Ripresentiamo on–line un articolo del prof.Romano Penna già apparso con il titolo L’origine della chiesa di Roma e la sua fisionomia nel volumetto La chiesa di Roma e la parrocchia. La prospettiva missionaria, a cura di P.Selvadagi, Atti del Laboratorio organizzato dall’Istituto ‘Ecclesia Mater’ della Pontificia Università Lateranense, Quaderni dell’Istituto Ecclesia Mater, Roma, 2000, pagg.15-29. Il testo è la trascrizione della relazione che il prof.Penna tenne all’interno del Laboratorio pastorale promosso dall’Istituto Superiore di Scienze Religiose Ecclesia Mater della Diocesi di Roma in collaborazione con il Centro di Formazione permanente del Clero romano il 2-3 febbraio 1999. I neretti sono nostri ed hanno l’unico fine di rendere più facile la lettura on-line del testo. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la messa a disposizione sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto.
Il Centro culturale Gli scritti (27/3/2007)
Per più di un secolo dalle sue origini, nessun documento ci informa sulle circostanze della fondazione
della chiesa di Roma (modalità, tempo, persone), neanche quegli autori che più ebbero a che
fare con essa[1]. E' dalla
seconda metà del II secolo in poi che si susseguono le testimonianze più antiche.
- Ireneo di Lione: "... la chiesa fondata e stabilita a Roma dai due gloriosissimi apostoli Pietro e Paolo"
(Adv. haer. 3,3,2). Ma, dato che Paolo non può aver fondato la chiesa di Roma, questa
impossibilità ricade probabilmente anche su Pietro che gli è associato.
- Eusebio di Cesarea: "All'inizio del principato di Claudio [= 41-54] la Provvidenza universale... prese per mano
Pietro, potente e grande, primo fra gli apostoli per le sue virtù, e lo condusse a Roma come contro un
flagello del genere umano [= contro Simon Mago]" (Hist. eccl. 2,14,6). Il linguaggio è chiaramente
encomiastico e polemico; non dice nulla della fondazione della chiesa di Roma.
- Gerolamo: "Simone Pietro... nel secondo anno di Claudio [= 42] andò a Roma per sconfiggere Simone mago e
là occupò per venticinque anni la cattedra episcopale sino all'ultimo anno di Nerone, cioè
il quattordicesimo" (De vir. ill. 1,1). Nulla sulla fondazione della chiesa.
N.B. - La notizia della venuta di Pietro a Roma all'inizio del principato di Claudio dipende da At 12,27, dove si legge che, dopo la sua liberazione dal carcere a Gerusalemme sotto il re Erode Agrippa (= 41-44), Pietro andò "in un altro luogo" (eis héteron tópon). Questo "altro luogo" però viene variamente identificato dai commentatori: oltre a Roma (così ancora P.C. Thiede in Bibl 67 [1986] 532-538), si pensa anche ad Antiochia (Stählin), alla costa mediterranea della Palestina secondo At 9,32ss (cf. Rossé), a una diffusa attività missionaria (Cullmann), o semplicemente ad un altro luogo della stessa Gerusalemme (Calvino) o al di fuori di essa (Haenchen; Schneider; Bossuyt-Radermachers) o a un qualunque luogo indeterminato (Conzelmann; Fabris; Pesch; Barrett; Fitzmyer ["anybody's guess"]; Martini: "probabilmente neppure Luca ne aveva notizia").
- Ambrosiaster: "Si sa, dunque, che ai tempi degli apostoli alcuni giudei... abitavano a Roma. E, fra costoro,
quelli che avevano creduto insegnarono ai Romani a conservare la legge pur professando Cristo... L'apostolo
(Paolo) si adira con i Galati, perché, nonostante fossero istruiti bene, si erano lasciati fuorviare con
facilità; con i Romani invece non dovette adirarsi, ma anzi dovette lodare la loro fede, perché pur
non vedendo né segni né miracoli né alcuno degli apostoli, avevano accolto la fede in
Cristo sebbene in un senso falsato; infatti non avevano sentito annunciare il mistero della croce di Cristo"
(In epist.ad Romanos, Prol. 2-3). Questa testimonianza, che contrasta con le altre, è
particolarmente importante e doppiamente: perché, appartenendo il commentatore alla stessa chiesa di Roma,
ne esprime la coscienza dal suo interno; e perché, essendo egli, secondo alcuni studiosi, un ebreo
convertito al cristianesimo, offre una testimonianza non interessata. E' su questa posizione che si attestano
i più recenti commenti a Rom.
Essendo dunque altamente improbabile che sia stato Pietro a fondare la chiesa di Roma, questa deve i suoi
inizi a degli oscuri evangelizzatori, che vanno identificati genericamente con dei viaggiatori o mercanti
provenienti in Italia da Gerusalemme. Su questa posizione sono ormai attestati tutti i commentatori
odierni[2]. Con
ciò non si nega affatto né che Pietro sia stato a Roma (anche se con ogni probabilità vi
giunse dopo che Paolo scrisse la sua lettera [cioè dopo la metà degli anni 50], visto che non lo
nomina neppure, mentre ciò avviene per ben 4 volte sia in 1Cor sia in Gal, sempre col nome aramaico
Kéfás) e tantomeno che vi sia morto martire[3].
Il testo citato dell'Ambrosiaster si assomma alla notizia di Svetonio, secondo cui Claudio "cacciò da
Roma i Giudei che tumultuavano continuamente per l'istigazione di Cresto (impulsore Chresto)" (Vita
Cl. 25). Per quanto l'identificazione di questo "Cresto" sia controversa, è da preferire quella
di chi vi scorge uno scambio di vocali con “Cristo”[4].
L'attenzione dunque viene convogliata sul giudaismo romano, che, come a Gerusalemme, costituì la vera
matrice della comunità cristiana locale[5]. Ma è il caso di dire che quali gli inizi, tali gli sviluppi. Infatti, la
chiesa di Roma, che non ricevette alla sua nascita l'impronta del paolinismo (cf. Ambrosiaster!), in seguito
rimase di fatto connotata dal giudeo-cristianesimo; lo si vede in alcune tappe che possiamo rintracciare
all'interno del secolo I:
Per comprendere la prima organizzazione della chiesa di Roma è necessario partire da quella del giudaismo romano, dal quale questa chiesa di fatto proviene[6].
Non abbiamo nessuna notizia che gli ebrei di Roma fossero raggruppati in un unico políteuma, cioè in una associazione di cittadini autonoma, come ad Alessandria in Egitto (cf. Strabone in Fl. Giuseppe, Ant. 14,117: "Alla loro testa c'è un ethnárchés [detto in Filone Al., In Fl. 74: genárchés] che governa la nazione, decide le contestazioni e si occupa dei contratti e dei comandi, come se fosse il capo di un governo autonomo"). A Roma gli ebrei sono frantumati in varie comunità, una specie di parrocchie ante litteram, ciascuna delle quali costituiva e recava il nome di synagoghé (con cui dunque non si designa l'edificio di culto, detto invece per metonimia in greco proseuché, "[luogo di] preghiera" [cf. Filone Al, Leg ad C. 132] e traslitterato in latino con proseucha [cf. Giovenale, Sat. 3,296]). La fonte primaria delle nostre informazioni in materia sono le epigrafi sepolcrali delle catacombe ebraiche romane, da cui risultano una dozzina di queste comunità, sparse in vari punti della città ed estendentisi su di un arco cronologico di almeno quattro secoli. Per quanto riguarda la metà del I secolo, possiamo ragionevolmente dedurre l'esistenza di cinque comunità del genere, le più antiche, etichettate rispettivamente
La loro organizzazione interna, stando alle notizie epigrafiche, comportava le seguenti cariche (tra parentesi la frequenza delle ricorrenze):
Come si vede, la guida delle comunità è ben articolata, ma è essenzialmente laica. Se poi volessimo identificare quelli che Paolo incontrò a Roma e che in At 28,17 sono chiamati "i più in vista tra i Giudei", dovremmo computare tra di essi almeno i gherousiárchai, i grammateis, e forse anche rappresentanti dei presbyteroi e degli árchontes.
E' fin troppo facile, anzi inevitabile, dedurre che all'inizio vero e proprio i cristiani di Roma, provenendo
dal giudaismo locale, si radunassero nelle proseuchai delle rispettive "sinagoghe" di
appartenenza. Ma ci sono alcune questioni, che qui accenniamo brevemente.
2.2.1 Un primo problema sta nel sapere quando essi si siano poi staccati anche fisicamente dal gruppo giudaico
e abbiano costituito delle nuove comunità autonome. Dobbiamo calcolare in proposito due estremi
cronologici: il terminus post quem è costituito dal provvedimento restrittivo di
Claudio, tradizionalmente datato al 49 (da alcuni anticipato al 41); il terminus ante
quem è l'anno 64, quando dopo l'incendio di Roma Nerone mandò a morte i soli
cristiani (cf. Tacito, Ann. 15,44,2-5), i quali dunque erano ormai ben identificabili come non più
appartenenti tout court ai Giudei. La separazione perciò dev'essere avvenuta in quella
quindicina d'anni che stanno tra la fine degli anni 40 e la metà degli anni 60[7]. Ebbene, è proprio in
questo tempo (più precisamente verso la metà degli anni 50) che Paolo scrive la sua lettera ai
Romani, cioè ai cristiani di Roma.
2.2.2 Inoltre, nella sua lettera Paolo non fa alcuna menzione di un qualche edificio di culto proprio dei
cristiani, né in termini di proseuché né in termini di
synagoghé. Quanto al termine ekklésía che comunque
prima del secolo III non designa mai un edificio architettonico come luogo di culto cristiano, esso in Rom
è presente solo nel capitolo finale dei saluti (cf. 16,1.4.5.16.23) a indicare piccoli gruppi di chiese
cosiddette domestiche, ma mai per designare l'insieme dei cristiani come una comunità unica. Questi
nel prescritto della lettera, a differenza di quanto avviene in altri casi (cf. 1Cor 1,2: "Alla chiesa di Dio che
è in Corinto"; Gal 1,2: "Alle chiese della Galazia";1Tes 1,1: "Alla chiesa dei Tessalonicesi"), vengono
semplicemente designati così: "A tutti coloro che sono in Roma diletti di Dio, chiamati santi" (1,7a).
L'Apostolo infatti accenna all'esistenza di piccole comunità di cristiani, che si radunano in case
private di alcuni di loro. Si deducono almeno tre di queste case di raduno: la casa dei coniugi Aquila e
Priscilla (cf. 16,3-5: "Salutate Aquila e Priscilla... e l'assemblea che si raduna in casa loro"), la casa di
Asincrito, Flegonte, Erme, Patroba, Erma "e i fratelli che sono con loro" (16,14), e quella di Filologo e Giulia,
Nereo e sua sorella, e Olimpa "e tutti i santi che sono con loro" (16,15); a queste se ne aggiungono forse
altre due, visto che si parla anche di "quelli che appartengono alla casa di Aristobulo" e"quelli che
appartengono alla casa di Narcisso" (16,10-11), probabilmente gli schiavi dei rispettivi padroni menzionati, i
quali permettevano loro di radunarsi insieme. Tenendo conto che una casa antica, di cui, in concreto, come
ambiente di raduno entra in conto solo il triclinio (a cui al massimo si può aggiungere l'atrio), poteva
accogliere al più quindici-venti persone, possiamo calcolare l'esistenza a Roma al tempo di Paolo di un
numero di cristiani compreso tra i cento e i duecento (su di una popolazione di circa un milione di
unità).
2.2.3 La prima designazione globale dei cristiani di Roma, in quanto convergenti a costituire un'unica chiesa,
l'abbiamo solo nel prescritto della cosiddetta lettera di Clemente Romano ai Corinzi dell'anno 96, che comincia
così: "La chiesa di Dio che è residente a Roma" (1Clem, Prol.), dove si noterà l'assenza
di un qualsivoglia nome personale di mittente[8]. Che già al tempo di Paolo i cristiani di Roma si sentissero parte di
un'unica chiesa è discusso. La maggior parte dei commentatori lo nega. Solo recentemente qualcuno lo ha
sostenuto[9], richiamandosi
tra l'altro al fatto che, benché anche a Corinto esistessero almeno due luoghi di raduno dei cristiani in
altrettante case private (cf. 1Cor 16,19; Rom 16,23), Paolo però si indirizza semplicemente "alla chiesa
che è a Corinto" (1Cor 1,2). Tuttavia, oltre al fatto incontestabile che nella Lettera ai Romani Paolo non
parla mai di una sola chiesa, bisogna rilevare che: (1) a Roma i gruppi erano più numerosi che altrove,
anche più che a Corinto (per esempio, non meraviglia che in Rom 16,1 si parli della "chiesa che è a
Cencre", poiché si trattava con ogni probabilità di un solo gruppo cristiano nel piccolo porto
orientale di Corinto); (2) di conseguenza, i cristiani di Roma dovevano essere più numerosi che altrove,
così da far prevalere la loro distinzione più che non la loro unificazione sotto l'etichetta
cumulativa di ekklésía (che pur vantava nobili ascendenze bibliche); (3) mentre è
possibile che la comunità di Corinto si radunasse almeno qualche volta tutta insieme in una sola casa
(così risulta da Rom 16,23: "Vi saluta Gaio, che ospita me e tutta la comunità"), ciò
non è pensabile a Roma, dati i molti gruppi cristiani e la loro impossibilità di radunarsi in una
sola casa. Resta comunque il fatto che la chiesa di Roma, benché composta da gruppi diversi, doveva
costituire "un solo corpo", se non di fatto certamente nell'ideale e come programma, secondo quanto
esplicitamente Paolo scrive in Rom 12,5: "Pur essendo molti siamo un corpo solo in Cristo" (cf. analogamente 1Cor
12,12-13.27).
2.2.4 Una questione a parte sono le caratteristiche proprie della vita della chiesa di Roma, Paolo, sia pur in
termini iperbolici e come captatio benevolentiae, comincia con il lodare i romani perché la loro
fede era nota in tutto il mondo (cf. 1,8; 16,19). Vi erano però dei problemi, che la lettera ci dischiude
con discrezione e che qui semplicemente enumeriamo.
2.2.5 L'organizzazione specifica della chiesa di Roma (usiamo il singolare per comodità) ci sfugge in gran
parte. La suddetta esortazione a formare un corpo solo viene immediatamente integrata dal riconoscimento di una
molteplicità ministeriale: "Ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri". Ma i sette
ministeri che vengono subito elencati (cf. 12,6-8: profezia, diakonia, insegnamento, esortazione, condivisione,
presidenza, opere di misericordia) sono piuttosto generici e non concordano di fatto con quelli che troviamo
altrove nelle lettere paoline (cf. 1 Cor 12,4-11; Ef 4,11); certo essi non permettono di individuare i gradi
di quella che oggi un po' anacronisticamente chiameremmo gerarchia ecclesiastica. Né dovrebbe essere un
gran problema il fatto che questi ministeri stiano tutti sotto l'etichetta di "carismi" (12,6:
charísmata), poiché una contrapposizione tra Spirito e istituzione qui non
esiste[12]. Piuttosto,
sul piano di una organizzazione meno incerta, dobbiamo puntare la nostra attenzione sulla funzione della
presidenza. Pur constatando che questo ministero è indifferentemente inserito fra gli altri, e anzi occupa
il penultimo posto nell'elenco (lo stesso avviene in 1Cor 12,28 per le kybernéseis), esso permette
un confronto con altre funzioni analoghe nella società del tempo, da cui se ne deducono dei lineamenti
più netti.
Paolo parla propriamente di "chi presiede" (ho proïstámenos), di cui dice:
"lo faccia con sollecitudine". L'impiego del singolare non deve far pensare a un solo "presidente" per tutta la
comunità romana, poiché per la sola piccola chiesa di Tessalonica viene usato il plurale (cf.
1Tes 5,12: hoi proïstámenos); esso quindi va inteso in senso distributivo, come a dire che
ogni comunità cristiana di Roma ha un suo presidente (cf. il gherousiárchés per le
singole "sinagoghe" dei Giudei). Del resto anche nella Lettera agli Ebrei, che oggi si suppone inviata alla
chiesa di Roma, l'autore impiega il plurale hégoúmenoi, "capi" (Ebr 13,7.17). Ora, questa
funzione di "presidente" viene interpretata dai Commentatori in due modi diversi: secondo alcuni, considerato che
essa è collocata in mezzo a due altre funzioni per così dire di assistenza sociale ("chi dà
lo faccia con semplicità... chi fa opere di misericordia le compia con gioia"), Paolo intenderebbe una
sorta di patronato esercitato da qualche benestante verso i meno abbienti[13]; altri invece, considerando sia il parallelo con le altre
ricorrenze (cf. 1Tes 5,12; 1Tim 5,17 [presidenti nella chiesa]; 3,4 e 5,12 [presidente nella casa])[14] sia la sua inutilità se
dovesse ridursi agli altri due carismi, preferiscono scorgervi la figura di uno specifico leader della
comunità"[15]. Da parte mia, mi allineo a questa seconda posizione, precisando
però che, a chi detiene una funzione ufficiale di presidenza, Paolo raccomanda una sollecitudine che deve
riguardare anche la carità operosa.
Tuttavia, non è chiaro in che cosa consistesse una tale presidenza, né cosa comportasse sul piano
sociale o morale o rituale per esserne investiti, né quale durata avesse. Visto che non abbiamo notizie su
altre possibili funzioni di governo nella chiesa di Roma, identificare tout court il
proïstámenos con il gherousiárchés delle
comunità giudaiche romane è del tutto aleatorio e di fatto impossibile, se non altro perché
gli appartenenti ai vari gruppi cristiani erano molto inferiori di numero rispetto a quelli delle sinagoghe
giudaiche. Di per sé, egli poteva assolvere a funzioni di vario genere: dalla predicazione
all'amministrazione della beneficenza, dalle misure deliberative a quelle disciplinari; e tra le sue funzioni
doveva essere compresa con ogni probabilità anche la presidenza dell'eucaristia.[16] A questa conclusione ci orienta la
suddetta constatazione che i primi cristiani si radunavano solo in case private, dove il responsabile del raduno
non poteva essere altri che il capofamiglia ospitante. Lo deduciamo anche dal parallelismo esistente con i culti
privati pagani dell'antichità, alla cui fenomenologia il caso dei cristiani di fatto appartiene. In
particolare, è interessante il confronto con un gruppo privato del 100 a.C. a Filadelfia in Lidia, che si
radunava in casa di un certo Dionisio, sottostando a regole morali severissime.[17] Si dà però anche il caso di collegia
romani nei quali è testimoniata la figura di un quinquennalis, cioè di un presidente a
scadenza quinquennale[18].
Paolo d'altronde nelle sue lettere autentiche non menziona mai la figura specifica del
presbyteros, anche se siamo in diritto di pensare che il proïstamenos
fosse anagraficamente un anziano. Nella Prima lettera ai Corinzi, anzi, dopo aver ricordato che "la casa
di Stefanas, che è primizia dell'Acaia, hanno posto se stessi a servizio (eis diakonían) dei
santi" (si noti il passaggio dal soggetto singolare "casa" al verbo plurale per indicare l'insieme della
famiglia), Paolo invita i corinzi ad "essere sottomessi (hypotássésthe) verso gente siffatta
e verso quanti collaborano e si affaticano con loro" (1Cor 16,15-16): ebbene, qui non si menziona alcun specifico
responsabile singolo di quella chiesa, come a dire che ogni capofamiglia doveva essere responsabile
dell'assemblea che si raccoglieva in casa sua o che il responsabile poteva variare di volta in volta.
Ciò che va comunque notato è che nell'elenco dei sette carismi di Rom 12,6-8 non c'è nulla
che faccia pensare a ruoli di tipo cerimoniale o rituale. Essi piuttosto, distinti nella forma di 2+cinque,
insistono su aspetti diversi.
- I primi due sono enunciati in astratto: la "profezia" e la "diakonia". Il primo dei due richiama una funzione
connessa con una ispirazione dello Spirito, che ha certamente a che fare con le Scritture, di cui si interpreta
la parola di Dio come norma della fede e della vita cristiana. Il secondo invece richiama tutta una serie di
relazioni interpersonali, anzi di servizi comunitari, che vengono dettagliati in forma non astratta ma personale,
come segue.
- Gli altri cinque infatti sono dei participi sostantivati: (1) "Colui che insegna" (ho
didáskalòn): è il più vicino alla profezia, di cui però rappresenta la
faccia rivolta non allo Spirito ma all'edificazione della comunità (cf. 1 Cor 14). (2) "Colui che esorta,
o che conforta" (ho parakalón): il verbo greco infatti ha i due significati, e la funzione
può essere ulteriormente intesa come una specificazione della profezia, posta a servizio degli altri. (3)
"Colui che condivide" (ho metadidoús): si tratta sicuramente di persone facoltose, che sanno
mettere generosamente a disposizione degli altri le loro sostanze. (4) "Colui che presiede": vedi sopra. (5)
"Colui che fa opere di misericordia" (ho eleón): specifica "colui che condivide" nel senso di un
più specifico riferimento all'elemosina"[19].
L'insistenza sui carismi di servizio non può non far pensare a ciò che ancora un secolo e mezzo
dopo scriverà Tertulliano, portavoce della stessa chiesa di Roma, quando nel capitolo 39
dell'Apologeticum descriverà lo svolgimento delle adunanze cristiane della città. Ne
richiamo qui i momenti essenziali: egli menziona prima le preghiere, poi la lettura delle Scritture, poi le
esortazioni e censure religiose, poi la raccolta di offerte per andare incontro ai membri più
bisognosi"[20], e infine il
pasto comune detto alla greca agápé (senza riferimento all'eucaristia). A tutto ciò
"presiedono anziani (seniores), già provati, i quali sono pervenuti a questa dignità non con
pagamento, ma con la testimonianza delle loro virtù".
Se poi volessimo confrontare la struttura interna della chiesa di Roma con quella del giudaismo della stessa
città, accanto a poche somiglianze noteremmo molte differenze, soprattutto a livello di organizzazione
gerarchica: ciò che distingue le comunità cristiane è una struttura più agile, per
così dire meno istituzionale e più carismatica. Ciò dipende certamente dal numero minore
di componenti; ma sbaglieremmo, se non computassimo anche tra le ragioni della differenza una maggior apertura e
disponibilità al libero intervento dello Spirito (cf. 12,11: "Ferventi nello Spirito"), che dovrebbe
rimanere costante.
Dall'insieme, dunque, sintetizzando, per la metà del I secolo risulta la fisionomia di una chiesa dalle
seguenti caratteristiche: di origine non strettamente apostolica, di impronta dottrinale giudeocristiana,
composta da gruppi diversi di fatto autonomi, organizzata in una struttura certamente non clericale (ma questo
termine già nel suo uso è un anacronismo) e certamente imbrigliata da maglie istituzionali molto
leggere, fortemente orientata verso quella che potremmo chiamare l'ortoprassi della carità, a cui Paolo
ulteriormente la richiama, sottolineando insieme il dato previo e fondamentale della libertà dalla legge
derivante dalla sola fede.
Introduzione al Vangelo di Marco, del prof. Romano Penna
Cosa vuol dire “spirituale” nella fede cristiana? del prof.
Romano Penna
Il fatto sinottico e le sue soluzioni storiche, del prof. Romano
Penna
Per altri articoli e studi del prof.Romano Penna o sugli Atti degli Apostoli presenti su questo sito, vedi la pagina Sacra Scrittura (Antico e Nuovo Testamento) nella sezione Percorsi tematici
[1] Mi riferisco alla lettera di Clemente, a quella di Ignazio ai Romani, alla notizia di Papia sulla composizione del vangelo di Marco, e al Pastore di Erma.
[2] Cf. ultimamente il cattolico B. Byrne, Romans, "Sacra Pagina" 6, Collegeville 1996, p. 10. Ma già il cattolico Duchesne, Histoire ancienne de l'Eglise, I, Paris 1906, p. 57, ammetteva senza mezzi termini che essa "era nata da uno scisma del giudaismo locale" (cit. da J.Huby, San Paolo. Epistola ai Romani, Roma 1961, p. 14).
[3] Le testimonianze più antiche sono la Prima lettera di Clemente dell'anno 96 (cf. 5: Pietro e Paolo associati come martiri) e l'apocrifo Ascensione di Isaia dell'inizio del II secolo (cf. 4,3: di Nerone, simboleggiato da Beliar, si dice che "perseguiterà la pianta che piantarono i dodici apostoli del Diletto; uno dei dodici sarà dato in mano sua").
[4] Vedi i testi e la loro discussione in R. Penna, L'ambiente storico-culturale delle origini cristiane, Dehoniane, Bologna 1991, pp. 277-281. Herga Botermann, 1995.
[5] Cf. R.E. Brown-J.P. Meier, Antiochia e Roma, chiese-madri della cattolicità antica, Assisi 1987, pp. 114-128; e ora K.P. Donfried & P. Richardson, edd., Judaism and Christianity in First-Century Rome, Grand Rapids-Cambridge 1998, specie pp. 117-127.
[6] Cf. R. Penna, Gli ebrei a Roma al tempo dell'apostolo Paolo, in Id., L'apostolo Paolo: Studi di esegesi e teologia, Cinisello Balsamo 1991, pp. 33-63 specie 42ss.
[7] È possibile che un episodio di intolleranza verso i cristiani sia quello verificatosi già nel 57 a danno della matrona Pomponia Grecina, che, a detta di Tacito, venne accusata di seguire una superstizione straniera (superstitionis externae rea): dovendo essere giudicata dal marito Aulo Plauzio secondo l'antico diritto, venne da lui assolta, ma d'allora in poi mutò vita vestendo sempre a lutto e comportandosi con animo mesto (cf. Tacito, Ann. 13,32,2-3). Vedi in proposito G. Scarpat, Il pensiero religioso di Seneca e l'ambiente ebraico e cristiano. Brescia 1977, pp. 130-132.
[8] L'attribuzione della lettera a Clemente risale solo a Dionisio, vescovo di Corinto verso il 170 (stando a Eusebio, Hist. eccl. 4,23,11). Qualcuno pensa che lo stesso personaggio sia menzionato in Erma, Pastore, Vis. 4,4,3 (inizi II secolo), dove una Signora (=la chiesa) dice all'autore a proposito del suo libro: "Ne farai due copie e ne manderai una a Clemente e una a Grapta. Clemente la spedirà alle altre città, poiché questo è il suo incarico, e Grapta la manifesterà alle vedove e agli orfani. Tu invece la leggerai in questa città, insieme ai presbiteri che presiedono alla chiesa". Ma il Clemente, di cui qui si parla, a parte il fatto che è associato a una donna, e che non spetta a lui leggerla "in questa città", risulta essere contemporaneo dell'autore, cioè di Erma stesso; questi però, secondo il Canone Muratoriano, scrisse la sua opera sotto l'episcopato di suo fratello Pio, cioè negli anni 140-155, quando il supposto Clemente della lettera era già morto da tempo.
[9] Così C.C. Caragounis, From Obscurity to Prominence. The Development of the Roman Church between Romans and 1Clement, in K.P. Donfried & P. Richardson, edd., Judaism and Christianity in First-Century Rome, cit., pp. 245-279.
[10] Si può certo pensare a prassi giudeo-cristiane, ma i comportamenti segnalati erano propri anche di altre correnti della religione e filosofia antiche, come il pitagorismo.
[11] Troppo forzata appare la recente proposta di M.D. Nanos, The Mystery of Romans. The Jewish Context of Paul's Letter, Minneapolis 1996, pp. 289-336, secondo cui Paolo si rivolgerebbe soprattutto ai cristiani di provenienza gentile per esortarli a sottomettersi alle autorità sinagogali e ad osservare i cosiddetti precetti noachici contenuti nel Decreto apostolico di Gerusalemme.
[12] Su questa problematica vedi il contributo chiarificatore di G. Canobbio, Lo Spirito e l'istituzione, in N. Ciola, a cura, Servire Ecclesiae. Miscellanea in onore di Mons. Pino Scabini, Dehoniane, Bologna 1998, pp. 285-302.
[13] Così i commenti di Lagrange, Huby, Michel, Cranfield, Wilckens, Schmithals, Dunn, e Byrne (che traduce:"the one who provides resources"); incerto è Schlier.
[14] In Fl. Giuseppe, Ant. 12,108, hoi proestékótes sono i capi responsabili della comunità giudaica di Alessandria, e nel contesto immediato stanno insieme a hoi presbyteroí e a hoi hégoúmenoi.
[15] Così i commenti già di Origene, Ambrosiaster, Tommaso, Lutero ("Misura distintiva di ogni preminenza è la premura per gli altri"), e tra i contemporanei Leenhardt (con riferimento all'amministrazione caritativa), Barrett, Murray, Morris, Barbaglio, Käsemann, Zeller, Stuhlmacher, Fitzmyer, Moo; Sandlay-Headlam intendono in riferimento a qualunque funzione di governo, tanto ecclesiastico quanto familiare.
[16] Cf. C.K. Barrett, The Epistle to the Romans, Black's NT, London 1984 (=1957), p. 239.
[17] Vedi R. Penna, Chiese domestiche e culti privati pagani alle origini del cristianesimo. Un confronto, in N. Ciola, a cura, Servire Ecclesiae, cit., pp. 61-85.
[18] Di epískopoi egli parla soltanto al plurale e solo in Fil 1,2. Diversa invece sarà poi la situazione nelle deuteropaoline Lettere Pastorali con la triade episcopo-presbìteri-diaconi.
[19] Sull'insieme, vedi il buon commento di J.D.G. Dunn, Romans 9-16, "World Biblical Commentary" 38b, Dallas 1988, pp. 726-732.
[20] Lo scopo è di "seppellire e nutrire poveri, ragazzi e ragazze senza beni e senza genitori, vecchi domati dall'età, e anche naufraghi e cristiani sofferenti nelle miniere o nelle isole o nelle prigioni. Non sorprenderà che i fondi raccolti, come del resto in ogni collegium antico, servano apparentemente in modo esclusivo per i soli membri della comunità; tuttavia, poco più avanti, ironizzando sul fatto che nei templi pagani venivano a mancare le offerte, Tertulliano scrive: "Non ci riesce di venire in soccorso a un tempo agli uomini e agli dèi vostri mendicanti; e d'altra parte crediamo di non dover dare se non a chi ci chiede. Tenda la mano anche Giove e qualche spicciolo riceverà, dal momento che dona di più la nostra misericordia per le strade che la vostra nei templi"!