Ripresentiamo sul nostro sito i discorsi di S.Em. il card.Camillo Ruini per le Sessioni di apertura e di chiusura del Tribunale Diocesano del Vicariato di Roma sull’Inchiesta diocesana sulla vita, le virtù e la fama di santità del Servo di Dio Giovanni Paolo II, al secolo Karol Wojtyła, Sommo Pontefice, per la Causa di Beatificazione e Canonizzazione, tenuti rispettivamente il 28 giugno 2005 ed il 2 aprile 2007. Ci spinge a questo la consapevolezza che il Signore ci ha amato in questi anni, come sempre ha fatto, attraverso la sua Chiesa. Siamo stati – e siamo – concittadini dei santi, come annuncia l’apostolo Paolo. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di rendere più facile la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (3/4/2007)
Nella sessione di apertura di questa fase diocesana della Causa di Beatificazione e Canonizzazione
del Servo di Dio Karol Wojtyła – Giovanni Paolo II ho tracciato un breve profilo della sua vita. Ora,
nella sessione di chiusura che ha luogo nel secondo anniversario della sua morte, con animo commosso e grato a Dio,
oso proporre una piccola riflessione, quasi una meditazione, sulla sua figura spirituale, senza ledere in alcun modo
il segreto a cui come Ufficiali della Causa siamo tenuti, ma attingendo a quelle fonti che sono a disposizione di
tutti.
All’inizio, al centro e al vertice di un tale ritratto non può non stare il rapporto personale di
Karol Wojtyła con Dio: un rapporto che appare già forte, intimo e profondo negli anni della sua
fanciullezza e che poi non ha cessato di crescere, di irrobustirsi e produrre frutti in tutte le dimensioni della
sua vita. Siamo, qui, in presenza del Mistero: anzitutto il mistero dell’amore di predilezione con cui Dio
Padre ha amato questo ragazzo polacco, lo ha unito a sé e lo ha mantenuto in questa unione, non
risparmiandogli le prove della vita, anzi, associandolo sempre di nuovo alla croce del proprio Figlio, ma anche
donandogli il coraggio di amare questa croce e l’intelligenza spirituale per scorgere attraverso di essa il
proprio volto di Padre.
Nella certezza di essere amato da Dio e nella gioia di corrispondere a questo amore Karol Wojtyła ha trovato
il senso, l’unità e lo scopo della propria vita. Tutti coloro che lo hanno conosciuto, da vicino o
anche solo da lontano, sono stati colpiti infatti dalla ricchezza della sua umanità, dalla sua piena
realizzazione come uomo, ma ancor più illuminante e significativo è il fatto che tale pienezza di
umanità coincide, alla fine, con questo suo rapporto con Dio, in altre parole con la sua
santità.
Scomponendo, in certo senso, questa unità nei molteplici aspetti che la costituiscono, emerge in primo
luogo quell’autentico dono e gusto e gioia della preghiera, che Karol Wojtyła ha avuto fin da
fanciullo e a cui è rimasto sempre fedele, fino alle ore della sua agonia. Questa preghiera aveva, per
così dire, due dimensioni. In primo luogo quella del tempo riservato esclusivamente alla preghiera
stessa, cominciando dall’inizio della giornata con l’adorazione del mattino, le lodi e la
meditazione, e poi la S. Messa – per lui “in modo assoluto il centro della vita e di ogni giornata”
– come ci testimonia il suo segretario, ora Cardinale Stanislao Dziwisz, nel libro Una vita con Karol,
di cui mi sia consentito raccomandare a tutti la lettura. E ancora la preghiera in cappella subito dopo il pranzo, a
cui tante volte ho potuto partecipare, e più a lungo dopo il riposo pomeridiano, la recita quotidiana
dell’intero Rosario – preghiera che egli prediligeva –, la lettura continuata della Sacra
Scrittura, ogni giovedì l’ora santa, ogni venerdì la Via Crucis… e soprattutto il
raccoglimento, anzi l’abbandono totale in cui Karol Wojtyła si immergeva quando pregava.
L’altra dimensione della sua preghiera si esprimeva nella straordinaria facilità con cui egli univa
questa al lavoro, così che il lavoro stesso non soltanto era offerto al Signore ma era penetrato e
attraversato dalla preghiera. Due testimonianze di ciò sono il tavolo-inginocchiatoio su cui studiava e
scriveva nella cappella dell’episcopio di Cracovia e i brani di preghiera con cui iniziava e numerava le pagine
dei suoi manoscritti.
La preghiera di Karol Wojtyła – Giovanni Paolo II, così profonda e intimamente personale, era al
tempo stesso totalmente ecclesiale, legata alla tradizione e alla pietà della Chiesa. La abitavano infatti
anzitutto le tre divine Persone del Padre ricco di misericordia, del Figlio incarnato, crocifisso e risorto,
dello Spirito santificatore e vivificante, ma anche e in maniera pervasiva Maria, la Madre a cui egli è
davvero totalmente appartenuto, icona della Chiesa e guida nel pellegrinaggio della fede. E con Maria Giuseppe, che
egli mai separava da Maria e da Gesù e di cui era felice di portare, dopo quello di Karol, il nome. Abitava
inoltre la sua preghiera quella miriade di persone, di ogni nazione e condizione, che a lui si sono rivolte per
ottenere l’aiuto di Dio, la salute fisica o spirituale propria e dei congiunti: perciò il Papa
teneva nel cassetto dell’inginocchiatoio le suppliche che gli giungevano, per presentarle personalmente al
Signore.
Una seconda componente essenziale della personalità di Karol Wojtyła, che scaturiva anch’essa
dal suo intimo rapporto con Dio, è stata quella della libertà: una straordinaria libertà
interiore, che si esprimeva in molte direzioni. Cominciando per così dire “dal basso”,
cioè dal rapporto con i beni materiali, egli sempre, anche da Papa, è stato uomo di concreta e radicale
povertà. Viveva poveramente, in modo spontaneo e senza sforzo, sembrava non avere bisogno di nulla, era
totalmente distaccato dal denaro e dalle cose. Ma egli era distaccato e libero anche da se stesso, non cercava il
proprio successo o una sua autonoma realizzazione: questa libertà probabilmente l’aveva conquistata
negli anni giovanili, quando accolse la chiamata al sacerdozio superando l’attrazione che esercitava su di lui
un’altra vocazione, quella per il teatro, l’arte, le lettere.
Proprio la libertà da se stesso lo ha reso grandemente libero anche nei confronti degli altri. Era pronto
all’ascolto, e anche ad accettare la critica, prediligeva la collaborazione e rispettava la libertà dei
suoi collaboratori, ma poi sapeva essere autonomo nelle decisioni definitive, e soprattutto non rinunciava a prendere
posizioni difficili e “scomode” per timore delle reazioni delle autorità ostili alla Chiesa,
negli anni del suo ministero in Polonia, o dell’incomprensione e dell’ostilità dell’opinione
pubblica predominante, negli anni del Pontificato.
Le sue scelte, infatti, non erano mai dettate da altra sollecitudine che da quella per il Vangelo e per il bene
dell’uomo, “via della Chiesa”. La grande parola “Non abbiate paura!”, con cui ha
aperto il suo Pontificato, nasceva anche da questa libertà interiore, nutrita di fede, ed è stata, nel
concreto della storia, una parola contagiosa, che ha liberato la Polonia, e non soltanto la Polonia, dalla paura
e dalla sudditanza, politica, culturale, spirituale.
Quella medesima unione con Dio e libertà interiore che ha reso Karol Wojtyła distaccato dai beni
di questo mondo gli ha anche dato una grandissima capacità di apprezzarli e di godere delle bellezze della
natura e dell’arte, del calore delle amicizie come degli ardimenti del pensiero e delle fatiche e delle
conquiste dello sport. Ha contributo dunque a fare di lui un uomo completo e pienamente realizzato. In lui, in
certo senso, è stata plasticamente confermata la verità del principio teologico che la grazia non
sostituisce e non distrugge, ma presuppone, purifica, perfeziona e porta a compimento la natura.
L’autentico amore di Dio è inseparabile dall’amore per il prossimo e dalla passione per la sua
salvezza. Perciò un uomo che ha amato Dio con l’intensità di Giovanni Paolo II non poteva non
essere un testimone esemplare della dedizione per i fratelli. La sua vita davvero trabocca di tali testimonianze,
a cominciare da quella qualifica di ragazzo “buonissimo” che Padre Kazimierz Figlewicz attribuì a
Karol chierichetto a Wadowice e dalle ripetute visite che questi, all’età di dodici anni, fece a un
sacerdote ricoverato in ospedale.
Da prete, ma poi ugualmente da Vescovo e da Papa, egli si è per così dire “concentrato”
nell’attenzione alla persona e ai suoi problemi. Sono semplicemente innumerevoli i suoi interventi nello
spirito cristiano della carità, che “è dapprima semplicemente la risposta a ciò che,
in una determinata situazione, costituisce la necessità immediata” (Deus caritas est, 31). In
concreto questi interventi riguardavano il soccorso materiale ai poveri e ai bisognosi, dedicando loro le offerte
ricevute da altri, ma anche donando a una famiglia bisognosa la coperta del proprio letto, come attesta una donna
polacca in una lettera del giugno 1967. Si aggiungono la grande attenzione e premura per gli ammalati, fatta di
continue visite oltre che della preghiera per loro, e tutte le altre forme di sollecitudine per le varie
difficoltà della gente. In realtà il suo cuore era per i poveri, i piccoli e i sofferenti, e questo
spiega la profonda affinità spirituale che egli sentiva nei confronti di Madre Teresa di Calcutta.
Ma la stessa carità cristiana animava Karol Wojtyła nell’offrire a tutti in primo luogo
Gesù Cristo, pane della vita e Redentore dell’uomo. Egli era un “comunicatore spontaneo”
del Vangelo, a tutti e in ogni circostanza, perché viveva e quindi trasmetteva quella che il Cardinale Dziwisz
nel suo libro ha definito “freschezza evangelica”. Perciò, quando le sue responsabilità
pastorali si dilatarono al mondo intero, egli lanciò il grande programma della “nuova
evangelizzazione” e si dedicò personalmente per primo alla sua realizzazione, attraverso i continui
viaggi missionari. In particolare ha cercato, senza mai stancarsi, di dare nuova linfa alla fede cristiana
nell’Europa gravata dalla secolarizzazione ed ha fatto scaturire dal proprio cuore quella formidabile
“invenzione” evangelizzatrice che sono le Giornate Mondiali della Gioventù, espressione universale
del suo amore di predilezione per i giovani.
In realtà, dietro il vigore inesausto della sua testimonianza alla verità di Cristo stava la saldezza
rocciosa della sua fede: era la fede semplice di un fanciullo e al tempo stesso la fede di un grande uomo di
cultura, ben consapevole delle sfide di oggi, era soprattutto la fede di un uomo che in certo senso ha già
visto il Signore, ha avuto esperienza diretta della presenza misteriosa e salvifica di Dio nel proprio spirito e
nella propria vita, e perciò, alla fine, non può essere scosso o reso incerto dal dubbio, ma sente
prepotente dentro di sé il bisogno e il dovere di offrire e di trasmettere a tutti la verità che
salva. Con questo atteggiamento Giovanni Paolo II ha potuto, in anni non facili, confermare la Chiesa intera
nella fede.
La medesima sintesi di fede in Cristo e di amore e passione per l’uomo lo ha spinto a farsi carico della
difesa e della promozione della dignità e dei diritti, in una parola del bene autentico e concreto, degli
uomini e dei popoli, opponendosi con un coraggio che non ha conosciuto ostacoli alle molteplici
“minacce” che pesano sull’umanità del nostro tempo (cfr Redemptor hominis, 15-16).
La sua lotta per la liberazione dal totalitarismo comunista, la rivendicazione intransigente della giustizia per i
popoli della fame, l’impegno strenuo per la pace nel mondo – e perché le religioni siano
promotrici di pace e non di intolleranza e di violenza – sono apparsi ad osservatori superficiali come in
reciproco contrasto, ma in realtà hanno qui la loro comune sorgente.
Identico è lo spirito con il quale egli ha condotto la grande battaglia per la vita umana, contro
l’aborto e ogni altra sua negazione, e per la famiglia, contro tutte le spinte che tendono a disgregarla.
Entrambe queste battaglie egli le ha percepite e vissute non, come spesso è stato detto, quasi fossero una
violazione dei diritti delle donne, ma al contrario come affermazione e difesa dell’autentica dignità
e del genio proprio delle donne: se mi è consentito un ricordo personale, ho viva memoria della forza
improvvisa con cui Giovanni Paolo II reagì a una mia frase che gli era sembrata ricondurre il diffondersi
dell’aborto principalmente a una responsabilità e colpa delle donne.
Ho già accennato al carattere profondamente ecclesiale della preghiera e della spiritualità di Karol
Wojtyła: anche in tutta la sua opera di cristiano e di Pastore l’amore per la Chiesa è stato una
dimensione essenziale ed “interna” del suo rapporto con Dio in Gesù Cristo. Già nei modi
e nei metodi con cui egli agiva il carattere “ecclesiale”, non politico e non mondano, doveva emergere
nella forma più nitida: fu questa una sua preoccupazione costante e un decisivo criterio di comportamento.
I suoi viaggi apostolici, come le visite alle parrocchie romane, sono stati, inseparabilmente, opera di
evangelizzazione e atto di amore e di servizio per la Chiesa che vive nelle diverse parti del mondo. Egli ha portato
nel proprio cuore e vissuto nella preghiera, prima ancora di esprimerla nel magistero e nel governo, la
sollecitudine per l’unità interna della Chiesa e per la radice profonda di questa unità, che
si ritrova nella sua unione con Cristo, nella conversione e nella santità effettiva dei suoi membri.
Il Cardinale Dziwisz riporta nel suo libro una frase di Giovanni Paolo II: “L’ecumenismo è la
volontà di Cristo, ut unum sint, che tutti siano uno. E la volontà del Concilio
Vaticano II. E questo è il mio programma, indipendentemente dalle difficoltà, dai malintesi, e a volte
dalle offese”. Posso dire di aver sentito anch’io, non una sola volta, parole pressoché
identiche sulla sua bocca. Nella dedizione alla causa ecumenica, come nella richiesta di perdono per i peccati dei
figli della Chiesa, si esprime quella volontà, mite ma fermissima, di conformarsi a Cristo, di seguire Lui
solo e di percorrere quella “via” che è Cristo stesso, che è stata per Karol Wojtyła
la scelta della vita e il nutrimento dello spirito.
Ho parlato finora del rapporto straordinariamente profondo che egli ha avuto con il suo unico Signore, della sua
grande libertà e della sua capacità senza limiti di amare e di donarsi. Ora dobbiamo raccoglierci su
quell’aspetto della sua vita che è diventato evidente negli ultimi anni, ma che in realtà
è stato presente fin da quando, bambino, egli ha perduto la mamma e poco dopo il fratello e poi, ancora molto
giovane, il padre, ed ha vissuto la tragedia della guerra e dell’oppressione, sperimentando anche il dolore
fisico quando fu investito da un camion tedesco e ferito abbastanza gravemente.
Ricordiamo tutti con emozione il modo in cui la sofferenza irruppe di nuovo nella sua vita il 13 maggio 1981.
Impregnato di fiducia nel Dio che guida la storia e di abbandono filiale a Maria Santissima, Giovanni Paolo II ha
portato sempre con sé la certezza che quel colpo non era stato mortale solo per l’intercessione di
Maria e l’intervento dell’Onnipotente. Ma poi è iniziato, con la malattia, un lungo e
ininterrotto martirio, che il Cardinale Dziwisz ci consente di rivivere passo per passo, e per così dire dal
di dentro, nelle pagine finali del suo libro.
Il Papa ha sofferto nella carne e ha sofferto nello spirito, vedendosi sempre più spesso obbligato a ridurre
gli impegni legati alla sua missione: sono anch’io testimone del dispiacere che gli ha procurato il dover
interrompere, quando le aveva quasi portate a termine, le visite alle 333 parrocchie romane. Egli sopportava
però la malattia e il dolore fisico con grande serenità e pazienza, con autentica virilità
cristiana, continuando tenacemente ad adempiere il più possibile ai propri compiti, senza far pesare sugli
altri i suoi malanni. Certo, dei segni di impazienza affioravano, ma non per il dolore quanto piuttosto per
l’angustia e la limitazione che gli procurava l’insufficienza motoria, con la crescente necessità
di essere trasportato. In realtàKarol Wojtyła aveva imparato a fare spazio alla sofferenza e alla
croce non solo dalla propria esperienza di vita ma anche, e più profondamente, dalla sua stessa
spiritualità, dal rapporto personale intessuto con Dio.
Il suo testamento iniziava con le parole “Desidero seguirti” e volendo, come scelta di fondo, seguire il
Signore, egli aveva compreso e interiorizzato che bisogna accettare tutto quello che Dio dispone per noi: è
questa la certezza che traluce già dalla Lettera Apostolica Salvifici doloris. Da molto tempo egli si
preparava al passo conclusivo della sua vita terrena. Aveva cominciato a scrivere il testamento durante gli esercizi
spirituali del marzo 1979 e lo aggiornò più volte, sempre durante gli esercizi: era l’occasione
per rinnovare la sua prontezza a presentarsi al Signore. Nella preghiera, diventavano sempre più sue le parole
dell’Apostolo Paolo: “sono lieto delle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello
che manca ai patimenti di Cristo, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24). Quando la
fine si avvicinò e la prova si fece più dura, con l’operazione alla trachea per evitare nuove
crisi di soffocamento, appena svegliatosi dall’anestesia scrisse su un foglio queste parole: “Cosa mi
hanno fatto! Ma … totus tuus!”. Anche nel dolore profondo di non poter
più disporre di quella voce che egli aveva tanto usato come veicolo della parola del Signore, rinnovava il suo
abbandono totale nelle mani di Maria. E quando, nella mattina di Pasqua, gli mancò la voce per benedire dalla
finestra la folla di Piazza San Pietro, sussurrò a Mons. Stanislao: “Sarebbe forse meglio che muoia, se
non posso compiere la missione affidatami”, ma subito aggiunse: “Sia fatta la tua volontà …
Totus tuus”.
Nel giorno della morte il Papa, come aveva fatto per tutta la vita, volle nutrirsi della parola di Dio e chiese
che gli venisse letto il Vangelo di Giovanni: la lettura si protrasse fino al capitolo nono. E anche quel giorno
recitò, con l’aiuto dei presenti, tutte le preghiere quotidiane: fece l’adorazione, la
meditazione e anticipò perfino l’Ufficio delle letture della domenica. A un certo punto disse con
voce debolissima a Suor Tobiana Sobotka, suo vero angelo custode, “Lasciatemi andare dal Signore”.
Poi entrò in coma e nella sua stanza fu celebrata la Messa prefestiva della domenica della Divina
Misericordia. Mons. Stanislao riuscì ancora a dargli, come Viatico, alcune gocce del Sangue di Cristo.
Proprio con il riferimento alla Divina Misericordia, e ad un’altra suora polacca, Faustina Kowalska,
interlocutrice e araldo di Gesù Misericordioso, da Giovanni Paolo II proclamata Beata e poi Santa, è
giusto terminare questo piccolissimo ricordo spirituale del nostro tanto amato Padre e Papa. La Divina
Misericordia, infatti, è stata al centro della sua spiritualità e della sua vita: da Lei ha imparato a
vincere il male con il bene (cfr Rom 12,21), in Lei ha visto il limite invalicabile che Dio ha
posto al male e da Lei ha ricavato quella speranza certa che lo ha sostenuto in tutta la sua vita...
Concludo con un grande grazie a Mons. Gianfranco Bella e a tutto il personale del Tribunale Diocesano, come anche al
Postulatore Mons. Sławomir Oder, per aver padroneggiato e portato a termine in soli ventuno mesi, dal 28 giugno
2005 a oggi, un’impresa di così grande portata. Aggiungo un grazie vivissimo alla Chiesa sorella di
Cracovia e al suo Tribunale Diocesano, per la parte ivi svolta con ammirevole profondità e rapidità.
Grazie inoltre alla Commissione storica che ha affiancato il lavoro del Tribunale.
Si è trattato, in effetti, di un’impresa estremamente impegnativa, per la molteplicità delle
persone e degli eventi, il loro spessore e complessità, l’abbondanza e la ricchezza delle testimonianze.
Ma mi permetto di dire che è stata anche un’impresa stimolante ed entusiasmante, perché dal
contatto con Karol Wojtyła è emerso e continua ad emergere un fiume di stimoli a vivere il Vangelo: in
questo senso oserei affermare che il nostro lavoro di questi ventun mesi è stato perfino facile, della
facilità delle imprese che portano gioia.
Lo scorso 13 maggio, nel giorno della Vergine di Fatima, il Santo Padre Benedetto XVI in questa
Basilica Lateranense, al termine del suo primo discorso al clero romano, annunciava di avere concesso la dispensa dal
tempo di cinque anni di attesa dopo la morte del Servo di Dio Giovanni Paolo II (Karol Wojtyła) e che pertanto
la Causa di Beatificazione e Canonizzazione del medesimo Servo di Dio poteva avere inizio subito. Erano trascorsi
soltanto 41 giorni dalla morte di Giovanni Paolo II e ricorreva il 24° anniversario dell’attentato compiuto
contro di Lui in Piazza San Pietro, il 13 maggio 1981.
Nella certezza di interpretare il vostro unanime sentimento, desidero rinnovare al Santo Padre Benedetto XVI
l’espressione della vivissima gratitudine della Diocesi di Roma, di quella di Cracovia e del mondo intero per
questa decisione, con la quale Egli ha accolto l’istanza di un grandissimo numero di Padri Cardinali, fattisi
voce della corale e ardente supplica levatasi dal popolo di Dio nei giorni indimenticabili della morte e delle
esequie di Giovanni Paolo II.
Ogni parola che io possa ora aggiungere, come sempre avviene al termine della sessione di apertura
dell’Inchiesta diocesana sulla vita, le virtù e la fama di santità di un Servo di Dio, per
illustrare la figura di Giovanni Paolo II e motivare l’apertura della sua Causa di Beatificazione e
Canonizzazione, per un verso appare superflua, essendo tanto grande e universale la conoscenza di Lui e tanto
profondo e unanime il convincimento della sua santità. Ciò che sto per dire nasce però dal mio
cuore e confido possa trovare felice corrispondenza nel cuore di ciascuno di voi.
Karol Józef Wojtyła è nato a Wadowice il 18 maggio 1920, da Karol e da Emilia Kaczorowska,
genitori profondamente cattolici, ed è stato battezzato il 20 giugno dello stesso anno nella chiesa
parrocchiale di Wadowice. La Polonia aveva da poco ritrovato la sua unità e indipendenza e soltanto due mesi
dopo, il 16 e 17 agosto, seppe vittoriosamente difenderla, per sé e per l’Europa, respingendo
l’invasione dell’Armata Rossa nella battaglia detta “il miracolo della Vistola”. Faccio
menzione di questo evento, che consentì al bambino e all’adolescente Karol di crescere e formarsi in un
contesto sociale e culturale serenamente improntato al cattolicesimo, perché ho personalmente udito
Giovanni Paolo II ricordare in molteplici occasioni, con commossa gratitudine, il “miracolo della
Vistola”.
Nel settembre 1926 Karol, detto familiarmente Lolek, inizia a frequentare la scuola elementare. Poi, ancora
bambino di nove anni, il 13 aprile 1929, perde la madre, deceduta per malattia a soli 45 anni di età. Un
mese dopo riceve la prima comunione. Nel 1930 passa alla scuola media, presso il Ginnasio Statale di Wadowice,
scegliendo l’indirizzo neoclassico. Ma di nuovo, il 5 dicembre 1932, Karol è colpito da un gravissimo
lutto, con la morte del fratello maggiore Edmund, giovane medico che perde la vita curando i malati di una epidemia
di scarlattina. Rimasto solo con il padre, è da lui guidato a una vita nella quale la preghiera e
l’ascesi hanno uno spazio determinante, e proprio così trovano posto adeguato non soltanto lo studio, ma
anche il gioco, l’allegria e lo sport. Un’altra persona che contribuirà grandemente alla
formazione cristiana di Karol fu Padre Kazimierz Figlewicz, un giovane sacerdote che dal 1930 insegnava catechismo
nella scuola di Wadowice e seguiva i chierichetti, tra cui Karol, nella parrocchia. Il piccolo Wojtyła si
confessava da lui, lo ammirava e gli si affezionò profondamente. A sua volta il sacerdote descrive Karol come
“un ragazzo vivacissimo, di grande talento, molto sveglio e buonissimo”.
I tratti peculiari della pietà in cui il ragazzo viene formato sono l’amore alla Vergine Maria e la
devozione allo Spirito Santo, caratteristiche che rimangono profondamente iscritte nel suo animo e alle quali si
mantenne fedele per sempre. La sua vita religiosa era alimentata mediante l’assidua preghiera personale, la
frequenza ai sacramenti, le pratiche di pietà, in particolare i pellegrinaggi ai santuari mariani, ma anche
attraverso l’impegno nelle associazioni cattoliche: la vigilia dell’Assunzione del 1934 entra a far parte
del Sodalizio Mariano della sua parrocchia e due anni dopo ne diventa presidente.
Già nel 1934 Karol comincia inoltre a partecipare a delle recite e due anni dopo inizia un’intensa
collaborazione con il regista teatrale d’avanguardia Mieczysław Kotlarczyk, innamorato del teatro e
profondamente credente.
Il 3 maggio 1938 Karol riceve la cresima, il 27 dello stesso mese consegue la licenza liceale: alla cerimonia di
consegna del diploma viene chiamato a tenere il discorso di commiato. Nell’agosto successivo si trasferisce con
il padre a Cracovia, per iscriversi alla Facoltà di filosofia dell’Università Jagiellonica,
seguendo i corsi di filologia polacca. Come scrive nel suo libro Dono e Mistero, questa strada introdusse
il futuro Giovanni Paolo II “nel mistero stesso della parola”.
Lo scoppio della seconda guerra mondiale, iniziata con l’invasione della Polonia il 1° settembre 1939,
cambia però radicalmente il corso della vita di Karol. Egli nella primavera di quell’anno aveva
già portato a termine il volume di poesie, allora inedite, Salmo rinascimentale / Libro slavo, di cui
fa parte l’inno Magnificat, nel quale si legge: “Ecco, riempio fino all’orlo il calice
col succo della vite nel Tuo convito celeste – io, il Tuo servo orante – grato, perché
misteriosamente rendesti angelica la mia giovinezza, perché da un tronco di tiglio scolpisti una forma
robusta. Tu sei il più stupendo, onnipotente Intagliatore di santi”. Queste parole, che non possiamo
ascoltare senza commozione, dicono moltissimo non solo sulla vita, la profondità spirituale, la comprensione
di sé e il genio poetico del giovane Wojtyła, ma anche, profeticamente, su come la Provvidenza, avrebbe
scolpito la sua figura e la sua persona attraverso i drammi e gli imprevisti della storia.
L’Università Jagiellonica fu costretta a interrompere i corsi e nel settembre 1940, per evitare la
deportazione ai lavori forzati in Germania, il giovane Karol iniziò a lavorare come operaio in una cava di
pietra collegata con lo stabilimento chimico Solvay, nel quale un anno dopo sarebbe passato a lavorare
direttamente. Quanto questa esperienza abbia influito su di lui, gli abbia dato una più profonda e completa
esperienza della realtà e della fatica della vita oltre che della solidarietà tra gli uomini, è
espresso emblematicamente in un verso del poema La cava di pietra, scritto nel 1956: “tutta la
grandezza del lavoro è dentro l’uomo”.
Il 18 febbraio 1941 il padre, malato da tempo ma non ritenuto in pericolo di vita, muore improvvisamente. Karol
perde così l’ultimo, e fortissimo, legame e affetto familiare. Più tardi ricorderà:
“non m’ero mai sentito tanto solo” come in quella notte di veglia e di preghiera, nonostante la
presenza con lui di un amico.
La vita, nella Polonia occupata, era terribilmente dura, la Chiesa sistematicamente perseguitata, moltissimi
sacerdoti uccisi o imprigionati. Eppure, proprio in quella situazione, il giovane Wojtyła non solo
continuò a scrivere, in particolare a comporre drammi, e a recitare, nel “teatro rapsodico”
clandestino, alimentando così la resistenza morale all’oppressione nazista e l’identità
spirituale e culturale polacca, ma approfondì la sua esperienza religiosa, in particolare attraverso il
contatto con Jan Tyranowski, un sarto di alta spiritualità e un autentico formatore di giovani, che lo
introdusse alla lettura dei grandi mistici carmelitani San Giovanni della Croce e Santa Teresa d’Avila, e
l’incontro con il Trattato della vera devozione alla Santa Vergine di San Luigi Maria
Grignion de Montfort, dal quale comprese più profondamente il legame tra Maria e Cristo e ricavò il
motto di affidamento mariano “Totus Tuus”, autentico emblema della sua vita e non solo del suo
episcopato. I pellegrinaggi al santuario mariano di Kalwaria contribuirono a delineare questo itinerario di preghiera
e di contemplazione, che avrebbe orientato i passi del giovane Karol verso il sacerdozio.
Insegnanti ed amici, già a Wadowice e poi a Cracovia, avevano più volte detto a Karol che egli
appariva loro destinato all’altare, ma egli aveva sempre opposto resistenza a questa idea, soprattutto
perché profondamente attratto da un’altra vocazione, quella per il teatro, l’arte, le lettere.
Nel mistero della chiamata al sacerdozio, e dell’accoglienza di essa da parte di Karol, ha avuto un ruolo
particolare, come attesta lo stesso Giovanni Paolo II nel libro Dono e Mistero, la grande figura di Adam
Chmielowski, il Santo Frate Alberto, celebre patriota e pittore polacco che ebbe la forza di rompere con la
propria arte quando comprese che Dio lo chiamava a servire i diseredati e a condividere la loro vita. A lui Karol
Wojtyła dedicherà il dramma “Fratello del nostro Dio” e poi, divenuto Papa, lo
proclamerà Beato in Polonia nel 1983 e Santo a Roma nel novembre 1989, mentre crollava la “cortina di
ferro”.
La vocazione sacerdotale di Karol giunse a piena maturazione nel corso del 1942 e nell’autunno di
quell’anno egli prese la decisione di entrare a far parte del seminario di Cracovia, che funzionava
clandestinamente, pur continuando il suo lavoro in fabbrica. In pari tempo, nell’itinerario di formazione
al sacerdozio presso la Facoltà teologica dell’Università Jagiellonica, anch’essa
clandestina, incominciò lo studio sistematico della filosofia, in particolare della metafisica. Il Cardinale
Arcivescovo di Cracovia, Principe Adam Stefan Sapieha, sistemò poco dopo il seminario clandestino presso la
propria residenza e qui il seminarista Wojtyła trovò rifugio dal settembre 1944 e visse la notte della
liberazione di Cracovia da parte dell’Armata Rossa, il 18 gennaio 1945. L’anno accademico 1945-46
potè svolgersi regolarmente e il Cardinale Sapieha, avendo deciso che Karol Wojtyła completasse gli studi
a Roma, lo ordinò sacerdote, in anticipo sui suoi compagni di corso, il 1° novembre 1946, nella propria
cappella privata. Toccante è la descrizione che Giovanni Paolo II ci ha lasciato, nel libro Dono e
Mistero, di quell’ordinazione e delle tre Sante Messe celebrate dal novello sacerdote il giorno dopo, 2
novembre, nella cripta di San Leonardo della Cattedrale del Wawel.
Alla fine di quel mese di novembre Don Karol era già a Roma, iscritto ai corsi di laurea in teologia presso il
Pontificio Ateneo Angelicum, dove primeggiava la figura del Padre Réginald Garrigou Lagrange, O.P., che fu
anche relatore della tesi di Dottorato, dedicata alla Doctrina de fide apud S. Ioannem a Cruce, la dottrina
intorno alla fede secondo S. Giovanni della Croce, che Don Karol discusse il 19 giugno 1948. Abitando per quei due
anni al Collegio Belga, in un ambiente culturalmente e teologicamente assai vivo, il giovane sacerdote polacco fu
animato dal forte desiderio di “imparare Roma”, trasmessogli in particolare dal Rettore del Seminario
di Cracovia, P. Karol Kozłowski, e di Roma effettivamente non solo apprese la storia e la bellezza, ma
assimilò il respiro universale e cattolico, che spontaneamente si innestava nella grande tradizione cattolica
polacca. Don Karol nelle vacanze estive visitò inoltre la Francia, l’Olanda e il Belgio, conoscendo da
una parte le nuove problematiche pastorali espresse nella formula “Francia, paese di missione”, e
però anche sostando ad Ars dove, dall’incontro con la figura di San Giovanni Maria Vianney, trasse la
convinzione che il sacerdote realizza una parte essenziale della sua missione attraverso il confessionale, come
egli stesso attesta nel libro Dono e Mistero. L’atteggiamento complessivo col quale già allora
Don Karol affrontava la vita è bene espresso dalle sue parole riportate da uno dei sacerdoti suoi compagni:
“È necessario organizzare la vita in modo tale che questa tutta possa glorificare Dio”.
Ritornato in Polonia, egli viene inviato a Niegowic come Vicario parrocchiale, ma dopo un solo anno è chiamato
a Cracovia per essere Vicario parrocchiale nella parrocchia di San Floriano ed avviare una cappellania per gli
studenti universitari. Nonostante gli ostacoli frapposti dal regime comunista, dà prova di una
straordinaria capacità educativa e creatività pastorale e culturale: sa penetrare infatti
l’inquietudine del cuore dei giovani ed entrare in profonda sintonia con loro, introducendoli allo stesso
tempo nella verità, bellezza e impegnatività della persona e della croce e risurrezione del Signore
Gesù. Incomincia così, già allora, ad esercitare su di loro quel fascino meraviglioso che
esprimerà, da Pontefice, attraverso le Giornate Mondiali della Gioventù.
Dopo la morte del Cardinale Sapieha, l’Arcivescovo Eugeniusz Baziak volle però che Don Karol si
dedicasse all’insegnamento universitario e gli concesse, a partire dal 1° settembre 1951, due anni
sabbatici per scrivere la tesi di abilitazione, dal titolo Valutazioni sulla possibilità di
costruire un’etica cristiana sulle basi del sistema di Max Scheler. Questo studio, che ottenne
l’approvazione accademica il 30 novembre 1953, consentì al giovane sacerdote di penetrare il pensiero
fenomenologico, giungendo alla conclusione che la fenomenologia è uno strumento importante e prezioso per
indagare le dimensioni dell’esperienza umana, ma ha bisogno di essere fondata sulla concezione realistica
dell’essere e della conoscenza, che Don Karol aveva approfondito nei suoi studi precedenti.
È indicata così la direzione di fondo del suo personale progetto filosofico, che intende legare
l’oggettività e il realismo del pensiero classico con la sottolineatura moderna della
soggettività e dell’esperienza e che culminerà nella grande opera Persona e
atto, pubblicata nel 1969, quando Karol Wojtyła era già Cardinale. Questo orientamento di
fondo è ben visibile, del resto, anche nel suo insegnamento di Pontefice: ricordo soltanto le pagine iniziali
dell’Enciclica Dives in misericordia, con il principio della congiunzione “organica e
profonda” di teocentrismo ed antropocentrismo.
La soppressione della Facoltà di teologia dell’Università Jagiellonica, decretata dal regime nel
1954, fece sì che il nuovo Professore svolgesse la sua carriera accademica non a Cracovia, come previsto, ma
all’Università Cattolica di Lublino, a partire dall’autunno 1954, ottenendo già nel
novembre 1956 la cattedra di etica nella Facoltà di filosofia e continuando fino al 1961 una regolare
attività accademica. Sono quelli gli anni dei suoi continui viaggi in treno, tra Cracovia e Lublino: Karol
Wojtyła infatti, che aveva accettato solo per ubbidienza i due anni sabbatici richiestigli
dall’Arcivescovo Baziak, proseguì un’intensa attività pastorale a Cracovia, soprattutto
con i giovani, condividendo con loro anche le vacanze. Continuò inoltre a comporre drammi e poesie.
Proprio nel mezzo di una vacanza con i giovani, il 4 luglio 1958, Don Karol apprese dal Cardinale Primate di
Polonia Stefan Wyszyński di essere stato nominato dal Papa Pio XII Vescovo Ausiliare di Cracovia,
all’età di soli 38 anni, e fu consacrato nella Cattedrale del Wawel il 28 settembre, festa di San
Venceslao, Patrono della medesima Cattedrale, dall’Arcivescovo Eugeniusz Baziak. Nel libro Alzatevi,
Andiamo! lo stesso Giovanni Paolo II descrive ampiamente questi eventi e lo spirito con il quale egli li visse.
Già la sera dell’ordinazione si recò pellegrino al santuario di Częstochowa, con i suoi
amici più stretti, e la mattina seguente celebrò la S. Messa davanti all’Icona della Madonna
Nera.
A seguito della morte dell’Arcivescovo Baziak, Mons. Wojtyła, il 16 luglio 1962, viene eletto dal Capitolo
Metropolitano Vicario Capitolare dell’Arcidiocesi di Cracovia. Dopo un anno e mezzo Paolo VI, il 13 gennaio
1964, lo promuove Arcivescovo Metropolita e l’8 marzo egli prende solenne possesso dell’Arcidiocesi.
Erano gli anni nei quali Mons. Wojtyła prese intensamente parte a tutto il Concilio Vaticano II, dando un
contributo di straordinaria importanza specialmente all’elaborazione della Costituzione Gaudium et
spes, oltre che alla Dichiarazione sulla libertà religiosa e anche alla Costituzione
Lumen gentium e al Decreto sull’apostolato dei laici.
L’esperienza del Concilio è stata decisiva per l’Episcopato cracoviense e per il successivo
Pontificato romano di Karol Wojtyła, completando armoniosamente tutta la sua formazione ed esperienza
precedente: è rimasta infatti per sempre scolpita in lui la convinzione che il Vaticano II è
“l’evento chiave della nostra epoca” (Discorso al clero romano del 14 febbraio 1991).
Proprio per mettere in pratica il Concilio e per farne rivivere l’esperienza a tutta l’Arcidiocesi,
l’Arcivescovo Wojtyła, nel frattempo creato Cardinale da Paolo VI nel Concistoro del 26 giugno 1967,
indisse il Sinodo di Cracovia l’8 maggio 1972, dopo un anno di intensi preparativi: fu un Sinodo quanto mai
partecipato e coinvolgente, durato per sette anni e concluso dallo stesso Giovanni Paolo II, ormai Papa, l’8
giugno 1979, nel nono centenario di San Stanislao. Stanisław è anche il nome del suo fedelissimo
Segretario, Mons. Dziwisz, a noi tutti tanto caro, che ha condiviso la sua vita per 39 anni e ora gli succede sulla
Cattedra di Cracovia, dopo il Cardinale Franciszek Macharski, a sua volta amico di sempre e collaboratore prezioso di
Giovanni Paolo II.
Se mi è lecito azzardare una sintesi dei venti anni nei quali Karol Wojtyła è stato Vescovo a
Cracovia, direi che, sulla base di una totale fiducia in quella Divina Misericordia di cui egli si era sempre
più compenetrato, in particolare attraverso l’incontro con l’esperienza mistica di Suor Faustina
Kowalska, da lui poi proclamata Beata il 18 aprile 1993 e Santa il 30 aprile 2000, egli seppe fare sintesi della sua
forza intellettuale e del suo genio artistico con quell’amore appassionato per Cristo, per la Chiesa e per gli
uomini che lo Spirito Santo aveva infuso in lui. Così egli è riuscito ad essere un Pastore capace di
comprendere, di guidare e di far crescere il suo clero e il suo popolo, pure in situazioni di gravissima
difficoltà. Ha saputo non soltanto resistere alla pressione del regime, ma minarne le fondamenta, sul piano
umano e culturale oltre che spirituale, secondo quelle grandi intuizioni che poi ha raccolto nell’
Enciclica Centesimus Annus. È stato il Vescovo che ha e che deve avere coraggio, come
egli stesso ha scritto nell’ultimo capitolo del libro Alzatevi, Andiamo!, e nel medesimo
tempo è stato l’uomo e il testimone dell’amore e del perdono, che vince il male con il bene,
secondo la parole dell’Apostolo Paolo (Rom 12,21) riprese nel suo ultimo Messaggio per la Giornata
Mondiale della Pace.
Il 16 ottobre 1978, secondo il disegno della Provvidenza di Dio, Karol Wojtyła è stato eletto Vescovo di
Roma e Pastore universale della Chiesa. I ventisei anni e mezzo del suo Pontificato sono scolpiti nella memoria e nel
cuore di ciascuno di noi e non hanno bisogno di essere riproposti qui. Ricordiamo tutti, infatti, quel suo forte
invito all’inizio solenne del suo ministero, il 22 ottobre 1978: “Non abbiate paura! Aprite, anzi,
spalancate le porte a Cristo!”. Un invito al quale egli per primo è rimasto sempre fedele.
Ricordiamo i suoi innumerevoli viaggi apostolici, per portare l’annuncio di Cristo, nostro unico
Salvatore, in ogni parte della terra. Le sue visite alle parrocchie di Roma, l’affetto e la premura costante
con cui ha guidato questa Diocesi, attraverso il Sinodo, la Missione cittadina, il Grande Giubileo che ha coinvolto
il mondo intero. Ricordiamo la straordinaria iniziativa pastorale delle Giornate Mondiali della Gioventù, che
hanno aperto una nuova e grande via all’incontro dei giovani con Cristo.
E come dimenticare quell’amore e quella sollecitudine per l’umanità comunque minacciata che
lo ha portato ad un’opera instancabile per scongiurare le guerre e ristabilire la pace, per assicurare ai
popoli più poveri, agli ultimi della terra, una speranza di vita e di sviluppo, per difendere la
dignità intangibile di ogni esistenza umana, dal concepimento al termine naturale, per tutelare e promuovere
la famiglia e l’autentico amore umano.
Ancora, non possiamo dimenticare la lungimiranza e il coraggio con cui ha contribuito ad abbattere il muro che
divideva l’Europa e poi a richiamare alle sue radici cristiane l’Europa stessa. La generosità con
cui si è speso per l’unità dei cristiani, avvertita da lui come una precisa e non declinabile
volontà di Gesù. L’impegno che ha profuso perché le religioni siano portatrici di pace tra
i popoli. La sincerità disarmante con cui ha chiesto perdono per i peccati dei figli della Chiesa e al
contempo la forza e la tenacia con cui ha difeso e proclamato il legame indissolubile della Chiesa con Cristo e
l’integrità della dottrina cattolica.
Di questa dottrina, della sua verità e della sua rilevanza per l’uomo di oggi, sono espressione
insigne le sue 14 Encicliche, il Catechismo della Chiesa Cattolica e tutti gli altri suoi documenti e discorsi.
Della sua sollecitudine per la collegialità dell’Episcopato, l’unità e la vita della
Chiesa, testimoniano le 15 Assemblee del Sinodo dei Vescovi da lui convocate, come anche la promulgazione dei Codici
di diritto canonico della Chiesa latina e delle Chiese orientali.
Alla radice di tutta questa instancabile azione apostolica sta chiaramente l’intensità e la
profondità della preghiera di Giovanni Paolo II, di cui tanti di noi sono diretti testimoni,
quell’intima unione con Dio che lo ha accompagnato dalla fanciullezza fino al termine della sua esistenza
terrena. Voglio solo ricordare le parole che egli ha pronunciato all’inizio del suo Pontificato, il 29
ottobre 1978, al Santuario della Mentorella: “La preghiera … è … il primo compito e quasi
il primo annuncio del Papa, così come è la prima condizione del suo servizio nella Chiesa e nel
mondo”.
Ma vi è un’ulteriore dimensione, ugualmente decisiva, del rapporto che ha unito Karol Wojtyła a
Cristo Salvatore e all’umanità da Lui redenta. È il rapporto del sangue. Nel breve poema
Stanisław, composto pochi giorni prima del Conclave che lo avrebbe eletto Papa, egli ha
scritto: “Se la parola non ha convertito, sarà il sangue a convertire”. Il proprio sangue
Giovanni Paolo II lo ha realmente versato in Piazza San Pietro, il 13 maggio 1981, e poi di nuovo, non il sangue ma
la vita intera, ha offerto durante i lunghi anni della sua malattia. Da ultimo la sua sofferenza e la sua morte, la
sua benedizione ormai senza voce dalla finestra, al termine della S. Messa di Pasqua, sono state per
l’umanità intera una testimonianza straordinariamente efficace di Gesù Cristo morto e risorto,
del significato cristiano della sofferenza e della morte e della forza di salvezza che in esse può trovare
dimora, in ultima analisi del vero volto dell’uomo redento da Cristo. Perciò i giorni delle sue esequie
sono diventati, per Roma e per il mondo, giorni di straordinaria unità, di riconciliazione, di apertura
dell’anima a Dio.
L’allora Cardinale Joseph Ratzinger ha incentrato la sua omelia, alla Messa esequiale di venerdì 8
aprile in Piazza San Pietro, sulla parola “seguimi”, che Gesù risorto ha rivolto a Pietro quando
lo incaricava di pascere il suo gregge (cfr Gv 21,15-23), individuando nella sequela di Cristo la sintesi
dell’esistenza di Karol Wojtyła, Giovanni Paolo II, per poi concludere: “Possiamo essere sicuri
che il nostro amato Papa sta adesso alla finestra della casa del Padre, ci vede e ci benedice”. Sì,
questa è anche la nostra certezza e perciò chiediamo al Signore, con tutto il cuore, che la Causa di
Beatificazione e Canonizzazione che questa sera ha inizio possa giungere molto presto al suo coronamento. Le tante
testimonianze che continuamente ci giungono riguardo alla santità di vita del compianto Pontefice e alle
grazie impetrate attraverso di lui confermano questa nostra preghiera.
Termino dicendo, come italiano, un grandissimo e specifico grazie a Giovanni Paolo II per l’amore e la
sollecitudine che egli ha avuto non solo per Roma ma per tutta la sua “seconda Patria”,
l’Italia, e ringraziando dal profondo del mio animo la Chiesa sorella di Cracovia e tutta l’amata
Nazione polacca, nelle quali Karol Wojtyła ha ricevuto la vita, la fede e la sua mirabile ricchezza cristiana e
umana, per essere così donato a Roma e al mondo intero.