Quel “bene umano” di cui è oggettivamente sbagliato e concretamente impossibile fare a meno.
Intervento del cardinal Camillo Ruini al convegno Biopolitica oltre le ideologie

Ripresentiamo on-line sul nostro sito l’intervento tenuto da S.Em.il cardinal Camillo Ruini al Convegno Biopolitica oltre le ideologie, tenutosi a Roma, presso la Pontificia Università Gregoriana, il 10 maggio 2007. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.

Il Centro culturale Gli scritti (14/5/2007)


Questo intervento si pone in rapporto al Manifesto per una bioetica critica, come un contributo alla domanda di fondo sulla conoscibilità e sulla sostenibilità pubblica di quel “bene umano obiettivo” che è il cardine del Manifesto stesso.
Quando ci si interroga sul bene umano, ma in maniera molto più generale quando ci si pone di fronte alla vita, o più semplicemente si cerca di vivere, l’interrogativo circa il significato della nostra concreta umanità, e quindi la questione dell’uomo, si presentano come inevitabili. Così è accaduto sempre nella storia, in maniera progressivamente più esplicita e riflessa. Ricordiamo in particolare la domanda di Kant, nella Critica della ragion pura, “che cos’è l’uomo?”, che egli considera come una quarta domanda, alla quale si riferiscono le tre domande precedenti (“che cosa posso sapere? che cosa devo fare? che cosa posso sperare?”) nelle quali si incentra tutto l’interesse della ragione. Il Concilio Vaticano II, nella Gaudium et spes, n. 12, ripropone come centrale la medesima domanda “che cos’è l’uomo?”. Essa si presenta con una nuova forza oggi, quando sono diventati possibili quegli interventi diretti sulla realtà fisica e biologica del nostro essere che hanno dato luogo al sorgere di una disciplina come la bioetica, o anche della “biopolitica”.
Il nostro primo assunto è dunque che quella dell’uomo è una questione inevitabile. Il secondo assunto, implicitamente già contenuto nel primo, è che quella dell’uomo è una questione non solo teoretica ma anche ed eminentemente pratica. Essa è teoretica perché è fondamentale conoscere, per quanto possibile, qual è la nostra autentica realtà: data la sua decisiva importanza, dobbiamo pertanto affrontare questa questione con tutto il rigore e le capacità critiche della nostra intelligenza. Essa è eminentemente pratica perché si tratta appunto di noi stessi, della direzione della nostra vita, di come possiamo orientarla e realizzarla.
Proprio perché eminentemente pratica, implicante noi stessi e l’orientamento della nostra esistenza, la questione dell’uomo non è decidibile, nemmeno a livello teoretico, senza il nostro coinvolgimento e le nostre opzioni, come reciprocamente le opzioni non possono prescindere dalla conoscenza che abbiamo di noi stessi. Questo dato di fatto, che si presenta abbastanza chiaro alla riflessione, è confermato da tutta l’esperienza storica, che vede un’irriducibile pluralità e dialettica di risposte alle domande che l’umanità non cessa di porsi riguardo a se stessa. Nessuno dunque, credente o non credente, relativista od “oggettivista”, dovrebbe chiamarsi fuori da questa caratteristica della condizione umana, ritenendo le sue convinzioni riguardo all’uomo puramente “neutrali” e “laiche”, e pretendere di attribuire tale caratteristica soltanto agli altri, accusandoli di procedere in modo aprioristico e dogmatico.
Prima di proseguire questo discorso sembra indispensabile cercare di delineare, sia pure in maniera sommaria e decisamente incompleta, i contenuti del “bene umano”, che intenderei come il bene proprio e specifico dell’uomo in quanto tale. Concordo generalmente con la descrizione che ne dà il Manifesto per una bioetica critica, e in particolare con la precisazione che la vita fisica dell’uomo propriamente non è un valore accanto agli altri, e nemmeno un valore assoluto in se stesso, ma è il presupposto di ogni affermazione di valore, che evidentemente senza l’esistenza dell’uomo non potrebbe realizzarsi nella storia. Oltre alla vita fisica, fa parte del “bene umano” la conoscenza, o più precisamente quella peculiare capacità di conoscere, di sviluppare le proprie conoscenze e più ampiamente di produrre cultura che è tipica dell’uomo stesso. Vi appartiene, non meno, la libertà della persona e la possibilità dell’affermazione di sé, unitamente all’accoglienza dell’altro, che si sostanzia nelle due dimensioni, distinte ma profondamente congiunte, dell’amore e della giustizia: è questo, della libertà, dell’amore e della giustizia, l’ambito specifico di quell’aspetto decisivo e centrale del bene umano che è l’etica, in rapporto alla quale ciascuno di noi si qualifica come buono o non buono in quanto uomo.
Concretamente il bene umano si realizza dunque nell’essere insieme degli uomini, dalla comunità familiare fino al livello dell’intera umanità, con le forme e regole molteplici secondo le quali questo essere insieme si sostanzia e si articola nel divenire della storia. Nel variare di tali forme e regole, un equilibrio da cui sembra impossibile prescindere è quello tra diritti e doveri, o tra le esigenze della persona e della società: contrariamente a quel che può apparire a prima vista, e che è stato ampiamente teorizzato, sia la persona sia la società soltanto attraverso questo equilibrio, e non al di fuori di esso, possono trovare la migliore realizzazione di se stesse.
L’apertura illimitata che caratterizza sia la conoscenza sia la libertà umana implica che la domanda sul bene umano non possa ignorare la questione di Dio e del nostro rapporto con lui: è giusto però, al livello di una prima descrizione, non anticipare una risposta a questa domanda.
Il principio fondativo e “sintetico” del bene umano può essere formulato in maniere diverse, che appartengono ai linguaggi della religione, o dell’etica, o del diritto, ma che si riconducono tutte a una medesima costante di fondo: dal comandamento evangelico “ama il prossimo tuo come te stesso” e dall’affermazione di Gesù che “il sabato è stato fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato” (Mc 2,27) all’imperativo kantiano di trattare l’umanità, nella propria persona come in quella di ogni altro, sempre come un fine e mai unicamente come un mezzo, al principio contenuto nella Dichiarazione di Indipendenza americana “tutti gli uomini sono creati uguali”, fino all’affermazione del Concilio Vaticano II: “l’uomo… in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa” (Gaudium et spes, 24).
Una simile individuazione del bene umano pone oggi un problema da cui sarebbe miope prescindere. Essa implica, infatti, una netta differenziazione dell’uomo dal resto della natura, che in concreto consiste in una superiorità ed in una vera e propria differenza qualitativa. Da oltre un secolo però, e in questi ultimi anni con rinnovata forza e anche asprezza, si è fatta strada l’idea che la presunzione di una tale superiorità dell’uomo vada lasciata cadere, come un’eredità infondata e ormai obsoleta, anzi dannosa ai fini di una migliore coscienza di noi stessi e di un più sereno e positivo rapporto con il resto della natura: un testimone assai deciso di una simile posizione è ad esempio lo zoologo ed etologo inglese Desmond Morris, ma si tratta di idee diffuse, che rientrano nella tendenza ad assolutizzare l’interpretazione evoluzionistica dell’universo, come se essa fosse, ben più di una teoria scientifica, “una teoria universale di tutto il reale, al di là della quale le ulteriori domande sull’origine e la natura delle cose non siano più lecite né necessarie” (J. Ratzinger, Fede Verità Tolleranza. Il cristianesimo e le religioni del mondo, pp. 189-190).
A questo proposito si può osservare che la differenza qualitativa e la superiorità dell’uomo di per sé non contrastano con il suo emergere dall’evoluzione della natura. Ci dicono però che questo emergere non è una semplice provenienza ma un autentico trascendimento. Le analogie, anche profonde, che sicuramente esistono tra l’uomo e gli altri esseri della natura, specialmente quelli a lui più vicini come patrimonio genetico, non possono infatti indurci ad accantonare un’altra serie di dati, non meno certi, significativi e rilevanti. In concreto mi riferisco alla capacità di produrre cultura, che è propria ed esclusiva dell’uomo e che ha dato luogo, attraverso i millenni, a uno sviluppo gigantesco e sempre crescente. All’interno di essa emergono alcune “punte” straordinariamente significative, come l’attitudine ad assumere responsabilità etiche, o anche il rigore e l’efficacia del pensiero logico, o la creatività estetica.
Sul piano pratico, il lasciar cadere la superiorità dell’uomo e il porre come obiettivo della nostra specie una “riconduzione” dell’uomo al resto della natura vorrebbe dire interrompere e capovolgere il dinamismo che è intrinseco in noi e che ci ha consentito di vivere e di divenire progressivamente sempre più noi stessi. Proprio riguardo alla negazione della differenza qualitativa tra l’uomo e il resto della natura si può dunque affermare che essa è “oggettivamente sbagliata” e “concretamente impossibile”, secondo le due espressioni che ho inserito nel titolo del mio intervento.
La contestazione di un bene umano “obiettivo” non proviene soltanto dalla dilatazione ed assolutizzazione dell’evoluzionismo: essa si esprime infatti anzitutto in quell’atteggiamento che va sotto il nome di relativismo, con l’esclusione della possibilità stessa di una conoscenza e di un’etica che possano dirsi oggettive. Piuttosto che concentrarmi sulla confutazione classica di un tale relativismo, vorrei accennare brevemente alle dinamiche dell’intelligenza e della volontà umana. All’inizio di entrambe sta infatti la fiducia spontanea di poter conoscere la realtà ed individuare e perseguire ciò che è veramente buono e giusto per noi. Il dubbio e la critica riguardo a queste capacità nascono con l’esperienza dell’errore, sia conoscitivo sia morale. Questa esperienza è un fattore essenziale del progresso stesso della conoscenza e una spinta alla conversione e al ravvedimento, anche se, specialmente in ambito etico, può facilmente prevalere la spinta opposta, a restar prigionieri delle dinamiche dell’odio e della colpa. La medesima esperienza ci rende inoltre consapevoli dei nostri limiti, del carattere imperfetto, parziale e rivedibile delle nostre conoscenze, oltre che della fragilità morale che è in noi: in questo senso la storia e la cultura degli ultimi secoli ci hanno consentito di divenire molto più coscienti di noi stessi.
Quando però il dubbio e la critica diventano totali ed esclusivi, pretendendo di azzerare ogni nostra capacità di conoscere la realtà e di volere il bene oggettivo, negano e rifiutano quello stesso dinamismo originario dell’intelligenza e della volontà di cui essi costituiscono una preziosa componente e quindi, implicitamente ma necessariamente, essi negano anche se stessi. E’ questa la base di quella confutazione dello scetticismo e del relativismo che già Platone e più sistematicamente Aristotele avevano messo a punto, mostrando che nella negazione di ogni verità oggettiva si nasconde una contraddizione insuperabile rispetto all’atto stesso con cui questa negazione è posta, atto che pretende, almeno implicitamente, di essere oggettivamente valido.
In campo etico e pratico l’esperienza di questi anni ci ha fatto toccare con mano una contraddizione a suo modo analoga in quell’atteggiamento, che tende a diffondersi anche e specialmente nell’etica pubblica e nelle scelte legislative che la esprimono, secondo il quale ogni determinazione di ciò che è bene non può che essere relativa al soggetto individuale e alla sua libertà e per conseguenza non può essere ammesso, almeno a livello pubblico, alcun riferimento a un bene oggettivo, a ciò che è bene o male in se stesso. Così infatti proprio il criterio relativistico del riferimento al soggetto individuale e alla sua libertà diventa un nuovo assoluto, al quale ogni altra posizione, per essere lecita, deve accettare di subordinarsi. L’allora Cardinale Ratzinger ha illustrato ampiamente la logica interna e il significato storico di questo atteggiamento nel libro L’Europa di Benedetto nella crisi delle culture.
Lo stesso relativismo sembra essere però, nel nostro tempo, un volto e una dimensione di un fenomeno ancora più ampio, che va sotto il nome di nichilismo e che, sebbene a mio modesto parere non costituisca il nostro destino epocale non superabile positivamente, come ha ritenuto invece Heidegger dopo Nietzsche, rappresenta pur sempre una specie di spirito del nostro tempo (Zeitgeist), con un influsso pervasivo di cui forse non siamo abbastanza consapevoli. Ne fanno parte la “transvalutazione” di tutti i valori ma anche, e ancor più originariamente, quella che Nietzsche ha denominato la “morte di Dio”: quest’ultima, infatti, sembra essere la vera radice sia della transvalutazione dei valori sia del fenomeno complessivo del nichilismo. Perciò, non solo dal punto di vista teoretico della ricerca di un fondamento ultimo della conoscibilità del reale e della validità incondizionata del bene morale, ma anche per quanto riguarda il percorso storico che sta compiendo l’umanità occidentale nel nostro tempo, sembra difficile rispondere pienamente alla domanda sul “bene umano obiettivo” senza porsi la questione di Dio. E’ dunque assai giustificato l’invito formulato dal Cardinale Ratzinger, nella relazione che ha tenuto a Subiaco il 1° aprile 2005, a capovolgere l’assioma etsi Deus non daretur ed a cercare di indirizzare la nostra vita veluti si Deus daretur, anche quando non riusciamo a trovare la via per l’accettazione di Dio.
L’influsso concreto del nichilismo in un ambito come quello del diritto, che ha con la ricerca del bene umano un rapporto molto diretto e profondo, emerge in termini che si possono senza esagerazioni definire drammatici dal dialogo di Claudio Magris con il grande giurista Natalino Irti, pubblicato sul Corriere della Sera del 6 aprile scorso, poco dopo che era uscito il libro di Irti Il salvagente della forma. Vi si afferma infatti che il nichilismo puro e assoluto caratterizza oggi il diritto, il quale non può più richiamarsi a valori che lo trascendono: né alla tradizione né a Dio né alla natura; non può più quindi reclamare “verità”, ma si fonda soltanto sulla volontà più forte, capace di imporre l’ordinamento giuridico e l’ordine del mondo ad essa congeniali. Il diritto si risolve dunque nella politica. In concreto, osserva Irti, il nichilismo è giunto tardi al diritto perché la “morte di Dio”, cioè il declino dei fondamenti religiosi e metafisici, è stata a lungo nascosta dietro a surrogati terreni, come gli Stati nazionali, la tradizione del diritto romano, l’energia unificatrice dei codici, ma nel giro di un secolo o poco più questi surrogati hanno perduto la loro consistenza.
Con sincero e pieno rispetto per la competenza di Natalino Irti e per la passione con cui egli affronta queste problematiche, non posso non osservare che anche qui sembra nascondersi quella contraddizione che affligge tutte le negazioni assolute. In questo modo, infatti, il diritto viene escluso da ogni rapporto con la giustizia (o almeno, ciò che alla fine è lo stesso, da ogni rapporto con una giustizia che non sia a sua volta soltanto espressione della volontà più forte): allora però non vi è più alcun motivo, se non alla fine la coazione esterna, per conformarsi alle norme del diritto da parte di tutti coloro che non sono appunto i più forti. Si dissolvono così il senso e la sostanza stessa di ogni ordinamento che voglia essere giuridico: esso non sarebbe infatti una situazione di diritto, ma soltanto un (deprecabile) stato di fatto. Torna alla mente qui la pagina della Centesimus annus, n. 46, nella quale Giovanni Paolo II afferma che una democrazia senza valori, impregnata di agnosticismo e relativismo scettico, “si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia”.
Mi sia permesso di concludere con un rimando all’influsso storico del cristianesimo e al ruolo che esso è chiamato ad esercitare oggi, in rapporto al “bene umano obiettivo”: implicitamente ritroviamo così anche buona parte dei motivi per i quali non soltanto questo ruolo ma il cristianesimo in se stesso è oggetto di contestazioni radicali e frequenti, che sono però ampiamente compensate dall’apprezzamento sempre più largo e convinto che la proposta cristiana, almeno in Italia, trova tra la gente.
In effetti in Gesù Cristo giunge al suo compimento e al suo vertice non superabile l’unione dell’uomo con Dio e così la dignità intrinseca di ogni essere umano ottiene il suo riconoscimento più alto. Non per caso, dunque, K. Löwith ha potuto scrivere, in una pagina che per me rimane emblematica, che il mondo storico in cui si è potuto formare il “pregiudizio” che chiunque abbia un volto umano possiede come tale la “dignità” e il “destino” di essere uomo, non è originariamente il mondo della semplice umanità, ma il mondo del cristianesimo, in cui l’uomo ha ritrovato attraverso l’Uomo-Dio, Cristo, la sua posizione di fronte a sé e al prossimo. Löwith aggiunge la controprova storica che “soltanto per l’affievolirsi del cristianesimo è divenuta problematica anche l’umanità” (Da Hegel a Nietzsche. La frattura rivoluzionaria nel pensiero del secolo XIX, ed. Einaudi, Torino 1949, p. 482).
Né la riduzione dell’uomo alla natura né un totale relativismo né una prospettiva nichilistica possono affermarsi pienamente e diventare davvero egemonici finché la fede cristiana è viva e riesce a generare cultura. A tal fine però, come diceva il Cardinale Ratzinger nella già citata relazione di Subiaco, abbiamo anzitutto bisogno di uomini che siano davvero e profondamente credenti, uomini cioè “che tengano lo sguardo dritto verso Dio, imparando da lì la vera umanità”.


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