quanto espressione di una esplicita soggettività sociale, nel cimentarsi in
una comprensione più adeguata della realtà del lavoro nelle sue dimensioni obiettive e soggettive, si
accresce in quel processo di autoformazione che gli fornisce originalità e senso all'interno di una
società e di una economia sempre più complesse. E' anche per la sua capacità autoformativa
che un corpo sociale come quello di un sindacato può situarsi in maniera creativa nel tessuto nel quale
è inserito. Qualora esso smarrisse questa potenzialità esso diverrebbe una pura e semplice appendice di
un apparato e non avrebbe più alcuna identità propria. Al contrario, quanto più esso diventa
capace di crescere nella formulazione di giudizi, di comprendersi nel suo ruolo specifico e di comprendere le
dinamiche entro le quali si trova ad operare, tanto più la sua fisionomia sarà chiara e non
immediatamente omologabile in maniera strumentale.
La riflessione che andiamo ad aprire sull'esperienza del lavoro è quindi connaturale e coessenziale alla
vitalità del sindacato stesso e rappresenta un suo modo d'essere. Senza un punto di vista proprio, qualsiasi
sindacato verrebbe a svolgere, suo malgrado, una semplice funzione riproduttiva di quel che viene stabilito altrove e
quindi entrerebbe in una pura gregarietà, tradendo in qualche modo la sua vocazione originaria. L'orientamento
di fondo è parte integrante della specificità del sindacato e ne giustifica l'esistenza a livello
sociale, diversamente esso verrebbe ad assolvere mansioni di routine che, prima o poi, potrebbero essere altrettanto
bene espletate da altre formazioni e imprese. Verrebbe cioè a mancare la ragion d'essere.
Un sindacato "cristiano" possiede un metodo e dei contenuti di riferimento nel Magistero e soprattutto nella dottrina
sociale della Chiesa. Da questa fonte cercheremo di trarre insieme qualche spunto.
Due affermazioni che noi assumiamo come metodologiche stanno al principio della nostra
riflessione. Entrambe si trovano nella Lettera Laborem exercens sul significato del lavoro umano. La prima
di esse suona così: «Il lavoro è la chiave di tutta la questione sociale». La seconda:
l'uomo quale persona è il soggetto del lavoro e quindi ogni processo lavorativo non può mai prendere
l'uomo come mezzo, ma sempre come fine del lavoro stesso. «In ultima analisi lo scopo del lavoro, di qualunque
lavoro eseguito dall'uomo - fosse pure il lavoro più "di servizio", più monotono, nella scala del
comune modo di valutazione, addirittura più emarginante - rimane sempre l'uomo stesso» (Laborem
exercens § 6).
La concretezza di questo primo ordine di riflessioni è data proprio da ciò che di più concreto e
reale ci sia al mondo: la nostra umanità, il nostro essere uomini. Seguendo una corrente di pensiero
socialmente diffusa noi potremmo essere portati a ritenere come più reali le strutture, le istituzioni, le
forme sociali di organizzazione, mentre esse acquistano una valenza reale solo in quanto ineriscono alla nostra
umanità, solo in quanto sono in grado di favorirla e incrementarla. Dobbiamo quindi guardarci da quel sistema
di apparenze sociali che tendono ad autopresentarsi come realtà e riescono ad affermarsi come tali riscuotendo
un ampio assenso. Queste apparenze sociali possono divenire una "dura realtà", talmente dura da far male,
proprio perchè fondate su una falsificazione di partenza: quella del realismo della persona umana. Ma ogni
sistema che si fonda su di una menzogna sull'uomo, ricordava Giovanni Paolo II a Bratislava (1990) è destinato
a fallire e a crollare su se stesso.
Per questo intendiamo partire, in questo nostro itinerario di incontri dal significato antropologico elementare
dell'agire umano e quindi del lavoro dell'uomo.
L'uomo è un essere in azione. In ogni atto l'uomo a) compie se stesso e b) cambia
qualcosa del mondo a lui esterno. L'aspetto per cui agendo l'uomo trasforma il mondo a lui circostante, trasforma la
materia e ne ricava dei prodotti è quello più immediatamente evidente. Con la sua forza e il suo
intelletto l'uomo è in grado di raggiungere un dominio sulla natura e sul mondo circostante che gli consente
di migliorare le sue condizioni materiali di vita. Questo dominio non è arbitrario e assoluto. L'uomo oggi
è sufficientemente cosciente del fatto che esso deve attenersi alle leggi immanenti al creato per non
rischiare di vedersi rivolgere contro il suo stesso lavoro.
Ma l'aspetto più decisivo è quello per cui in ogni atto che compie l'uomo determina se stesso nel
bene o nel male, nella verità o nella menzogna. Dobbiamo soffermarci un pò a considerare più da
vicino questa dinamica dell'azione. Un atto è veramente umano, e non solo un atto dell'uomo, per il fatto
che in esso è chiamato in questione tutto l'uomo che lo compie. Ogni atto dell'uomo è umano anche
perchè esso parte da una motivazione. Allora ci si deve chiedere come un uomo perviene a quella motivazione e
qual'è il suo contenuto. Normalmente prima di agire l'uomo esercita un giudizio con la sua ragione e compie un
duplice movimento interiore: usa un criterio di valutazione e una volta valutato quel che gli si presenta in quella
determinata circostanza sceglie con la sua volontà. Già questa semplice dinamica dell'agire chiama in
causa la verità del riconoscimento e la libertà dell'adesione a quel che si è riconosciuto come
vero. In questo modo, già al livello della motivazione, l'uomo afferma o nega un senso. L'atto dell'uomo
è riempito di senso sia dal contenuto della sua scelta motivazionale, sia dal nesso che tale contenuto ha con
la verità della sua e altrui umanità. La motivazione riempie quindi l'atto, per così dire, di un
suo significato umanistico. Oggi si parla spesso di demotivazione nel lavoro. E' evidente, a partire da queste
poche osservazioni che abbiamo fatto insieme, che un'azione lavorativa privata della motivazione viene a smarrire la
sua valenza umanistica, il suo potere di costituzione e incremento dell'umano nell'uomo.
Nella dinamica della motivazione sono presenti schematicamente due fattori che a noi preme sottolineare: il rapporto
con il bene e con il vero, e il nesso del vero e del bene con sé: l'implicazione personale. L'uomo è
fatto per la verità e per il bene e quando sceglie il male e la menzogna allora nell'agire determina se stesso
negativamente. Ma non bisogna tralasciare la correlazione del bene e del vero con la propria e le altrui persone
altrimenti la loro affermazione diviene astratta e l'agire impersonale. Noi viviamo in una società stracolma
di beni, soprattutto materiali, ma non sempre essi servono ad edificare nella verità le persone, perchè
il nesso non è posto correttamente. In un determinato momento, nella varietà dei beni presenti alla
scelta, alcuni sono adeguati alla verità della mia o dell'altrui persona, altri no. Perchè l'azione
dell'uomo sia secondo verità è necessario scegliere il "vero bene" e non un bene qualsiasi. La
motivazione giusta o, se si vuole, la giustizia della motivazione è data dalla proprio dalla preferenza per il
"vero bene".
Non è nostro compito ora ricostruire tutte le dinamiche dell'agire dell'uomo, cosa comunque utile per arrivare
a guardare con un orizzonte più vasto la realtà del lavoro, sinteticamente possiamo dire che ogni
azione umana passa attraverso l'interiorità e la coscienza dell'uomo, la sua capacità di giudizio e la
sua volontà e quindi agendo l'uomo decide anche di questo suo volto interiore, decide della verità
della sua umanità. E' quel che dicevamo poc'anzi riprendendo la distinzione fondamentale tra dimensione
oggettiva e dimensione soggettiva del lavoro che Giovanni Paolo II riporta nella sua Lettera enciclica (Laborem
exercens §§5-6).
Ci preme adesso mostrare un altra faccia della preminenza del soggetto del lavoro nel lavoro
stesso. Partiamo ancora una volta dalla considerazione dell'agire in senso lato. In ogni atto l'uomo pone qualcosa
di sé, la sua libertà, la sua intelligenza, la sua energia, il suo talento personale, il suo tempo,
etc. Nel prodotto e negli effetti della sua azione trapassa tutto questo portato personale. Per certi versi l'uomo
agendo obiettivizza se stesso nei suoi atti e nei prodotti di essi. C'è una transitività
nell'agire dell'uomo (san Tommaso d'Aquino). Ma c'è anche una intransitività, cioè l'uomo
da un lato precede l'agire, precede il lavoro e dall'altro non si risolve interamente in esso, rimane come
trascendente ogni suo atto e la sommma di essi. Karol Wojtyla ne conclude che «l' "intransitivo" è
più importante di ciò che è "transitivo"»[2]. Cerchiamo di connotare più da vicino questa superiorità o
questo primato dell'uomo nell'agire.
Ci sono tre significati che voglio segnalare. Il primo è quello più palese e di cui abbiamo già
parlato: l'uomo agisce perchè c'è e il suo esserci resta sempre fondamentale. I medievali dicevano
che l'agire consegue all'essere. Il secondo è quello per cui in ogni atto l'uomo si rapporta con il vero, il
bene, il bello. Con il vero perchè esercita il suo giudizio, con il bene perchè è chiamato a
scegliere, con il bello perchè quel che vede e quel che incontra esercitano su di lui un fascino che è
come una bellezza cui può aderire o meno. Il terzo significato che giustifica l'intransitività del
soggetto nell'azione è il fatto che l'uomo è un essere comunionale e in ogni suo atto, in ogni suo
lavoro porta con sé tutti coloro con i quali vive e per i quali vive la sua vita e che pur "riempiendo" il suo
agire, stanno però al di là di esso, lo motivano senza trapassare in esso.
Cerchiamo di trarre da queste osservazioni alcune conseguenze che, come vedremo, contrastano con la
mentalità piattamente utilitaristica che domina gran parte della nostra società e dei nostri
ambienti lavorativi e che, come uomini del nostro tempo, possiamo ritrovare presente in noi stessi, quasi senza
averla scelta.
a. Dalla prima annotazione, sul primato dell'uomo, possiamo subito dedurre il fatto che è l'uomo stesso
a conferire dignità al suo agire e quindi al suo lavorare e non viceversa. E' per il fatto che nel lavoro
è in questione l'uomo che il lavoro ha una così grande importanza. Dunque ogni logica di
subordinazione, di qualsiasi genere, del soggetto del lavoro al lavoro stesso, è in se stessa falsa,
perchè rovescia l'ordine gerarchico dei valori. Ogni umiliazione e ogni svilimento dell'uomo nel lavoro, a
qualsiasi livello essi si pongano, vanno contro la verità del lavoro stesso e non porteranno in nessun caso
buoni frutti alla società nel suo insieme. Ogni benessere che si appoggi sulla menzogna e sulla disfatta
dell'uomo è in se stesso marcio e velenoso. Giovanni Paolo II da venti anni sta ricordando al mondo intero che
l'uomo e non il profitto è il criterio di misura del lavoro. L'uomo è fine in sé e non deve
essere finalizzato a nulla di estraneo alla sua dignità e alla sua vocazione.
b. Dalla seconda annotazione sulla presenza della relazione con il vero, il bene e il bello in ogni atto
umano, dobbiamo ricavare che nel lavoro, anche nel più duro e meno gratificante, l'uomo può
affermare un senso che risignifica il suo impegno lavorativo nel suo insieme. Affermando qualcosa che va al di
là della transitività del suo agire l'uomo lavorando fa cultura. Nella sua azione c'è una
contemplazione, un disinteresse che ha la sua radice in un interesse superiore, intransitivo, immortale. Non per
nulla alle radici dell'Europa c'è il motto di san Benedetto ora et labora che coniuga la preghiera e il
lavoro. Che cosa significa per noi questo connubio? Qual'è la sua valenza esistenziale? La preghiera sta
proprio ad indicare che l'uomo è costituito nella sua umanità da Qualcuno che è più
grande di lui e che tutta la sua vita e il suo agire hanno senso solo dentro questa relazione che motiva tutto il suo
essere e tutta la sua vita, e, in essa, anche il suo lavoro. Solo per un uomo per il quale ogni gesto e ogni
momento della sua esistenza sia spalancato sul mistero della sua definitività, del suo destino, dell'eterno,
anche il particolare del lavoro può diventare un particolare nel quale non muore, nel quale non trapassa
(transitività) interamente, può non diventare la sua tomba, la sua chiusura mortale, ma piuttosto il
luogo della sua risurrezione, cioè il luogo nel quale si riafferma la sua intransitività, il suo essere
al di là della morte. Diversamente, come ha messo in luce Karol Wojtyla, il lavorare diventa solo un
aspetto del proprio lottare con la morte e il prodotto del lavoro una traccia di morte in una cultura che diventa una
cultura di morte. Voglio rileggere insieme a voi una pagina di Wojtyla nella quale tale pensiero è
espresso in maniera precisa: «L'uomo, nonostante tutto, muore - muore continuamente in tanti prodotti del suo
lavoro, in tanti effetti "transitivi" del suo operare. Ciò che è transitivo, già sulla base
etimologica di questa parola, suggerisce il pensiero del passare, della morte. Alla stessa necessità sono
sottoposti tutti i prodotti dell'operare umano che per un certo tempo brillano e poi si spengono, cadono in
rovina. "Perchè passa l'apparenza di questo mondo" (ICor 7,31), "Essi periranno ma Tu rimani, e tutti come una
veste si consumeranno: li cambierai come un vestito e........ (Salmo 102,27). Alcuni di questi prodotti fin
dall'inizio portano in sé le stigmate della consumazione - e nella gerarchia dei valori non possono andare
oltre questo livello. Una civilizzazione che dà la precedenza assoluta a tali prodotti, che si concentra su
ciò che l'uomo consuma, è una civilizzazione delle "morte dell'uomo".»
«Per la cultura umana è molto caratteristico tutto quel dinamismo della lotta con la morte. Questa lotta
si svolge al livello della praxis umana, perchè in essa (cioè nella praxis) si nasconde
la forza per oltrepassare ciò che è solamente "utile", che una volta usato è destinato a morire.
E' proprio questa forza di una disinteressata comunione con la verità, il bene e il bello che genera le opere
che non si consumano mai (GS 57. 59). In queste opere vive non solo il Creatore stesso, il cui nome gli uomini
ricordano di generazione in generazione, ma anche in queste opere l'uomo di tutte le generazioni sempre di nuovo
ritrova ciò che in lui stesso è "intransitivo". E 'intransitivo', in un certo senso, vuol dire:
'immortale'».[3]
c. Dalla terza annotazione sulla natura comunionale dell'uomo e quindi del suo agire possiamo trarre altri
spunti di giudizio sul nostro presente. All'inizio abbiamo parlato di motivazione. L'uomo infatti non agisce se
non è motivato. Ma che cosa può motivare l'uomo? Una presenza che gli riempia il cuore di speranza. Un
uomo disperato non lavora. Un uomo che non vive per altri rimane astenico. Di qui gran parte delle patologie del
lavoro nel nostro tempo. La messa in questione della bontà dell'unità dell'uomo e della donna e
della fecondità che ad essa il Creatore ha assegnato, portano con sé anche una svalutazione del senso
del lavoro. Esso tende a perdere quell'aspetto di gratuità che lo sottrae dal divenire pura merce da
vendersi in cambio di un salario, prestazione monetizzabile e nient'altro. Al contrario l'uomo che lavora per la
famiglia, lavora per altri e dunque per lui il lavoro è una modalità della donazione di sé, in
una prospettiva che va al di là del suo interesse puro e semplice, si protende verso le generazioni che
verranno e che già crescono. Chi lavora al di fuori dell'amore e della speranza si trova ad operare in uno
spazio angusto, innaturale e prima o poi diviene cinico e quindi nihilista. Questi identificherà il lavoro con
una mera funzione e siccome il lavoro occupa normalmente una quota non indifferente del nostro tempo e delle nostre
energie, sarà portato ad un certo momento a guardare a se stesso come ad un essere funzionale, cioè
senza senso.
L'uomo che non vive la sua vita dinanzi a una presenza che lo chiama rimane inattivo e inerte anche quando la sua
giornata sia piena di un apparenza di lavoro. Gli uomini del nostro tempo, spesso sono molto affacendati, pur
rimanendo "disoccupati". E' emblematica da questo punto di vista la parabola evangelica della vigna e della chiamata
di operai nelle diverse ore del giorno. Uscendo verso le cinque del pomeriggio il padrone della vigna vide che in
piazza c'erano degli uomini che se ne stavano lì senza far nulla, estenuati, inermi. Allora chiese loro il
perchè di quello stato in cui si trovavano ed essi rispondono: «Nessuno ci ha chiamati a
lavorare!». Perchè l'uomo lavori veramente è necessario che qualcuno lo chiami, che lo susciti
dalla sua apatia. Dice Péguy che non si lavora se non per i bambini, cioè per quella presenza di quei
piccoli che più di ogni altro sono in grado di suscitare la speranza e dare sprone all'azione creativa.
Diversamente uno fa (facere), ma non agisce (agere). C'è un aneddoto polacco che racconta di un
pavimentatore di strade che viene assunto a lavorare. Questi aveva un'abilità straordinaria. Connetteva
talmente bene le lastre l'una con l'altra, che la strada sembrava uno specchio. Ma il sovrintendente ai lavori
osservando come nei gesti che compiva non metteva niente di sé, lo licenziò, perchè era un
fannullone. Un uomo che non lavora per amore, per altri, è un uomo che non è presente in quel che fa, e
fa quel che fa da alienato. Un tale uomo è in pericolo.
La natura originariamente comunionale dell'uomo si manifesta anche nel fatto che lavorando l'uomo entra in un sistema
complesso di comunicazione sociale e quindi entra in rapporto con una società che tende sempre più ad
allargarsi. Sempre di più oggi il lavoro mette in relazione tutti con tutti. Bisognerebbe riflettere anche
su questa dimensione del lavorare non solo "per altri", ma anche "con altri" per esaminare le forme sociali che essa
va assumendo. Sarà l'oggetto di un prossimo incontro.
«Nella maggior parte dei laboratori si cantava. Oggi si sbuffa». Così
Charles Péguy descrive il modo di vivere il lavoro degli uomini della sua generazione. E parlando della loro
partenza, il mattino presto, per andare a lavorare, dice: «Andavano, cantavano. Lavorare era la loro gioia e la
radice profonda del loro essere. E la ragione del loro essere. C'era un onore indicibile nel lavorare, il più
bello di tutti gli onori, il più cristiano, il solo, forse, che stia in piedi». Ma chi può
accingersi al lavoro con questo spirito, con questo gusto, se non chi è ricolmo di una speranza fondata? Solo
chi sappia di essere al suo posto facendo quel che fa, solo chi possa riconoscere con evidenza la positività e
l'utilità del suo lavoro, solo chi sia certo non tanto di sé e della sua abilità, ma
altresì dell' essere inserito in una compagine sociale complessivamente sensata e la cui sensatezza sia
apertamente riconoscibile, solo costui potrà avvertire gioia ed avere in sé il sentimento dell'onore
nello svolgere un lavoro, di qualunque genere esso sia. «Durante tutta la mia infanzia - prosegue ancora
Péguy - ho visto impagliare delle sedie esattamente con lo stesso spirito, con lo stesso cuore, con la stessa
mano con cui questo popolo aveva dato forma alle cattedrali. (...) Quei lavoratori non servivano. Essi lavoravano.
Avevano un onore assoluto, com'è proprio di un onore. Il piolo della sedia doveva essere ben fatto. Era
inteso. Era una priorità. Non doveva essere ben fatto per il padrone né per gli intenditori, né
per i clienti del padrone. Esso stesso doveva essere ben fatto, in se stesso, per se stesso, nel suo essere. Una
tradizione venuta, salita dal più profondo della razza, una storia, un assoluto, un onore voleva che questo
piolo fosse ben fatto. Ogni parte non visibile della sedia era fatta esattamente con la stessa perfezione di quella
che si vedeva. E' lo stesso principio delle cattedrali».[4]
Nel nostro mondo, oggi, si è spesso separato il lavoro dalla speranza e il risultato è stato quello
della divisione del lavoro dal gusto, della sfera del lavoro dalla sfera del gusto o dell'affermazione di un gusto
disonorevole, per dirla con Péguy.
Il fatto che, insieme alla fatica e alla pesantezza nel lavoro, possa esserci un gusto, sta ad indicare che in esso
l'uomo può impiegarsi nella pienezza di sé, non solo per certe sue particolari attitudini, e ciò
in maniera non servile, senza "vendere" se stesso "vendendo" il suo lavoro.
Se per un verso il gusto è legato alla speranza, per un altro esso consente di vivere nel lavoro la dimensione
dell'offerta e della donazione di sé. Il lavoro "si ammala" o quando pretende di assurgere ad essere "il
tutto", oppure quando non arriva ad essere neppure "qualcosa". Il cristiano sa che il lavoro è qualcosa di
molto importante, perchè ne và di sé, della famiglia, della società, perfino della
verità della relazione con Dio (l'accidia e la pigrizia sono due vizi capitali), ma sa anche che il lavoro non
è "il tutto" e questo richiede che esso venga offerto al "Tutto", non per relativizzarlo e ridurlo, ma, al
contrario, per aprirne i confini oltre il suo orizzonte immanente. Non per nulla i sacerdoti ogni giorno in tutto il
mondo offrono sull'altare il pane e il vino al Signore e Creatore, ricordando espressamente che essi sono
«frutto della terra e del lavoro dell'uomo». Quei frutti della terra e del lavoro dell'uomo divengono
nella Consacrazione che segue l'Offerta, Corpo e Sangue di Cristo. Così ogni uomo e ogni donna che offrano il
loro lavoro a Dio, esercitano il loro ministero sacerdotale, in quanto battezzati, e santificano il lavoro
stesso.
Il lavoro vissuto nella speranza e nella gioia (e «il Signore ama chi dona con gioia»), nel momento in
cui viene offerto come primizia al Signore, consacra la storia, la vita, il tempo e la società degli uomini
con i quali viviamo e lavoriamo. Un uomo che lavori così diviene, di fatto, una presenza di benedizione per
tutti, quand'anche non lo sappiano o non lo vogliano riconoscere.
Con queste nostre riflessioni abbiamo voluto evidenziare il significato antropologico fondamentale
della prassi umana mostrando in breve come essa sia rilevante per il compiersi della verità dell'uomo. Il
lavoro quale modo dell'agire riveste anch'esso un ruolo di primo piano non solo per l'edificazione dell'umano
nell'uomo (autodeterminazione) ma anche per la potenzialità culturale che esso reca in sé. Nel modo di
lavorare, nell'organizzazione sociale del lavoro, nei significati personali ed esistenziali che esso contiene ed
esprime si afferma una concezione dell'uomo, della vita e della società. Nel modo in cui una società
lavora essa lascia trasparire qual è il suo senso del vero, del bene e del bello, essa lascia intendere se
è animata da una cultura di morte, cioè da una non cultura o se è guidata da quella
"intransitività" che caratterizza per natura la persona umana in quanto tale. Se cultura è forma della
vita, forma del vivere, il lavoro è uno dei principali fattori di cultura. La forza di un popolo si intravvede
dalla grandezza della speranza dalla quale è animato e da come essa è in grado di informare
capillarmente ogni singolo aspetto e ogni singola forma del vivere concreto e storico.
Una civiltà che coltivi dei grandi ideali e che non sappia trasformare il suo modo di lavorare in maniera
organica al fascino del vero, del bene e del bello, è una civiltà divisa e destinata a soccombere
dinanzi ad altre che, pur essendo meno potenti, sono però più unite in se stesse. L'occidente possiede
un ricco patrimonio dal punto di vista della cultura del lavoro, ma in esso sono subentrate logiche e forme contrarie
alla verità dell'uomo che rischiano di minare sia l'integrità della personalità, sia la
compagine sociale. C'è da auspicarsi che il nesso lavoro\cultura sia reso oggetto di una rinnovata attenzione
soprattutto da parte di una organizzazione sindacale come la Vostra. Ciò non potrà avvenire senza una
previa messa in questione della propria personale esperienza lavorativa e della relazione nella quale essa si trova
con la realtà familiare. Solo in seguito si potrà estendere acutamente lo sguardo alle patologie
sociali del lavoro e alle questioni di ordine strutturale.
Nella nostra società e nella nostra vita il lavoro è spesso troppo e troppo poco. Troppo perchè
le grandi imprese tendono sempre più a "comprare" la persona più che non ad assumere un dipendente per
un certo numero di ore giornaliere (vedi il modello asiatico o quello adottato dai grandi trust internazionali
che responsabilizzando il singolo al contempo lo incentivano a dare tutto all'azienda della quale egli diventa come
un'appendice). Troppo poco perchè sempre meno evidente e costatabile è il rapporto che il singolo
è in grado di stabilire tra le ragioni della ditta e quelle della sua vita, per cui tanto più razionale
diventa la logica interna ai singoli settori produttivi, tanto meno chiare diventano le ragioni del perchè si
debba produrre quel che si produce, se si eccettua la logica del puro profitto. In questa situazione quel che
è più importante è che l'uomo non smarrisca se stesso, dato che non serve a niente se l'uomo
guadagna il mondo intero e poi smarrisce se stesso (Lc 9,25). Credo che questo incontro di questa sera avesse come
scopo quello di iniziare di nuovo a ritrovare, almeno un pò, noi stessi. Nessuno di noi può fare questo
se non recuperando il senso del proprio lavorare. Spero che il mio contributo, quale modesta ripresa
dell'insegnamento ricchissimo di Giovanni Paolo II sul tema, possa agevolare questo nuovo inizio.
Nel nostro primo incontro ci siamo soffermati a considerare il lavoro dal punto di vista della
persona e quindi dal punto di vista del soggetto e dell'agire di questo soggetto. Abbiamo quindi considerato le prime
premesse del gesto lavorativo quali la motivazione, la speranza, il gusto, il senso ed anche le prime conseguenze di
un'etica appropriata del lavoro, quali la forma della vita, la cultura, in senso lato.
Oggi ci occuperemo invece delle dimensioni interpersonali del lavoro, cioè di quelle dimensioni che pur non
essendo estranee alla persona, la vedono però implicata con altre persone e in un organismo collettivo
più ampio. Già nel primo incontro abbiamo avuto modo di far cenno alla natura comunionale dell'uomo e
quindi di ogni sua attività. La persona infatti non è mai esistita come entità a sé fuori
dalla comunione, dalla comunità e dalla società con altre persone. Quindi quello che diremo oggi
andrà ad integrare e a rendere ancor più concreto quel che abbiamo affermato la volta scorsa.
Se l'esperienza del lavorare non deve diventare alienante per l'uomo, essa deve corrispondere
alla sua natura, a quel che egli è, e fa parte della natura dell'uomo l'essere in relazione con gli altri
uomini e il comunicare con loro. Dunque per essere veramente umano il lavoro deve essere anche un modo di relazione e
di comunicazione interpersonale e sociale, in caso contrario esso diverrebbe tendenzialmente disumano e
deformante.
a. Ruolo di formazione dell'uomo
Il primo ambito di relazioni significative e costruttive per ogni uomo, per l'uomo così come il Creatore lo ha
pensato, è sicuramente la famiglia. Nel disegno originario di Dio ogni uomo nasce all'interno dell'amore
dell'uomo e della donna e in questo luogo di accoglienza e di amore gratuiti egli inizia a diventare se stesso, a
formare la sua personalità, i suoi talenti ed apprende a metterli a frutto. Dentro la famiglia ognuno ha
appreso a conoscere se stesso, a sviluppare le proprie capacità ed abilità particolari e a dar forma ad
esse. Sappiamo anche troppo bene come un ragazzo, quand'anche fosse molto dotato dal punto di vista delle
facoltà personali, ma non avesse un ambito naturale di affetti e di cure, normalmente non riesca ad impiegarle
in modo proficuo e costante. La famiglia essendo il luogo di relazioni umane fondamentali è di un'importanza
insostituibile per la formazione dell'umano nell'uomo e quindi anche della sua capacità di lavoro. Per questo
le società nelle quali la famiglia è malata, sono società nelle quali anche il lavoro lo
è. Al contrario, laddove la famiglia è sana, quand'anche le strutture economiche siano deboli o
inadeguate, essa viene a rappresentare un importante fattore per una potenziale ripresa. (Si confronti al riguardo la
situazione irlandese rispetto a quella inglese). Qui il criterio di valutazione non è il reddito pro capite,
né il prodotto interno lordo di un paese o la redditività delle singole aziende, ma un fattore umano
che può convergere con questi indicatori, come può divergere da essi.
Oggi anche gli autori economicamente più liberalisti riconoscono il ruolo che la famiglia giuoca nel
processo economico globale, salvo fare poi di questo riconoscimento un ulteriore fattore di
strumentalizzazione.
Tutte le diverse relazioni intrafamiliari hanno un loro significato in ordine alla formazione della dimensione
lavorativa della personalità. Facciamo alcuni semplici esempi. Il rapporto col padre è quello che fa
intendere al bambino che non tutto si può fare e che quel che si può fare va fatto in un certo modo e
non in un altro. In altre parole, la figura paterna è quella che favorisce l'interiorizzazione della norma
e quindi consente al figlio di comprendere come l'ottenimento di un determinato obiettivo non sia possibile se non
passando attraverso una serie di mediazioni che, se in primo momento sembrano allontanarlo, in realtà
costituiscono il percorso attraverso il quale esso può essere realmente conseguito. Da questo punto di
vista, l'indebolimento della figura paterna comporta l'accrescersi del numero di ragazzi che non si sanno adattare
al rispetto della legge e della norma, senza la quale in realtà non è possibile alcun tipo di lavoro,
perchè la sentono come troppo riduttiva (ribelle), oppure, al contrario di ragazzi che piegano supinamente ad
essa senza alcuno spirito critico e creativo (omologato). Sia nel primo caso che nel secondo, da un difetto di
relazione intrafamiliare, si hanno conseguenze negative nell'ambito lavorativo.
Se guardiamo adesso al significato del rapporto con la madre, possiamo dire, in generale, che esso insegna
un'accoglienza senza condizioni, gratuita e tendenzialmente illimitata. Questa esperienza forma nel bambino la
capacità di non bloccarsi davanti ai propri limiti, ma di riconoscerli e quindi anche il tentativo di
superarli, proprio in forza di qualcosa di più grande e determinante: il valore della propria persona che
eccede ogni sua possibile prestazione. Questa magnanimità che egli ha esperimentato come rivolta a sé,
egli la saprà in seguito rivolgere anche verso altri, non facendo della competitività e dell'efficienza
l'unico registro della relazione con gli altri, e ciò in particolare in quel luogo del paragone e del
confronto che è il lavoro. L'assenza o la insufficienza della presenza della figura materna provoca la durezza
e l'intolleranza, l'incapacità di gratuità e di percezione del valore di sé e dell'altro come
trascendente ogni singola prestazione.
Osservazioni analoghe potrebbero essere fatte sul significato della relazione fraterna e sul fatto che oggi in Europa
la presenza di figli, nella più parte dei nuclei familiari, non supera l'unità o le due
unità.
b. Ruolo esperienziale che motiva ("per altri")
La realtà della famiglia può essere guardata oltre che dal punto di vista della figliolanza, come
abbiamo brevemente fatto finora, anche dal punto di vista della coppia genitoriale, e quindi dell paternità e
della maternità.
Da questo punto di vista dobbiamo subito rilevare che è nell'unità dell'uomo e della donna, e quindi
nel formarsi a sua volta una famiglia, che l'uomo entra nel livello più maturo della sua umanità. Non
c'è, dal punto di vista dell'esperienza umana, qualcosa che possa essere paragonato al diventar padre e al
diventar madre. In questo mistero della generazione all'uomo e alla donna è dato qualcosa che sorpassa d'un
colpo tutta la dimensione del "fare", del "lavorare". Per quanto essi possano fare e lavorare nell'arco di tutta
la loro vita, nulla potrà mai portarsi all'altezza di quel che è loro donato nella generazione. Nessuna
loro opera, nessun loro lavoro sarà all'altezza di quel figlio e di quei figli che sono loro dati.
Questo semplice rilievo riveste un significato straordinario dal punto di vista del lavoro e consente di collocarlo
esperienzialmente nel modo giusto. Se generare è più che lavorare, se nel mistero della generazione
c'è racchiuso ed esplicitato qualcosa di più e di diverso di quel che è implicito nel lavorare e
produrre, allora è lecito chiedersi se nella nostra vita, nella nostra famiglia, nella nostra
società sia riconosciuto e ossequiato questo primato della generazione sul lavoro, o se non si identifichi
piuttosto la fecondità con la produzione.
Nella paternità e nella maternità l'uomo e la donna sono veramente fecondi e di una fecondità
che è donata da Dio, il quale non essendo in sé sterile, ha creato l'uomo a sua immagine e somiglianza,
e quindi capace di generare. La paternità e la maternità introducono l'uomo e la donna in un modo
diverso d'essere: essi non sono più soli, la loro esistenza non è più circoscritta solo a se
stessa, ma hanno fatto dono della vita ad un altro, ad altri e vivono il prosieguo di quella donazione che è
stata la generazione nella donazione del lavoro. Con la paternità e la maternità loro sono cambiati e
con loro è cambiato anche il lavoro, il senso del loro lavoro. Adesso essi non lavorano più solo per se
stessi. Nel loro lavoro entra la presenza dei loro figli. Questo significa che il loro lavorare è
abbracciato dal loro generare, che il significato minore (lavoro, produzione, creatività) sta dentro quello
maggiore (generazione). Essi lavorano adesso per altri, lavorano per qualcosa di più grande del lavoro e
proprio per questo possono lavorare bene, sia nel senso di fare un buon lavoro, sia nel senso di avvertire il lavoro
come qualcosa di ancora più buono.
Si può intuire, anche da questi brevi accenni, come l'impoverimento dell'esperienza del lavoro sia nella
nostra società dovuta in gran parte all'isterilimento delle nostre famiglie e quindi alla perdita del giusto
nesso tra paternità, maternità e lavoro. La generazione è sempre più estraniata dalla
produzione. In un numero esorbitante di casi noi possiamo documentare il conflitto aperto tra la logica della
paternità e della maternità e quella lavorativa e produttiva. Ma l'uomo che non lavora più
"per un altro", che lavora solo "per sé", tende ad identificarsi con il suo ruolo lavorativo, quasi a
coincidere con esso e quindi a diventare un pezzo del sistema nel quale si inserisce, un'appendice del processo
globale. Nel suo lavorare non è più presente alcuna trascendenza perchè non è più
presente la dimensione del "per altri", non è più presente l'altro. Così il lavoro smarrisce
anche il suo carattere donativo e di gratuità, tutto si risolve nell'equazione tra quel che si presta e quel
che si è pagati. Come se il lavoro dell'uomo si potesse pagare e non avesse invece un valore così alto
da risultare in realtà impagabile. L'uomo che lavora solo per sé, senza avere l'altro nel suo
orizzonte, tende a diventare uno schiavo, uno che è succube di quel che fa e di chi lo paga.
Questo primo livello d'implicazione dell'uomo nelle relazioni fondamentali con la famiglia è quello che
possiamo chiamare comunionale.
Una caratteristica costante che definisce insieme ad altre il lavoro dell'uomo è quella per
cui si lavora sempre "con altri". Dobbiamo considerare ora la dimensione del "noi". La mondializzazione del
mercato e lo sviluppo informatico per certi versi hanno reso maggiormente evidente questo aspetto del lavoro, per
altri versi invece l'hanno impoverito di contenuti.
Lavorare significa inserirsi in una comunità di lavoro. Ciò vale per ogni tipo di lavoro. Pertanto il
lavoro viene ad essere come un linguaggio (Tischner) mediante il quale si comunica. Ogni perturbazione che attraversi
questo linguaggio si riverbera come alterazione del lavoro e viceversa. La coscienza di questa comune appartenenza ad
un "banco di lavoro comune", come lo ha chiamato Giovanni Paolo II nella Enciclica sul lavoro, stringe gli uomini del
lavoro in una solidarietà che è tanto più forte quanto più chiaro è il senso di
essere membri di una comunità.
Il fatto che io lavori "con altri" lungi dall'essere un elemento estrinseco al lavoro, è invece uno degli
aspetti antropologicamente più rilevanti e quindi più decisivi per la qualità dell'esperienza.
Lo spessore umano del lavoro si può dire compreso 1) dal nesso che esso ha con la mia persona, 2) dal fatto
che è "per altri" ed 3) insieme "con altri".
Il lavoro è un luogo specifico di relazione e favorisce una modalità specifica di rapporto. Il fatto
che molto spesso coloro con i quali si lavora non siano persone che si sono scelte reciprocamente, ma che si sono
trovate a lavorare insieme, mette alla prova l'effettiva capacità di relazione e la stessa verità delle
relazioni che si vivono all'interno del nucleo di rapporti privilegiato e preferenziale che è la famiglia. Una
relazione vera infatti tende a comunicarsi e ad ampliarsi rendendo capaci di incontrare anche l'estraneo o il
concorrente, superando lo schema dei ruoli ed andando verso la persona. Il lavoro può diventare dunque il
luogo di un amplificazione delle relazioni e di incremento della verità e della giustizia, oppure una palestra
di esercizio all'indifferenza e al misconoscimento.
Un'illusione che oggi facilmente prende piede è inoltre quella di chi crede che nel mondo del lavoro o
nell'ambiente di lavoro non solo le relazioni personali non siano auspicabili, ma che siano addirittura da rifuggire,
essendo semplicemente sufficiente uno scambio basato sulla materia di lavoro. In sostanza per essere lavorativamente
"corretti" sarebbe sufficiente fare dell'oggetto del lavoro specifico il "medio" della comunicazione. In questo modo
il lavoro diverrebbe più importante dei soggetti del lavoro stesso. Ma questo capovolgimento è
inammissibile. Quel che c'è di più "serio" nel lavoro è che in esso vi sono impegnati degli
uomini. Quel che c'è di più prezioso nel lavoro è che in esso ne va dell'uomo.
Il rischio grave in cui incorrono le società occidentali, non meno di quelle del grande oriente, è
quello di concepire il lavoro come un "medio impersonale" nel quale l'umanità e la personalità
dell'uomo sono inessenziali e quindi puramente funzionali. Tutto ciò che va affermandosi a livello
macroscopico potrebbe trovare un tacito, benchè colpevole assenso, in chi pensasse in questo modo di potersi
assentare dal rischio dell'incontro e della relazione, per spostare l'essenziale sulla retribuzione (moneta contro
forza lavoro) e sull'incremento della relazione di dominio (uomo\natura). Coloro, invece, che vivono in modo non
alienato dalla loro umanità la dimensione lavorativa, ricercano sempre attivamente in essa le relazioni che
rendono comunità una massa di uomini e che trasformano in storia il tempo quantificato e mercificato delle
aree asettiche di lavoro ripartite in nicchie molto collegate ma non comunicanti. E' questa a cui siamo chiamati una
lotta per il senso del lavoro. E' una lotta che dobbiamo condurre per tutti a favore del senso umano del lavoro. E'
una lotta altrettanto importante rispetto a quella contro la disoccupazione e la sanità degli ambienti di
lavoro, perchè, lo sappiamo bene, «non di solo pane vive l'uomo», e inoltre, anche il pane
può essere avvelenato. Un lavoro cui sia sottratto il suo significato vitale è un lavoro che ci
dà un pane inquinato. Dunque la nostra lotta per il senso, la nostra lotta quotidiana volta a spezzare le
pareti del non senso nel lavoro, è una lotta per un pane vero, per un pane che nutre, senza avvelenare giorno
dopo giorno la nostra e l'altrui umanità. La costruzione della nostra trama di rapporti e di relazioni
all'interno di ogni ambiente lavorativo è volta innanzitutto ad affermare la vita che è presente nelle
nostre famiglie, che costituiscono il primo ambito di verità delle relazioni, ad affermare altresì la
verità delle relazioni che viviamo in quella comunità nuova, che è anche un luogo di relazioni
nuove, che è la comunità cristiana. Dalla novità dei rapporti che noi viviamo negli ambiti
"comunionali" ci viene anche l'energia morale e l'intelligenza necessaria a resistere alla cattiva inversione,
secondo la quale la logica dell'impersonale dovrebbe sovrastare quella delle persone. Il lavoro deve restare e deve
sempre di più essere un lavorare "con altri".
La terza dimensione sulla quale vogliamo richiamare l'attenzione è quella sociale, a
questo punto chiaramente distinta e distinguibile sia da quella comunionale che da quella che abbiamo chiamata
comunitaria. Ogni lavoro non si svolge solo in un contesto comunionale e comunitario, ma anche in un contesto sociale
ben definito. Il vostro lavoro si svolge all'interno del sistema lavorativo che è proprio della
società svizzera e quindi, all'interno dell'Europa, in uno dei paesi più avanzati e più
ricchi.
Che cosa comporta l'inserimento del lavoro in un sistema sociale determinato? Come si configura storicamente questo
inserimento? Noi siamo chiamati a considerare tutto ciò dal punto di vista della dottrina sociale della
Chiesa, cioè da un punto di vista che tiene conto dei fattori strutturali in quanto vengono ad assumere un
significato e un rilievo antropologico ed esistenziale. Tutta la dottrina sociale della Chiesa infatti è un
tentativo di apportare un giudizio su delle forme sociali storicamente determinate, a partire dalla verità e
in vista della verità sull'uomo e sulla relazione tra gli uomini. La persona e quella modalità di
unità fondamentale voluta dal Creatore tra l'uomo e la donna che è la famiglia, costituiscono i criteri
principali a partire dai quali e sui quali modellare il giudizio su tutte le forme e i modi di strutturazione sociale
e lavorativa. Il primo e più grave pervertimento nel giudizio è proprio quello che fa seguito ad uno
scambio indebito dei criteri e dei riferimenti del giudizio stesso.
Cerchiamo un inizio di risposta alla domanda che ci siamo posti additando quattro livelli nei quali si gioca la
complessa articolazione lavoro/società, senza pretesa alcuna di esaustività.
Il primo concerne proprio la realtà familiare. Siamo costretti a interrogarci sulla qualità del nesso
che c'è e su quello che dovrebbe sussistere tra la forma sociale che il lavoro va concretamente assumendo,
modificandosi di ora in ora, e la natura, la vita, le esigenze della famiglia. Troppo spesso, e ormai sembra quasi
normativamente, la famiglia deve subire, senza possibilità di replica, le condizioni che un certo apparato
economico e una certa logica sociale che gli tien dietro, di fatto impongono. La realtà familiare non
dovrebbe, secondo taluni, poter dire nulla sulle forme sociali che il lavoro assume e dovrebbe assecondarle,
adattandosi ad esse, e quindi modificando di volta in volta il proprio assetto e il proprio volto, nel tentativo di
conformarsi ad una logica che può anche contravvenire, per certi suoi aspetti, l'etica propria della vita e
dei rapporti familiari, o addirittura contraddirla apertamente.
Nelle nostre società occidentali, sempre più la forma del lavoro è concepita prendendo come
interlocutore il singolo individuo che ipoteticamente disporrebbe atomisticamente del proprio tempo e delle proprie
risorse e non la realtà della famiglia con i suoi ritmi e le sue specificità relazionali.
Ciò alla lunga ha prodotto una vera e propia sfigurazione delle relazioni intrafamiliari, le quali stanno alla
base sia di alcuni fenomeni di disagio e di disordine sociale, sia di una diminuzione della capacità
lavorativa.
Una buona definizione sociale del lavoro richiede dunque una seria presa in considerazione delle esigenze della vita
della famiglia. Perchè ciò sia possibile è necessaria una politica della famiglia che diventi
regolativa per l'ordinamento dei processi lavorativi. Questo chiama in causa un ordine di problemi ancor più
vasto che sta sulla linea dei rapporti tra economia e politica.
Il secondo livello cui vogliamo accennare è direttamente conseguente al primo e riguarda l'educazione, la
formazione e, in generale, la dimensione culturale. Il sistema lavorativo è sempre connesso con una fase di
iniziazione al lavoro che è rappresentata, se non in tutto, almeno in buona parte, dall'istituzione scolastica
e da centri formativi di vario genere che veicolano i contenuti che in una dterminata società vengono
ritenuti come fondamentali e caratterizzanti l'appartenenza ad essa.
Anche qui, come nel livello che riguardava la famiglia, è in questione qualcosa di essenziale per la persona
umana e quindi si dovrà rifuggire sia da una funzionalizzazione eccessiva dell'educazione e dell'istruzione
all'ingresso nel mondo del lavoro, sia da uno stacco totale tra questi due mondi. Quel che è veramente
importante è che lo snodo concreto tra scuola e lavoro possa svolgersi entro una garanzia di libertà e
che esso non venga appropriato unilateralmente da un soggetto unico e monopolistico. Il monopolio dell'istituzione
educativa e formativa è una cattiva premessa per una società che voglia essere realmente pluralistica e
rispettosa delle diversità che in essa di fatto vengono a coabitare. In Europa oggi è in corso una vera
e propria battaglia dei cristiani per la libertà di educazione e tale battaglia non è affatto estranea
al mondo del lavoro.
Il terzo livello cui ci richiamiamo è quello della persona. In verità dalla persona si sarebbe
dovuto partire perchè essa resta sempre il fine: sia la comunità familiare, sia la comunità
sociale hanno come loro scopo il bene delle persone. Dobbiamo però costatare che spesso, anche in questo
piano, si verifica un rovesciamento delle priorità, che può essere riconosciuto e smascherato proprio
prendendo l'uomo come criterio di giudizio della strutturazione socialmente vigente del lavoro. I punti critici sono
tali e tanti che sarebbe impervio in questa sede anche solo elencarli. E' nostro compito rilevarli e collaborare al
superamento delle incongruenze tra la verità dell'uomo e le concrete forme sociali del lavoro.
Il quarto livello che intendiamo menzionare è quello delle associazioni dei lavoratori e in particolare dei
sindacati. Tali aggregazioni in quanto possiedono una identità, da un lato non dovrebbero risultare facilmente
soggiogabili da parte dei centri di gestione dei diversi poteri, siano essi economici o politici, dall'altro
potrebbero svolgere una funzione di mediazione di istanze che potrebbero contribuire fattivamente ad una regolazione
del lavoro secondo criteri e giudizi non totalmente omologati alle logiche del mero profitto e della pura
redditività. Un sindacato che abbia una sua fisionomia e che non si asserva completamente agli interessi
dominanti una determinata stagione e determinate congiunture, potrebbe certamente favorire una maggiore umanizzazione
del mondo del lavoro e quindi della qualità del legame sociale. La divaricazione crescente tra la
verità dell'uomo e i modi socialmente egemoni del lavoro e della produzione, costituisce di fatto una cattiva
premessa per tutta la compagine sociale, foriera di tensioni che prima o poi verranno alla luce nei modi più
disparati. Una sana dialettica previa può evitare lo scoppio successivo cui stiamo assistendo in tutte le
società occidentali più avanzate. In questo il sindacato possiede un suo ruolo insostituibile.
L'inserimento del lavoro personale in una determinata società comporta inevitabilmente la necessità di
prendere parte a quella cultura, a quel sistema di valori, di consuetudini, di evidenze morali che la regolano. Ne
sanno qualcosa i nostri amici che lavorano nel volontariato internazionale e che cercano di far dialogare il nostro
modo europeo di lavorare con le culture più diverse in tutti gli angoli della terra. Ma anche rimanendo in
Europa, basta spostarsi in Ucraina o in Russia, per accorgersi di quanto sia determinante l'appartenenza culturale
sulla concezione e la prassi lavorativa. Anche i processi più semplici ed apparentemente elementari
nascondono una mentalità che li ha forgiati e senza la quale non si sarebbero mai conformati in quel modo.
Ciò conferma il fatto che nessuna opera dell'uomo può essere trattata avalutativamente, come se potesse
essere indifferente dal punto di vista del senso e del valore.
La domanda che ora emerge come inevitabile è quella sulla qualità della cultura che domina la
società nella quale viviamo e lavoriamo. Solo iniziando a rispondere a questa domanda potremo riappropriarci
della molteplicità dei significati, dei valori e portare un giudizio sui non sensi e disvalori che sono
presenti nel nostro ambito lavorativo. Nè il singolo uomo del lavoro, né un sindacato nel suo insieme,
possono muoversi adeguatamente in assenza di un giudizio preciso e puntuale a questo interrogativo. La formulazione
di un simile giudizio costituisce in verità la prima parte di quello che Tischner ha chiamato "il lavoro sul
lavoro".
Innanzitutto dobbiamo dire, a mò di premessa, che il soggetto appropriato in grado di
formulare un giudizio sulla cultura, che all'interno di una determinata società informa di sé la sfera
lavorativa, può essere solamente un soggetto comunionale e comunitario. Il singolo può riuscire in una
tale impresa solo in quanto membro organicamente vincolato ad un corpo che rechi già al suo interno
un'esperienza di relazioni che già si svolgono secondo modalità più adeguate alla verità
dell'uomo. Solo l'esperienza di una più grande umanità può effettivamente smascherare una
insorgente e avanzante disumanità, riconoscerla e additarla a tutti. Da questo punto di vista si deve
riconoscere alla famiglia, in quanto società sui iuris, uno straordinario e privilegiato potere nel
fornire una intelligenza alternativa, capace di snidare la menzogna sociale, dovunque essa si attesti. Nelle
relazioni familiari vissute in modo vero, santo e giusto, è contenuto un altissimo potenziale di giudizio e di
verità per la società intera.
Il sindacato dei lavoratori cristiani rappresenta senz'altro un altro ambito di rapporti umani, di amicizia, di
compartecipazione di problematiche e di situazioni esistenzialmente significative che può e deve tentare
sempre di fornire un giudizio culturalmente rilevante sulla situazione lavorativa con la quale si trova ad avere a
che fare. Esso ha di per se stesso la natura di un soggetto sociale di grande importanza e il primo e più
immediato modo in cui un soggetto testimonia la sua vitalità è proprio la capacità di
formulazione di un giudizio autonomo, non dipendente dale centrali del potere finanziario ed ideologico, ma aderente
alla vita dell'uomo reale e storicamente operante.
Nelle società occidentali tale soggettività viene oggi tentativamente assoggettata a funzioni
supplementari che vengono commissionate al sindacato, lasciando così sussistere l'apparenza di un ruolo
sociale effettivo, ma riducendo l'effettualità alla elargizione di servizi di vario genere. Un sindacato
che lasciasse identificare il suo ruolo sociale con la congerie delle prestazioni assistenziali, burocratiche e di
altra natura, in realtà abdicherebbe al suo compito storico insostituibile che è quello di essere un
soggetto sociale attivo, irriducibile e originale. In esso, infatti, nella qualità delle relazioni umane che
lo caratterizza, si trova il principio e il presupposto di una visione d'insieme che non si può reperire
altrove, neppure nella facoltà di sociologia o in quella di economia e commercio dell'università.
Esse mancano normalmente di quella qualità della relazione che viene a costituire l'origine che giustifica
l'originalità del punto di vista che muove l'intelligenza.
In queste poche battute conclusive tenteremo un giudizio sulla fisionomia attuale del lavoro
prendendo come riferimento gli studi di Bernard Perret e Pierpaolo Donati.[5]
In primo luogo dobbiamo notare, con Perret, come la sfera economica tenda sempre più ad appropriarsi di
norme di relazione che tradizionalmente erano regolate dalla sfera sociale nel suo insieme. Gli esempi portati da
Perret sono quelli del «rapporto tra il valore del denaro, il valore degli oggetti e quello del lavoro,
all'identificazione e alla gerarchizzazione delle competenze, insomma a tutto ciò che fà delle
attività economiche un sistema d'orientamento, di misura e di balisage di un mondo nel quale gli uomini
possono agire insieme. Ad un livello più profondo l'organizzazione economica interferisce ugualmente con le
norme di comportamento che guidano l'implicazione di ognuno all'interno del proprio lavoro, le regole di
reciprocità non scritte che consentono lo sviluppo dei rapporti di cooperazione informale, il rispetto degli
impegni assunti, ... Nelle nostre società l'apprendimento dei codici elementari che rendono possibile la
gestione non violenta delle situazioni e transazioni relazionali ordinarie avviene in un grado sempre crescente sotto
l'impresa dell'ordine economico» (110).
Da un punto di vista d'insieme, questa preminenza che diviene sempre più strutturale dell'economico sul
sociale, comporta una disumanizzazione progressiva delle dinamiche lavorative, distanziando la sfera
dell'attività lavorativa da quella dell'appartenenza sociale e trasformando contemporaneamente sempre
più la legalità economica in legalità sociale.
Un secondo rilievo riguarda la forte variabilità che l'interferenza del piano economico induce. Essa, secondo
Perret, tende a sostituire la modalità interpersonale di rapporto con l'astrattezza delle transazioni di
mercato. «Finora la forma contrattuale - scrive Perret - è stata quella tipica nella regolazione dello
scambio sociale. Ora il paradigma contrattuale è in disfatta. ... La convenzione basilare per cui la
dichiarazione esplicita di due volontà faceva sì che un contratto fosse definitivamente acquisito sta
saltando, con la scusante che ci sarebbero fattori fluttuanti che la possono mettere in questione. Viene quindi messa
in questione la volontà come fonte unica d'obbligazione. La dimensione astratta degli scambi prenderebbe il
sopravvento su quella concreta delle persone che si accordano su oggetti definiti» (112). «La ricerca
della novità e dell'originalità diventa un valore in sé, accentuando ancor di più il
carattere instabile, arbitrario e volatile della gerarchia dei simboli. Oggi si brucia quel che ieri si adorava (C.
Goldfinger)» «Una tale economia non può pretendere di restare la grammatica naturale dell'agire
insieme» (113). Per sopravvivere restando al passo con questa mutabilità eretta a metodo, è
necessario indossare un abito relativista e imparare a conformarsi nel minor tempo possibile, senza presentare
obiezioni.
Un altro fattore di cambiamento è dato dall'emergere di nuovi tipi di lavoro che non rientrano così
facilmente nei parametri classici e per i quali non è possibile usare i criteri obsoleti di valutazione. Essi
richiedono in parte uno sforzo di nuova definizione per poter rientrare in quel che fino a ieri si chiamava lavoro,
dato il carattere astratto delle nuove forme di produttività. Inoltre il lavoro tende in molti casi a smarrire
il carattere stabile che aveva e a trasformarsi in una serie di prestazioni che vengono retribuite come tali.
Ciò muta il soggetto del lavoro in un prestatore di servizi e il datore di lavoro in un elargitore di una
retribuzione per ognuno di essi.
Che ci sia una tendenza, in un numero sempre più crescente di occupazioni alla diminuzione di mansioni
manuali e ripetitive e all'incremento di posti nei quali si richiedono «figure professionali più
qualificate, più capaci di interagire con altri lavoratori, più in grado di adattarsi con
flessibilità alle esigenze dei processi produttivi»[6]è sotto gli occhi di tutti. Che tutto ciò possa rappresentare per
colui che lavora una maggiore possibilità di esplicitazione delle sue risorse umane, questo è da
vagliare attentamente. Sempre di più, infatti, le qualità che finora venivano considerate come
unicamente soggettive e personali (capacità di relazione, simpatia, creatività, ed altre virtù
anche morali), vengono "prezzate" e acquistate dalle imprese. E' dubbio che a questa compra-vendita debba far
seguito una superiore realizzazione di sé di colui che entra nel processo produttivo o di mercato in questa
maniera.
Perret nel suo studio documenta come una serie di dati e di circostanze rendano improbabile che determinati aspetti,
antropologicamente rilevanti, possano trovare una loro regolamentazione in una fisiologia del lavoro abbandonata a se
stessa. Egli propone quindi la ripresa di un controllo sociale su tali aspetti e una regolamentazione socialmente
condivisa che li orienti, piuttosto che esserne orientata supinamente. Questa ripresa del controllo del sociale
sull'economico sembra oggi fortemente problematica dato che si tende, al contrario, ad assecondare le dinamiche che
lasciano intravvedere uno sviluppo e una crescita maggiore e, in secondo luogo, perchè le società
occidentali sono gravemente segnate da una schizofrenia che divide in maniera innaturale l'etica privata da quella
pubblica.[7] Tuttavia l'invito di Perret ad una
ridiscussione dell' «potenziale normativo dell'ordine produttivo» si scontra con la frammentazione
dell'universo del lavoro e l'asimmetria e l'asincronicità socialmente diffusa che esso promuove e che viene ad
ostacolare l'aggregazione degli uomini del lavoro.[8]
«L'eterogeneità dei mondi produttivi non consente più a questi di aggregarsi per costituire un
luogo politico, cioè un terreno nel quale, grazie alla cooperazione, si determinano il conflitto o la
negoziazione, l'identità dei gruppi sociali e la configurazione dinamica dei loro rapporti» (183).
«Un minimo di sincronizzazione dei ritmi sociali è necessaria all'esistenza di una società
civile distinta dal mercato: le persone devono poter avere la possibilità concreta di incontrarsi e di
organizzarsi (nelle associazioni e nei partiti) al di fuori del loro lavoro. Se non si fa attenzione a questo, non
solo il lavoro non genererà più dei legami sociali stabili, ma le condizioni entro le quali
dovrà essere esercitato condurranno ad un indebolimento degli spazi di socializzazione che sfuggono ancora
alla logica del mercato»(192).
Il fenomeno della "terziarizzazione del lavoro", in notevole incremento, va anch'esso considerato attentamente in
tutti isuoi risvolti. Esso si presenta come fondamentalmente ambiguo, perchè, se da un lato implica una certa
liberazione dalla fatica e da orari insopportabili, dall'altro provoca una «crisi dell'integrazione sociale
mediante il lavoro»: ineguaglianza retributiva; differenziazione degli orari; mobilità; etc. Ciò
ha provocato una dispersione del mondo del lavoro e una dissoluzione delle forme di solidarietà collettiva
legate al lavoro comune. Inoltre, rileva Perret, «l'impresa moderna è più spesso un'avventura
che un'istituzione e le forme di socializzazione che essa consente non favoriscono necessariamente l'integrazione
d'insieme della società» (191).
Un altro aspetto di estrema importanza sul quale è necessario sensibilizzarsi, è quello della
autonomizzazione tendenziale dell'ordine economico, non solo da quello sociale e politico, ma anche da quello
giuridico. Questo rilievo è tanto più significativo per il fatto che nell'Europa occidentale sono
in atto dei processi di autentica revisione e cancellazione di quelli che sono stati per secoli i capisaldi dello
stato di diritto. Si pensi, ad esempio, alla centralità della nozione di 'persona'. Tutti i diritti
fondamentali ruotano attorno a questo asse. La rimessa in discussione attuale va a scuotere proprio le fondamenta. Il
diritto del lavoro non uscirà certo indenne da questo terremoto avviato.
Il Creatore ha stabilito un ordine di appartenenza ai diversi ambiti relazionali presenti nella vita di un uomo. Ognuno di essi riveste un ruolo e un significato specifico insostituibile e quindi irrimpiazzabile da un altro. Nella loro diversità e irriducibilità questi ambiti contemplano però anche una gerarchia la quale è definita dalla qualità della loro reciproca coappartenenza. Come c'è una natura dell'uomo che va rispettata se non si vuol sconvolgere la realtà umana stessa, allo stesso modo c'è una natura della comunionalità e della socialità che non può essere trasgredita senza che l'uomo ne subisca un contraccolpo. In questa gerarchia al primo posto c'è l'ambito comunionale. Esso rimane metodologicamente ed esperienzialmente il primo e quindi anche quello a cui in qualche modo restano legati quello comunitario e quello sociale. Oggi si tende a scardinare l'idea stessa che esista una natura dell'uomo e sempre meno si riflette sul fatto che esiste anche una natura della comunione, della interpersonalità, che chiede di essere rispettata e non reinventata, quasi fosse plasmabile indefinitamente e arbitrariamente. Il rispetto della natura assegnata all'uomo si compie o si nega soprattutto nell'ossequio delle relazioni entro le quali si determina di fatto la sua umanità. Immaginare di poter soprassedere alla logica creaturale delle relazioni, significa intraprendere il più grave misfatto nei confronti dell'uomo, creare una premessa pericolosissima di alterazione "genetica" dell'uomo. Di fatto le società avanzate prima di procedere alla manipolazione genetica di quello che chiamano con terminologia nazista il "materiale umano", hanno percorso lungamente la via della manipolazione della natura e della genesi spirituale dell'uomo, molto più pericolosa e distruttiva di quella biologica e, senza la quale, quella biologica non si sarebbe neppure potuta pensare.
Soffermandoci a riflettere sul nesso che esiste tra la nostra identità cristiana e la
realtà lavorativa, intendiamo toccare alcuni fattori della nostra esperienza per riappropriarcene in una
maniera più decisa e consapevole. La nostra preoccupazione principale non sarà quindi quella di
approntare un'analisi strutturale e congiunturale su fatti e situazioni che ci potrebbero incontrare come dal di
fuori della nostra vicenda personale, quanto di individuare quel punto della nostra vita e della nostra esperienza a
partire dal quale possiamo riattivare la nostra soggettività, la nostra possibilità di essere soggetti
attivi in una maniera non puramente funzionale alle richieste e alle pressioni della società
contemporanea.
L'orizzonte sullo sfondo del quale intendiamo muoverci è costituito da un lato dalla realtà delle
nostre persone concrete, dall'altro da un'attività lavorativa che implica un altro livello della
realtà, quello sociale, con il quale abbiamo a che fare e alla cui costruzione in parte noi stessi
contribuiamo. Se considerassimo solo la realtà delle nostre persone, la nostra considerazione, in una certa
misura, rimarrebbe astratta, se, al contrario, rivolgessimo la nostra attenzione unicamente alla conformazione
sociale e al mondo del lavoro nella sua strutturazione attuale, la nostra riflessione in un modo o nell'altro
rimarrebbe ideologica. La scommessa che ci si para dinanzi è quella di tenere presente i dati obiettivi con
i quali abbiamo quotidianamente a che fare, ma in relazione al mistero della nostra umanità personale e
comunionale, che tra tutte le cose del mondo è la "cosa" più reale. Infatti, come dice il Signore,
«a che giova all'uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde se stesso?».
La costatazione da cui intendiamo partire è che l'uomo è un essere che possiede
un centro. La cultura del nostro tempo tende a far passare un'immagine di un uomo tendenzialmente manipolabile in
maniera indefinita, di un uomo frammentato o fluido, diviso o policentrico, di un uomo che può estendersi e
restringersi a piacimento in tutte le direzioni, di un uomo che non ha una natura sua propria, ma che può far
di sé quel che vuole. Questa concezione dell'uomo, se in un primo momento può apparire come più
affascinante e più emancipata, in realtà nasconde in sé una premessa fortemente nichilistica.
Infatti, se l'uomo è una pasta plasmabile a piacimento, ciò sta ad indicare che egli non possiede una
natura come data e quindi se la deve inventare di volta in volta da sé, o meglio, più realisticamente,
secondo le indicazioni che gli vengono dai centri organizzati del potere, siano essi di tipo informativo, culturale,
finanziario, ideologico, economico, etc.
Secondo la nostra esperienza e secondo il nostro modo di vedere, invece, l'uomo possiede una natura che gli è
assegnata ed essa è contrassegnata da un centro che possiamo chiamare 'Io'. Tutto quel che l'uomo fa, tutto
quel che esprime, tutto quello che intraprende, che percepisce e che intuisce, tutto è legato al suo 'Io'.
In ogni esperienza e in ogni circostanza della vita tutto acquista senso o rimane privo di senso, a seconda della
relazione che si stabilisce con il proprio 'Io'. Anche la cosa più grande, più vera e più bella
non ha senso per l'uomo, non è neppure buona, vera e bella finchè non entra in relazione con lui e
finchè egli stesso non ne veda il nesso con sé. Al punto che la crescita dell'uomo si può
definire come un rafforzarsi e un consolidarsi dell' 'Io' e tale consolidamento non avviene mai senza una correlativa
confermazione della capacità di stabilire dei nessi con la realtà nei suoi particolari e nella sua
globalità. In qualsiasi modo l'uomo voglia sviluppare se stesso e in qualsiasi modo sviluppi la sua
relazione con il mondo a lui esterno, egli non potrà mai fare a meno di accrescersi a partire da un centro
che non ha scelto e che non può nemmeno togliersi di dosso, quasi fosse un orpello inessenziale della sua
umanità.
Il fatto elementare che l'uomo abbia un centro, significa anche che possiede una identità. L'uomo non ha solo
un 'Io', un centro di tutti i suoi atti, di tutte le sue percezioni, di tutti i suoi pensieri, i suoi giudizi e le
sue scelte, ma possiede anche un volto, un nome, una personalità. L'uomo è persona e, in quanto
persona, si rivela come non solo centrato su se stesso. Quando noi riconosciamo che qualcosa è
indiscutibilmente vero o è indiscutibilmente giusto, riconosciamo che c'è una verità o una
giustizia che è tale in se stessa e che ci giudica. Tanto è vero che noi giudichiamo sempre a partire
da una verità che viene ad essere come un metro del giudizio, ma non giudichiamo la verità stessa. La
verità la riconosciamo come tale e ci lasciamo misurare da essa, ammettendola come qualcosa che è
più grande di noi. Nel caso noi potessimo giudicare non solo "secondo la verità", ma "la
verità", allora essa non sarebbe più tale. Ogni volta che noi riconosciamo in qualcosa il vero o il
bene, o il giusto, noi trascendiamo anche il nostro 'Io', andiamo al di là del cerchio chiuso del nostro
semplice 'Io' per affermare qualcosa di "più grande" senza il quale noi stessi saremmo più piccoli e
più miseri.
Con questa semplice osservazione ci siamo avvicinati di un passo in più al mistero della identità
personale, la quale si mostra nel fatto che l'uomo non è soprattutto chiuso e come avvolto nella sfera
sigillata del suo proprio 'Io', ma è naturalmente disposto al riconoscimento di qualcosa di più grande
di sé, che appare come essenziale e irrinunciabile alla verità di sé. Sembrerebbe un
controsenso, perchè l'identità, come dice la parola, dovrebbe consistere unicamente nell'essere
identico a sé. Invece nell'esperienza dell'uomo si dimostra essere di un'importanza fondamentale per il
normale sviluppo del'identità personale, il fatto che sia data la possibilità di vivere la relazione
con l'altro, con ciò che è oltre sé e più grande di sé. Tutta la pedagogia e la
psicologia infantile, ma prima ancora l'esperienza quotidiana della vita familiare e sociale ci suggerisce questo
dato. Tutto ciò è giustificato dal fatto che l'uomo, proprio nel suo punto di scaturigine, è
creatura, cioè è voluto, amato e posto nell'essere da un Altro.
L'uomo ha un'identità solo in quanto è creatura di Dio. L'uomo è persona perchè la
realtà divina è una realtà personale. Se vogliamo scoprire qualcosa del mistero della nostra
identità, siamo costretti a volgere lo sguardo al Mistero che ci ha creati. Noi infatti abbiamo un centro in
noi stessi, ma questo centro non è centrato a sua volta in se stesso, ma in Dio. L'uomo è creato ad
immagine e somiglianza di Dio e quando va al cuore del suo essere, non trova se stesso, ma è rinviato alla
fonte da cui egli stesso proviene. Per questo l'uomo resta per se stesso, abbandonato a se stesso, una creatura
inspiegabile e incomprensibile. Il mistero dell'uomo, la "grande domanda" che ognuno di noi è per se stesso,
comincia a dischiudersi solo quando ci volgiamo all'Amore da cui proveniamo.
Proprio per il fatto che noi abbiamo in Dio la radice prima ed ultima della nostra identità di persone ci
permette di affermare questa verità come valida per tutti gli uomini e per ogni uomo in tutte le fasi della
sua vita e di sostenere la dignità irriducibile di ogni persona. Non c'è circostanza e situazione che
possa cancellare o deformare quella dignità, perchè il suo fondo è custodito e garantito in Dio
stesso. Ma è per lo stesso motivo, o meglio, per l'assenza di questa Rivelazione sulla verità
dell'uomo, che i popoli e le culture i quali non l'hanno ricevuta o non l'hanno accolta, non sanno del valore
infinito e sacro della persona, non sono in grado di sostenere che ogni uomo possieda una identità personale
unica, insostituibile e irriducibile.
Il dibattito attuale sui temi di bioingegneria applicata a quel che con termine nazista viene da taluni chiamato
"materiale umano", documenta ampliamente quel che stiamo dicendo. Se l'identità della persona non è da
Dio, allora è in mano nostra e non si vede il motivo per cui non la si debba manipolare a piacimento, fin
quando non si presentino delle controindicazioni esplicite.
Un altro esempio di assenza di una coscienza e di un'esperienza matura della personalità ci viene da quelle
culture che si rappresentano l'uomo, sì come un essere che possiede un centro, ma un centro vagamente
spirituale e indefinito, senza un volto, un nome, una identità.
Noi cristiani abbiamo un senso forte della identità della persona. Per noi la persona ha una dignità
che è assoluta e insormontabile, per cui nessuna ragione superiore potrebbe giustificare o legittimare una
violenza di qualsiasi genere anche ad una sola persona. Uno dei motivi per cui nell'ebraismo antico la
schiavitù non prese piede stabilmente fu proprio la coscienza del fatto che l'altro appartiene a Dio e nessuno
se ne può impossessare come se fosse sua proprietà per sempre. Il senso dell'appartenenza a Dio di
ogni persona è un fortissimo elemento antitotalitario o, come si direbbe oggi, antiglobalizzante e, nella
comunità cristiana, viene ad essere anche un fattore di critica sociale. Il cristiano possiede una
sensibilità particolarmente acuta che gli consente di ravvisare gli episodi di non verità e di
esplicita menzogna sociale, proprio in virtù dell'esperienza alta della identità personale. Il
cristiano si accorge con facilità dove e perchè alla persona venga arrecato un torto, di qualsiasi
genere esso sia. Tale sensibilità, per un verso ha una sua base "naturale", ma per un altro ha una suo
fondamento nella umanità nuova, di cui egli ha esperienza in relazione al mistero di Cristo che si è
fatto presente nella storia e nella vita.
Sempre a questa esperienza fondamentale dell'essere persona si deve il fatto di vivere una certa unità tra i
diversi aspetti dell'esistenza e dell'esperienza quotidiana e quindi dell'avere un centro riconoscibile e
riconosciuto. Un uomo che accolga con più pienezza questo dono dell'essere persona, vivendo in maniera non
frammentata i diversi aspetti ed ambiti del suo vivere e del suo agire (famiglia, lavoro, società,
comunità), invera sempre più se stesso e diventa, per così dire, sempre più persona.
Se l'identità personale è un dono incontrovertibile e irreversibile, la personalizzazione,
l'inveramento nell'esperienza di quel che si è, è un compito che chiama in causa la nostra
libertà e responsabilità.
Il cristiano è uno che si assume ogni giorno ed in ogni istante il compito nobile di permanere in
quell'unità donata e di integrare tutto in essa e in Colui che gliela dona. Questo principio di unità
è anche un principio di forza che chi non ha incontrato il mistero di Gesù Cristo come presente e
operante nella sua vita, di fatto non possiede e non immagina neppure, e che, nel migliore dei casi, può
desiderare. L'incontro con Gesù Cristo nella sua Chiesa e quindi nella comunità di coloro che vivono di
Lui, corrobora e fortifica l'umanità dell'uomo, lo rende più uomo, "uomo nuovo".
I cristiani sono coloro che riconoscono la loro identità personale come dono di Dio e che vivono nella
consapevolezza di avere il proprio centro e la propria consistenza nascosta in Dio. "Togli loro lo spirito - dice un
Salmo - e ritornano alla terra. Mandi il tuo Spirito e sono creati ...". "Sei tu che hai creato le mie viscere -
scrive Geremia - mi hai fatto come un prodigio. ... Sei tu che mi hai intessuto nel ventre di mia madre. Le mie ossa
non ti erano nascoste quando ancora non ne esisteva una". Il riconoscimento e l'accoglienza della natura creaturale,
dell'essere creatura nel fondo più profondo di sé (Agostino), nella origine, non solo non indebolisce
il cristiano, ma lo irrobustisce nella sua identità di uomo. Al di fuori di questo riconoscimento fondamentale
c'è solo una possibilità, che può essere più o meno marcata: l'alienazione,
l'estraniazione, la non familiarità con il mistero centrale della propria vita e del proprio essere. Un uomo
che non abbia avuto la grazia, perchè di grazia si tratta, di riconoscere di essere creatura di un Altro, vive
anche una maggiore lontananza ed estraneità da sé e dagli altri, perchè non ha conosciuto la
cosa più importante e decisiva che porta in sé. Dunque è come se fosse sconosciuto a se stesso e
quindi non potesse conoscere e riconoscere negli altri quel che non ha potuto sperimentare e verificare in sé.
Per questo motivo semplicissimo il cristianesimo nella storia del mondo è divenuto il fattore di maggiore
umanizzazione ed anche di maggiore socializzazione. Avere incontrato la verità di sé, apre
immediatamente a tutti gli altri, se non altro perchè la verità di sé consiste proprio nella
comunione. Nessun altro principio si è manifestato nella storia così potentemente capace di
abbattere tutte le barriere di cultura, di opinione, di diversità storica e di distanza geografica, come il
cristianesimo. Il cristianesimo è per sua natura cattolico, cioè aperto all'universale e ad ogni
particolare al contempo. La Rivelazione dell'uomo a se stesso che avviene in Gesù Cristo, apre a tutto l'uomo
e a tutti gli uomini indiscriminatamente e fin dal primo istante coloro che seguivano Cristo si dimostrano capaci di
una forza di relazione prima ignota.
Se l'essere cristiani riguarda il centro e l'identità della propria e altrui
umanità, allora riguarda tutto, niente escluso. Non c'è un aspetto della vita o un ambito del nostro
fare che possa rimanere estraneo a quel che siamo, ma se non può essere staccato da quel che siamo, non
può esserlo neppure dal Mistero che abita il centro della nostra vita e della nostra persona. Di questa
totalità fa parte anche il nostro lavoro.
Tutto quel che nella nostra vita rimane sganciato e disorganico rispetto al nostro centro e alla nostra
identità diventa principio di disintegrazione, di dispersione e quindi di dissipazione. L'unità della
nostra vita e della nostra persona è minata da tutto quel che rimane privo di senso, cioè privo di un
legame ragionevole e razionale con quel che noi siamo. Niente ha un potere distruttivo più formidabile nei
confronti dell'uomo, degli aspetti di non-senso che si possono insinuare nella sua esistenza. Essi rappresentano
delle vere proprie bombe ad orologeria che prima o poi scoppieranno. L'uomo ha necessità di vivere e di
vedere il senso in ogni cosa, e un lavoro, un incontro, un impegno, un avvenimento, una circostanza qualsiasi,
acquista un senso per noi, quando siamo posti in grado di coglierne il nesso con quel che noi stessi siamo e quindi
con il Mistero che ci fa essere. "Chi non raccoglie con me, disperde". L'affermazione del Signore è perentoria
e non ammette sfumature intermedie.
D'altra parte, un uomo diviso e frammentato, che dimentica il proprio centro e la propria identità,
è utile ad un apparato che lo voglia funzionalizzare ai suoi scopi, qualunque essi siano. L'indebolimento
dell'identità personale sappiamo essere stato una delle premesse e delle finalità dei due grandi
sistemi totalitari che hanno dominato parte del ventesimo secolo. Hanna Harendt e Aleksander Solzenicyn hanno
descritto molto bene queste dinamiche di spersonalizzazione ed esse sono terribilmente affini a quelle che si stanno
allargando a macchia d'olio nell'occidente democratico e liberale. Il mondo del lavoro è quello in cui la
logica socialmente dominante tende ad affermarsi con più immediatezza ed anche con più violenza. Il
mondo del lavoro rappresenta per certi aspetti un laboratorio di prova nel quale si riversano tutte le sollecitazioni
cui l' "uomo funzionale" dovrebbe corrispondere semplicemente adeguandosi. Nel mondo del lavoro si convogliano
sia le energie creative di una determinata società, sia le conflittualità di interessi attraverso le
quali esse prendono forma concreta. Così il singolo viene a trovarsi nel punto d'incrocio di forze che lo
sovrastano e che non può controllare e tantomeno pilotare.
La domanda che ora ci poniamo è questa: qual'è il soggetto che può resistere a questa
disintegrazione ripetutamente tentata? E quali sono le condizioni perchè ciò possa avvenire?
Il contrario della disintegrazione è l'integrazione, cioè l'azione del ricondurre
all'integrità, all'unità, all'identità. Ma come è possibile vivere tutto organicamente,
unitariamente, senza cambiare mille volti al giorno, oppure facendo da principio a meno di averne uno? Questo
interrogativo coincide con un altro: com'è possibile vivere nel mondo, nel lavoro, nella società senza
abdicare alla propria identità di uomo e di cistiano, ma piuttosto incrementandola e rinvigorendola sempre di
più? Tentiamo di definire una risposta a questa domanda articolandola in quattro punti.
a. Abbiamo considerato come l'identità umana e cristiana è un dono che il Creatore ci ha offerto
e che il Redentore ci ha guadagnato. Essa dunque, in primo luogo, si mantiene viva mantenendo la relazione con
Colui dal quale la si è ricevuta. Fin dalla sua prima origine l'uomo ha una natura comunionale
perchè viene concepito, nasce e cresce entro delle relazioni. La principale di esse è proprio quella
con Dio. Ciò fa sì che egli non possa accogliere pienamente il dono che è la sua persona e la
sua umanità, se non accogliendo anche il Donatore e il rapporto con Lui.
Dobbiamo interrogarci quindi sulla qualità e sulla effettività della nostra relazione con Gesù
Cristo. Questa domanda ci rimanda immediatamente a quella correlativa sulla nostra appartenenza alla Chiesa e alla
comunità cristiana. Oggi alcuni cristiani ritengono illusoriamente di poter amministrare la loro relazione con
Cristo in maniera privata. Noi non possiamo scegliere per andare a Dio una via diversa da quella che Egli stesso ha
scelto e stabilito per venire a noi e per stare con noi «fino alla fine del mondo». Fin dal principio
Gesù ha scelto dodici uomini con i quali stare insieme, ai quali insegnare e ai quali consegnare i suoi doni e
il dono di Sé. Egli stesso ha scelto la compagnia di questi Dodici per essere presente nella storia e nel
mondo intero. Chi ritiene di poter fare ameno di prender parte a questa compagnia storica e concreta che è il
corpo ecclesiale, illude se stesso e non è nella verità.
L'effettività dell'appartenenza alla comunità cristiana si misura sulla concretezza dei rapporti che
intratteniamo con essa, con gli altri cristiani e con il Magistero, con l'insegnamento che ci viene dal successore di
Pietro. Qualora la nostra relazione sia solo ideale, la nostra identità cristiana è in pericolo. Il
rimedio consiste nel cercare un'implicazione con la comunità cristiana esistenzialmente rilevante ed
esperienzialmente significativa.
b. Non è sufficiente mantenere l'identità cristiana, anzi è impossibile mantenerla,
qualora non la si eserciti. La nostra identità in verità non è un patrimonio immobile e neppure
un capitale depositato, benchè abbia una sua stabilità, indipendentemente da noi, nella volontà
di Colui che ce l'ha assegnata. E' tuttavia necessario esercitarla per mantenerla in atto e l'esercizio attivo
richiede un lavoro di paragone continuo e assiduo. Senza questo lavoro permanente essa perde a poco a poco la sua
rilevanza fino a diventare quasi inconsistente. Quando invece si conduce un paragone sistematico e incessante con
tutto quel che incontriamo, con tutte le situazioni, con tutte le circostanze, con tutte le scelte che operiamo e gli
avvenimenti che ci accadono, allora essa emerge con sempre più forza e nettezza dimostrandosi capace di
orientare l'intelligenza e la volontà, di penetrare e discernere la realtà in tutti i suoi aspetti e in
tutta la sua complessità. Allora e solo allora la nostra identità cristiana acquista un chiaro rilievo
esistenziale e perfino sociale. Allora la sua consistenza, che da principio ci era stata donata, si dimostra come
storicamente feconda ed efficace. Allora diveniamo capaci, a poco a poco, di fornire sempre più e sempre
meglio le ragioni del nostro credere, perchè esse sono diventate le ragioni degli aspetti importanti della
nostra vita. Ma ci è necessario vedere come l'identità cristiana in atto sia capace di spiegare la
vita, di far fronte ad essa, di attraversarla in tutti i suoi frangenti senza recedere e senza dover fare ricorso ad
altre fonti, ad altre "cisterne screpolate che non tengono l'acqua". Abbiamo bisogno di vedere e di sperimentare
questa forza della fede e della speranza cristiana, perchè è nell'esperienza concreta, nella storia
feriale che essa dà prova di sé. Diversamente il credere rimane privo di ragioni e quindi debole ed
esposto ad essere in ogni istante sostituito e surrogato con altre ragioni incongruenti o addirittura contrastanti
con la nostra identità di cristiani. Su questa via, però, non si dura a lungo, perchè una
identità inutile e inoperante tende a scomparire, a divenire storicamente ineffettuale e ad essere ammessa
quasi di principio, ma come un principio di cui ad un certo punto non si sa più che cosa fare perchè
giacente come infecondo, immotivato e immotivabile. E' in questo frangente che molti se ne sbarazzano, ma, in
realtà, la loro identità cristiana, l'avevano già estinta molto prima. Quando decidono di
liberarsene essa è già ridotta ad un ingombro sterile.
c. Dobbiamo chiederci, ora, quali siano le condizioni perchè il lavoro del paragonare tutto con
sé a partire dalla propria identità cristiana si possa verificare.
Il primo punto che ci richiamiamo è quello della non solitarietà. Infatti, se l'identità
cristiana, come abbiamo visto, rafforza e incentiva anche l'identità personale dell'uomo, tuttavia la natura
della nostra identità è di per se stessa comunionale. Dunque il rafforzamento della nostra
identità cristiana richiede sempre l'accrescimento della relazione, dell'interrelazione che nella
comunità cristiana, fin dall'inizio è stata chiamata comunione. Noi non possiamo essere noi stessi al
di fuori della relazione con l'altro e se questo vale della nostra identità di uomini, tanto più vale
della nostra identità di cristiani. Il nostro Dio non si è rivelato in Gesù Cristo come un
Dio solitario e individuale, ma come una Comunione di Persone. Gesù dice di se stesso, nel momento in cui il
suo paragone, il suo agone e la sua agonia si stava approssimando, di non essere solo: «Io non sono
solo». L'identità di Cristo era quella di Figlio, cioè quella di uno che vive una fortissima
appartenenza nella comunione con il Padre mediante lo Spirito. Il cristiano solo è un controsenso.
L'identità di un tale cristiano è destinata ad esaurirsi e ad estenuarsi fino, se possibile, alla
sparizione.
L'essere parte viva della comunità dei cristiani è una condizione irrinunciabile e quindi necessaria
perchè ognuno possa esercitare il lavoro del paragone che rende l'identità cristiana storicamente
rilevante e capace di giudizio su ogni particolare aspetto della vita personale e sociale.
Il secondo punto l'abbiamo implicitamente già introdotto parlando di Cristo e della sua coscienza di essere
unito al Padre: «Io e il Padre siamo una cosa sola». L'identità cristiana, in realtà, altro
non è che l'aver parte all'identità di Cristo stesso e ciò non metaforicamente, quasi per modo
di dire, ma sacramentalmente, cioè nel grado più alto della realtà, secondo un realismo
estremo. Perciò ci è necessario guardare in direzione del mistero della coscienza di Gesù,
così come Egli stesso ce l'ha aperta. Nel tempo della sua vita terrena Gesù ci ha svelato degli squarci
sulla sua interiorità, sul segreto che albergava nella sua anima. Il colmo di questo squarcio è
l'apertura del suo cuore quando in croce viene trafitto dalla lancia del soldato romano. Quel che costituiva la
costante della sua identità di uomo era la consapevolezza ininterrotta di essere in relazione con il Padre, di
fare quel che aveva visto dal Padre, di dire le parole che aveva udite dal Padre, insomma di compiere la
volontà del Padre. Gesù è cosciente di sé come di uno che è inviato e che ritorna.
Così è la coscienza del cristiano: è sempre in relazione con un Altro e con altri, è
sempre nella comunione, proviene dalla comunione e ad essa fa sempre ritorno, come al suo luogo genetico, al luogo in
cui nasce e viene generato di nuovo. Lo stare alla fonte da cui si scaturisce, rappresenta per il cristiano il
segreto della novità permanente, della rinnovata energia dalla quale trae consistenza e acume il lavoro del
paragone di cui parlavamo sopra. E' dalla potenza della vita che si diparte la forza di penetrazione e di
chiarificazione del giudizio. Un cristiano nel quale la vita sia debole sarà capace solo di un giudizio opaco
sulla realtà. Il segreto consiste allora molto semplicemente nello stare alla sorgente da cui scaturisce la
vita. Quel che qui ci è richiesto è di valutare ed esaminare la qualità della relazione che ci
stringe a Cristo. Egli dice di sé: «Io sono la vita», e Giovanni nel Prologo scrive: «e la
vita era la luce degli uomini» (Gv 1).
Il problema dell'identità cristiana e della sua probabilità di sussistenza in questo mondo, in questa
società, in questa storia, è esattamente il problema della vita, della sussistenza o meno della vita,
della nostra vita, per non «camminare nella morte» (Gv), non è un problema collaterale, che possa
essere tralasciato senza grave danno. Senza identità si è senza volto e quando si è senza volto
si cade inevitabilmente in balia di un potere. Nella nostra società sono presenti molte dinamiche che sembrano
approntate apposta per far sbiadire l'identità. Ad esse noi ci opponiamo innanzitutto facendo crescere la
positività di quel che già siamo, prima ancora che analizzandole e criticandole. Anche l'analisi e la
critica prendono vigore dalla novità in atto nella nostra vita personale e comunitaria.
Dopo aver riflettuto un pò sulle condizioni che consentono all'identità di svilupparsi in un paragone
serrato con tutte le realtà nelle quali viviamo ogni giorno, ci dobbiamo chiedere anche in che modo si
esercita quel paragone, qual'è la sua modalità di esercizio. Articoliamo la risposta in tre punti.
a. Il paragone avviene quando c'è un raffronto tra noi, tra quel che noi siamo ed ogni fatto,
situazione e incontro nel il quale ci imbattiamo. Noi viviamo ordinariamente istituendo un paragone continuo tra noi
e le cose, tra noi e la realtà, tra noi e tutto quel che ci circonda, dalle cose più banali a quelle
più elevate e moralmente o spiritualmente nobili. Nell'attività del paragonare noi poniamo in
relazione noi stessi con tutto quel che incontriamo e che ci viene incontro. E' dunque di grande importanza la
posizione dell' 'Io', dell'identità, con la quale noi ci apprestiamo a stare di fronte ad ogni cosa, alla
società, alla famiglia, al lavoro. La realtà nel suo insieme e nei suoi dettagli acquista un senso solo
quando noi siamo in grado di comprenderne il nesso con noi stessi. Ci sono quindi due dimensioni del lavoro del
paragone che si affaciano come decisive: la prima è quella che abbiamo già menzionato: qual'è
l'identità, qual'è l'immagine e l'esperienza di noi stessi con la quale andiamo incontro alla
realtà. La seconda sono i criteri di partenza con i quali definiamo il nesso tra noi e tutto il resto.
Riguardo al primo punto ci dobbiamo chiedere da dove abbiamo mutuato e da cosa è definita la nostra
identità e quindi se e come in essa sia entrata la esperienza e la Rivelazione che dell'uomo ci è data
in Gesù Cristo e nell'appartenenza alla comunità di quelli che vivono di Lui. Riguardo al secondo punto
dobbiamo chiederci qual'è il tipo di intelligenza e quindi di ragione di cui facciamo uso nell'istituzione
incessante del paragone. In particolare ci domandiamo se tale ragione vive di un vincolo significativo con la nostra
fede, oppure se è slegata e autonomizzata da essa. Chiamiamo 'giudicare' l'attività del paragonarsi
e 'giudizio' l'esito del paragone in atto.
L'identità cristiana può vivere ed essere esistenzialmente determinante solo nel caso che la fede
diventi intelligenza, ragionevolezza e razionalità. «Lo stesso credere null'altro è che pensare
assentendo. Chiunque crede pensa. La fede se non è pensata non è nulla» (FR §78) e in un
altro passo così troviamo scritto: «Alla parresia [franchezza] della fede deve corrispondere l'audacia
della ragione» (FR §48). La fede cristiana reca in sé una intelligenza profonda della realtà
e in primo luogo della nostra realtà di uomini, dei misteri fondamentali della nostra vita. C'è dunque
un "intelletto di fede" a partire dal quale noi possiamo portare il giudizio e comprende in maniera nuova ed
originale dove c'è corrispondenza tra la verità di quel che siamo e dove invece c'è dissidio o
contrasto aperto. La fede impegna la ragione in un lavoro continuo e irrinunciabile. Senza questo lavoro della
ragione la fede stessa non può sopravvivere se non come residuato marginale e alla fine vuoto di contenuti
esistenzialmente convincenti. Invece è proprio nel vaglio della corrispondenza che la fede si dimostra
intelligente e come il fattore di maggiore promozione dell'umano nell'uomo. L'esercizio del giudizio diventa motivo
di vitalità per la nostra fede e la nostra identità di cristiani ed è da questa esigito, non
come facoltativo e accessorio, ma come necessario e fondamentale.
b. Il secondo punto di risposta alla domanda su come si opera e si conferma il paragone, va a toccare la
dimensione pubblica della nostra identità cristiana. La stessa nascita della nostra identità di
cristiani è pubblica in quanto è comunionale. Lo sviluppo di essa va ad allargarsi ancora di più
verso una socialità sempre più ampia.
Quel che io riconosco come vero e come adeguato alla realtà del mio essere uomo non può restare
qualcosa di puramente intimo e privato ed anzi chiede di essere partecipato a tutti. Il bene, il vero e il bello
hanno in se stessi una natura autopartecipativa e perciò tendono a comunicarsi. E' naturale che quel che di
positivo si riscontra nella propria esperienza diventi oggetto di proposta. Proprio seguendo questa
inclinazione la identità cristiana tende a proporsi e il momento della proposta ad altri diviene anche un
momento di inveramento della validità dei suoi contenuti propri.
Non deve parer strano che si parli della necessità della proposta, mentre si sta riflettendo sulle
modalità del paragone tra la propria identità e tutto il resto, perchè nel dare parte all'altro
di quel che si è riconosciuto come vero, giusto e costruttivo nella propria vita, noi entriamo nel paragone
con l'altro e non possiamo uscire da questo confronto nello stesso modo in cui ci siamo entrati: la proposta e
l'annuncio richiedono di per se stessi un cambiamento, una purificazione e un'essenzialità che non possono
essere attinte altrove. Quel che nell'esperienza cristiana mi si è presentato come vero, nel momento in cui lo
presento ad un altro, che non conosce quell'esperienza e l'intelligenza del reale che essa porta con sé,
innanzitutto io sono costretto per comunicarla a ripercorrerne i sentieri e i motivi, in secondo luogo sono obbligato
a mostrarne l'evidenza di fronte a situazioni differenti con le quali io stesso potevo non aver ancora fatto i
conti. Tutto questo arricchisce di nuove ragioni e di nuovi motivi le ragioni e i motivi iniziali. Per questo
alla verità stessa del paragone è non solo utile, ma necessaria la verifica che sgorga dalla proposta.
Si tratta di accogliere un'altra dimensione della sfida. Quella per cui ciò che nella vita concreta si
è dimostrato vero per me, non può non esserlo anche per l'altro. Ma, finchè questo non si
verifica, l'ammissione del valore universale e pubblico, della rilevanza sociale della mia identità cristiana
e della mia esperienza di fede, resta una presupposizione che può anche rispondere a verità, ma che non
è storicamente e soggettivamente comprovata. La proposta nasce dalla convinzione della rilevanza della fede
cristiana per tutti gli uomini, infatti Cristo è venuto ed è morto e risuscitato «per
tutti», ma si comprova di fatto nella sua capacità di messa in chiaro, di redenzione e di riscatto di
ogni singola concreta persona e situazione. Non che la verifica storica renda vera una verità che
altrimenti non lo sarebbe, ma nella coniugazione storica, potremmo dire, nell'incarnazione, si rende costatabile la
potenza liberatrice della verità cristiana, già tutta presente nel mistero della vittoria di Cristo sul
male e sulla morte.
L'identità cristiana ci rende soggetti di storia e nel fare storia si manifesta il vigore umanisticamente e
socialmente costruttivo della nostra fede. La proposta a tutti di quel che abbiamo scoperto e sperimentato è
dunque parte integrante e inscindibile della verità della nostra identità.
c. L'ultimo elemento necessario per la modalità cristiana del paragone è quello del confronto e
della verifica sistematica con i fratelli a partire da un giudizio personale o comune e in vista di un giudizio
comune più esteso e comprensivo dei multiformi aspetti delle diverse realtà con le quali si ha
concretamente a che fare e che costituiscono la materia sulla quale il giudizio si esercita. La necessità di
questo confronto metodico e sistematico con la comunità e, nella comunità, soprattutto con coloro che
vivono le nostre stesse situazioni d'ambiente e di lavoro, ha la sua motivazione profonda nella radice comunionale
della nostra stessa identità cristiana. Ovviamente questo confronto in vista di una verifica non solo non
rimpiazza e non sostituisce il giudizio e la verifica personali, ma lo suppone come ineliminabile condizione previa.
Siamo chiamati a vivere da uomini liberi e responsabili ogni situazione in prima persona e proprio questo divenire
protagonisti nella propria vita richiede una maggiore coesione con la comunità.
Qualora il confronto e la verifica insieme ad altri divengano una consuetudine e un metodo ordinario, allora la
nostra stessa intelligenza degli avvenimenti e delle situazioni acquisirà un habitus comunionale e il giudizio
che saremo in grado di portare su ogni cosa sarà arricchito anche della compresenza e dell'esperienza di tutti
gli altri. Non si tratta però di una questione quantitativa, ma di una qualità del giudizio stesso e di
una coscienza di non proporre solo se stessi, ma quel che un popolo intero vive, a partire dalla prima compagnia di
quelli che stettero insieme a Gesù dopo che Egli stesso li aveva chiamati. Non essere soli nella formulazione
del giudizio significa anche non essere soli nel farne una proposta socialmente rilevante, o anche solo nel parlarne
ad un compagno di lavoro.
Il confronto comunitario è quindi un luogo privilegiato che accresce e rende più vero il paragone che
ciascuno è chiamato a svolgere nella sua irriducibile implicazione personale. Esso va ricercato, praticato e
ordinato nella maniera più adeguata. In esso si verifica ulteriormente, cioè si vede se è vero,
se risponde a verità il nostro modo di porci nell'ambito lavorativo. La verifica comunitaria si avvale della
rispondenza che quel che ognuno vive trova nell'altro, oppure dell'incongruenza, la quale diviene motivo di ulteriore
riflessione e comprensione per tutti.
Un popolo che abbia una identità, un uomo o un soggetto sociale che abbiano una
identità, possono essere avversati e contrastati, ma non cancellati. L'identità possiede infatti una
forza comunicativa e costruttiva che la rende più forte di qualsiasi fattore antagonista. Essa pesca in una
memoria e si slancia in una progettualità che si trasmettono in una testimonianza e in un'opera che la rende
capace di attraversare il tempo e la storia. Mi torna alla mente ora il monastero dedicato a san Michele Arcangelo,
protettore di Kiev (Ucraina). Lo strapotere che ha dominato nei decenni precedenti il 1990 lo aveva raso al suolo,
aveva schiantato le sue cupole, abbattuto i suoi pinnacoli, bruciato le sue icone e gran parte dei suoi mosaici
dell'inizio del secondo millennio. L'impero e i suoi imperatori sono passati con la loro furia devastatrice, sembrava
che l'identità cristiana di quel popolo dovesse scomparire. Invece è scomparso l'impero e i suoi
reggitori, ma l'identità del popolo è rimasta ed ha ricostruito tutto quel che era stato barbaramente
distrutto. Oggi le cupole d'oro del monastero di san Michele brillano al sole e la comunità dei monaci
è tornata ad abitare tra le mura rialzate sulle antiche fondamenta. La stabilità dell'identità
cristiana dà prova di sé nella costruttività e nell'intraprendenza operativa.
Ogni forma politica ed anche economica reca in sé una traccia seppur minima di elementi totalitari o
quantomeno di elementi tendenzialmente globalizzanti. I cristiani dispongono di una particolare sensibilità
per riconoscerli e smascherarli, e questa è anche una parte del lavoro a cui siamo chiamati, un lavoro che
ritorna a beneficio di tutta la società nella quale viviamo e alla quale apparteniamo. Ai cristiani
è possibile questo monitoraggio proprio perchè nella loro identità è presente un
fattore di totalità non totalitario ed anzi liberante. Resta pur sempre vero che al mondo risulterebbe
più comoda una identità più debole, meno marcata, più funzionale e malleabile, più
acconsenziente, compiacente e accondiscendente, insomma, più disponibile al compromesso. Ma, quand'anche
nascosta in un punto recondito della coscienza di coloro che non sono cristiani, resta non di rado una convinzione
quasi inconsapevole che la presenza cristiana salvi il mondo e loro stessi dalla possibilità di una ultima e
irreversibile caduta (cfr.: Lettera a Diogneto).
[1] Etica del lavoro, tr. it., Bologna 1982, p. 23).
[2] Il costituirsi della cultura attraverso la "praxis" umana, in Perchè l'uomo, Milano 1995, p. 184.
[3] Il costituirsi della cultura attraverso la praxis umana, cit. p. 190.
[4] C. PEGUY, L'argent, 16 febbraio 1913.
[5] B.Perret : "L'avenir du travail. Les démocraties face au chômage", Paris 1995; P. DONATI, Pensiero sociale cristiano e società post-moderna, Roma 1997.
[6] C. ROMITI, Qualità del lavoro, dramma del non lavoro, in "Nuntium" 6(1998)21.
[7] Cfr. in proposito le pagine mirabili contenute nella Lettera Enciclica di Giovanni Paolo II Evangelium vitae.
[8] Op. cit. pp. 182-183.