Lorenzo Valla morì come era vissuto, in comunione con la Chiesa cattolica. E’ sepolto nel suo sarcofago marmoreo nella prima cappella del transetto destro della Cattedrale di Roma, la Basilica di San Giovanni in Laterano. Tornato a Roma nel 1448 ricevette, infatti, gli ordini minori, divenne un curiale a servizio del papa, potendo dedicarsi ai suoi studi ed all’insegnamento, e fu fatto, dal pontefice, canonico della Basilica di San Giovanni.
Il recente volume di Giovanni Maria Vian, La donazione
di Costantino, Il Mulino, Bologna, 2004, si raccomanda non solo per l’inquadramento
prettamente storico nel quale situa la figura del famoso umanista romano, al
di là delle leggende risorgimentali che ne hanno alterato il profilo,
ma, ben di più per il tentativo di descrivere l’emergere della
dimensione temporale del papato e la sua esistenza nel tempo, fino al 1870,
l’anno della famosa Breccia di Porta Pia.
Infatti, se la vicenda del Valla è divenuta nell’Ottocento un
simbolo - e riveste interesse proprio a motivo di questa simbolizzazione
- ben altra importanza ha la questione di quando e per quali motivi storici
sorga un potere civile del vescovo di Roma, poiché non vi è
alcun dubbio che non solo non fu Costantino a conferirgli una simile autorità,
ma che anzi i pontefici furono, finché gli imperatori ebbero forze sufficienti
per preoccuparsi dei territori dell’Italia, e del Lazio in particolare,
fedeli sudditi dell’imperatore.
Lo scritto di Vian descrive la lunga evoluzione storica che prese inizio dalla
fatidica decisione di Costantino[1]
di fondare una nuova capitale a Costantinopoli, l’odierna Istanbul,
e di trasferire lì la sede imperiale per il tempo a venire. I vescovi
dell’Occidente latino – ed, in particolare, quello di Roma –
si trovarono così, man mano che le forze dell’Impero venivano meno
nella penisola italiana a motivo delle popolazioni barbariche e poi arabe e
poi franche che le sottraevano potere, a dover supplire impegnandosi in incombenze
civili via via crescenti.
E’ così che alla metà dell’VIII secolo l’emergente
potere dei Franchi, una volta sconfitti i Longobardi, affidò il territorio
del Lazio che era ancora formalmente bizantino, alla giurisdizione civile papale
(è proprio a questo periodo che risale la composizione anonima della
leggenda della Donazione di Costantino che non ebbe alcuna influenza né
nella formazione del potere temporale del nuovo stato, oramai indipendente dall’Impero
Romano di Costantinopoli, né nel suo riconoscimento internazionale).
In realtà - ormai da secoli! – pian piano la Chiesa era subentrata
al potere imperiale bizantino in tutte le questioni civili ordinarie e straordinarie,
dall’approvvigionamento di acqua tramite gli acquedotti a quello delle
derrate alimentari, dalla cura della correttezza processuale all’amministrazione
della giustizia, dalla difesa dell’Urbe al restauro delle sue mura contro
i ripetuti assedi, dagli interventi in caso di epidemie a quelli necessari per
le alluvioni del Tevere, dalla riscossione delle tasse al pagamento dei pubblici
ufficiali, ecc. ecc.
La storia di questa supplenza necessaria è la vera questione che merita
di essere conosciuta, approfondita e valutata. L’Alto Medioevo è,
nelle nostre scuole, il periodo meno studiato, motivo per il quale è
rarissimo trovare studenti capaci – ma è poi una difficoltà
loro o dei loro docenti? - di indicare date e tappe del sorgere dello stato
del papa. La storia dell’Europa dopo il 1000, il cosiddetto Basso Medioevo,
risulta allora incomprensibile, poiché lo si affronta senza avere
la benché minima cognizione degli eventi che portarono al coinvolgimento
civile dell’episcopato e della sede di Roma in particolare.
Se, per tutto questo, non possiamo che rimandare al lavoro di Vian, raccomandandolo
alla lettura – ed, insieme, a nostre future ricerche[2]
– vogliamo invece ora soffermarci sulla vicenda di Lorenzo Valla stesso,
così come ce la descrive il recente volume.
La ricerca storica di G.M.Vian sottolinea come la Donazione non sia stata
utilizzata a conferma del potere temporale nei primi secoli della sua esistenza
– poiché ben altre e pubblicamente riconosciute erano le radici
di questo servizio civile. Fu solo dopo il 1000 che la Donatio fu ritenuta autentica,
ma ben presto se ne mise in dubbio a più riprese la verità storica
all’interno ed all’esterno della Chiesa. In sintesi, non fu mai
un testo con valore di discrimine.
Fu, comunque, il Cusano e non il Valla - ci mostra Vian - che ne dimostrò
per primo la non autenticità. Il suo vero nome era Niccolò
da Cusa, era cardinale ed alcuni anni prima del lavoro del Valla mostrò,
con argomenti definitivi, la non attendibilità storica della Donatio
costantiniana. Ciò avvenne durante il concilio di Basilea[3]:
Al concilio di Basilea il Cusano (1401-1464) presentò il 7 novembre
del 1433 un’opera, il De concordantia catholica, che fin dal titolo
esprimeva la sua intenzione volta a superare i laceranti contrasti nel mondo
cristiano e a ricercare al suo interno una conciliazione armonica tra il papa
e l’imperatore, ponendosi così anche a mezza strada tra i fautori
dell’assoluta supremazia pontificia e quelli della superiorità
del concilio. Per sostenere la sua posizione Niccolò Cusano ritenne
indispensabile riallacciarsi alle tradizioni ecclesiastiche più autorevoli
e di sbarazzarsi invece di quelle meno antiche e insostenibili, tra le quali...
la donazione costantiniana, ritenuta “indubbia” dall’opinione
quasi generale, ma di cui dimostrò la falsità nell’opera
che presentò all’assemblea conciliare. Nonostante la sua formazione
giuridica, nel De concordantia catholica (III,2) il Cusano non affronta il problema
teorico se Costantino abbia potuto effettuare la donazione; afferma semplicemente
di presupporne la possibilità, anche se subito dopo – da vero umanista
quale era – dichiara il motivo per cui non sfiora nemmeno la questione,
fino ad allora estesamente dibattuta e che egli tuttavia ritiene non risolta
e anzi insolubile: del dono, che l’imperatore avrebbe fatto a Silvestro
e ai suoi successori lasciando loro l’impero d’Occidente, nei “testi
autorevoli e nelle storie affidabili” (in authenticis libris et historiis
approbatis) non c’è traccia. E le fonti antiche esaminate direttamente
dal giovane ecclesiastico tedesco non sono certo poche: i documenti imperiali
e quelli dei papi, le storie di san Girolamo, le opere di Agostino e Ambrogio,
gli atti dei concili antichi, il Liber pontificalis, dove pure sono descritti
il battesimo di Costantino e le sue munificenze nei confronti di Silvestro;
ebbene, in nessuno di questi testi vi è cenno “della donazione
del potere temporale, o dell’impero d’Occidente” (de donatione
temporalis dominii aut imperii occidentis). All’assenza di questa nelle
fonti più attendibili fa poi riscontro l’argomentazione storica
desunta dalle prime donazioni dei sovrani carolingi ai papi, dalle quali Cusano
trae conferma dell’inesistenza del preteso provvedimento costantiniano.
Del resto, prosegue, l’Italia e la stessa Roma erano allora sotto il controllo
dell’imperatore bizantino, riconosciuto dagli stessi pontefici romani,
e fino al tempo di Stefano II nessun papa reclamò alcun diritto territoriale.
Per quanto poi riguarda il documento attribuito al primo imperatore cristiano,
l’umanista tedesco afferma che Graziano, non avendolo trovato nei “codici
antichi”, né nelle collezioni canoniche, lo considerò apocrifo
e pertanto non lo inserì nella sua raccolta, mentre la presenza nel celebre
Decretum grazianeo di un suo estratto si deve a un’aggiunta posteriore
di discutibile autorità. Cusano aveva però potuto trovare un testo
molto più ampio del supposto documento imperiale – probabilmente
quello completo del Constitutum Constantini inserito in una raccolta delle decretali
pseudoisidoriane – e dal suo esame ricavare “prove evidenti della
falsificazione, che sarebbe per il momento lungo e inutile inserire in questa
sede” (argumenta manifesta confictionis et falsitatis, quae pro nunc
longum et inutile foret his inserere). Niccolò Cusano si limita a
sottolineare che il racconto della donazione dipende dalla storia di san Silvestro,
cioè da un testo anonimo e certo non autorevole, che è inconciliabile
con le notizie attestate da fonti antiche ben più attendibili, come
il Chronicon di san Girolamo, con il suo giudizio fortemente negativo del primo
imperatore cristiano ripreso nel Duecento da Vincenzo di Beauvais. Alla falsità
del documento costantiniano Cusano accosta infine quella di alcune decretali
pseudoisidoriane, attribuite ad antichi papi e miranti all’esaltazione
eccessiva della sede romana, perché il suo primato non ha bisogno
di “questi ambigui argomenti” che, se anche fossero veri, nulla
aggiungerebbero alla sua autorità spirituale.
E’ solo pochi anni dopo lo scritto del Cusano, precisamente nel 1440,
che Lorenzo Valla scrisse la sua opera più famosa. Vian ci descrive
la spigolosa figura del letterato di formazione romana[4]:
Eccellente fu il livello della formazione (del Valla) in latino e in greco,
ma proprio in questo ambito fece scandalo l'opera di esordio, perduta, dell'umanista
allora ventunenne per la preferenza in essa accordata a Quintiliano su Cicerone,
considerato e venerato come modello di latinità. Da allora vita e opere
dell'intellettuale romano trovarono nella critica enfatizzata e spesso violentemente
polemica il loro denominatore comune: un «attaccabrighe» (homo
rixosus) lo definirà senza mezzi termini un secolo dopo il riformatore
Filippo Melantone. Lasciata nel 1431 Roma per l’impossibilità
di assumere un incarico curiale a causa dell’ostilità di altri
umanisti - con i quali naturalmente era entrato in contrasto - Valla si trasferì
a Piacenza e poi all’università di Pavia, che dovette però
abbandonare dopo le indignate reazioni a un suo violento attacco a filosofi
e giuristi. Alla ricerca di un nuovo impiego l'umanista passò a Milano,
poi a Genova e a Firenze, approdando finalmente nel 1435 - dopo un ulteriore
vano tentativo di entrare in curia fatto con Eugenio IV, suo antico compagno
di studi - alla corte napoletana di Alfonso V di Aragona. Al servizio del sovrano,
che proprio allora avviò una politica di contrapposizione al papa rivolta
alla conquista del regno di Napoli, Valla compose una serie di opere che consolidarono
la sua fama. Tra queste, il De falso credita et ementita Constantini donatione,
scritto in uno scoppiettante latino durante una delle fasi più acute
dello scontro tra Alfonso V ed Eugenio IV. Significativamente l’umanista
romano esordisce con l'esibizione, insistita in prima persona, dei suoi intenti
(e meriti) critici, vera e propria chiave di lettura dell'opera: «Molti,
anzi moltissimi sono i libri da me scritti in quasi tutti i campi del sapere
dove io dissento da quanto hanno affermato alcuni autori, grandi e ormai da
lungo tempo apprezzati» (Plures a me libri compluresque emissi sunt
in omni fere doctrinarum genere, in quibus quod a nonnullis magnisque et longo
iam evo probatis auctoribus dissentio; 1). Stavolta l'obiettivo è
addirittura il papa, armato non solo della spada temporale ma anche di quella
ecclesiastica, dalla quale non c'è protezione di principi. Ma l'autore
è disposto ad affrontarla, come fecero l'apostolo Paolo e il profeta
Geremia davanti al potere sacerdotale giudaico, per la causa della verità,
della giustizia, di Dio: lo stesso Paolo del resto rimproverò Pietro.
La speranza è poi che altri potino con il ferro la sede papale, che è
la vigna di Cristo, perché porti frutti abbondanti.
L’originalità dello scritto del Valla, rispetto a quello del Cusano,
non consiste tanto negli argomenti storici, che sono simili, ma piuttosto nella
decisione di dedicare un intero scritto alla questione ed, ancor più,
nell’utilizzare il metodo filologico per mostrare come il latino utilizzato
dal testo non sia quello dei tempi di Costantino[5]:
La complessa argomentazione di Valla inizia sottolineando l'inverosimiglianza
della donazione: quale sovrano, al posto di Costantino, l’avrebbe fatta,
rinunciando a Roma e a tutto l’Occidente? A quanti la giustificano perché
l'imperatore era divenuto cristiano l'umanista romano risponde negando che il
regnare fosse incompatibile con la religione cristiana, mentre per chi la
sostiene spiegandola come segno di riconoscenza per la guarigione dalla lebbra
la risposta è ancora più netta (e filologicamente sottile): questa
è una favola derivata dalla storia biblica di Naaman, risanato da Eliseo,
proprio come quella del drago, a sua volta ricalcata sulla leggenda del
drago fatto morire dal profeta Daniele... La donazione quindi non ha alcuna
plausibilità e chi la sostiene offende Costantino, il senato e il popolo
romano, Silvestro e il sommo pontificato. Inimmaginabile giuridicamente
e psicologicamente, la donazione è anche insostenibile dal punto di vista
storico: per diversi secoli nessun papa – come fa invece ora Eugenio
IV con il re di Napoli e di Sicilia – ha mai preteso obbedienza da alcun
sovrano, perché Roma e l’Italia erano sotto il dominio imperiale,
come risulta tra l’altro da un’ampia e inoppugnabile documentazione
numismatica. Le fonti storiche più attendibili sono poi concordi
nell’affermare che Costantino era cristiano fin da ragazzo e che l’imperatore
donò il palazzo lateranense e alcuni terreni al predecessore di Silvestro,
Melchiade, come attesta una lettera di questo pontefice (questa era però
una delle decretali pseudoisidoriane, da molte tempo ritenuta falsa e respinta
per questo dal Cusano nel De concordantia catholica). Agli argomenti generali
di ordine giuridico, psicologico e storico Valla fa seguire una lunga parte
dedicata all’esame del documento, che conosce soltanto nella forma parziale
trasmessa dal Decretum di Graziano. Intanto – osserva con acume il grande
filologo – il testo della donazione è assente nelle copie più
antiche dello stesso Decretum: non è quindi stato inserito da Graziano,
che l’avrebbe coerentemente ricordato insieme al Pactum Ludovicianum concesso
a Pasquale I da Ludovico il Pio, ma invece aggiunto più tardi.
Il Valla dimostra che la lingua della Donazione è un latino che già
risente degli influssi barbarici e che i riferimenti dell’opera rimandano
ad un momento nel quale Costantinopoli è già la nuova capitale
dell’Impero Romano[6]:
Valla enumera quindi nei più minuti dettagli le coincidenze verbali
con la storia leggendaria di Silvestro, la lingua incompatibile con quella
di un documento dell’età costantiniana e anzi decisamente barbarica,
le numerosissime espressioni mutuate dal latino biblico, le incongruenze. Tra
queste la concessione alla sede romana del primato, ricevuto da Cristo, da parte
di un Costantino appena convertito, l’inclusione di Costantinopoli
tra le sedi patriarcali prima della fondazione della città e la menzione
delle basiliche romane dedicate a Pietro e a Paolo prima ancora che venissero
edificate... Proprio l’aspetto che l’umanista tedesco (il Cusano)
aveva dichiarato espressamente di accantonare – l’esposizione, considerata
“per il momento” lunga e inutile, delle “prove evidenti della
falsificazione” emerse dall’esame del documento integrale –
costituisce infatti la parte maggiore e più caratteristica dello scritto
del filologo romano, il primo interamente dedicato al documento costantiniano.
Il volume del Valla si contraddistingue, poi, per le sue espressioni violentissime
contro il potere temporale del pontefice dei suoi giorni – siamo nel
periodo appunto delle tensioni con Alfonso V d’Aragona, per il quale parteggiò
il Valla. Si sovrappongono, insomma, nello scritto dell’umanista romano
il lavoro filologico sul passato, con il giudizio sull’operato presente
del pontefice, saltando a piè pari una considerazione storica di come
si sia giunti nei secoli al potere temporale della Chiesa.
Nonostante le sue parole di fuoco, il desiderio del Valla fu però
sempre quello di prestare servizio proprio in Roma, e proprio nella Curia del
Papa[7]:
Dopo un altro tentativo nel 1444 e un processo intentatogli dall’Inquisizione
napoletana a causa delle sue posizioni che negavano l’attribuzione
tradizionale del cosiddetto Credo apostolico ma finito nel nulla grazie alla
protezione del re, nella primavera del 1448 Valla rientrò finalmente
a Roma e, sotto i due successori di Eugenio IV, entrambi a lui favorevoli
– l’umanista Niccolò V e Callisto III, Alfonso Borgia, un
austero giurista che era stato alla corte alfonsina – divenne finalmente
un curiale a servizio del papa e poté dedicarsi con più tranquillità
all’insegnamento universitario e ai suoi studi. Gli ordini minori gli
avevano permesso di ricevere, con altri numerosi benefici ecclesiastici, un
canonicato proprio a San Giovanni in Laterano, cuore della falsa donazione,
prima di morire appena cinquantenne nel 1457 e di venire sepolto nella basilica.
Il prosieguo della questione mostra a sufficienza come le
tensioni con il Valla non derivassero dalle sue affermazioni sul presunto scritto
di Costantino, quanto dal tono delle sue parole nei confronti della Sede Romana[8]:
Il rientro definitivo di Valla a Roma - dove finalmente fu assunto in curia
come «scrittore delle lettere apostoliche» e quindi segretario papale,
ricevendo poi la nomina a canonico lateranense - prova che il suo scritto
contro la donazione, pur caratterizzato da toni d'aspra e incendiaria polemica,
non venne considerato come quello di un nemico. Né Valla si sentì
fuori posto nella nuova Roma di Niccolò V e Callisto III, convinto anzi
che lì, nella curia romana, convivessero e si sostenessero a vicenda
«la religione santa e la vera letteratura» - cioè quanto
più gli interessava - come avrebbe più tardi affermato in una
prolusione accademica (l’Oratio in principio sui studii) che tenne nello
Studium urbis, dove fu chiamato a insegnare. Il De falso credita et ementita
Constantini donatione era del tutto congeniale al suo autore ma venne facilitato,
e forse anche motivato, dal conflitto tra Alfonso V ed Eugenio IV, e fu subito
mandato dall'autore il 25 maggio 1440 all'amico Giovanni Tortelli. A questi
Valla lo presentò enfaticamente come un'opera canonistica e teologica
«contro tutti i canonisti e tutti i teologi», benché
proprio uno di loro - Niccolò Cusano, che sarebbe stato da Niccolò
V creato cardinale - avesse già dimostrato la falsità della donazione
costantiniana, sulla quale del resto già da decenni in diversi ambienti
i dubbi erano ormai dilaganti. E poco dopo, un altro amico umanista, Gregorio
Tifernate, manifestò al filologo romano il suo consenso, affermando che
il De falso credita et ementita Constantini donatione era un discorso «a
favore della Chiesa di Cristo, non contro la Chiesa, in favore dei sacerdoti,
non contro i sacerdoti». Concluso ormai il conflitto tra il re di Napoli
e il papa, sul finire del 1443 Valla iniziò i suoi tentativi di rientrare
a Roma: così il 19 novembre scrisse a un intimo del papa, il potente
cardinale camerlengo Lodovico Trevisano, senza ritrattare nulla delle sue posizioni
ma negando d'aver scritto contro il pontefice e sottolineando la sua netta diversità
e distanza, nonostante alcune sollecitazioni ricevute, dalle eversive posizioni
conciliariste emerse soprattutto a Basilea. La lettera non sortì
però effetto, come inutile fu quella analoga che l'umanista indirizzò
qualche settimana più tardi a un altro porporato, Gerardo Landriani.
Per brevi periodi, nel 1444 e nel 1446, Valla tornò comunque a
Roma, e la seconda volta poté persino incontrare Eugenio IV, ma il rientro
definitivo e il cambiamento della situazione si ebbero, come si è detto,
solo con Niccolò V e quindi con Callisto III. Intanto il suo scritto
contro la donazione - che in una lettera del 31 dicembre 1443 al suo antico
maestro Giovanni Aurispa lo stesso Valla aveva definito quanto di più
retorico avesse mai scritto (nihil magis oratorium scripsi) - si diffondeva
senza ostacoli da parte ecclesiastica, come dimostra il numero di manoscritti,
ben venticinque, che lo attestano, dal più antico datato, un codice vaticano,
del 1451, a uno viennese del 1501. Altrettanto consolidato appariva ormai il
risultato della dimostrazione del filologo romano, che s'era aggiunta a quella
del Cusano e fu seguita nel 1449 - ma con ogni probabilità indipendentemente
- da quella del vescovo gallese Reginald Pecock. Le argomentazioni dei due
ecclesiastici non italiani sono in alcuni punti più convincenti e solide
di quelle del caustico filologo romano ma, a differenza del Cusano e di Pecock,
Valla aveva avuto l'intuizione di dedicare per la prima volta un intero scritto
contro il Constitutum Constantini, che affrontò secondo il suo costume
con una passione e un'enfasi superiori persino alla brillantezza della forma.
E ciò naturalmente contò nella diffusione dell'opera, anche se
questa fu spesso deplorata, persino dai lettori più aperti, proprio per
i suoi toni eccessivi e violenti. Emblematico è in questo senso il
commento che, contenuto in un manoscritto di Gotha del 1497, si legge nella
prima edizione a stampa del testo, apparsa il 15 marzo 1506 a Strasburgo: «Valla
ha detto il vero dimostrando falsa la donazione di Costantino, ma ha inveito
contro il romano pontefice in modo troppo protervo, troppo arrogante e, a dire
la verità, troppo bestiale (nimium bestialiter). Se si fosse espresso
con più moderazione, questo libretto potrebbe essere approvato dal diritto
della legge».
Fu poi l’Ottocento, nel clima risorgimentale, a voler elevare a bandiera
lo scritto dell’umanista romano[9]:
Certo, la donazione... era stata ormai lasciata agli storici che,
come si è detto, proprio nella seconda metà dell'Ottocento ne
avviarono, con importanti acquisizioni soprattutto in Germania, lo studio critico
contemporaneo. In compenso la storiografia anticlericale si era impadronita
della dimostrazione di Valla: nel 1861 Johann Friedrich Schröder aveva
pubblicato un libello polemico sulla storia dei papi con lo pseudonimo «Lorenzo
Valla II», nel 1877 John Addington Symonds aveva definito l'umanista un
Davide opposto «al Golia della Chiesa» che per primo ne aveva assalito
la «tradizione tirannica nel mondo moderno» e nel 1879 Alcide
Bonneau - editore di testi rari ed erotici - tradusse in francese lo scritto
di Valla, premettendogli uno studio aspramente polemico. In Italia fu l'anticlericalismo
risorgimentale ad alimentare dopo la presa di Roma gli studi su Valla, da quello
di Alessandro Paoli nel 1872 ai contributi biografici di Luciano Barozzi e di
Girolamo Mancini, pubblicati entrambi nel 1891, sino alla traduzione di Giovanni
Vincenti del 1895, seguita mezzo secolo più tardi da quella edita
con prefazione di Gabriele Pepe, ultimo discendente di questo indirizzo storiografico
militante. «Se l'Italia attuando il disegno del Valla avesse infranto
allora il duplice giogo papale, quanti dolori non avrebbe evitato!», esclamava
Barozzi, consolato però dagli eventi recenti: «Noi d'altra parte
vedemmo gli ultimi avanzi di questa vecchia istituzione cader sotto i colpi
dell'umano incivilimento. Ecco perché il vecchio umanista sorge ora dall'oblio
in tutto il suo splendore». E anche Mancini si diceva convinto che il
potere temporale «riuscì sempre a scindere la morale dalla fede,
la civiltà dalla religione» e sicuro che «le aspirazioni
del Valla divennero realtà dopo 430 anni, il 20 settembre 1870».
E ancora nel 1952 Pepe ammoniva che l'opera dell'umanista «è un
opuscolo che deve essere meditato da chi voglia capire il moto storico, il progresso
dello spirito italiano fino a Machiavelli e al 20 settembre. Se ne curiamo la
traduzione e la ristampa si è perché esso è di una impressionante
attualità».
[1] Per lo status quaestionis degli studi su Costantino, vedi l’importante volume Costantino il grande. La civiltà antica al bivio tra Occidente e Oriente, a cura di A.Donati e G.Gentili, SilvanaEditoriale, Cinisello Balsamo, 2005, edito in occasione della omonima mostra tenutasi nel Castel Sismondo di Rimini, dal 13 marzo al 4 settembre 2005, con gli articoli di A.Donati, A.Fraschetti, D.Vera, M.Sordi, E.Cavalcanti, M.Simonetti, P.Liverani, F.Bisconti, S.Rinaldi Tufi, M.Fella Castelfranchi, F.Scorza Barcellona, G.Sena Chiesa, C.Parisi Presicce, M.Bergmann, M.Sapelli.
[2] Solo per un primo orientamento cfr. O.Bertolini, Roma di fronte a Bisanzio e ai Longobardi, Bologna, 1941, G.Arnaldi, Le origini dello stato della chiesa, UTET, Torino, 1987, C.Azzara, L’ideologia del potere regio nel papato alto medioevale (secoli VI-VIII), Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, Spoleto, 1997, con relative bibliografie.
[3] Giovanni Maria Vian, La donazione di Costantino, Il Mulino, Bologna, 2004, pagg.112-114.
[4] Giovanni Maria Vian, La donazione di Costantino, Il Mulino, Bologna, 2004, pagg.118-119.
[5] Giovanni Maria Vian, La donazione di Costantino, Il Mulino, Bologna, 2004, pag.119 e pagg.120-121.
[6] Giovanni Maria Vian, La donazione di Costantino, Il Mulino, Bologna, 2004, pag.121.
[7] Giovanni Maria Vian, La donazione di Costantino, Il Mulino, Bologna, 2004, pagg.125-126.
[8] Giovanni Maria Vian, La donazione di Costantino, Il Mulino, Bologna, 2004, pagg.129-131.
[9] Giovanni Maria Vian, La donazione di Costantino, Il Mulino, Bologna, 2004, pagg.205-206.