Mettiamo a disposizione on-line anche sul nostro sito la conferenza tenuta da Roberto Vignolo
per l’Azione Cattolica di Carpi all’interno del ciclo Le giornate de Vangelo, nell’anno 2000/2001,
già disponibile sul sito della stessa associazione. Il testo conserva lo stile discorsivo tipico di una
relazione e non è stato rivisto dall’autore.
L’indagine esegetica del Vignolo mostra, da un lato, la valorizzazione della ricerca nel quarto vangelo,
ma, dall’altro, indica come il cercare dell’uomo non basti a se stesso, ma abbia bisogno di essere
purificato dal Cristo stesso. Si potrebbe parlare, insomma, della necessità e della non sufficienza della
ricerca. A questo tema R.Vignolo ha dedicato importanti contributi fra i quali ricordiamo R.Vignolo, Cercare
Gesù: tema e forma del vangelo di Marco, in L.Cilia (a cura di), Marco e il suo vangelo, San Paolo, Cinisello
Balsamo, 1997, pp.77-116 (in forma sintetica anche in PSV 35, 1997, pp.89-126) e R.Vignolo, Cercare Gesù nel
vangelo di Luca, Facoltà Teologica dell’Italia Settentrionale (dispense), Anno accademico
1995-1996.
I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di rendere più facile la lettura on-line del testo.
Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza di questo testo sul nostro sito non fosse
gradita a qualcuno degli aventi diritto.
Il Centro culturale Gli scritti (30/7/2007)
Apriamo il nostro incontro sul quarto vangelo là dove Giovanni stesso dà il senso
del suo scritto, cioè dove l’autore entra in comunicazione più diretta con i suoi lettori:
è la pericope 20,30-31; la confrontiamo poi con 19,35, in cui l’evangelista, sotto la croce, lancia il
suo messaggio. In 20,30-31 Giovanni indica la finalità del suo scritto, spiegando a cosa serva un
vangelo: è la narrazione di segni che Gesù ha fatto, di parole che Gesù ha detto (segni e
parole di Gesù sono sempre interconnessi): «Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi
discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi segni sono stati scritti perché crediate che
Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate vita nel suo nome».
Già sul Gòlgota lo stesso appello alla fede è risuonato più pungente ed
“aggressivo”. Infatti nel momento in cui Gesù è sulla croce, trafitto al costato, ormai
morto, improvvisamente il narratore parla direttamente al lettore. È un appello inconsueto in
un’opera narrativa antica, e prima d’ora mai l’evangelista si era rivolto direttamente al lettore
lungo lo svolgimento del racconto. Giovanni vede uscire dal costato di Gesù sangue ed acqua e da
ciò scaturisce la testimonianza per indurre alla fede in questa rivelazione/vita divina, quasi a prolungare il
flusso misterioso e rivelatore della vita divina diffusa dalla morte di Gesù: «E chi ha visto ha reso
testimonianza e la sua testimonianza è vera e sa di dire il vero, perché anche voi
crediate» (19,35).
Chi sono questi «voi»? Noi ameremmo conoscere con maggior precisione il volto dei destinatari
del quarto vangelo. Certamente è il volto di qualcuno che vive in un contesto culturale-religioso misto,
cioè alle prese con la cultura ellenistica e con un’esperienza sofferta in rapporto al giudaismo di
origine. Per come si riesce a ricostruirlo dall’ultima fase redazionale, si ritiene che il vangelo di Gv
fosse destinato ad una comunità giudeo-ellenistica che sentiva lo strappo dalla sinagoga in modo molto
doloroso. C’è una parola creata proprio dal quarto evangelista che testimonia tale probabilissima
origine: aposynagogòs (cioè “scacciato/scomunicato dalla sinagoga”).
Essa si trova, ad esempio, al cap. 9: «I giudei avevano già stabilito che se uno lo [Gesù]
avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga» (9,22), ed infatti il cieco
nato confessa Gesù e viene cacciato fuori dalla sinagoga (cfr. 9,34); in 12,42 si ricorda la decisione dei
farisei di scacciare chi confessa Gesù come “Cristo”; poi di nuovo Gesù predice:
«Vi cacceranno dalle sinagoghe» (16,2).
Il vangelo di Gv scaturisce da una fede sofferta, che necessita una confessione costosa, poiché richiede di
dividersi da qualche cosa che appartiene alle proprie origini. È una fede di Israele che viene
diversamente interpretata alla luce della verità stessa che si è incarnata in Gesù. Il
vangelo di Gv è orientato a sostenere una fede “adulta”, ossia una fede matura, piena. Si tratta,
cioè, di una fede che giunge non soltanto ad accogliere la testimonianza, ma a riprodurla. La fede piena
non è quella che si pensa nel proprio intimo, che Dio solo vede, ed in ragione della quale Egli sicuramente
salverà. Se da un lato tale fede è sì sufficiente alla salvezza, dall’altro la fede piena,
come la intende Gv, va dall’accoglienza intima e profonda del Verbo alla testimonianza pubblica, esplicita e
consapevole del Verbo stesso. Ecco allora il senso della bella finale del vangelo, il quale parla di sé come
di un libro scritto «perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di
Dio».
Il vangelo di Gv è un vangelo scritto in primo luogo per generare la fede. Se è,
senza dubbio, il vangelo dell’amore (di cui si parla circa 40 volte), sarebbe altresì ingenuo
dimenticare che lo è in quanto è il vangelo della fede. Ad esempio, il verbo
“credere” ritorna quasi cento volte, cifra a cui si devono aggiungere tutti i sinonimi
(ad esempio “accogliere”). Ancora: tutti i verbi dei sensi umani (ad esempio: i differenti
verbi di visione, quelli di ascolto, di odorato, del mangiare) in Gv hanno valenza spirituale, ossia esprimono la
valenza della fede, ad indicare appunto la radicalità e la totalità dell’esperienza della
fede.
Un esempio per tutti: il profumo che Maria di Betània spande per l’unzione di Gesù (Gv 12,1-8)
induce un’esperienza di sensi spirituali, poiché anticipa il mistero della Pasqua di Gesù,
della sua morte, sepoltura e risurrezione. Dunque la fede è proprio l’elemento qualificante del quarto
vangelo: nessun altro vangelo tematizza il discorso di fede come fa Gv e il discorso di “cercare
Gesù” è tipicamente giovanneo. Il vangelo è scritto per “credere”, che
certamente significa prendere una decisione che impegna tutta la nostra esistenza e tutta la nostra persona.
Non si tratta, però, di una decisione “cieca”. La fede è
conoscenza, nel senso biblico del termine. Credere che Gesù è il Figlio di Dio
significa avere una conoscenza adeguata della figura di Gesù. Tale conoscenza adeguata porta alla storia di
Gesù come unica via di rivelazione circa l’identità di Gesù: il vangelo è un
racconto che fornisce la conoscenza di chi sia in pienezza Gesù di Nazaret. Questo è di
straordinario interesse oggi. La forma della fede è la forma narrativa, non soltanto perché il racconto
della vita di Gesù dice chi è veramente Gesù, ma soprattutto poiché il racconto rivela
come sia possibile riconoscere la sua identità autentica. Gli evangelisti non danno soltanto degli
“articoli di fede”, bensì la ragione profonda della fede, che si evidenzia nella storia di
Gesù, narrata da quattro testimoni. Nel racconto è presente un modo di fondare, motivare e riattivare
la nostra fede.
All’inizio del ‘900 Von Harnack affermava di non conoscere nessun’altra religione che si fosse
presa il rischio di fondare la propria fede raccontando la stessa storia dello stesso soggetto fondatore in quattro
maniere diverse: sono questi quattro libricini che giungono a noi come punto di riferimento fondamentale della
nostra fede e che la liturgia, nella riforma post-conciliare, ripropone in un ciclo di tre anni (un anno Matteo, poi
Marco e il terzo anno Luca), “distribuendo” Giovanni come l’evangelista dei tempi forti. È
stata un’intuizione felicissima che andrebbe sfruttata fino in fondo, perché significa rimettere il
popolo di Dio in contatto con l’elemento più originario possibile (la liturgia eucaristica) insieme al
fondamento più originario possibile, cioè i quattro vangeli, facendoli “girare” nella loro
completezza e nella loro reciproca integrazione. Il vangelo racconta chi è Gesù e, soprattutto,
racconta come è stato possibile riconoscere che Gesù di Nazaret è il Cristo, il Figlio di
Dio, dando così una fede illuminata ed illuminante, ben differente da un cieco moto dell’animo o un
fatto puramente intimistico e irrazionale.
Tuttavia tale fede non è soltanto decisione e conoscenza, ma anche
testimonianza: credere che «Gesù è il Cristo, il Figlio di
Dio» è proprio fare la proclamazione pubblica di fede. Gv insiste molto su tale
aspetto.
Ad esempio, Nicodèmo è un uomo che arriverà a fare la sua professione non a parole, ma con un
gesto: insieme a Giuseppe di Arimatèa andrà ad accogliere Gesù calandolo dalla croce, ricevendo
proprio la sua salma, con un’azione che lo escluderà addirittura dalla Pasqua giudaica. Infatti il
libro dei Numeri legifera che chi tocca un cadavere si contamina e quindi non può celebrare la Pasqua (Nm
19,11-13). Quando Gesù muore, la Pasqua sta per essere celebrata ed è necessario togliere subito i
cadaveri dalle croci; con la loro scelta, Nicodèmo e Giuseppe di Arimatèa preferiscono la Pasqua di
Gesù alla Pasqua ebraica.
Dunque ci sono diversi passaggi: decisione, conoscenza cristologica, testimonianza; ma anche
rimanere. Riprendiamo Gv 20,31: «Perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio
di Dio e perché, credendo, abbiate vita nel suo nome». Le parole «perché
credendo» significano: «perché continuando a credere», «perché
perseverando nella fede», «perché rimanendo in Gesù». Quello di Gv è il
vangelo della fede che rimane, della fede matura; è il vangelo della fede che mette casa, che mette dimora
là dove Gesù ha la sua dimora. In questo senso, allora, è il vangelo di chi non si
accontenta di una fede “efficientistica”, fatta di decisione, di conoscenza, di testimonianza: la fede ha
bisogno anche della dimensione mistica. Ha detto Karl Rahner: «Nel futuro il Cristianesimo sarà mistico
o sparirà»; cioè: o il Cristianesimo nella sua qualità di fede si batte quotidianamente al
fine di rivitalizzare appieno il suo profilo spirituale o scomparirà.
Non si può che acconsentire pienamente alla tagliente affermazione di questo grande teologo, poiché
se il Cristianesimo non si ripensa come una esperienza legata alla scoperta sempre nuova di Dio in Cristo,
è destinato ad evaporare o a consolidarsi nella storia sotto forma di una ideologia, senza vera vita. Il
vangelo è scritto affinché noi conosciamo, decidiamo, testimoniamo, ma anche perché noi
«rimaniamo», cioè affinché nella fede ci sentiamo a casa nostra, in una casa che è
la casa della vita, e affinché, continuando a credere, abbiamo vita nel suo nome. Veramente questo è un
profilo interessantissimo del quarto vangelo che ultimamente viene giustamente riscoperto.
Gv è il vangelo della rivelazione che va accolta nella fede, ma che non è fine a se stessa; la fede
stessa non è fine a sé, ma serve ad avere vita: «perché, credendo, abbiate la vita nel
suo nome». La fede cristologica è l’unica porta attraverso la quale passare per accedere
alla vita in Cristo. Dunque la fede non ha una sua autonomia, ma è relativa ad aprirci alla comunione della
vita divina. «Avere vita nel nome di Gesù»: questa espressione (semplice, ma di grandissima
forza) ha proprio tale significato. Nel vangelo la vita eterna non viene mai esattamente definita, ma può
significare quanto segue: per Gv «avere vita» significa partecipare alla comunione che c’è
tra Gesù e il Padre e «credere» significa entrare proprio in questa “parentesi” che
esiste fra Gesù e il Padre.
In tal senso è sufficiente rileggere la grande preghiera di Gesù (Gv 17) e chiedersi dove siamo noi in
rapporto a questa preghiera: siamo dentro a questa preghiera di Gesù al Padre; siamo oggetto di un dono
del Padre a Gesù che viene restituito dal Figlio al Padre: «Erano tuoi, li hai dati a me, però
adesso io vengo a Te; loro restano nel mondo, a Te custodirli» (cfr. 17,6-11). Ecco cos’è
l’esperienza di fede: capire che il mondo rivelato da Gesù non è un mondo collaterale, ma
è la realtà allo stato più puro e autentico in cui tutta quanta la nostra storia si
svolge.
Cosa significa “rimanere nella fede”? Cosa significa “stabilizzarsi nel
rapporto di fede”? È il contrario di “sistemarsi”, di “fermarsi”. Secondo il
linguaggio adottato dagli stessi evangelisti, è una ricerca; la storia di Gesù fu
la storia di un ricercato. Con la sua storia Gesù fece l’effetto di qualcuno che non
si poteva fare a meno di cercare: o perché si confidava nella sua energia salvifica, o perché dava
troppo fastidio e lo si voleva eliminare. È interessante vedere come tutti gli evangelisti, pur con le
loro nette differenze, condividano tale idea, tanto è vero che nei punti chiave della sua vita (gli inizi
della sua esistenza, gli inizi della sua missione, lo svolgimento della missione, la passione, la risurrezione, la
ricerca delle donne al sepolcro) cuciono con molta naturalezza tutta la storia di Gesù, mostrando che
è la storia di qualcuno che fu cercato: in particolare essi raccontano come Egli fu
cercato e come debba essere cercato, anche oggi.
Accostandoci a Gv, sotto questo profilo si fa qualche scoperta interessante. Il quarto vangelo viene aperto nella
maniera più gloriosa possibile, cioè dal Prologo, veramente straordinario. Gli studiosi che si
intendono di letteratura sostengono che l’inizio di un’opera è sempre un fatto arbitrario: si
può cominciare un discorso o una pagina come più si preferisce. Giovanni fa una scelta assolutamente
“provocante”, in quanto, avendo letto il suo Prologo, viene da chiedersi se mai qualcuno dopo di lui
potrà incominciare meglio!
Il vangelo di Gv si apre con l’inizio degli inizi: «In principio era il Verbo, il Verbo in comunione
con Dio» (cfr. Gv 1,1). È impossibile pensare un inizio che sia più “inizio” di
questo! È ancora più radicale del «In principio» di Genesi 1,1 e
ben più radicale del “principio” amorosamente speculato dei libri sapienziali (ad esempio,
Proverbi 8,22-31; Siracide 24,3ss.; Sapienza 6-9). È il principio di un Gesù rivelatore, il quale in
tutta la sua vita altro non è se non la Parola in cui Dio si rispecchia completamente e quindi totalmente
illuminante la vita degli uomini: «La luce è venuta dalle tenebre, le tenebre hanno anche cercato di
catturarla e di spegnerla, ma non ce l’hanno fatta» (cfr. 1,5).
Come si presenta questa luce? Quale è la prima parola di questo Gesù che è il Verbo di Dio?
È singolare e non privo di ironia che la prima parola non sia un annuncio, né un insegnamento:
Gesù non dà qualcosa, ma chiede! Infatti la prima parola di Gesù in Gv è una domanda:
«Che cosa cercate?»(Gv 1,38; ma vedi anche Gesù dodicenne nel Tempio in Lc 2,49).
Non bisogna mai stancarsi di riflettere su questo; infatti, se noi dovessimo immaginare un rivelatore, certamente non
lo penseremmo così! Non penseremmo che la prima parola rivolta ai primi discepoli sia una domanda che sonda le
intenzioni profonde con cui essi si accostano a Lui: «Che cosa cercate?».
È di straordinaria efficacia, anche perché non è l’unica volta che Gesù si
lascerà sfuggire tale domanda: essa apre il racconto della Passione (Gv 18,4.6) e viene rivolta a Maria
Maddalena: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?» (Gv 20,15). Così
l’evangelista opera una bellissima inclusione tra il cap. 1 e il cap. 20, destinata a creare un’immagine
di discepolo. Il vero discepolo che si avvicina a Gesù per la sequela, dal Maestro si sente dire in primo
luogo che deve rispondere alla domanda: «Che cosa cerchi? Chi cerchi?». Il massimo della rivelazione
postula, provoca, sollecita in noi la consapevolezza di ciò che veramente siamo, il che può
effettivamente emergere nella misura in cui rispondiamo alla domanda: «Che cosa sto cercando? Chi sto
cercando?».
Nella Bibbia questa domanda si trova soltanto nella storia di Giuseppe: inviato dal padre Giacobbe ad
informarsi sulla salute dei fratelli, il giovane Giuseppe si perde per strada e incontra un tizio che, vedendolo
appunto perso, chiede: «Che cerchi?» (Gen 37,15-17). Stilone di Alessandria ha un commento
molto bello su questa domanda; è riferito alla Genesi e non ai vangeli, ma è possibile adattarlo al
testo evangelico quando dice: «Dobbiamo intendere questa domanda quasi come un dialogo dell’anima con
se stesso, dove la coscienza più illuminata interroga quella ancora più oscura, dove la parte lucida di
noi stessi sonda quella che invece tende a sfuggirci e cerca di ricondurla ad un cammino di adesione alla
verità».
Sotto questo profilo è di grande significato la prima scena di incontro tra Gesù e i
suoi discepoli, precisamente valorizzando lo scenario in cui il racconto (così come è costruito nella
sua semplicità e anche nella sua laconicità: le condizioni contingenti sono state fatte sparire, tranne
l’ora del momento in cui esso avviene) dell’incontro con i primi due discepoli (Andrea e il discepolo
anonimo, ragionevolmente riconoscibile nel “discepolo che Gesù amava”) disegna in embrione
tutta l’esperienza discepolare.
Quello che abbiamo appena letto nella finale del vangelo («Questi segni sono stati scritti perché
crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo
nome») è già tutto realizzato in questa scena, poiché la fede di questi due discepoli
parte da una testimonianza: quella di Giovanni Battista. Non c’è fede senza testimonianza
all’origine; la fede è dono anche per questo. La fede è qualcosa che viene data anche nel senso
della “trasmissione”; essa viene raccontata, è un racconto fondatore. Non lo si inventa, ma lo si
riceve. La testimonianza di Giovanni Battista dice: «‘Ecco l’Agnello di Dio!’. E i due
discepoli, sentendolo parlare così (la testimonianza chiede l’accoglienza
dell’ascolto e la decisione della sequela), seguirono Gesù».
A questo punto Gesù si volta e chiede: «Che cosa cercate?», a dire che tale domanda non
è preliminare alla fede. È un punto su cui noi dovremmo riscattarci: un grosso equivoco da
dissipare, in primo luogo dentro di noi, è che la fede costituirebbe una sorta di “assicurazione
sulle certezze”, quasi che queste non siano destinate ad essere sempre nuove e ragionevolmente rivisitate. La
ricerca è intrinseca alla fede. La cultura laica rifiuta i cristiani, in ultima analisi, poiché
ritiene che chi crede abbia smesso di cercare.
Riportiamo una citazione di Agostino e una di Gregorio di Nissa:
«Cerchiamolo per trovarlo, cerchiamolo dopo averlo trovato. Perché lo cercassimo per trovarlo,
è nascosto; perché, dopo averlo trovato, di nuovo lo cerchiamo. Egli è immenso. Sazia chi,
cercandolo, diventa capace di coglierlo, e fa più capace chi trova» (Agostino, in Joh. Tract.
LXIII,I); «Trovare Dio è cercarlo senza fine. In effetti cercare e trovare Dio non sono cose diverse,
ma il guadagno della ricerca è la ricerca stessa. Il desiderio di Dio nell’anima è appagato dal
fatto stesso di restare insaziabile, poiché vedere Dio è propriamente non esser mai sazi di
desiderarlo» (Gregorio di Nissa).
Proponiamo queste due citazioni proprio per sottolineare che il dinamismo di ricerca non è estraneo alla
fede, bensì è piantato nel momento sorgivo della sequela, appartenendo alla dimensione costitutiva
della sequela stessa.
Nel rispondere a Gesù i primi due discepoli se la cavano bene, non facendosi cogliere in errore dal Maestro
stesso (cosa che accadrà spesso) e rispondono a loro volta con una domanda: «Rabbì,
dove abiti?»; o meglio: «Dove dimori?». È lo stesso verbo che
si trova in 15,4, dove Gesù dice: «Rimanete in me e io in voi», come i tralci nella vite.
È interessante chiedersi: per quale ragione i due cercano Gesù? Che cosa significa “cercare
Gesù”? Qui si intrecciano due modelli spirituali e teologici che vengono da lontano, uno
dall’Antico Testamento e l’altro dal giudaismo del tempo; rispettivamente sono: 1. la ricerca del
Messia, il quale, quando arriva, è nascosto, quindi bisogna saperlo “stanare”; 2. la
ricerca della Sapienza. Si può seguire Gesù soltanto nella misura in cui si è animati dalla
ricerca del Salvatore e, soprattutto, si è animati dalla ricerca del senso della vita. In fondo la Sapienza
corrisponde a quello che, in termini personalizzati, noi definiremmo il senso e la verità della vita, del
mondo, della storia sperimentati nel vivere quotidiano.
Questa bella scena iniziale (che giunge fino al v. 51 e include l’incontro successivo con Pietro, con Filippo e
con Natanaèle) è rappresentata da Gv proprio sulla falsa riga della ricerca della Sapienza. Alla
base vi è l’idea che la Sapienza viene incontro a chi la cerca, sollecitando la ricerca stessa e
facendosi trovare all’interno di essa. È possibile fare un confronto con vari testi sapienziali. Ad
esempio: la Sapienza (come sposa!) si nasconde e si nega a chi la cerca troppo tardi (Prov 1,28-33; cfr. 14,6); ma
va incontro a chi la cerca veramente (Prov 8,17-21; Sir 6,23-31; 14,20-15,10; Sap 6,12-16; 8,18) e lo inabita (Prov
2,1-4). Cercare la Sapienza è compito inderogabile dell’uomo, anche se arduo, sentito perfino
impossibile (Qoh 1,13-14; 12,10; 3,15; 7,23-25.28; 8,16-18), che risuona come imperativo in apertura di un intero
Libro (Sap 1,1b-2).
Il libro del Tao, sapienza cinese raffinatissima, asserisce: «Chi sa dove stare è salvo».
Se si sa dove dare consistenza e stabilità alla propria vita, se si conosce il perimetro entro cui farla
correre ovvero il luogo in cui farla gravitare, allora questa certamente è esperienza di salvezza.
A sua volta Gesù risponde ai due discepoli in modo “brillante”:
«Venite e vedrete» (1,39). Non si tratta di una conoscenza che si può fornire con
superficialità, bensì di una esperienza da condividere. Analogamente Gesù non svende facili
rivelazioni: al discepolo amato che chiede chi è il traditore, Gesù non risponderà:
«È quel mascalzone di Giuda» (cosa che avrebbe legittimamente potuto fare!); bensì:
«È colui con il quale io intingerò un boccone e glielo darò» (cfr.
Gv 13,25-26). Gesù risponde mostrando il traditore come destinatario dell’ultima
chance, dell’ultima rivelazione possibile: prende il boccone e lo dà a Giuda.
Questa scena non è da meno di quella della lavanda dei piedi (Gv 13,1-20), anzi vi sta proprio in
parallelo.
In questo senso Gesù risponde ai due discepoli con l’invito a proseguire nella sequela. Dal punto di
vista narrativo si può notare che la domanda di Gesù è perfettamente inutile (se la si salta, il
racconto scorre bene ugualmente): Gesù ha posto una domanda, essi hanno risposto e, infine, Gesù ha
detto «Venite e vedrete», cioè «Continuate a seguirmi», cosa che
i due discepoli stavano già facendo. In realtà non è affatto una domanda inutile; se lo
è sotto il profilo del dinamismo narrativo, è invece indispensabile sotto il profilo della costruzione
del personaggio credente, ossia per evidenziare precisamente il ruolo che tale dinamismo di ricerca ha, in quanto
innescato da Gesù stesso. Gesù vuole dei discepoli capaci di sorvegliare il loro cuore quanto alle
loro aspirazioni più profonde. Si può cercare per sapere oppure per avere, ma in entrambi i casi
bisogna sapere che cosa si cerca. In tal senso è una sfida a mantenere una costante purezza di cuore nella
ricerca della fede, la quale, in ultima analisi, può avere questo significato più radicale e
profondo.
Significativo è, ancora, che la sequela, la quale comporta l’andare e il vedere dove Gesù dimora,
sia già un’allusione a quello che è il vero luogo della fede: rimanere con Cristo, presso di
Lui, cosa che prelude al “rimanere in Lui” che sarà più tematizzato nei discorsi
d’addio. Questo rimanere, a sua volta, ha un dinamismo ulteriore: la testimonianza. Andrea incontra suo
fratello e attesta: «Abbiamo trovato il Messia (che significa il Cristo)» (1,41) e
successivamente Filippo dirà: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella legge
e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret» (1,45).
In Gv il dinamismo di ricerca viene esplicitato in ulteriori direzioni; ad esempio al cap. 6, nel contesto
della moltiplicazione dei pani e dei pesci, si può intravedere una situazione che rischia di diventare
ambigua. La folla cerca Gesù poiché è stata gratificata dal segno del pane, che è il
più affettuoso, in quanto il linguaggio del pane non va al ventre, ma al cuore; è impossibile sfuggire
alla universalità di tale linguaggio. Tuttavia il cuore è fragile e può deformare la
sazietà ricevuta da questo dono, interpretandola in un senso riduttivo. A questa gente Gesù dice:
«Voi mi cercate non perché avete visto dei segni (cioè non vi siete fatti affascinare dai
grandi segni di Gesù, come ad esempio fa Nicodèmo), ma perché avete mangiato di quei pani e
vi siete saziati» (6,26). Non è una sazietà negativa soltanto se è presa come una
tappa e non come il punto di arrivo. Infatti subito dopo Gesù dice: «Procuratevi il cibo che
non perisce» (6,27). L’esperienza della fede come ricerca suppone che ci si muova secondo
la rivelazione stessa, secondo ciò che Gesù medesimo di volta in volta rivela in maniera progressiva,
lungo tutta quanta la sua storia e lungo tutto il cammino di rivelazione, il quale nell’esperienza di ciascuno,
nella fede indeclinabile e personalissima, diventa un itinerario straordinariamente originale. Quindi Gesù
sorveglia sulla “qualità” della ricerca/sequela messa in atto dai suoi discepoli, al fine di
coglierne, di volta in volta riorientandola, il vero obiettivo.
Sarebbe interessante, ma non lo faremo, esaminare un punto di contrasto molto significativo che
emerge ai capp. 7-8 fra Gesù e coloro che lo cercano per ucciderlo, poiché essi non hanno in loro
stessi la parola di Gesù e rifiutano la verità di Dio. Qui è presente uno spartiacque netto:
se si cerca Gesù o è per aderire a Lui (pure se con infinite ambiguità e miserie, carichi di un
fardello di povertà da smaltire) oppure per eliminarlo. È interessante che la discriminante passi,
di nuovo, attraverso una questione di ricerca: vuole eliminare Gesù chi cerca la propria gloria ed è
infastidito dal fatto che Gesù è il primo grande cercatore del Padre.
Questa è una tematica che Gv elabora in una maniera molto originale: Gesù cerca la volontà di
Colui che lo ha mandato. Commentando il segno compiuto a favore di un infermo alla piscina di Betzaetà,
Gesù afferma: «Io non cerco la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha
mandato» (5,30). Il primo grande cercatore è Gesù, il quale, pure se, in quanto
Figlio, continuamente vede quello che fa il Padre poiché il Padre gli mostra tutto, ciò nonostante
continua a cercare la volontà del Padre. È una grande sfida.
Noi forse obietteremmo che Gesù ha una visione trasparente e completa di Dio; che per Lui il Padre non ha
veli. Il punto è che più si conosce e più è necessario cercare: la conoscenza non
spegne la ricerca. La spegnerebbe soltanto là dove ci fosse una conoscenza condotta senza amore, senza
autentica passione, senza esperienza sufficientemente autentica di ciò che si ricerca. Più si conosce
una materia, più si vedono gli infiniti ed inesauribili risvolti che sfuggono e che sarebbero di ulteriore
interesse.
Se questo vale per ambiti strettamente profani, vale ben di più nell’ambito di quella relazione di fede
che mette a contatto con il Vivente, con il Padre, il quale si dà completamente al Figlio e tutti vuole
includere in questo mistero di vita. Il Figlio stesso, che è il primo destinatario della vita, deve faticare e
sforzarsi per cercare di capire come sarà possibile, da parte del Padre, coinvolgere tutti dentro a questo
dono di vita. Allora risulta chiarissimo che ciascuno di noi, in quanto “cercatore di Gesù”,
come modello di ogni ricerca ha Gesù stesso; ciascuno di noi, in quanto ricercatore del Signore, trova in
Gesù per primo il punto di riferimento più autentico.
Certamente non subito si trova ciò che si cerca; anzi Gesù stesso usa questa
formula tipicamente sapienziale: «Voi mi cercherete e non mi troverete» (7,34). Un
paio di volte la dice ai Giudei (7,34; 8,21) e una volta anche ai discepoli nei discorsi d’addio (cfr.
13,33). È il tema del cercare e non trovare.
In Proverbi 1,28 la Sapienza in persona, con un discorso tagliente, a coloro che hanno tardato a cercarla annuncia
che è troppo tardi: «Mi cercheranno, ma non mi troveranno». La stessa cosa si
trova nel libro del profeta Amos (5,4ss.) a proposito della parola di Dio, per cercare la quale non si può
partire quando si vuole. Infatti questa parola non si farà trovare qualora fosse cercata in condizioni che
non abbiano visto un pronunciamento generoso in tale ricerca. Dunque c’è un “cercare e non
trovare” che è veramente giudiziale.
Invece c’è un “cercare e non trovare” pedagogico: è quello discepolare, nel quale si
potrebbe forse fare rientrare anche il precedente. Quando Gesù dice: «Figlioli, come ho detto anche ai
giudei, mi cercherete, ma non mi troverete» (cfr. 13,33), allude ad un momento. I discepoli troveranno
Gesù; Egli stesso si farà trovare cercandoli Lui per primo. Tuttavia quello di Pasqua è il
momento in cui l’unico vero cercatore del Padre sarà solo fino in fondo, al massimo scortato dalle donne
sotto la croce, insieme al discepolo amato.
Concludiamo con un veloce riferimento all’ultima grande figura di ricerca presentata da Gv:
Maria di Màgdala. Così come al cap. 1 la figura dei discepoli è schizzata sulla falsariga dei
discepoli della Sapienza (Gesù va incontro a loro e loro lo seguono, lo cercano, proprio come viene descritto
nei libri sapienziali ciò che avviene fra la Sapienza e il suo discepolo), analogamente un altro
importantissimo libro biblico al cap. 20 viene scomodato come modello della teologia della ricerca di Maria
Maddalena: il Cantico dei Cantici, in modo particolare le ricerche del cap. 3 e del cap. 5.
«Ho cercato l’amato del mio cuore; l’ho cercato, ma non l’ho trovato» (Ct 3,1):
è la prima ricerca notturna, che si svolge rapidamente e con buon esito. Invece la seconda ricerca
è molto più protratta e problematica, ed è su questo modello che è tratteggiata in Gv 20
la figura di Maria Maddalena, personaggio che drammatizza nel senso più squisitamente
“erotico”. C’è un eros della fede; la sapienza vive di eros, cioè
di passione, che chiaramente ha bisogno di una grande purificazione e di diventare agape, confrontandosi con
quest’ultima. Ma non potrà mai perdere la sua carica più squisitamente erotica, perché
questa è una carica assolutamente creaturale, che ha bisogno semplicemente di essere orientata nella maniera
più autentica.
La ricerca di Maria Maddalena avviene con le lacrime agli occhi, tanto è vero che Gesù deve
“scuoterla”: «Donna, perché piangi? Chi cerchi?» (20,15).
L’interrogazione «Perché piangi?» è leggermente ironica. Nella Bibbia si
trova la stessa domanda in 1 Samuele 1,8, quando il marito di Anna vuole consolare la moglie ancora sterile,
ricordandole che, pur se essa non ha figli, lui vale per lei più di dieci figli; infatti, nonostante tutto,
egli la ama tantissimo: perché allora Anna piange? Quello di Gesù è proprio un piccolo
rimprovero fatto con molto garbo, ma non senza ironia. Così asserisce Maria Maddalena: «Non so dove
è Gesù, non so dove lo hanno messo» (cfr. 20,13).
L’ironia sta in questo: la Maddalena denuncia di non sapere, ma non sa quanto non sa! In realtà sa
molto di meno di quanto già si accusa di non sapere, perché ha Gesù davanti agli occhi e
tuttavia afferma: «Non so dove lo hanno messo». Allora la parte interessante della ricerca è
la qualità pasquale, dove queste due parole significano decidere quale tipo di Gesù si cerca.
Se la Maddalena cerca il Gesù terreno a cui era abituata, ebbene tale ricerca non funziona, è
regressiva. Al contrario, si deve ricercare il Risorto, che è certamente una presenza ben più
onnipervasiva, ma anche a cui l’obbedienza è più difficile e richiede veramente
un’intensa qualità spirituale della fede.
Proprio questo tipo di ricerca caratterizza la prima testimone del Risorto, che è la apostola
apostolorum, come l’ha definita Gregorio Magno. Di nuovo la qualità della fede pasquale ha il tratto
assolutamente decisivo che si potrebbe definire come il tratto di una fedeltà che ha bisogno di essere
investita fino in fondo nella sua qualità più grezza e fino in fondo purificata nella sua stessa
esperienza.
In ultima analisi la qualità della fede di Maria Maddalena (e anche delle altre donne che vanno al sepolcro,
secondo gli altri vangeli) è quella di un attaccamento affettivo irriducibile (l’eros a cui
abbiamo appena accennato) che ha bisogno del salto di qualità nell’incontro del Risorto; ma senza questo
attaccamento irriducibile, in qualche maniera molto superiore alle qualità intellettive, non c’è
esperienza di fede. Senza una fede che accetta anche il rischio di “sbavare” e di figurarsi un rapporto
con il Signore che ha bisogno di essere intensamente scalpellato, non c’è esperienza di fede. Tutto
il vangelo di Gv afferma che l’esperienza di fede è un uscire dall’equivoco, è un maturare
in una conoscenza più profonda del Signore; e in questa conoscenza si potrebbe quasi dire che sbagliare
è d’obbligo.
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